Bocchetta Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Nato a Sassari il 15.11.1918. Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti. Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino a Verona, dove sono stato interrogato e torturato. Poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle Carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo, e dove ho subìto altri interrogatori dalle SS. Da lì, insieme ai miei compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD. Dalle celle di quel sotterraneo, insieme ad altri prigionieri che ho trovato già lì, e che erano stati torturati, sono stato condotto al Campo di concentramento di Bolzano; insieme con questi compagni, considerati pericolosi, siamo stati chiusi nel blocco E. Dal blocco uscivamo solo per un’ora al giorno, a prendere aria; vi siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi è stata fucilata. Un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dal blocco: insieme ad altri circa 450 detenuti a Bolzano siamo stati caricati su un vagone, su cui eravamo in circa 130/150 ed era uno di quei famosi carri bestiame delle ferrovie tedesche che ci ha condotti in Germania, al Campo di Flossenbürg. Alla stazione di Flossenürg siamo usciti e ci siamo incamminati verso questo famoso campo, di circa 75.000 prigionieri; siamo stati consegnati alle torture e alle note sevizie dei campi di sterminio nazisti, a Flossenbürg.

D: Lungo il tuo tragitto sul vagone piombato è successo qualcosa di particolare a te e ai tuoi compagni?

R: Sì, nel pavimento del vagone io ed un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per poter scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri prigionieri, dagli anziani, che ci hanno impedito la fuga, o meglio il tentativo di fuga, perché si poteva anche morire, visto che si doveva scendere in mezzo alle ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, ed accettare le sorti imposte adesso non dalle SS ma dagli stessi compagni. Da lì, dopo un paio di giorni, il treno si è fermato: noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo non aveva niente, eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, e non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso. Il treno si è fermato un paio di giorni dopo la partenza, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua, l’unica cosa che abbiamo visto. Dopo non so quanto tempo, dopo 2 o 3 giorni, siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per 5 fino al piazzale del Campo, dove abbiamo visto la grande caserma della SS, tuttora esistente, e dove si apriva il Campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non un campo di sterminio. Infatti sul pilone sinistro del cancello d’entrata, c’era una placca con scritto “Arbeit macht frei”. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino ma siccome il nostro gruppo era già stato condannato a morte, il nostro destino sembrava migliorare con queste parole; andare a lavorare voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte perché sono morti ugualmente di stenti e di percosse e di sevizie nei primi 2 mesi. Io mi sono salvato con un altro, per la mia età e anche per una serie di circostanze. La delusione della speranza dell’Arbeit macht frei viene stroncata subito, perché alla sinistra del campo ho visto una colonna di sciagurati vestiti malamente, erano di stracci quei vestiti, se si vogliono chiamare vestiti, questi indumenti zebrati, a righe; caricavano delle grosse pietre. La scena è stata forte, anche se poi abbiamo visto molto di peggio. Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Da lì siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, con una scala di ferro che scendeva. Prima di scendere queste scale, che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti. Con me c’erano persone che stimavo molto: c’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni e molto austere, e questa austerità è stata, credo, eliminata con un colpo di spugna, solamente con la spoliazione e con la rasatura di tutti i nostri peli, in tutte le parti del corpo, e con l’ispezione fisica. E poi, una volta nudi e puliti, siamo stati spinti lungo queste scalette e siamo entrati nella cantina, che era uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di dèmoni, che avevano dei pezzi di gomma, Schläger o Gummi si chiamavano e li usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate le grida furibonde di questa gente che non diceva parole ma urlava, urlava in una maniera sconnessa, ci terrorizzava. Siamo stati spinti come anime dell’inferno, e questo provocò panico e caos tra di noi.

Ecco già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza: l’uno contro l’altro, una grande confusione, le grida che continuavano finché non si sono aperte le docce; le percosse sono continuate, completamente irrazionali, senza nessuna logica in apparenza, perché in realtà la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a farci scrollare di dosso la nostra personalità e la comunione tra di noi, quello di disorganizzarci, e soprattutto di spaventarci e di annullare la nostra volontà. Cosa che è avvenuta puntualmente. Finalmente chiusa l’acqua, siamo stati spinti in un altro capannone dove abbiamo avuto il primo silenzio dopo queste grida, questa cosa terribile tra l’acqua e le nostre stesse grida. Nel secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultimo possesso che avevamo e che erano la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, ci hanno dato un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini, cosa molto strana perché era roba italiana, poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli: erano una specie di ciabatte con la suola di legno. Abbiamo avuto la nuova personalità, abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo. Eravamo circa in 450 dal Campo di Bolzano. Siamo partiti anche con le donne, ma siamo stati separati appena arrivati al campo, quindi non sappiamo che sorte loro abbiano avuto. Con la perdita della nostra persona abbiamo cominciato ad avere anche i primi soprusi, cioè i capricci del kapò, che era un caporale. Il primo kapo che abbiamo avuto era un caporale, non so se era delle SS; aveva l’uniforme militare tedesca, ed era, credo, un caso patetico di pazzo, perché ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata baracca di quarantena. E’ una cosa molto strana che si faccia la quarantena in un campo dove tutti sono destinati a morire in breve tempo; credo che la morte violenta arrivasse molto prima della morte per epidemia. Questo forsennato non ci diede possibilità per giorni e giorni di dormire. Noi venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove eravamo circa 400/450, adesso il numero non lo so, ma eravamo in soprannumero. I posti nella baracca saranno stati un centinaio, intendo i posti per dormire, cioè questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche il fatto di non destinarci con ordine, anche questo era studiato perché serviva proprio alla lotta tra di noi, all’istinto di occupare il posto non si sa contro chi o per chi. In queste cuccette poi, una volta riempite e pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare non dico riposo ma quiete, tornava dopo qualche minuto il caporale: “Raus!” e ci faceva uscire. Poi restavamo fuori, faceva molto freddo, ed eravamo appena in settembre. Abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni, stavamo fuori mezz’ora, un’ora, al freddo, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e ci faceva uscire. Così per diversi giorni.

Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro: un paio di giorni dopo il nostro arrivo, il caporale ci ha fatto uscire, ci ha fatto mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che li avevano il dente o i denti d’oro, poi raccolti in una latta. In quelle occasioni c’è stata un’altra vicenda interessante e nuova per me, quella che poi si chiamò, non so come si chiamava allora, la “stufa umana”. Avevamo avuto una bufera di neve, un freddo intenso, e non so se per istinto, visto che eravamo tutti “nuovi”, o perché qualcuno lo abbia indicato o che altro, ma quando ci buttavano fuori dalla baracca, e dovevamo correre e formare un circolo, intorno a questo circolo dal centro ancora ancora e ancora, formavamo tutti un circolo – come di buoi muschiati – per ripararci dal freddo. Quindi “stufe umane” in quanto quelli che stavano nel centro si proteggevano dal freddo. E lì ho visto i primi morti, morti di freddo; i più anziani sono caduti lì. In questa quarantena, che è durata poi solo 20 giorni, ho visto la peggiore delle esperienze che si possa avere nell’anima, diciamo così, perché mi sono reso conto dell’assuefazione alla morte della gente del campo, e parlo non solo dei kapò e del caporale, ma di tutti. La baracca di quarantena era su una specie di altopiano, chiusa su tre lati, mentre il quarto lato dava su una scarpata: sotto la scarpata c’era quello che sapevamo chiamarsi il crematorio. Nella nostra cultura il crematorio allora non era concepito, e ci sono voluti molti anni, ed anche questioni religiose, per capirlo, ma non è stato tanto il crematorio di per sé a spaventarci quanto l’odore costante, il fumo che ci entrava nelle narici e che a me è rimasto per moltissimi anni, questo odore di carne bruciata. Queste sono state le prime emozioni.

Ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo, entravano di continuo degli “zebrati puliti”: così chiamavamo quelli che erano addetti a lavori non sporchi, ed erano coloro che abbiamo poi chiamato “monatti” ovvero 2 che portavano delle barelle. Entravano con delle barelle vuote, accompagnati da questi spettri, figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne, scheletri coperti di pelle, teschi non morti ma ancora vivi, però non vivi, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria, occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, ma non vedevano, erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti, ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente – anzi quasi sicuramente – incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina. E’ un eufemismo per quello che era considerata una latrina: era una buca scavata per una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera. Nel mezzo di questa buca c’era un sostegno, e bisognava appoggiarvisi per non caderci dentro; qui si gettavano le nostre viscere. Vicino a questa latrina venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surreali, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi. Poi veniva un monatto specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quella che era la gerarchia del campo: c’erano “i puliti” e “gli sporchi”. Pigliavano una manichetta di acqua gelata e irroravano di continuo questi corpi. Insomma molti morivano lì, anche se la morte cerebrale era già sopravvenuta in precedenza. Poi, quando dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo camminare su questi corpi e, per evacuare, dovevamo attaccarci a questa trave. E’ lì che ci siamo abituati alla morte, perché abbiamo cominciato ad ancorarci, per non cascare nella buca, ai piedi o sulle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti, sempre con le lettighe vuote, le riempivano di 2/3 corpi e vedevamo che li portavano lungo questa specie di sentiero serpeggiante dall’orlo della scarpata verso il crematorio. Qualcuno l’ho visto che aveva ancora dei movimenti, però non credo che fosse vivo; forse erano le ultime contrazioni, o forse erano davvero ancora vivi. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati sul pavimento del crematorio; c’erano delle vasche in cui venivano preparati, spogliati, quelli che non erano già spogliati, e poi messi nel forno. Di forno ce n’era uno solo, e lavorava continuamente, notte e giorno, con esalazioni terribili; serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75.000 anime, se anime si possono chiamare. Questo è stato il battesimo del KZ tedesco, nazista. La quarantena si ridusse ad una ventina di giorni. Dopo una ventina di giorni di tortura – perché questo “Raus, weg, raus” – dentro fuori dentro fuori – è continuato per 20 giorni, abbiamo perduto i primi compagni.

Finalmente, un giorno siamo chiamati all’appello e portati nella piazza dell’appello con una nuova, chiamiamola se vogliamo, vita. Ora, mi domando: che cosa c’entra la quarantena in una città di morti, in una città di gente destinata a morire il più presto possibile? Non solo la gente è destinata a morire ma la stessa morte è calcolata in maniera scientifica perché la vita duri 3 mesi. A noi era dato cibo corrispondente a 180 calorie giornaliere, calcolato esattamente per 90 giorni, 90 giorni di vita e di lavoro d’inferno; quindi non era più una questione né di punizione né di condanna, era già tutto un calcolo di eliminazione.

Ecco la parola “sterminio”.

Io mi sono domandato molte volte: questa che noi chiamiamo morte, e che ancora costituisce la principale ragione del nostro muoverci e del nostro pensare, questa paura della morte cosa era arrivata a costituire – non dico per il popolo tedesco che vedeva la morte tutti i giorni dagli aerei dai bombardamenti, dai figli che morivano su tutti i fronti – ma per i nazisti che custodivano questo campo? Arriviamo all’assuefazione alla morte; il concetto della morte è stato superato così da arrivare a concepire qualcosa che potesse compensare questo concetto della morte; mancava un brivido, mancava un’emozione. Questa gente era veramente senza anima, e questa emozione veniva probabilmente ricreata con la tortura, con questi 3 mesi di vita. Infatti noi sapevamo che eravamo stati condannati a morte e che la morte era il nostro destino: perché allora non ucciderci subito? Perché quei 3 mesi erano il concetto massimo della punizione: dovevamo essere non eliminati ma puniti, perché eravamo i loro nemici. Questo è stato il programma dei campi di concentramento nazisti.

D: Vittore, dopo la quarantena a Flossenbürg, cosa succede?

R: La mattina di cui ho parlato siamo usciti dalla quarantena, siamo entrati in questo piazzale, dove ci hanno radunato; ci hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, visto che si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra – cioè sembrava che ci venisse offerta una via di scampo. Sono stato io – ed anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire al nostro gruppo del CLN di Verona di non piegarci, di non andare a costruire le bombe che bombardavano e le munizioni che uccidevano i nostri concittadini e i nostri paesi. Abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi c’era Guglielmo Bravo, un geniale meccanico che poi mi morì tra le braccia un paio di mesi dopo. In quel momento poteva essere un atto di protesta, che però pian pianino svanì, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata al punto di superare le persone e le amicizie; l’amicizia ad un certo momento veniva tolta. Comunque, su questa piazza ci hanno denudato e ci hanno attribuito, a seconda del nostro fisico, ad una di 3 categorie (1, 2, 3), scrivendo i numeri sul petto, con un inchiostro rosso. Da lì hanno portato noi che avevamo il numero 3 – tra cui io ed un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte – a Hersbruck. Hersbruck era un qualche cosa che la stessa Germania sta scoprendo ora. Hersbruck era un campo di lavoro. Hersbruck era un campo aperto nell’agosto del 1944 che ha avuto 8 mesi di vita perché è stato chiuso nel marzo del 1945; era un campo fatto per ospitare – diciamo ospitare – 5.000 individui. La forza del campo non ha mai raggiunto il numero di 4.000. Nel giro di 8 mesi sono morti circa 20 mila uomini: 10 mila sono morti a Hersbruck, e altri 10 mila, se non di più, moribondi non ancora morti, venivano portati al crematorio di Flossenbürg, poiché Hersbruck non aveva crematorio. Quindi i corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto; rimasero congelati per l’intenso freddo dell’inverno, e vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, cioè poco prima dell’evacuazione del campo: vennero bruciati nei boschi di Happurg, vicino a Hersbruck. A Happurg c’era appunto il lavoro, che consisteva nello scavo di enormi gallerie, che non sappiamo a cosa sarebbero servite; perlomeno certamente noi non potevamo saperlo. L’inferno di Hersbruck non è indicato solo dalla morte di 10 mila persone, da questo avvicendarsi continuo, da questa morte costante che era come una mitragliatrice di morti. Anche lì l’assuefazione era totale, non c’era più differenza tra vita e morte; anche fra noi, quando moriva un nostro compagno, una volta morto non esisteva più. Forse qualcuno rimaneva oggetto anche utilitario di scambio di speranze, di cose fra di noi. La grande imperatrice, la grande torturatrice era la fame, una fame che non si può descrivere, una fame, come una malattia. La fame era diventata padrona assoluta di tutte le parti del nostro corpo, anche del pensiero: la fame era fisiologica, il desiderio di vivere era psicologico, se si può chiamare desiderio perché c’era addirittura indifferenza; però non ho mai assistito a dei suicidi. Si vede che la spes ultima dea fa parte del processo biologico della nostra vitalità. Qui ho visto morire ad uno ad uno i miei compagni: per la maggior parte mi sono morti nelle braccia. La fame con le torture, ma più che le torture l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, mors tua vita mea, le torture fatte da questi che erano in maggioranza polacchi, ucraini, da questi kapo, il cui bisogno di sopravvivere arrivava ad estremi di crudeltà inenarrabili; poi ognuno di loro a sua volta soccombeva davanti a uno più crudele. Come dico e come ho detto, ho visto morire personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia, migliaia di persone.

Appena arrivati al campo di Hersbruck, subito siamo stati messi in colonna; ci hanno dato la baracca 14, quella degli italiani; poche ore dopo ci hanno fatto mettere in colonna, uscire dal campo, attraversare con gli zoccoli – con questa specie di zoccoli – seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo come due file di case. I tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, soldati che abitavano fuori del campo, e insieme a loro c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due, tre cani. I cani venivano allenati con queste marce; lo posso dire con certezza perché venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa 6/7 chilometri, accompagnati da questi cani che erano delle bestie feroci, ed arrivavamo in un luogo in cui ci aspettava un altro dei soliti treni. Salivamo su questi vagoni; ci stipavano in maniera che non si poteva mettere un capello fra di noi, tant’è vero che ho imparato a dormire in piedi nel corso di quei circa 40 minuti del tragitto del treno, per 7/8 km. Questa era la distanza – una quindicina di chilometri tra Hersbruck e Happurg. A Happurg c’era il lavoro. Bisognava scendere dal vagone, salire o meglio inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi; si arrivava su spiazzi, su specie di terrazze, dove c’erano gli ingressi delle gallerie. In questi spiazzi ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: BMW, Siemens, Junker ed altre marche che ora non ricordo, scritte sulle gru, macchine enormi. E lì c’erano ingegneri tedeschi; ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre manciare niente lavorare”, secondo il concetto che avevano dell’Italia. Infatti ci riconoscevano appunto dalla “I” che avevamo sopra il triangolo rosso.

Qui ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto l’opportunità di scegliere tra prendere picco e pala oppure il Transport; stupidamente ho scelto il Transport. Non mi ero reso conto che ero un po’ troppo alto per quel lavoro: dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle. Ricordo che il primo peso è stato un’enorme bombola di gas. A 3 di noi hanno ordinato di portare questa bombola; io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate perché gli altri si abbassavano a loro volta, e così il peso ricadeva su di me; era una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo. Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck. C’è un particolare molto interessante: nessuno – che io abbia visto – dal campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. In testa avevamo la Lagerstrasse, ci rasavano una volta alla settimana, ogni 10 giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli con una striscia in mezzo alla testa che noi chiamammo Lagerstrasse. Serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti ed anche in caso di fuga. Tre prigionieri russi tentarono la fuga, furono sorpresi e presi, condannati all’impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck: noi siamo stati obbligati ad assistere per garantire che non saremmo scappati. Tutto il sistema era terrore, e anche questo ne faceva parte. Ho visto morire i 3 russi con un’indifferenza che aveva colpito anche me, che avevo già assorbito cose orribili; tuttavia in questi 3 russi c’era una specie di scherno; pensavo che non fossero spaventati solo per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati e poi hanno fatto diverse altre esecuzioni. Dicevo che i corpi dei morti venivano accatastati in una baracca. Verso la fine di questa odissea, io ricordo che, in un giorno d’inverno, sono riuscito ad avvicinarmi ad una di queste baracche. Ho avuto la malasorte, in questi miei 7/8 mesi nel campo di Hersbruck, di vedere le vicende più importanti di questo campo, tanto è vero che ero diventato un esperto del campo: sono stato uno di quelli che ha resistito di più. Ho visto appunto il trasporto di questi morti, accatastati, levati da questa baracca, messi su dei camion. Coprivano il camion, li portavano nel bosco, proprio vicino ad Happurg, dove c’erano le gallerie. Ho saputo molto tempo dopo – era una cosa completamente segreta – che lì facevano delle fosse comuni e li bruciavano, facevano cioè delle pire, perché non c’era crematorio. Nel corso di un mio viaggio circa un paio di anni fa, mi è stato riferito che due contadini avevano visto l’operazione, e che sono stati scoperti, uccisi e bruciati: erano tedeschi. Questo ce lo hanno detto gli stessi tedeschi, quindi non c’è ragione che non sia vero, perché ci sono i loro nomi.

Questa era l’assuefazione alla morte: per il tedesco di allora era indifferente uccidere o non uccidere, e forse questo più che spiegare giustifica, se giustificare si può, il concetto dello sterminio, il programma di distruzione, e questo odio, calmo e calcolatore.

Sono riuscito a salvarmi appunto perché sono diventato un esperto, e anche grazie all’alma mater, vogliamo chiamarla così? Nel campo infatti si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli, di cui oggi è in corso il processo di beatificazione, al quale sono stato chiamato per testimoniare. Era un uomo molto intelligente, sapeva parlare benissimo il tedesco ed era stato per caso – l’unico caso di un italiano – che era riuscito a diventare furiere della nostra baracca. Olivelli è stato furiere, cioè ci ha dato un po’ di sollievo per breve tempo: di solito i furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori. Olivelli fu poi ucciso da loro, ma nel breve periodo in cui è vissuto, mi ha presentato al Doktor cioè al medico. Il medico era un gobbetto ucraino, era del Revier, cioè dell’infermeria o quel che sia. Olivelli disse a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico, e che parlava il francese: “Questo è un giovane professore”, e il gobbetto rispose: “Professore di cosa?”, “Di filosofia”. Il gobbetto rispose semplicemente “Ah!” e cominciò a parlare in francese, accennando a qualche teoria filosofica. particolarmente mi chiese se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscessi Voltaire. Risposi “Naturalmente!”, e poi mi chiese se avevo letto Le Candide di Voltaire. Tutto qui, questa è stata la nostra conversazione. Qualche giorno dopo hanno “sostituito” Olivelli, e io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber, perché mi avevano rubato gli zoccoli e dovevo andare a lavorare scalzo: allora decisi di sfidarli e di darmi ammalato. Senza sapere che in quel Revier dove sono andato a farmi visitare c’era il gobbetto, l’ho trovato, guarda le coincidenze!. Ha fatto finta di trovarmi febbricitante, mi ha regalato un termometro, cioè me lo ha dato e non me lo ha ripreso – quasi fosse un messaggio. E io per 2 mesi e mezzo o 3 sono rimasto ricoverato in questa infermeria truccando il termometro, scaldandolo, quando una volta alla settimana venivamo controllati. Così ho potuto resistere fin a quando non mi hanno scoperto. Questo lo devo forse all’alma mater o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare nei momenti più disperati delle àncore di salvezza. E’ stato il dono che ho avuto da Voltaire. Mi hanno scoperto proprio nel momento in cui qualcuno mi ha visto, ed avrebbe potuto tacere perché non c’era nessun bisogno di dirlo, ma la solidarietà era sparita. La prima cosa era rivelare quello che faceva l’altro, anche per distogliere l’attenzione da sé: un polacco mi vide e mi fece subito la spia, così mi “pescarono” mentre scaldavo il termometro, mi presero, mi diedero la punizione solita – che consisteva in 50 gommate sul sedere, che è una cosa terribile – e mi mandarono allo Strafkommando o Compagnia di punizione. La compagnia di punizione di un campo di sterminio!! E che altro poteva essere? si chiamava Scheissekommando ed era la “compagnia degli escrementi”: si doveva riempire una botte a ruote, prelevando con un bussolotto dai pozzi neri e dai depositi delle latrine. Poi io ed altri due dovevamo spingere la botte sui pendii per concimare: vendevano le nostre feci ai contadini per i loro crauti!

E’ durato poco tempo perché eravamo già al mese di marzo (1945), e un giorno hanno smesso i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, e si è rilassata un po’ la disciplina del campo.

Finalmente si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito ad evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro. Praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di 15 giorni, con le colonne che uscivano dal campo.

Io sono rimasto nel campo perché ero molto malridotto e sono stato spedito con l’ultimo gruppo, non so quanti saremo stati, eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa “marcia della morte“. Io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese durante uno di questi Transport.

E così sono qui.

De Walderstein Nerina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono la Nerina De Walderstein, un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz.

Sono stata arrestata a Trieste il 23 marzo 1944 dalla “polizia Collotti” alle 11,35 di sera, lo stesso giorno in cui ero ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico. Sono entrati un casa mia sette poliziotti della questura di Trieste di via Bellosguardo, la Villa Triste di Trieste, con i mitra puntati verso la mia famiglia; eravamo in casa il papà la mamma ed io. Fortunatamente hanno preso soltanto me ma cercavano mio fratello; i genitori sono rimasti a casa. Così inizia la mia triste storia.

R: Diciotto anni e mezzo.

D: Perché cercavano tuo fratello?

R: Perché mio fratello, a Venezia alla scuola Foscari, con un gruppo di studenti del gruppo GAP di Venezia, cercava il materiale bellico e altro da mandare al gruppo dei partigiani della zona di Trieste. Io ero stata là per prendere questo materiale ed ero ritornata a casa con la valigia piena. Loro cercavano mio fratello e non me ma il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia che sono fuggiti, saputo del mio arresto, e sono andati col gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia.

D: Ti hanno portato in Via Bellosguardo, a Villa Triste?

R: Sì, direttamente a Villa Triste. All’arrivo ho preso due ceffoni fenomenali. Durante l’interrogatorio sono stata picchiata, mi hanno rotto tre costole, mi hanno appesa per le mani a un palo e là non so quanto sono rimasta perché sono svenuta. Mi sono svegliata dentro una cella, tutta bagnata. Là mi hanno lasciata tutta la notte; di sera venivo interrogata e sempre bastonata, sempre col dolore alle mani dalla prima sera, quando mi hanno appesa al palo con le mani dietro la schiena. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate, non ho più forza nelle mani; è la conseguenza delle torture subite.

D: A Villa Triste fino a quando sei rimasta?

R: Otto giorni.

D: E poi cosa è successo?

R: Da Villa Triste mi hanno portato alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata, a suon di scappellotti. Io non ho parlato mai, mi sono assunta tutte le responsabilità.

Là sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste. Là, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. L’interrogatorio fu nel Bunker del Coroneo, una cosa tremenda; anche là altre botte, altro tormento. Intanto il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per 42 giorni con la polizia che li controllava. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me, perciò sono stata 42 giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno in cui siamo partite dal Coroneo per il trasporto. La mia mamma non la riconoscevo più: l’ho cercata, era dietro a me, ma aveva fatto un cambiamento totale, invecchiata di vent’anni: per il mio arresto e perché di mio fratello non sapeva più niente.

Al Coroneo sono stata da sola nella cella 68 fino al giorno del trasporto. Fino al periodo in cui sono stata nelle carceri non sapevo che esistesse la Risiera a Trieste, sapevo che c’era una risiera ma… del tutto differente. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella 68 sono morte tutte alla Risiera. Nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi due giorni prima che partissi mi hanno detto che non mi avrebbero finito là ma che la mia morte sarebbe stata altrove, in un posto in cui sarei morta lentamente.

D: Poi  ti hanno portato al Transport ?

R: Si, due giorni dopo sono partita per Auschwitz; ci avevano detto che ci avrebbero portato a lavorare. Noi convinte di andare a lavorare. La mamma mi ha portato quel giorno tutto quello che poteva per andare a lavorare, ma… non era così. Comunque, ti dico che la mamma che mi ha portato la roba alla stazione non era più la mia mamma.

D: Parlaci del Transport, eravate tante donne?

R: Sì, non potrei dire il numero preciso, credo oltre 50.

D: C’erano anche uomini?

R: C’erano gli uomini. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due, e mi sono trovata in un grande giardino nelle carceri del Coroneo e là ho visto tantissima gente e ho detto: non mi succederà qualcosa di tremendo, perché tutta questa gente è impossibile che la possano sterminare. Quando ho chiesto dove si andasse mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo, non si sa”. Verso, credo, le 4 e mezza del mattino ci hanno messo in colonna davanti alle carceri e in colonna siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari che erano stati avvisati in qualche maniera. Ci siamo salutati perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici. Devo premettere che alla stazione dovevamo partire immediatamente ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto sì che rimanessimo ancora due ore con i nostri familiari, poi siamo partite. Non ho pianto lasciando i miei genitori, ero dura impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza del quartiere di Bàrcola, quando ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male e sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte, non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Da allora non ho più pianto, non so perché.

Poi siamo partite; siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz, nel frattempo nel trasporto io stavo veramente male. Uno dei carabinieri mi ha portato nel vagone con sé e là sono rimasta per due giorni fintanto che mi sono sentita meglio. Quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non avevo mangiato più dal giorno della partenza. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere.

Quando ci si avvicinava ad Auschwitz  ci hanno raccontato un pochino che cosa era, ma non bene, non avevamo capito niente. Ci hanno detto: “Dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve”; noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente quando siamo arrivate ad Auschwitz l’orchestrina c’era, ma prima di entrare logicamente c’era il campo. Abbiamo visto certe persone, chine a terra e abbiamo chiesto: “Chi sono quelle persone? Sono come dei mussulmani …” “Sì, sono mussulmani” Ho detto: “Tutti mussulmani venuti qui a lavorare?” “Capirai, capirai, vedrai che tra un po’ di tempo sarai mussulmana pure tu”.  Io gli ho detto: “No, sono cattolica” “Va bene, va bene, capirai più in là”.

D: Nerina , quando dici Auschwitz intendi Auschwitz 1 o Birkenau?

R: Per Auschwitz intendo tutti e due, sia l’uno che l’altro.

D: Sei stata portata ad Auschwitz 1, prima?

R: Prima siamo state portate tutte ad Auschwitz 1 e poi nell’altro. Il primo impatto è stato tremendo, spaventoso perché ci hanno scacciate giù dalle tradotte, proprio gettate giù. Le cosa più brutte che ho subito nell’entrata ad Auschwitz erano di aver visto i mussulmani e poi il fatto che ci hanno denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per un giorno intero e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude.

D: Ti ricordi che giorno era, più o meno?

R: No.

D: Il mese?

R: Sì, il 21 giugno siamo arrivate là. Era una cosa tremenda. Durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità, eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva l’una con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane e con me c’erano tantissime giovani ma c’erano anche tante persone anziane. Vedere quelle povere nonne, per me erano nonne, lì nude, disperate; si nascondevano, cercavano di proteggere le parti che non dovevano essere viste. Dopo l’attesa fuori ci hanno portato nei blocchi, nelle baracche. Tutte nude ci hanno portate nella baracca detta “Sauna” dove ti tagliavano i capelli, ti rasavano e poi ti spedivano avanti. Avevo i capelli lunghi, biondi, i miei capelli erano belli, un po’ ondulati, ero giovane e il polacco che tagliava i capelli mi ha preso una ciocca di capelli, me l’ha tagliata poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti: là coi capelli ero l’unica. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano Ciocchina.

Di là ci hanno mandato in un’altra stanza dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziano i tatuaggi. Sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicessero: il tedesco lo capivo poco, solo quello della scuola. Quando era quasi il mio turno di entrare sento che dice all’altra compagna: “Da ora in avanti tu non sei più la tal dei tali ma sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sul braccio la matricola. Io ho il numero 82.132 e con questo numero ho passato tutto il periodo sapendo di essere soltanto il numero 82.132; il nome l’ho dimenticato.

Poi nuovamente in fila per gli indumenti. Davanti a me c’era una compagna partita da Trieste che aveva avuto la sventura come me di essere stata presa per una spiata; aveva il numero 82.131. Lei era una bella figura ma aveva già i suoi anni, aveva 30 anni, io ero una bambina di fronte a lei: a me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto che non le copriva neanche le ginocchia. Volevo scambiarlo con lei ma quando abbiamo fatto il gesto abbiamo ricevuto botte tutte e due, perciò ci siamo messe nuovamente in fila per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera, non è un campo di lavoro. Come mai queste baracche, che cosa ci succede?” Entrando abbiamo visto altre prigioniere fra le quali delle ragazze che avevamo conosciuto alle carceri del Coroneo. Quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro piangendo ci hanno raccontato cosa ci sarebbe successo. Più che essere tatuate non credevo ci potesse succedere altro. Invece è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento.

D: L’abbigliamento che ti hanno dato in cosa consisteva?

R: Una veste e le scarpe, meravigliose! Io indossavo a sinistra una ghetta e a destra uno zoccolo olandese grande che perdevo man mano.

D: Biancheria intima niente?

R: Come no! Mutande, reggiseno tutto era in quella veste meravigliosa. Oltre ad essere immatricolate, si portava il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Col triangolo rosso perché eravamo politiche. C’erano moltissimi triangoli. Avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia. Ci siamo messe a ridere quando ci siamo viste l’una con l’altra … si piangeva e si rideva perché eravamo talmente ridicole, poi tutte quelle zucche pelate! Non ci si riconosceva più, quando ci siamo viste ci si guardava: “Ma chi sei tu?” Ci chiedevamo e tutte mi dicevano: “Come mai a te non li hanno tagliati?” “Non lo so!” Quello era il minimo di fronte a tutto quello che ci aspettava. Nel blocco abbiamo visto i castelletti dove si dormiva sei per sei, come le sardine; noi giovani dormivamo a terra. Io ho dormito per quasi un mese sulla terra nuda. Eravamo tante dentro il blocco e non ci si poteva stare, non ci si poteva girare, quando ci si girava, stanche di essere su un fianco, si svegliava una di noi: “Ti prego, ci si gira dalla parte opposta”. Le ossa facevano male. Appena arrivata eri grassa, eri in carne, e dove ti mettevi? Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere perché era talmente basso; per poterti sedere dovevi scendere e sedere in terra. E poi la notte, le cimici. Quando spegnevano la luce, in pochi secondi le sentivi camminare su di te, facevi una retata di cimici, spaventoso; era una puzza tremenda, impossibile potere addormentarsi. Poi ci si è abituati ma non del tutto. Ogni notte era la corsa alle cimici perché altrimenti ti mangiavano, avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccato dalle cimici. Erano grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fossero le cimici, ma là ho imparato bene.

D: Nerina, ad Auschwitz 1 fino a quando sei rimasta?

R: Non potrei dirti il tempo perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che ti alzavi la mattina verso le tre e mezza, logicamente attendevi la miska che ti davano, sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare uscendo dal blocco: metterti in fila per cinque, guai se non eri diritta in fila per cinque, allora partivano le botte. Se un momentino ti distraevi quando eri in fila… altre botte; quando arrivava la kapo e ti contava, sempre sull’attenti; quante poverine sono rimaste là perché cadevano, non resistevano più, perdevano i sensi e poi finivano come non si sa. La tortura più grande era quella di tenerci all’aperto anche se pioveva, nevicava, faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con lo stesso indumento; se era tutto zuppo di acqua dovevi tenertelo e rimanere là perché non c’era da cambiarsi. Chi aveva una buona costituzione e un fisico forte ha resistito, le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e una cadeva, era morta… in piedi.

D: Poi da Auschwitz 1 ti hanno mandato ad Auschwitz2 – Birkenau

R: A Birkenau. Ti prendevano all’appello per andare a lavorare; lavori nei campi a piantare le patate e pulire, e il lavoro all’interno del campo di concentramento: pulire i blocchi, pulire il gabinetto notturno. Non potevi uscire, dovevi venire davanti al blocco e uno ti controllava mentre facevi i tuoi bisogni, davanti a tutte, era tremendo. Noi per un periodo avevamo una carriola. E’ molto difficile poter andare … e poter farlo; una persona anziana si sbilanciava e cadeva: quante sono cadute dentro la carriola, tutte sporche e sudice dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, non si sa neanche come visto che non avevamo niente. Ci si doveva accontentare; quando si poteva andare al mattino due minuti a lavarsi nel Waschraum dove c’era uno zampillino d’acqua – non riuscivi neanche a lavarti gli occhi – cercavi al meglio possibile di lavarti con l’acqua ruggine. C’era la corsa per arrivare a pulirti, a lavarti un pochino, non riuscivi tante volte, eravamo tante e ci richiamavano. Eravamo tutte sporche, senza la possibilità di potersi un po’ lavare;  senza vergogna a quel riguardo andavi in quel gabinetto tremendo e se non ti abituavi erano botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere addetta alla pulizia dei gabinetti. C’era un carro dove vuotavi tutte le cose e poi quel carro lo portavi lungo il campo fino a che non arrivavi nei gabinetti, dove lo lasciavi. Penso che quello fosse uno dei peggio lavori nel campo, era veramente umiliante, ti chiamavano la Merdastrasse, scusate l’espressione, noi la chiamavamo così; purtroppo ognuna aveva il suo turno. Poi quando non facevi quello dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, e poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora del mangiare. O ti portavano in un altro blocco dove ti facevano portare delle pietre.

Quando non ne potevi più cadevi per terra esausta: o ti rialzavi o bastonate. Poi è successo il fatto delle due sorelle francesi. La tedesca ha ordinato alla nostra kapo di fare alzare quella che era caduta, ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Lei è caduta a terra, logicamente ferita, e l’altra sorella le è corsa in aiuto. Noi sempre a camminare intorno, sempre portando pietre, non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella, la seconda è corsa per aiutarla ma è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due.

Non ho mai saputo l’ora perché l’orologio non esisteva; che ora è, che giorno è, tutti i giorni erano uguali, si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Ma forse era meglio perché non soffrivi più tanto, mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dirti se era un’abitudine o veramente eravamo un morto che camminava. Tante volte ci si chiedeva: ma si cammina, siamo ferme? Qualche volta qualcuna mi pizzicava, mi diceva: “Ah, sei ancora viva”, io mi mettevo in un mutismo, eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di fare quattro passi sempre con la testa rivolta al cielo: non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finire. Tante volte dicevi: “Quella è morta, ha finito di soffrire”, questa era la risposta.

Malgrado tutto si aveva sempre una speranza; io sempre dicevo di dover tornare  a casa. C’era come un ritornello nella mia testa, e mi seguiva. Quando ero nei momenti più pesanti cominciavo: “Devo ritornare a casa perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”, poi lo dicevo alle altre allora si iniziava a portarci nei ricordi verso casa, ci aiutavano a vivere, quella era una via – come potrei dire – un aiuto per poter continuare a lottare per ritornare. E poi sai, le risate quando avevamo fame. Quando col gruppo davanti al blocco non ci permettevano di andare da nessuna parte si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare: “Cosa mangeresti tu? adesso che faresti?” Allora si facevano ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di pensare al famoso pane col quadratino di margarina, alla fine ci accontentavamo di quello. E quando era l’ora di mettersi in fila sempre sull’appello per prendere quel pezzetto di pane, che bello! Quello era l’ora più bella.

Così le giornate passavano, ci si raccontavano tante cose. C’erano tantissimi blocchi, io ne ho passato soltanto tre, però sapevo che ce n’erano tanti. Si sapeva ben poco di quello che succedeva nel campo. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni. Quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria perché i treni fischiavano, fischiavano le sirene, poi c’era il rientro nei blocchi tutti chiusi perché non si doveva vedere quello che succedeva con chi usciva dai vagoni: il famoso Blocksperre cioè la chiusura di tutti i blocchi. Il fatto è che quando eri là da un po’ di tempo capivi tutto, da ogni fischiata sapevi cosa sarebbe successo. Le sirene squillavano, c’era sempre qualcuno che voleva scappare ma scappato non è nessuno.

Mentre ero là c’è stata l’impiccagione di una polacca che aveva tentato un’evasione dal campo. L’hanno torturata davanti a tutto il gruppo delle donne in campo, e quando le hanno rotto tutte le ossa l’hanno impiccata moribonda.

D: Parlavi prima dell’alimentazione: cosa vi davano ogni giorno?

R: Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e dei bidoni con l’acqua bollente: le spaccavano sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino e galleggiavano i semi e l’interno della buccia, limoso. Poi quando era l’ora del pranzo chiamavano – si sapeva che era l’ora del pranzo perché c’era un fischio particolare – e andavi a prendertelo. Se eri forte di stomaco lo mangiavi se no rimandavi, poi cercavi di mandare giù qualche cosa per poter sopravvivere. Io ho molto sofferto perché il mio stomaco era debolissimo, veramente non so dirti come sono rimasta viva, comunque era il mio destino. Mangiavo pochissimo. Sai, c’erano le rape grattugiate secche, le gettavano dentro in questa Kübel di acqua bollente, se riuscivi a procurarti  un recipiente le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio; col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiarle. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano meglio. La festa grande era la domenica: ti mettevi in fila e ti davano una patata con un pochino di margarina, un triangolino di margarina. Loro non guardavano se la patata era grande o piccolina, te ne davano una e basta, spesso succedeva che ricevessi la piccolina ma non la grande. Quando una riceveva la grande tutte le eravamo attorno: “Un pezzetto anche a me sai? Guarda che me lo avevi promesso”. Era un po’ d’allegria nella grande tristezza nella disperazione.

D: Nerina, ti è mai capitato di sognare?

R: Un’unica volta ho fatto un sogno lungo però ho pianto tutta la notte… Ho fatto un sogno e l’ho raccontato a una signora di Maribor, slovena. Sono andata fuori per fare i miei bisogni, l’ho trovata e le ho raccontato. Avevo visto mia nonna nel sogno, mi aveva toccata ed era fuggita.  La donna slovena mi guardò e mi disse: “Guarda le stelle, ti racconto cos’è la tua vita. La tua mamma e il tuo papà sono osti, vero?” Sì, avevamo una trattoria prima che ce la distruggessero”. “Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Le avevo detto il giorno del mio compleanno e mi disse: “Mi hai detto che sei nata il 9 luglio, oggi è il tuo compleanno”.

D: Scusa Nerina, il problema delle mestruazioni?

R: Non ho mai capito, anche adesso che ho rivisto le mie compagne ci siamo chieste: ma cosa è successo? Appena siamo arrivate …. bloccato in pieno, nessuna sa cosa fosse. Forse era l’acqua nera che ci davano da bere la mattina, calda. Pagherei per sapere cosa ci davano.

D: A Birkenau fino a quando sei rimasta?

R: Poco, forse un mese.

D: E poi cos’è successo?

R: Mi hanno portato nel Lager B. Il Lager B era il Lager dove lavoravi proprio. Quando arrivavi là se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla, e questo ho fatto anch’io nel ritorno, mi sono abbassata per prendere un ciuffetto però… sai le botte. Per strada mi hanno schiaffeggiato e la testa mi è girata da tutte le parti, ancora adesso sento schiaffi, poi quando siamo ritornate mi hanno messo in punizione davanti al blocco inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata e una pera cotta appoggiata sulla mano. Tante volte mi sembrava di cadere, cercavo di raddrizzarmi per farmi forza. Quando mi sono alzata le ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto carne non c’era, c’era la pelle; è passato del tempo prima che mi si rimarginassero le ginocchia, quante volte mi si aprivano perché dovevo inginocchiarmi per altre cose, ma finalmente sono guarita. C’erano polacche che erano peggio delle SS; se una cosa non sopporto sono le polacche, perdonami Polonia. Parla con chiunque sia stata là; tutte hanno subito angherie dalle blockowe e dalle stubowe. La notte loro mangiavano, si divertivano, bevevano: noi si sentiva il mangiare, il bere e noi piene di fame a languire. Loro erano pasciute, nessuna era magrolina, erano tutte tonde. Non puoi immaginare che nel blocco di un campo di concentramento ci fossero tipi così perversi, così cattivi. Se loro rubavano incolpavano le politiche.

D: Poi da lì sei stata ancora trasferita

R: Sì, mi hanno portata via da Auschwitz perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila per il trasporto, hanno detto che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello.

Quando si era in fila pronte per partire ci consegnarono pane per il viaggio, una pagnotta di quel famoso pane acido, cattivo, duro: era come mangiare segatura.

C’erano vicino a me due bambine, io per loro ero una mamma, una di 12 e una di 13 anni, del Goriziano. Venne rubata una pagnotta – erano contate – le ebree e le polacche facevano le parti: una di loro accusò le due piccole, ma non era vero perché erano con me. Lo dissero al militare tedesco che ci accompagnava nel trasporto, allora lui infuriato inveì contro di loro e si misero a piangere perché erano bambine. Piangere non dovevi: se là ti vedevano piangere ti picchiavano. Era pronto a picchiarle duro col calcio del moschetto. Ho preso le loro difese e il colpo che dovevano subire loro l’ho preso io: sono caduta in svenimento, ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne che mi hanno sollevato e portata di peso, non mi hanno voluto lasciare là a terra; sul vagone mi sono ripresa, ma sulla testa avevo un segno che anche ora si vede. Il colpo col tempo ha fatto suppurazione perché dentro si è formata un’infezione;  i medici mi hanno detto che il mio osso stava andando in cancrena.

Ci hanno portato a Flossenbürg, io non lo ricordo; mi sono ripresa in treno ma per me è un vuoto colmo. Io ricordo di essere stata in fila, di essere saltata in mezzo alle due bambine e di avere preso le loro difese ma poi è una parentesi chiusa: sono passata per il campo di Flossenbürg ma non so di esserci stata.

Mi sono ritrovata il 14 dicembre nella fabbrica di lampadine Osram a Plauen. Non so come sono arrivata, mi sono guardata intorno e ho detto: dove siamo? Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze.

Nessuna si era accorta che io non sapevo niente. 

D: Ti hanno portato in fabbrica?

R: Sì, mi sono trovata in fabbrica. Ho avuto la fortuna di avere un direttore di fabbrica meraviglioso con tutto il nostro gruppo, eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato come fossimo lavoratrici; era sempre gentile con noi, se si aveva bisogno di qualche cosa si chiedeva, se qualcuna era malata la curò.

Noi si abitava nel soffitto della fabbrica, là avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno, non per fare la doccia, ma il rubinetto. Ognuna aveva il suo letto, ognuna dormiva sul suo castelletto, io ero il terzo piano perché ero una fra le più giovani, ero su in alto. La mattina ci davano il solito tè e si andava al lavoro alle 6; ognuna aveva un lavoro; gli operai ci insegnavano i lavori della fabbrica delle lampadine. Si iniziava dal vetro e poi facevamo le lampadine grandi enormi, molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese quel lavoro poi sono andata nel magazzino. Quando ero là mi sentivo sempre tanto male; la prima volta sarà stato verso il 20  dicembre. Così tre volte di seguito; la terza volta c’era dentro il direttore e mi ha visto, mi ha preso in braccio ed ha chiamato il soccorso che era nella fabbrica. Mi ha portato nella clinica a cui avevano diritto gli operai della fabbrica, però c’era con me anche la tedesca con il cane. Quando il medico mi ha visitata ho mostrato l’orecchio che spurgava. Mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo accadde nuovamente. Al 14 gennaio (1945) mi hanno portata ancora là, ogni tanto mi mettevano sotto il naso la melissa per tenermi sveglia. Un altro medico mi ha visitata e ha premuto la parte che faceva male, ho dato un urlo spaventoso. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto tantissime fotografie e radiografie; io ridendo ho detto: “Per andare al cinema?”

Nella fabbrica avevamo un medico interno che era un colonnello dell’aviazione russa, una prigioniera; nella fabbrica c’era una stanza chiamata Revier e là lei curava le ammalate. Il direttore della fabbrica volle che la dottoressa mi seguisse, aveva molta fiducia in lei; venne anche la tedesca. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa: mi hanno salvata. Non potevano darmi nessun medicinale, era proibito dalla tedesca. Avevo la testa fasciata, avevo soltanto un pezzettino aperto all’occhio, ero come una mummia. Il medico allora mi nascose nella garza tanti tubetti di vitamine; diede ordine alla dottoressa di darmene un po’ al giorno. La dottoressa mi seguì con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi toccasse: sarei rimasta nella fabbrica sin tanto che le cure non fossero finite, lui avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore.

Non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa un po’ seduta, quando ho potuto camminare sono andata giù in fabbrica per fare soltanto cose leggere. La notte non la facevo, facevo sempre i turni di giorno. Ho lavorato fino all’ultimo quello che ho potuto, lavori leggeri, e questo fino alla Liberazione.

D:Nerina, è in quella fabbrica che tu hai cercato di tenere un diario?

R: Sì. La notte di Natale una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco che lavorava nella fabbrica, lui l’ha aiutata a scappare. Lei quindi non ha risposto all’appello, è stata cercata per tutta la fabbrica, non c’era: ci hanno messo in castigo una giornata intera perché volevano sapere da noi ma nessuna sapeva niente. Senza mangiare abbiamo fatto il Natale. Alle 6 di sera ci hanno dato il permesso e hanno portato quel tè nero e sino al giorno dopo a mezzogiorno, niente. Il giorno dopo all’appello – era il giorno di Santo Stefano – le tedesche ubriache dentro hanno fatto festa e noi sempre fuori all’appello. Il giorno dopo abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. La dottoressa aveva prigioniera una sorella, Tania. Non ho saputo il motivo, ma le avevano gettato i cani contro al suo rientro, noi abbiamo dovuto assistere alla scena. L’hanno quasi resa a brandelli, l’hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa pian piano l’ha curata poi è rimasta a sua volta in fabbrica. E’ stato uno dei tanti tremendi giorni in cui dovevamo assistere all’annientamento. Fortunatamente è rimasta viva e la sorella l’ha curata. Nel mio diario scrivevo lettere alla mia mamma; le cose che mi venivano in mente e che scrivevo mi rilassavano un pochino, parlavo con la mamma. Ne avevo due ma purtroppo il più grande me lo hanno rubato al mio ritorno a Bolzano.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R:Triste perché le tedesche ci hanno chiuse nella fabbrica che era diroccata da una parte; noi eravamo proprio nella parte diroccata, rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse e loro sono fuggite. C’erano i russi, gli americani e gli inglesi che andavano verso Berlino, hanno quasi distrutto Plauen. Forse per due giorni siamo state al buio tale era il fumo delle bombe.  Alla finestra avevamo un’inferriata con la rete; quelle che avevano ancora un po’ di forza hanno disfatto il letto delle tedesche, era in ferro, e con quell’asta hanno picchiato sui vetri fino a fare un buco. Hanno messo sull’asta un lenzuolo con una croce rossa, fatta col nostro sangue: c’erano bottiglie e bicchieri, li abbiamo rotti e con il sangue abbiamo fatto la croce. Si gridava alla disperata, e un paio sono impazzite, specialmente le russe: poverine, avevano il numero 42.000, erano là fra le prime, erano quasi impazzite. Eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi niente, era tremendo.

Finalmente si resero conto che c’eravamo, vennero su gli americani e ci liberarono. Io ero a letto: ero talmente sfinita che non mi alzavo più, gli americani che sono venuti su hanno portato in braccio diversa gente. Quando uno mi ha sollevato mi ha detto: “Ma sei una bambina, quanti anni hai, 11  o 12?” Il militare parlava in inglese e io in sloveno; lui mi ha chiesto, in uno sloveno un po’ stentato, se ero slovena: Disse: “Anche la mia mamma è slovena. Come mai sei qua?” Lui non sapeva niente, gliel’ho raccontato, mi ha preso in braccio, mi ha stretta al petto e ha detto: “Dio mio, Dio mio ma come si può ridurre una creatura così?” Di lì i russi mi hanno portato all’ospedale da campo. Mi hanno rifocillata, credo per quindici giorni, mi hanno tirata su prima con il tè  poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato. Quando ci siamo riprese ci hanno portato in un campo di smistamento. Là sono rimasta fino a che non mi hanno portato a casa.

D:Fino a quando sei rimasta lì?

R:Pochissimo perché ci siamo trovati in diversi triestini. Ero ancora un po’ giù di corda, sempre con la testa fasciata: la testa l’ho portata a casa fasciata e mi ha curato il professor Danilo, pure lui ex deportato di Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato una di Gorizia più anziana di me; io andavo verso i 20 e lei aveva 35 anni, per me era una mamma; si è presa cura di me. Arrivarono altri tre triestini, erano militari prigionieri nei campi militari, non deportati. Quando ero là uno dei triestini mi ha portato una gonna grande; la mia compagna di Gorizia me l’ha adattata; hanno trovato una blusettina di organdis e me l’hanno messa, lei me l’ha ristretta; mi hanno vestito a festa. Un compagno milanese, poiché portavo ancora gli zoccoli, mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … bellissimi, tutti mi chiedevano dove avessi trovato il mio numero.

I ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo e hanno cercato il posto migliore per poter scappare, hanno fatto un buco. Da quel buco partivano durante il giorno e cercavano di combinare un carretto per me perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto; hanno trovato una carrozzina con le due ruote grandi, poi si sono procurati un po’ di legno, mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile. A un dato momento mi dissero: “Preparati, questa sera la fuga”. Eravamo in dieci, c’era uno della Calabria, uno del Trentino, uno milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. L’accordo è fatto, il carretto è pronto: non rimaneva che aspettare che la ronda cambiasse giro. Quando tutti dormivano ci siamo messi in carica! Io, pacifica come una patrona seduta, e loro poverini che mi spingevano. Mi hanno riportato a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi.

Durante il giorno si camminava e si chiedeva dove andare; puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava e ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’era qualche negozio aperto: si chiedeva, mostravo i miei numeri di campo, capivano subito che eravamo prigionieri, ci davano da mangiare quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente.

Una notte ci ha preso la pioggia ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito; la pioggia ci ha bagnato molto bene, ci correva lungo la schiena perché eravamo distesi per terra sul prato, era giugno, caldo. Quando ci siamo svegliati alla mattina eravamo quasi già asciutti perché il sole ci aveva asciugato, ma io avevo dei brividi. Il giorno dopo la mia temperatura è salita, farneticavo, un signore ci ha prestato una bicicletta e uno di noi è andato dal medico: broncopolmonite. Dopo otto giorni il medico è ritornato, ci ha permesso di ripartire. In un paese mi hanno vestito con una tuta olimpionica e con scarponi da montagna perché era freddo e non potevo andare coi sandali; così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che un treno portava a Vienna, lo prendemmo – era un treno che portava carbone – ma alla mattina sentimmo parlare polacco. Eravamo entrati nuovamente in Polonia!

Cosa fare? Disse uno in stazione che nel pomeriggio un treno sarebbe andato verso la Germania. Tornammo in Germania, non ricordo la stazione. Alla fine con dei camion che portavano viveri in Germania ci siamo arrivati.

Un treno portava prigionieri francesi a casa; abbiamo aspettato, a noi si sono avvicinati altri prigionieri che sono rimpatriati; abbiamo detto che noi italiani non avevamo nessun collegamento con nessuno e cercavamo di  rimpatriare meglio possibile. Loro andavano verso la Svizzera, era pur sempre vicino all’Italia. Ci portarono. Sul treno non c’era più posto perché eravamo tanti, allora misero delle travi di traverso sul vagone bestiame: lì sopra siamo saliti noi e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera.

Sul treno si sono accorti che tanti avevano il tifo: la Svizzera non ci fece entrare, dovevamo passare per il Brennero. Dal Brennero siamo arrivati in treno a Bolzano; ci hanno scaricati, gli altri hanno proseguito: noi siamo rimasti là perché a Bolzano c’era lo smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dai campi. In Svizzera ci avevano dato, prima di mandarci indietro, qualche cosa per coprirci e cibo in uno zainetto, ognuno aveva il suo zainetto. Purtroppo allo smistamento ci derubarono degli zaini. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberata, è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo che era per me la continuazione della mia vita. Avevo dentro dei libri, un bel diario. Tutto mi hanno portato via, una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia grassa, avevo due tute l’una sopra l’altra, una sciarpetta che mi copriva la testa: mi vergognavo con tutto quel bianco.

Quando siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine era un problema arrivare a casa perché era tutto bombardato, il treno da Udine non camminava.

D: Scusa, Nerina il percorso da Bolzano a Udine?

R:Da Bolzano partì un pullman su cui hanno preso tutti quelli che erano dei dintorni di Udine di Trieste.

A Udine c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere di fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto per poter scappare da Udine; è da lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. Un’altra fuga. Mi sembra che fosse un edificio militare o comunale, forse una scuola o un ricreatorio; in basso, nei gabinetti, ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto. Siamo entrati, abbiamo fatto quello che dovevamo fare e ci siamo messi in una stanzetta al pianoterra. Il gabinetto aveva un finestrino da spingere; per primo è andato Luciano di Trieste che era il più giovane. Poi è andato il più grasso, poi mi hanno sollevato e mi hanno fatta passare.

Ci  trovammo la notte a Udine, andammo alla stazione sperando in qualche treno in partenza. Si partì ma solo per un pezzetto, fino a Santa Maria la Longa. Ci incamminammo. Da una stradina di paese stava venendo un uomo coi cavalli e col carro. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi. Ci ha presi sul carro e portati a Monfalcone. Da Monfalcone i treni c’erano ma dovevamo avere i biglietti. I biglietti!!! Ma che ti sogni! A Monfalcone ci hanno ristorato con quello che potevano, un panino e una mela. Hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di lì, poi ci hanno rifocillati nuovamente perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. Il treno partì, era un treno lumaca. Su quel treno c’era gente che andava a fare la borsa nera.

Cerano due persone che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto; io avevo sempre la testa fasciata. La signora mi fissò, io la vidi e la fissai anch’io: non sarà mica Silvia? Lei mi guardò e fece un urlo: “Dio, è la Cisa che ritorna, la Cisa non è morta!”. Qualcuno aveva portato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che ero morta.

Ci ha preso una tale smania di tornare a casa, una voglia di correre. Sai cosa ho chiesto per prima cosa? Mio fratello è tornato vivo? Si, ti aspettano tutti anche la mamma e il papà.

Quando siamo entrati nella zona nostra e ho visto Miramare mi sentivo fare bububum bububum, dicevo: “Oddio, mi si ferma il cuore!” Sentivo il fuoco alla testa.

Finalmente entrammo in stazione, io camminavo su e giù per il treno e non appena hanno aperto le porte sono caduta indietro e sono svenuta. Nessuno era alla stazione ad attendere i rimpatriati in Trieste! C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente.

Arriviamo a casa, ero tutta infagottata, a metà strada c’è la casa di mia zia, mia cugina era alla finestra. Io ero là tutta imbacuccata, e lei disse: “Ma guarda quella, perfino in testa si è messa qualcosa da nascondere”. Mi guardò, la guardai, tutto a un tratto la vidi impallidire, urlò e disse: “E’ ritornata mia cugina!” Quella fu la prima volta che piansi. Quando ci siamo viste non potevo né parlare né niente. La mamma non era a casa, era uscita con un’altra signora. Quando tornò e mi vide disse: “No, questa non è mia figlia, avete sbagliato, non è lei, questa non la conosco”. Si capisce: ero tutta fasciata. Ero talmente piccola quando sono partita e piccolissima quando sono rientrata. E poi sai cosa mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto? “Amore, ti fo’ il caffè?”. Dico: “No mamma, il caffè l’ho bevuto; ti prego i fagioli, fammi dei fagioli”. E la mamma ha fatto presto, non so come ha fatto. Ho chiesto al papà del vino e ne ho bevuta mezza bottiglia. Poi sono arrivati tutti i miei zii. E abbiamo fatto la notte tutti in piedi.

Cherchi Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..

Bozzini Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Luigi Bozzini, sono nato a Pavia, il 24 gennaio 1927, allora ero studente, frequentavo l’istituto tecnico Bordoni, per geometri. Dopo il 25 luglio e l’8 settembre, con i miei compagni dell’oratorio, di giochi dell’oratorio, abbiamo costituito questo gruppo, senza avere conoscenze e idee precise sul da farsi.

Abbiamo visto il comportamento dell’esercito italiano l’ 8 settembre, che è stata una cosa tragica ma sotto certi aspetti, anche un po’ comica. Io avevo sedici anni, giravo per la città in bicicletta e mi era capitato di vedere sull’argine del Ticino, appena fuori da un ponte coperto, un camion dell’esercito con una mitragliatrice, cinque militari e un capitano.

Dovevano fronteggiare i tedeschi che arrivavano dalla statale e il camion era posizionato in modo che la mitragliatrice potesse sparare sulla statale dei Giovi e davanti alla mitragliatrice c’era una squadra di ragazzini del borgo curiosi e alcune lavandaie e il capitano impazziva perché diceva: “Se devo sparare voi dovete togliervi da qui”. La cosa, anch’io ero lì ma mi sono spostato subito, era addirittura un po’ buffa, perché pretendere con cinque uomini di far fronte ad un carro armato era una cosa assurda, anche se avevo sedici anni e non avevo cognizioni militari, avevo capito che era una cosa impossibile. Allora abbiamo deciso di costituire questo gruppo e di resistere, in che modo non sapevamo, non avevamo mezzi. Conoscevo Monsignor Luigi Gandini, che abitava vicino casa mia.

Ci ha dato i primi stampati ciclostilati e noi, questi fogli, li appiccicavamo di sera, con l’oscuramento, approfittando dell’oscuramento, sui bandi di chiamata del maresciallo Kesserling e del maresciallo Graziani che invitavano i giovani a costituirsi e a presentarsi alla leva nel nuovo costituendo esercito della Repubblica di Salò.

Più avanti, io ero stato nominato capo del gruppo, in un primo momento Devoti e poi io e come capo dovevo tenere i contatti con gli elementi esterni alla nostra cellula. Don Gandini mi mise in contatto con l’avvocato Marchetti e da questi io ricevevo copie del giornale clandestino ” Il ribelle ” che era stato fondato da Teresio Olivelli. Su “Il ribelle” verso l’estate del ’44 trovammo la notizia che Olivelli era stato arrestato e c’era anche una foto.

Facevamo azioni di sabotaggio, i tedeschi mettevano delle indicazioni stradali per indicare dove c’era il tal reparto e noi approfittando del buio, strappavamo questi cartelli, cercavamo anche di rifornirci di armi.

Nella casa di Devoti, le donne quando andavano nel rifugio, dicevano che lì abitava un carabiniere che era scappato e che avevano paura perché probabilmente nella cantina ci dovevano essere delle armi, allora una volta abbiamo aperto il lucchetto e siamo entrati e c’era una catasta di legna, l’abbiamo smontata, effettivamente c’erano le armi, abbiamo trovato un fucile, un moschetto 91 con diverse scatole di cartucce.

Abbiamo prelevato qualche scatola di cartucce, abbiamo lasciato il fucile in attesa di poterlo usare nei momenti più adatti, perché in città non era certo facile operare in mezzo a tutti i fascisti e i tedeschi

D: Scusi Luigi, il vostro gruppo aveva un nome?

R: Sì, l’abbiamo chiamato Sirio e noi tenevamo un quaderno con un diario delle nostre azioni, in codice. Erano numeri, era un codice semplicissimo, bastava alla A, dare un numero e poi tutti gli altri seguivano.

Era un lavoro compilare anche quelle poche note perché bisognava far riferimento e qualche volta cambiavamo anche il corso, poi dopo il mio arresto, questi documenti sono stati distrutti ma quando sono venuti ad arrestarmi non hanno trovato niente perché erano bene nascosti. Più tardi, al nostro gruppo, eravamo quattro, Devoti, Chiappino, Masara, si è unito Giovanni Tavazzani che veniva da Torino, la mamma era di Pavia e dopo l’8 settembre il papà era generale, è scappato e si è trasferito a Milano. A Milano è stato il primo comandante del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, è stato catturato a dicembre e internato a Mauthausen dove è morto nella primavera del ’45.

Un giorno, sono stato contattato da un partigiano, era uno studente del Bortoni, più anziano di me che mi disse, mi ha fatto una confidenza, mi disse che era un partigiano che era sceso e che però voleva ritornare e che cercava armi. Io avevo una rivoltella a tamburo, nascosta e temporeggiai perché volevo essere sicuro. Da ottobre sono arrivato a dicembre però non avevo mai rivelato che eravamo un gruppo di resistenza, chi erano i componenti, ero stato sulle difensive, appena prima di Natale gli consegnai questa rivoltella

D: Natale di che anno?

R: Del ’44. La mattina del 3 gennaio, presto, alle sei del mattino, arrivarono a casa mia cinque agenti in borghese delle SS, mi prelevarono, mi perquisirono e mi portarono alla Villa Triste, così chiamata, di Piazza Castello, mi lasciarono lì nell’anticamera un paio d’ore e poi mi chiamarono per un interrogatorio.

C’era un tizio seduto a un tavolo e i quattro altri agenti, ai lati, pronti a battermi. Io avevo intuito che il delatore poteva solo essere quella persona e difatti dissi che, mi dissero chi conoscevo, cosa facevo, dissi che avevo consegnato questa rivoltella a questo tizio. Mi portarono in una stanza vicina dove c’era l’arma sul tavolo e mi fecero fare il riconoscimento dell’arma.

Questo aveva parlato anche di altre persone, ormai sapevano già tutto e poi fui associato al carcere di Pavia, subito nella stessa giornata.

D: Senta, questa Villa Triste, esiste ancora l’edificio della Villa Triste?

R: No, è stata demolita subito dopo la guerra e al suo posto è stato costruito un condominio.

D: E le persone che l’ hanno trattata a Villa Triste, era italiani?

R: Erano italiani, ricordo, c’era un certo Ferrarini che era il capo e tra questi c’era un certo Gemelli.

D: Erano vestiti in divisa militare?

R: In borghese, in borghese, avevano un cappotto scuro, nero, grigio e il cappellaccio nero tutti quanti, il cappellaccio tipo…

D: Erano quelli del GNR?

R: Come?

D: Erano quelli della Guardia Nazionale Repubblicana?

R: No, erano delle SS, dipendevano dal comando SS, infatti io sono stato associato al carcere a disposizione delle SS

D: Al carcere di Pavia?

R: Sì. Mi han messo in una cella, la numero 4, dove c’erano già degli altri prigionieri.

D: Non c’erano le celle di isolamento?

R: Eravamo un po’ sospettosi perché ci potevano essere delle spie, infatti c’era un tizio che chiamavano Maresciallo, in borghese, che era sempre sul letto, io non l’ ho mai visto alzato, un tipo strano e però c’era Bonzanini Mario, Carlo Cuoccini, i più giovani, coi quali ho familiarizzato e poi c’era Zampieri che era un cronista di Pavia che io conoscevo di vista, che era molto più anziano. Gli altri, c’era una guardia di una riserva di Vigevano che portava la divisa della guardia di riserva con tanto di …, era una persona anziana.

Eravamo in 8, 10. La cella era quel che era, piccola, al piano terra, un grande finestrone in alto, davanti alla finestra c’era un paravento e dietro c’era il paiolo di legno.

Per servirsene bisognava salire su due cavalletti, era una cosa un po’ disagevole, comunque a Pavia ci davano un pasto solo, a mezzogiorno, una minestra e una pagnotta.

Durante la mia prigionia ricorderò sempre quel piatto di minestra perché aveva una certa consistenza, c’erano rape, cavoli e riso ed era piuttosto abbondante.

D: Quindi lasciavano portar dentro la roba da fuori?

R: No. Uscivamo al mattino per un’ora d’aria nel cortile, dove scendevano tutti, anche gli altri prigionieri che stavano su nel camerone. Tra questi ho trovato un mio compagno delle scuole elementari, Aurelio Bernuzzi che poi è stato un mio compagno anche a Bolzano e anzi, dormivamo nella stessa cuccetta perché bisognava stare in due per ogni cuccetta.

D: E nel carcere di Pavia siete rimasti?

R: Siamo rimasti fino al 23 gennaio.

D: Dopodiché?

R: Dopodiché una mattina ci hanno trasferito a San Vittore con una corriera, scortati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Molti della mia cella non sono venuti, ricordo che poi era arrivato anche il Dottor Giulio Perri che era un medico e quando siamo arrivati a Bolzano, ci hanno rapato i capelli a zero.

D: Aspetti, prima a San Vittore, a San Vittore siete rimasti per un lungo periodo?

R: Ho sbagliato, ho detto Bolzano, volevo dire San Vittore. Ci hanno rapato i capelli a zero e siamo stati sistemati nelle varie celle e Perri è stato mandato in infermeria, come medico, in aiuto ai medici, civili credo.

D: Si ricorda il raggio di San Vittore?

R: Doveva essere il sesto raggio, io era al terzo piano, in questo momento non ricordo la cella ma l’ ho segnata nelle mie memorie.

D: Lei lì ha ricevuto un numero di matricola a San Vittore?

R: A San Vittore sì, no. Non ho avuto numero di matricola, ho segnato il numero della cella al terzo piano, che era l’ultima verso il finestrone e noi vedevamo una strada di Milano dove passava il tram e sotto c’erano le guardie che non volevano che ci avvicinassimo al finestrone, se uno si avvicinava più di tanto, quando uscivamo per andare all’ora d’aria, sparavano, sparavano

D: E dal giorno del suo arresto alla permanenza San Vittore, era riuscito a comunicare con la sua famiglia?

R: Ho mandato una cartolina, una cartolina prestampata che ci hanno dato

D: A San Vittore?

R: A San Vittore sì

D: E non ha mai ricevuto visite o?

R: No, una mia sorella ha portato una valigia con dentro degli indumenti. Era stata perquisita però nelle calze son riuscito a trovare una coscia di pollo o qualcosa del genere, non hanno spogliato tutto, qualcosa han lasciato

D: Quindi, a San Vittore è rimasto fino?

R: Fino al 15 di febbraio del ’45

D: E poi lì cos’è successo?

R: La mattina ci hanno fatti scendere tutti nel corridoio centrale, siamo stati sottoposti ad uno spoglio accurato e poi rinchiusi in un altro reparto, in celle, celle che erano cieche, non avevano finestre e spoglie, mi son trovato con altri nove prigionieri che non conoscevo.

A metà mattina, attraverso uno spioncino, una suora ci ha dato un filoncino di pane a testa e un poco di soldi che abbiamo diviso fraternamente.

Nel pomeriggio poi la cella si è aperta e ci hanno avviato al piazzale. Il piazzale era fortemente presidiato da forze tedesche e fasciste e c’erano anche delle autoblindo e c’erano quattro autocorriere con rimorchio.

Una di questa faceva il servizio Pavia-Binasco-Milano ed era della Lombarda. Io mi son diretto verso quella corriera insieme a Bernuzzi che avevo trovato di fuori e lì ho trovato gli altri miei compagni di cella, Perri, Bonzanini e Cuoccini e altri ancora di Pavia. Perri mi disse di stargli vicino perché c’era la possibilità di scappare, eravamo in fila per salire sulla corriera.

Sulla corriera c’era l’autista che era di Pavia e fermava la nostra fila mentre lasciava salire un’altra che si era formata accanto alla nostra soltanto che un soldato tedesco si è spazientito del fatto che noi eravamo fermi e ha colpito Bernuzzi alla schiena, esortandolo a salire e allora siccome noi eravamo i primi ci siam sentiti a disagio.

“Questo qui se tira il grilletto ci fa fuori”, allora ci siamo incamminati e siamo saliti, ma lo scopo era quello di prendere la corriera vicino al soffietto, invece noi ci siam trovati, io e Bernuzzi, seduti sul pavimento del corridoio, impossibilitati a muoverci. Gli altri sono riusciti a prendere posizione sul rimorchio ma vicino al soffietto, sempre a terra. E poi quando è venuto buio la corriera si è messa in moto e siamo andati in direzione, non si sapeva allora, era Bolzano ma non lo sapevamo.

Ha fatto la Gardesana Orientale e sulla Gardesana l’autista ha accusato un guasto ai freni e ha rallentato sensibilmente allora la corriera è stata fermata, è seguita una discussione molto animata coi tedeschi, con la scorta e poi il gruppo ha ripreso, le altre corriere sono partite speditamente, la nostra è rimasta staccata in fondo.

Dimenticavo che prima di partire erano salite delle guardie nazionali repubblicane di presidio davanti alla motrice e passando sopra le nostre teste hanno preso posto negli ultimi posti riservati a loro in fondo alla corriera.

La corriera era bloccata, le luci spente, si viaggiava al buio per paura degli attacchi aerei e i mezzi, le macchine, i pullman avevano le luci schermate e c’era una piccola fessura dove passava quel tanto di luce per potere vedere la strada. L’autista d’accordo con Giulio Perri, perché Perri stando in infermeria aveva potuto parlare con membri esterni del Comitato di Liberazione e organizzare questa fuga; facendo dei segnali, diceva che si poteva scappare, aveva detto che la scala della motrice che portava sopra, alla corriera, era sul lato destro, allora loro han tagliato, Perri ha avuto un bisturi della suora dell’infermeria e una spilla da balia, ha tagliato il soffietto e uno alla volta si son gettati giù.

Bonzanini m’ ha detto che la ruota è passata a quattro dita, perché buttandosi giù è caduto sulla strada e la ruota è passata a quattro dita dal suo corpo e poi è rotolato in una cunetta e però dietro dice che c’era ancora un autoblindo. Naturalmente la strada era sterrata e passando la corriera ha sollevato un gran polverone e lui se l’è cavata e poi è scappata, tutti e cinque sono riusciti a fuggire, nessuno si è trovato con l’altro.

E dice che nel punto dove lui è caduto, poco più avanti, ha visto le luci di un posto di blocco, comunque sono rientrati tutti e noi, poi è venuto giorno e non c’è stata più possibilità di fuga. Siamo arrivati a Bolzano alle 14 del pomeriggio e ci hanno portati in una zona del cortile recintata e il maresciallo Haage ha proceduto all’appello della nostra corriera.

Il primo nome era Bonzanini e Bonzanini non c’era più e lui continuava a chiamare Bonzanini e poi chiamò Bozzini, ero il secondo e ho fatto un passo avanti ma lui tornò a chiamare Bonzanini a allora io rientrai poi chiamò nuovamente Bonzanini allora io mi sono spazientito e ho detto quel poco tedesco che sapevo: …”Luigi Bozzini” e allora lui m’ ha fatto segno di spostarmi dall’altra parte del cortile, del recinto e poi continuò con l’elenco e man mano venivano fuori quelli che mancavano.

Dopodiché ci hanno rinchiuso nel blocco H. Il blocco era vuoto e c’erano dei castelli a tre piani, a tre livelli e ammassati lungo le pareti del capannone e una parte in centro.

La porta venne chiusa e noi prendemmo posto e spenta la luce prendemmo posto nei castelli, senza coperte, senza pagliericcio, senza niente.

Il mattino seguente sono arrivati altri viaggi di prigionieri e ormai in questo blocco eravamo in 400, c’ erano anche gli ebrei.

D: Nel Blocco H?

R: Nel Blocco H sì, ci mandarono nel magazzino, ci tolsero i nostri abiti civili e ci diedero delle divise militari grigio-verde di vari eserciti e a me toccò una divisa di tela grezza degli avieri italiani, era una divisa estiva di fatica degli avieri italiani. Mi diedero il numero di matricola con il triangolo rosso, il mio era 9695, un paio di zoccoli di legno, una bustina militare, un bicchiere di bachelite e un cucchiaio, mancavano le gavette, non ce n’erano per tutti.

Quindi quando c’era la distribuzione del caffè al mattino o del brodo a mezzogiorno, e del brodo alla sera, con un panino, dovevo cercare qualcuno che aveva la gavetta e che era disposto a mangiare con me. Una sera ci trovammo in 4 a mangiare nella stessa gavetta e devo dire che è stata una cena bellissima che ricorderò sempre, perché ognuno intingeva il proprio cucchiaio nel brodo, e prendeva quel tanto che gli bastava senza cercare di approfittarne.

D: E questo è durato fino a quando lì a Bolzano?

R: Ecco io ho capito, dopo quando son tornato e ho visto i racconti di quelli che ci hanno preceduto, la razione allora era più abbondante e gli davano anche un po’ di margarina e qualche volta della marmellata ma lì eravamo alla fine, eran proprio gli sgoccioli.

E ho capito che perdevamo un po’ le forze e ho capito che ci avrebbero eliminato molto presto e poi se ci mandavano in Germania la cosa sarebbe stata triste.

Avevo conservato la carta d’identità, l’ avevo nascosta perché essendo del ’27 in caso di fuga, se fossi stato fermato, non avevo obblighi di leva e quindi non ero perseguibile.

Solo che c’erano delle squadre che uscivano al lavoro regolarmente tutte le mattine e anche noi che non eravamo inquadrati in queste squadre ci mandavano nel magazzino posto vicino al campo per operazioni di carico e scarico, oppure in città a caricare del materiale, anche delle munizioni, erano magazzini nascosti nella città.

Allora andai dal capo blocco che era un prigioniero come noi, che teneva l’elenco dei prigionieri e dissi che io volevo uscire per il lavoro perché volevo scappare, e mi mandarono a fare diversi servizi fuori. La prima volta alla Villa Stravinsky, mi sembra di ricordare, che praticamente era una casermetta delle SS, a fare un lavoro di scavo.

Poi, altre volte, mi mandarono sulle colline, dove avevano tagliato un bosco e dovevamo raccogliere i rami in fascine, non avevamo attrezzi, con le mani dovevamo arrangiarci. Un giorno poi fui spostato in un’altra squadra e proprio quel giorno lì, due toscani, due giovani toscani hanno tentato la fuga. Quando la guardia se ne è accorta, radunarono gli altri prigionieri in un anfratto, sotto una roccia, perché il terreno era molto accidentato e l’altro andò a cercare i prigionieri, si trovò faccia a faccia con uno di questi, quello per difendersi imbracciò l’arma e lui sparò e lo uccise.

Alla sera l’ hanno gettato nella piazza dell’appello, per terra, a dimostrare che scappare era pericoloso.

Poi sono andato, mi hanno mandato alla caserma dell’artiglieria di Bolzano dove ero in aiuto a un muratore civile, doveva confezionare la calce, pulire dei mattoni e portarli al primo piano dove facevano dei tavolati perché una camerata veniva divisa in tante celle, poi veniva chiusa la finestra e in alto si mettevano delle inferriate.

Quando bisognava posizionare questi ferri, il muratore si spostava e i ferri li mettevamo noi, li mettevamo in modo che se uno se ne accorgeva, in sommità, sull’alti trave, entrava quel tanto della calce, poteva essere piegato e quindi poteva scappare.

Questo muratore qualche volta mi portava un uovo, un uovo crudo che noi bevevamo, andavo lì con un certo Bolzanini di Lungavilla, un partigiano di Lungavilla.

Poi sono stato mandato in una fabbrichetta in costruzione, sempre lavori di manovalanza e lì alla caserma avevamo la possibilità di acquistare del castagnaccio; veniva un tizio dietro il reticolato e ci vendeva questo castagnaccio.

Ne mangiavamo e io ne portavo un po’ ai miei compagni del campo. Alla sera rientrando, il nostro blocco era completamente vuoto; erano stati spostati tutti in un campo, in un altro blocco che era isolato dalla recinzione, il cortile era isolato dalla recinzione perché quelli erano pronti alla spedizione in Germania e io fui spostato al blocco G con Bonzanini e altri.

D: Come pagavate il castagnaccio?

R: Con i soldi che ci aveva dato la suora, con i soldi che ci aveva dato la suora e con i pochi soldi che avevo io, nel portafoglio quando mi hanno arrestato avevo delle am lire, non erano una gran cifra ma qualcosina c’era.

D: Mentre tu eri a Bolzano, hai potuto comunicare con casa. Scrivere o ricevere?

R: Dunque, quando tornavamo dalla caserma, qualche volta se le guardie erano brave perché le guardie fuori non erano le SS erano della Wermacht. Andavamo allo stabilimento Lancia, che era sulla strada.

Noi eravamo a Gries e la caserma dell’artiglieria era sì alla periferia ma dovevamo passare tangenzialmente al centro di Bolzano, dalle parti della stazione penso, so che percorrevamo un grande viale.

Andavamo alla Lancia dove rientrando dopo le cinque c’era sempre il rancio, una minestra pronta, che mangiavamo. Noi andavamo fuori sempre con la gavetta, dopo abbiamo avuto la gavetta perché a mezzogiorno ci portavano il brodo dal campo di concentramento e la mangiavano anche le guardie perché avevano fame anche loro.

E lì in quell’occasione c’erano degli uomini e anche delle impiegate che venivano, ci chiedevano di dove eravamo, l’indirizzo e dove eravamo nel campo di concentramento.

Io ho dato in due o tre occasioni il mio indirizzo però non ho mai ricevuto posta, i miei avevano saputo che ero a Bolzano, hanno dato a un taxista che doveva venire a Bolzano dei pacchi ma io non ho mai ricevuto niente.

D: Ecco tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Dunque nel campo di Bolzano sono rimasto fino alla fine di marzo perché i miei compagni che erano stati rinchiusi nel blocco, pronti per la spedizione, sono stati portati sul treno, pronti per la spedizioni, sarà stato un venerdì, o un sabato ma ricordo che la domenica, dalle dei del mattina alla sera, passarono sul cielo di Bolzano formazioni di bombardieri di 18 o 36, erano sempre o 18 o 36 le formazioni, a pochi intervalli l’uno dall’altro.

E si sentivano a distanza, a volte, gli scoppi delle bombe. Hanno bombardato, distrutto la ferrovia, il treno non è più partito e miei compagni sono potuti rientrare in campo. Allora è sorta la necessità di creare dei campi ausiliari perché Bolzano era sovraffollato ormai.

E io fui mandato, anche con altri di quelli che erano stati sul treno, in Val Sarentino, dove c’era un campo con baracche di legno allestite nel greto del torrente Talvera, circondato con filo spinato e torrette e con mitragliatrici.

E al mattino dovevamo salire la strada e raggiungere le gallerie dove c’erano queste macchine che dovevamo scaricare dai camion, a volte, oppure prendere dalle piazzole e portarle sotto le gallerie, la galleria, metà era destinata al transito, l’altra metà avevano fatto dei piani di calcestruzzo dove venivano posizionate queste macchine.

Poi arrivavano dei carri, degli autocarri con lingotti di piombo e fasce di lamiere di ottone perché volevano far una fabbrica di munizioni.

Abbiamo scaricato un maglio, a mano, unto di grasso, qualcuno c’ha lasciato sotto un piede, una volta è arrivato un SILO dalla Germania, un SILO metallico e dietro questo trasporto c’erano due prigionieri politici, stranieri, e uno di questi, lo dico nel mio racconto, si è avvicinato a me, forse perché ero il più giovane della squadra.

Noi lavoravamo in squadre di 15 elementi e ha estratto dalla tasca una scatola di sigarette e mi ha offerto delle piccole patate, quelle che si spigolano… ma io ho fatto capire che non potevo accettare perché non avevo niente da potergli offrire per ricambiare, lui ha insistito, io ho preso due patatine e me le sono mangiate, allora lui ha sorriso e ci siamo abbracciati, doveva essere un ungherese, un polacco, non ho capito anche perché non c’era molto tempo per scambiarci delle parole, la guardia che ci sorvegliava, ci esortava a lavorare.

D: Luigi scusa, come te lo ricordi tu il campo di Sarentino, della Val Sarentino?

R: Dunque lo dico nella mia memoria, in un primo tempo ci hanno ospitato in un campo che era fatto di baracche di legno prefabbricate, costruite abbastanza bene e sul tetto c’era il simbolo della croce rossa, per gli aerei, che avvertivano che era un campo di prigionia. Dopo una settimana, neanche, fummo trasferiti più a monte, qualche chilometro.

Abbiamo preso il nostro pagliericcio con la paglia, questa volta avevamo il pagliericcio, e la nostra coperta e scortati dalle SS abbiamo preso posto nel nuovo campo. Lì, il capo del campo era un maresciallo della Wermacht però ai suoi ordini aveva le SS.

C’era un brigadiere delle SS e poi dei soldati e sulle torrette c’erano tutte le SS, però era una persona abbastanza umana e lo si è capito subito perché quando ha fatto le consegne c’era un altro maresciallo delle SS che doveva essere Titho e c’era un interprete, prigioniero, belga e aveva tenuto un atteggiamento non ostile e il maresciallo, io dico Titho, penso che sia stato lui, lo voleva punire, allora il maresciallo si è opposto, ha detto: “Ormai hai fatto le consegne, sono io il comandante del campo, se è da punire lo punisco io”.

E quello là non ha avuto più niente da fare, m’ ha salvato praticamente.

D: Ecco, ma c’erano molte baracche?

R: Adesso non ricordo il numero, erano baracche dislocate, il terreno era coltivato con le piante di melo, erano mimetizzate sotto questo campo di melo.

D: E come deportati eravate tanti?

R: Saremmo stati un centinaio, 150.

D: E tutti impegnati a scaricare camion?

R: Tutti sulla strada, ma poi, quando sono stato al Congresso a Mauthausen, ho conosciuto un compagno di prigionia attraverso il numero di matricola perché io l’avevo e me lo sono portato, lui l’aveva ormai smarrito ma ricordava il numero e diceva: “C’ero anch’io a Bolzano in quel periodo lì e son stato mandato anch’io a Sarentino”.

Però lui doveva fare l’aiuto del muratore da qualche parte e quindi non veniva nelle gallerie.

D: Ascolta un attimo; tu parlavi di macchine che scaricavate e avevi detto che avevate anche una macchina dalla Germania?

R: Un silo

D: Un silo, le altre invece, il maglio per esempio?

R: Venivano da Torino, da Bologna e da Milano

D: Ecco, come fai a sapere queste cose?

R: Sulle macchine c’erano delle etichette e poi mentre noi le mettevamo su un carro di ferro, la strada era sterrata, il carro aveva delle ruote che avranno avuto 20 centimetri di diametro quindi dovevamo trascinare questi carri in salita con dei fili di ferro e delle sbarre di legno perché come i buoi, a due a due spingevamo il carro fin sotto le gallerie.

Le guardie erano lì però appena giravano l’occhio noi svitavamo un bullone, un volantino o qualcosa che finiva giù dal burrone.

La strada era a mezza costa, c’era la roccia a monte e un precipizio a valle, quindi prima di metterla in funzione ci sarebbero stati dei problemi.

D: Sabotaggio?

R: Sabotaggio

D: E non hanno mai preso nessuno?

R: No

D: Ascolta, lì quando vi hanno portato in Val Sarentino, vi han portato su…

R: A piedi, dal campo di Bolzano a Sarentino, abbiamo attraversato la città per vie secondarie, per delle viette.

D: E siete arrivati in Val Sarentino a piedi?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualche particolare del paesaggio, non so la presenza di un castello?

R: Sì, castello Ronco, appena all’imbocco della valle c’è il castello Ronco e anzi una domenica ci hanno fatto scaricare un rimorchio di cemento e abbiamo dovuto portarlo sul al castello per il sentiero nel bosco.

Al mio compagno che stava sul camion, gli ho detto di pulirlo bene prima perché alcuni sacchi si erano rotti e c’era cemento dappertutto e me l’ ha messo bene sulla schiena. Allora, tenendolo e con l’altra mano sotto e salendo tutto curvo, l’ ho portato intatto fin al castello.

D: Ma questo dalla Val Sarentino?

R: Sì, in Val Sarentino

D: Quindi vuol dire che il campo in Val Sarentino era vicino al Castello Ronco?

R: No, siamo andati più giù sulla strada dove c’era il camion e l’abbiamo portato sopra.

D: Ma vicino al campo cosa c’era? C’erano delle case?

R: No, non c’era niente, oltre il Talvera, dall’altra parte del Talvera c’era una batteria contraerea, tedesca, dove c’erano anche dei serventi italiani, che vestivano la mia divisa di tela grezza.

D: Ascolta, quindi di abitazioni non ce ne erano?

R: No, c’erano dei masi alti ma non abitazioni lì vicino. C’era una casa poco più avanti, una villetta poco sopra.

D: E quindi c’era questa galleria qui

R: No, erano 25 le gallerie sulla strada. Poi io sono tornato in Val Sarentino, sono stato una decina di anni fa, forse quindici anni fa e ho visto che hanno fatto delle variazioni della strada, hanno fatto delle opere, dei viadotti e nuove gallerie perché la strada era molto impervia in mezzo a questa zona e hanno eliminato forse delle vecchie gallerie e hanno fatto una rettifica del vecchio tracciato stradale.

D: Sei riuscito però a individuare più o meno il luogo del campo?

R: No, non mi sono fermato lungo la strada, sono arrivato al paese, anche perché c’è stato un episodio.

Noi lavoravamo in una galleria vicino alla piazzola, un magazzino stradale e lì c’era una baracca in legno dove facevano servizio dei giovani della territoriale, di presidio a tutto il materiale, ce n’era prima, c’ era dopo e c’era a metà.

Un giorno, un ragazzo di questi qui mentre noi prendevamo posto sulla piazzola dove poi ci veniva distribuito il nostro brodo dal campo, mi ha offerto con un piatto.

Mi ha detto se volevo mangiare della pastina che avevano sbagliato la quantità di sale, il nostro brodo era assolutamente senza sale e la cosa mi ha un po’ ingolosito e allora ho assaggiato ma ci aveva orinato dentro, non era sale in eccesso allora ho ringraziato e ho rifiutato senza imprecare.

Il giorno successivo, a mezzogiorno è arrivata una guardia della territoriale, un uomo che avrà avuto cinquant’anni, è venuto a cercarmi sotto la galleria e in quel momento lì c’era una guardia che era abbastanza brava, era un viennese, doveva essere un musicista, un violinista e quando c’era aria chiara diceva: ” Non lavorate, passeggiate”; appena sbucava qualcuno si metteva ad urlare. Allora questo qui è venuto lì, mi ha chiamato e dallo zaino ha tirato fuori 15 focaccette, noi eravamo in 15, quindi ci hanno contato, con dentro una pressata di uva e allora sono andato sulla piazzola e abbiamo fatto una per ciascuno.

D: Ho capito, ascolta, lì a lavorare per posizionare queste macchine, macchine utensili, lavoravate durante il giorno e basta?

R: Sì, sì avevamo dei paranchi, paranco è un cavalletto di metallo, è un aggeggio con due catene, una che solleva il peso e un’altra catena che fa da frizione, che gira dei denti e moltiplica lo sforzo.

Quindi giravamo quelle catenelle lì, veloce e il peso che era imbragato si alzava, lo mettevamo sul carro e poi lo portavamo sotto la galleria e lì l’operazione inversa, si metteva sul piano

D: Ecco, lavoravate, dicevi, nell’arco della giornata, di sera dentro nel campo?

R: Tornavamo in campo

D: L’appello?

R: Sì, sì sempre l’appello al mattino e alla sera, anzi l’appello lì, veniva fatto dentro la baracca, ognuno si posizionava davanti al proprio castello a tre piani e veniva un SS a contarci. Di notte succedeva che si apriva la porta con un calcio, accendevano la luce, perché toglievano la luce di notte e ci comandavano per qualche servizio, a volte pioveva a dirotto, un temporale, e così, fuori a caricare la legna, scaricare la legna.

Io ero vicino a Pisani Renzo che era un partigiano della Brigata Giustizia e Libertà ed era di Casteggio e questo qui mi svegliava, io dormivo sodo, non sentivo il calcio alla porta, non sentivo niente, mi svegliava ed eravamo all’ultimo piano, al terzo piano in cima allora ritiravamo i piedi e le coperte e il tedesco metteva la mano, sentiva vuoto, quelli sotto poverini erano sempre alle prese e noi l’abbiamo sempre scampata.

Ognuno cercava di salvarsi come poteva, tra l’altro aveva ricevuto un piccolo pacco, con dentro un pezzo di lardo, l’unica cosa che era rimasta era un pezzo di lardo.

Allora abbiamo scoperto che puntando i piedi sul soffitto che era fatto di pannelli di faesite, si alzava, e al centro della baracca c’era come una trave fatta di tavole, un cunicolo insomma e noi mettevamo lì il pacco, quando toglievano la luce, mi dava una spinta, io puntavo i piedi e con una lima di ferro ormai consumata avevamo fatto dei coltelli, lui tagliava questa fettina di lardo, me la passava e masticava e come sentivano la carta qualcuno diceva: “Mangiano, mangiano”.

D: Ascolti, lì lavoravate sette giorni su sette?

R: No, la domenica eravamo fermi.

D: E cosa facevate?

R: Niente, giravamo per il campo liberamente, non potevamo uscire di sera dalla baracca, anche se avevamo necessità fisiologiche, perché quando era la pipì, aprivano la porta e fuori, usavano la gavetta, sì, sì, per non sporcar la baracca.

D: Ascolta…

R: Perché poi, i servizi, c’era un ramo del Talvera e sopra questo ramo avevano fatto un ponte, coperto, in legno ma fatto bene e dove c’era un vuoto al centro e due panchine laterali e ci sedavamo lì e il bisogno era lì.

Una mattina mi sono sentito male, ho vomitato, dopo aver bevuto il caffè ho vomitato perché non ci davano più il pane ma ci davano delle gallette. Dei crackers integrali che mettevano acidità e bruciore di stomaco era una cosa normale, c’era sempre, i crampi allo stomaco, i bruciori c’erano sempre.

Quella mattina lì ho vomitato e allora c’era un prigioniero che fungeva da medico che mi ha detto, “Bene, stai a casa”. Per mia sfortuna quel giorno lì avevano marcato visita sei o sette prigionieri e allora è venuto il capo campo con il brigadiere e il medico a guardarci e loro hanno detto che era sabotaggio e allora ci hanno mandato a recuperare la giornata la domenica, un lavoro inutile perché mi hanno mandato con un camion su in alta montagna, un freddo della miseria, a caricare delle pietre che poi è andato a scaricare.

D: Scusa una cosa, eravate solo politici?

R: Sì solo politici.

D: Donne non ce ne erano?

R: No, a Bolzano sì, c’era una zona delle donne.

D: No, lì in Val Sarentino.

R: In Val Sarentino solo uomini e solo politici ed ebrei.

D: E la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione è venuta la notte tra il 28 e il 29 di aprile. C’è stata un’incursione area.

Hanno lanciato dei bengala, hanno illuminato la valle a giorno e poi i cacciabombardieri hanno mitragliato e spezzonato, l’indomani non siamo usciti per il lavoro.

C’era una strana atmosfera di quiete e ci chiedevamo cosa poteva essere, c’erano ancora le guardie sulle torrette ma le guardie trentine, i ragazzi di leva della zona di Trento e di Bolzano erano inquadrati nell’esercito tedesco però avevano una divisa tedesca con un colore con un panno leggermente azzurrato e sull’elmetto portavano lo scudo con i tre colori, bianco, rosso e verde.

Questi qui avevano disertato, non c’erano più e verso mezzogiorno è venuto un comandante che aveva una divisa marrone, ci ha fatto cenno di portarci vicino al cancello e ha detto che eravamo liberi di rientrare alle nostre case perché praticamente la guerra era finita, ci ringraziava per la collaborazione e ci ha esortato di passare dal campo di Bolzano a prendere il foglio di licenziamento. Potevamo prendere tutto quel che volevamo.

Allora io e Pisano abbiamo raccolto le coperte e con il pagliericcio abbiamo fatto uno zaino e poi ci siamo incamminati, siamo andati in quella villa dove una donna ci ha dato la polenta, ha fatto la polenta e c’erano dei tedeschi che stavano facendo il ragù.

Noi abbiamo mangiato la polenta a piombo ma non mi sono abbassato a chiedere un cucchiaio di ragù al tedesco.

D: E sei arrivato a Bolzano a piedi?

R: Siamo arrivati a Bolzano a piedi passando vicino al campo più a valle, era distrutto.

Il bombardamento c’era stato perché qualcuno aveva segnalato che quello lì non era un campo ma c’era il comando tedesco per la fabbrica delle armi leggere.

D: Ecco scusa, tutte le macchine che voi avete scaricato sono poi mai entrate in funzione?

R: Ma non credo proprio, no, no, non ha avuto tempo.

D: Ecco, e sei arrivato a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano e siamo andati prima in duomo e il caso vuole che lì c’era il canonico Piola che era l’assistente del campo di concentramento.

Questo canonico veniva la domenica a Bolzano a celebrare la messa.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo. Metteva un tavolo e lì celebrava la messa.

D: Ma all’interno o all’esterno?

R: Nel cortile, nel cortile.

D: Nella piazza dell’appello diciamo…

R: Sì, nella piazza dell’appello o nell’altro cortile perché il campo erano due capannoni e poi in centro c’era una baracca di legno dove inizialmente c’era la mensa dei tedeschi poi c’era la cambusa, poi c’era la doccia.

Qualche volta, quando avanzavano l’acqua, invitavano qualcuno a fare la doccia, io ci sono andato un paio di volte. Era una doccia collettiva, allora prima cosa alzavamo dei graticciati di legno e sotto trovavamo scaglie di sapone perché noi di sapone non ne avevamo e usavamo quelle scaglie di sapone per pulirci alla meglio insomma. Quando finiva l’acqua calda scappavamo fuori.

D: E lui veniva ogni domenica?

R: A celebrare la messa sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: E potevano partecipare tutti i deportati?

R: Quelli che volevano e c’era un tenore ebreo, bravissimo, dicevano che aveva cantato anche alla Scala, che cantava l’Ave Maria di Gunot, non quella di Schubert, Gunot, e cantava molto bene, benissimo.

D: Ecco, allora siete andati in duomo.

R: Siam andati in duomo e il sacrestano ha chiamato questo sacerdote e noi lo abbiamo ringraziato perché a Pasqua ci aveva fatto avere un pacco a tutti i prigionieri, era un pacco così, c’era dentro poco, anche perché forse aveva raccolto tra la popolazione. Ma tutti avevano dei problemi d’alimentazione, d’approvvigionamento e quindi questa gente aveva messo quello che aveva potuto. E allora ci ha ritirato un momento e poi ci ha portato una galletta bianca, di farina bianca e una scatoletta di carne Simmenthal per ciascuno che noi abbiamo messo in serbo per il viaggio.

E poi, proseguendo nel nostro cammino, siamo arrivati a una cascina, lì, proprio dentro Bolzano, una zona un po’ agricola e abbiamo trovato un tizio che ci ha detto: “Se state qui vi do da mangiare stasera”. Nel cortile infatti, ci ha portato fuori un piatto, in piedi in mezzo al cortile con una braciola di maiale, senza pane né niente e poi lì vicino c’era un capannone dove c’era un magazzino e voleva che noi prendessimo delle scarpe.

Erano le scarpe dei militari italiani ma noi abbiamo rifiutato perché se i tedeschi ci trovavano con le scarpe nuove avrebbero detto che le avevamo rubate e magari ci avrebbero fucilato.

Però non siamo andati in campo quella sera lì, volevamo star fuori e saremmo andati l’indomani mattina, lui ci ha detto che se volevamo dormire potevamo dormire nella cascina, nel fienile e così abbiamo fatto, abbiamo dormito nel fienile.

Poi al mattino Pisani mi ha svegliato perché nel fienile c’erano i prigionieri che rientravano dalla Germania o quelli di Sarentino ma c’erano anche i fascisti che scappavano e già erano sorte delle discussioni, solo che i fascisti erano armati e allora lui m’ha svegliato e ha detto: “Luigi andiamo, andiamo perché qui si mette male” e siamo scesi e ci siamo avviati verso il campo.

Durante la strada abbiamo trovato Colomia che era uno di quelli addetti alla disciplina, quello che bastonava quando uscivamo dalla baracca.

Ci ha fermati subito: “Voi da dove venite?” “Noi veniamo dal Sarentino” e allora ci ha lasciati andare e lui scappava con una bici nuova di zecca e uno zaino sulla canna, era a piedi, ricolmo di roba che portava via dal campo.

D: Voi andavate in giro con la divisa?

R: Sì, sì.

D: E col numero?

R: Col numero, sì, sì; non avevamo altri abiti.

D: Siete arrivati nel campo…

R: Siamo arrivati nel campo e siamo entrati, lì davanti all’ufficio matricola, c’era un gruppo di prigionieri che aspettava di ritirare il foglio e allora noi ci siamo accodati.

E in quel mentre lì è arrivato il maresciallo Haage e ha chiesto agli altri: “Voi perché siete qui?” E loro hanno detto: “Noi siamo quelli che hanno scaricato la legna questa notte sotto il temporale”. Erano tutti bagnati, zuppi e a noi non ha detto niente, noi ci siamo infilati, ci siamo messi in fila, ci hanni dato questo foglio di via.

Il foglio era già prefirmato e datato, aveva la data del giorno prima, lo utilizzavano ugualmente.

Dovevamo dare le generalità e a me ha chiesto: “E la carta d’identità?” “L’ ho persa” gli ho detto io, l’avevo in tasca e poi ha scritto il mio nome, me l’ha sbagliato perché ha messo una zeta sola, lasciando lo spazio, forse l’ha fatto di proposito, allora gli ho fatto aggiungere a mano una zeta, “Io sono Bozzini, con lì due zeta”.

C’era lì una donna che non riusciva ad avere il foglio di licenziamento, era vestita di stracci, era una donna di mezza età, molto debilitata e io ho cercato di aiutarla e non riusciva a dire il suo nome, le sue generalità, piangendo così, non si capiva, forse era anche straniera, non lo so, purtroppo è entrata una guardia, perché ormai il camion era pronto per partire, è entrato una SS urlando di far presto e non abbiamo potuto far niente e l’abbiamo lasciata così.

D: Quindi vi hanno messo su un camion dopo?

R: Ci hanno messo su un camion da rimorchio, ci hanno portato fuori da Bolzano un dieci chilometri e ci hanno detto di non tornare a Bolzano ma di andar giù perché temevano una rappresaglia, se tornavamo ci facevano fuori.

D: E sei arrivato a casa quando?

R: Il 6 maggio. Ho fatto in tempo nella piazza del duomo di Milano a vedere la sfilata, era una domenica e sfilava il Comitato di Liberazione Nazionale, in testa.

Minarelli Atos

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Minarelli Atos, nato il 19.2.1923 a Vigarano Mainardo in provincia di Ferrara.

Sono stato arrestato il 15 dicembre 1944 nelle Langhe in Piemonte come partigiano. Avevo una squadra a mia disposizione. Mi ero fermato in una cascina per prendere dell’acqua perché eravamo in ritirata, ci dovevamo ritirare sulle montagne. Mi sono accorto che la mia compagnia era andata avanti, io mi ero fermato in quella cascina per prendere dell’acqua.

Mi sono visto tutto in una volta circondato dagli arditi del Duce che avevano una testa da morto sul berretto. Io potevo difendermi, ma non ho potuto perché in quella famiglia c’erano quattro/cinque donne, cinque o sei bambini, si sono messi a piangere.

Io sapevo che se avessi reagito loro avrebbero distrutto la famiglia e allora mi sono dato prigioniero. Ho consegnato le armi, mi sono dato prigioniero. Dopo lì ne hanno feriti altri sette o otto in quel combattimento in quel momento.

Dopo tutti quei feriti li hanno caricati su un camion con due mucche, li hanno trasportati in un piccolo paese in provincia di Cuneo eravamo, non mi ricordo bene il paese come si chiamasse.

Quei piccoli feriti che si lamentavano su quel carro… Loro dicevano: Senti i tuoi amici come cantano bene”, mi prendevano anche in giro. Arrivati a quel paese c’era un certo Boni, un boxeur, Massimo e allora per dare spettacolo alla compagnia mi ha preso fuori e poi ha cominciato a darmi dei pugni nella faccia, dappertutto, mi ha spaccato tutta la faccia. La compagnia che rideva al mio spettacolo.

Poi dopo ci hanno messi in una piccola stanza, la sera ci hanno comandati alla morte, hanno fatto dei verbali, che ci avevano presi armati e condannati a morte. Eravamo andati in un paesino in provincia di Cuneo, dovevamo essere fucilati di mattino alle sette.

Lì ho trovato due o tre miei paesani anche. Ce n’era uno di Cento, un certo Fiorino del battaglione Mussolini che io volevo che facesse sapere qualcosa alla mia famiglia, invece lui aveva soddisfazione di uccidere un suo paesano con la sua pistola stessa.

Il maggiore non gli ha dato l’ordine, dice: “Dopo fai il palo per l’esecuzione, non puoi ucciderlo da solo”. Siamo stati due ore davanti ad una piccola chiesetta, picchiati, torturati. Infine è arrivato verso le undici, è arrivato un camion di tedeschi. Io credevo che fosse la fine. Me l’aspettavo la fine.

Invece ci hanno portato in un paese che si chiamava Canelli in provincia di Asti che era stato occupato da loro, prima eravamo lì noi. Lì la notte ci hanno ammanettati, caricati su un camion, ci hanno portato alle carceri Nuove di Torino.

Alle Nuove di Torino dopo cinque giorni, tutte le mattine una battutina ci davano, dopo cinque giorni una notte ci siamo cambiati i numeri, il mio numero era 777, dopo mezzanotte, si aveva paura, ci hanno messo lì soltanto per ostaggio, se c’erano dei morti venivamo fucilati. Pensavo fosse la fine.

Invece siamo andati nel salone, c’erano delle suore, ci hanno dato delle sardine, ci hanno caricato su due corriere e ci hanno portato a Bolzano.

Dalla mattina siamo arrivati a Bolzano verso le cinque di sera, era già buio. Arrivati a Bolzano…

D: Scusa, Atos, quando questo, ti ricordi quando?

R: Il 22 dicembre.

D: E ti hanno portato a Bolzano, vi hanno portato con degli autobus?

R: Sì. Con due autobus. Da una parte eravamo ammanettati, quelli che erano segnati in rosso, col triangolo rosso. Invece gli altri erano liberi, anzi si sono fermati, avevamo avuto un bombardamento, invece noi eravamo legati là, sono fuggiti, ma noi eravamo fermi là.

Dopo arrivato a Bolzano il 22 dicembre alla sera, ci hanno tagliato i capelli, ci hanno mandato nelle baracche. Prima di noi erano arrivati quelli di Bologna, che venivano dalle carceri di Bologna quel giorno.

Il giorno dopo ho trovato degli amici, c’era il mio capo Costa qui di Bologna, c’erano degli amici di Milano che conoscevo da qui perché eravamo un po’ parenti, erano del mio paese.

Dopo tre giorni ho fatto la mano ad andare fuori a lavorare perché c’era un Laimi di Ferrara. Io speravo di andare a lavorare nella Imi di Ferrara perché lì avevo degli amici. Invece mi hanno mandato a fare il manovale, a chiudere una caserma. Portavo su dei massi di pietra che chiudevano la finestra per fare una prigione. Era una caserma militare. Lì a Bolzano, sempre vicino Bolzano, andavamo a piedi alla mattina e tornavamo alla sera.

D: Ti hanno immatricolato a Bolzano?

R: Sì, 777 come eravamo là nelle carceri di Torino, portavo lo stesso numero. Ci hanno dato una tuta di tela, poi ci hanno mandato fuori a lavorare.

D: Ti ricordi il numero o la lettera del tuo blocco di Bolzano?

R: Non mi ricordo bene perché era dentro subito lì dietro, adesso il blocco non me lo ricordo più. Davanti nel cortile c’era il blocco E dove c’erano le donne. Noi eravamo dietro, la casermetta, il numero non me lo ricordo.

D: E lì a Bolzano hai fatto solo quel lavoro lì di manovale?

R: Solo quel lavoro lì.

D: E sei rimasto fino a quando a Bolzano?

R: Fino alla partenza per Mauthausen.

D: Cioè quando è avvenuta la partenza?

R: E’ arrivata l’8 gennaio, siamo arrivati l’11 gennaio a Mauthausen. Siamo partiti l’8 gennaio.

D: E hanno chiamato tutto il tuo gruppo?

R: No, io avevo chiesto di andar fuori a lavorare il mattino perché sapevo della partenza. Allora il mio capogruppo era Costa qua di Bologna, l’avvocato Costa. Ho fatto chiedere al capo campo se potevo andare fuori a lavorare, chissà che mi scansa la partenza, ho tentato di scansare la partenza.

Infatti, mi hanno mandato fuori a lavorare. Hanno detto alle due partono, erano già le cinque, ero già contento, alle cinque rientravo, sono già partiti, mi sono salvato la partenza.

Invece mancavano dieci minuti alle cinque, si è fermato un camion lì davanti dove lavoravo, hanno chiamato il mio numero. “Sali sul camion”. “Dove mi portate?” “Ti portiamo alla caserma lì al campo che ti prendiamo la tuta e poi ti portiamo in stazione”.

C’era un tedesco, gli ho chiesto dove mi portavano. “Qui vicino, qui in Austria a Mauthausen ti portiamo”. Io non sapevo cosa voleva dire Mauthausen in quel momento. “Ti portiamo qui vicino a Mauthausen”.

Mi hanno portato in caserma, mi hanno preso la tuta. Io avevo un paio di pantaloni e una maglietta. L’avevo messo su alla braga perché era piena di pidocchi, era nevicato, era sotto la neve. “Io sono nudo”. “Via, fuori nudo come sei”. Allora son corso a prendere i miei pantaloni di tela, le mie magliettine.

D: Allora, sono venuti a prenderti mentre tu eri a lavorare?

R: Ero a lavorare. Mi hanno caricato in fretta, ci hanno portato al campo, ci hanno preso la divisa e poi ci hanno caricato di nuovo e ci hanno portato in stazione. Non era ancora partita la tradotta, ne mancava ancora otto o dieci, ci sono venuti a prendere sul lavoro.

Verso le cinque e mezzo, le sei di sera siamo partiti. Quando sono salito sul treno i miei amici, i miei compagni mi hanno chiesto da dove venivo, cosa facevo. “Io ero un partigiano”. “Allora sei disposto a fuggire?” “Come fuggiamo?”

C’era una dottoressa di Milano, mentre ci ha salutati ci ha messo due scalpelli e martelli in segno dei milanesi. Avevamo uno scalpello e un martello; abbiamo tentato di aprire un buco lì vicino a dove si poteva aprire il vagone.

Abbiamo cominciato a lavorare. Prima di arrivare al Brennero dovevamo rompere il buco. Infatti, abbiamo fatto questo. Una parte cantava, una parte bucava, ma su con noi nel vagone c’erano due slavi.

Un bel momento siamo arrivati in una stazioncina, noi avevamo già fatto il buco, pronti come partiva ad aprire e fuggire prima che prendesse la corsa. Ma questi due slavi si sono affacciati al finestrino e hanno fatto la spia.

Io il tedesco lo capivo perché ero già stato sei mesi in Germania. Ho detto: “Ragazzi, hanno fatto la spia che abbiamo rotto il vagone”. Grandi colpi, i tedeschi urlavano di qua e di là. Sono entrati nel vagone. Io sapevo quello che facevano, mi sono buttato a terra subito, ci uccidono.

Invece un ragazzo di diciassette anni, a lui non importava niente, è andato lì, io non sono un partigiano, mandatemi indietro, mandatemi a casa. Gli hanno spaccato le ossa a forza di botte. Poi hanno voluto sapere chi stava bucando. Erano due ragazzi milanesi. Gli hanno dato tante botte col caricatore del mitra; gli hanno tutti scarnati i nervi delle braccia. “Adesso rompetele”. Ma non avevamo niente, un po’ di carta igienica, li abbiamo impaccati così e abbiamo continuato il nostro viaggio dal giorno 8 gennaio, siamo arrivati l’11 a Mauthausen. Al mattino, siamo arrivati l’11, senza mangiare, senza bere, senza niente.

Quando ci hanno fatto scendere dal vagone alla mattina presto ci hanno dato una pagnotta di pane che era tutta bagnata e due o tre sardine di sale. Ma io avevo ventuno anni e la fame c’era.

Ho spezzato la mia pagnotta sulla ferrovia perché era gelata e poi mi son messo a mangiare. Abbiamo continuato, in poco tempo l’ho mangiata. “Non mangiare, non mangiare, è tutta gelata, ti fa male. Quando saremo al campo.” La fame a ventuno anni è grande. Io mangiavo.

Poi quando abbiamo cominciato a salire il Danubio a me piaceva cantare. Lì c’era anche un vecchietto con una valigia che era il Senator… come si chiama, quello che ha fatto il libro “Si fa presto a dire fame”. Come si chiamava quel senatore lì?

D: Caleffi.

R: Caleffi, c’era il senator Caleffi, io non conoscevo questo vecchietto, aveva una valigia, gli ho dato un aiuto a portare la valigia, gli ho detto, “Cantiamo, ragazzi, cantiamo”. Lui l’ha messo anche su un libro che c’erano quegli alpini che cantavano.

Ma nessuno più ormai aveva voglia di cantare. Quando abbiamo cominciato la salita del Danubio tutti hanno smesso di cantare. Io ho portato la valigia del senator Caleffi per un pezzo fino a là.

Quando siamo arrivati dentro nel campo, ci hanno fatto fare un bel giro davanti a dove c’erano i bagni, ci hanno fatto buttare via le valigie, gli orologi, tutto quello che contenevano, tutto in terra.

Poi ci hanno messi tutti in fila per il bagno. Io ero in fondo. Tutti i miei amici: “Vai giù, vai giù”, perché pioveva. Io senza una maglietta, nudo così, mi facevano compassione gli altri. Il secondo scaglione sono fuggito giù anch’io.

Non l’avessi mai fatto perché quando sono stato là sotto, nessuno se n’era accorto. Ci hanno dato il rasoio dai capelli fino alle unghie dei piedi, tutti col rasoio così che faceva sangue. Tutti col rasoio dalla testa fino alle unghie dei piedi, tutti i peli.

Poi ci hanno dato una pennellata con della roba che bruciava e poi dopo sotto il bagno, acqua bella calda, bollente che si stava bene, poi acqua fredda e noi siamo saltati fuori, fuori, fuori.

Mentre si usciva ci davano due pezzi, un paio di mutande, una camicia, una magliettina, due pezzi, fuori, fuori, vestirsi in mezzo alla neve, fuori perché non c’era tempo da perdere. Siamo andati fuori, ci siamo vestiti un po’ lungo la scala, un po’ mentre uscivamo, un po’ fuori.

Poi abbiamo aspettato che facessero il bagno tutti gli altri, poi siamo andati nelle baracche, là fuori in mezzo alla neve, non so quanti gradi ci fossero, 12, 13, 14, 15 gradi sotto zero. Nevicava, c’era la neve in terra e poi ci hanno portato nelle baracche della quarantena.

Qui abbiamo fatto quaranta giorni di quarantena. Tutte le mattine si andava fuori a lavorare, prendevano cinque, sei, sette di qua e di là, li mandavano fuori a lavorare. Dopo tre giorni sono andato fuori a lavorare, a spalare la neve, no, a portare via dei sassi che portavano, alcuni dalla cava li portavano lì vicino, dietro noi c’era un muro con due baracche, non entrava nessuno, entravano soltanto i tedeschi, l’ufficiale tedesco, SS.

Non si sapeva cosa c’era perché lì delle mattine sono andati a portar via dei morti tutti massacrati, li portavamo davanti al forno crematorio. Ci sono andato per una mattina o due anche.

Quelle mattine lì mi portavano fuori a lavorare con quei sassi lì. Arriva uno. Io avevo un paio di mutande senza cintura, senza niente, mi cadevano sempre giù, ogni sasso mi cadevano sempre giù le mutande. Una botta, una legnata sul sedere. Arriva uno, “Dammi uno”. “Prendi questo maccherone italiano”. Ha preso questo maccherone italiano che ero io. Eravamo chiamati maccheroni noi.

“Vieni con me”. Con una carrettina a due ruote. Siamo partiti. Con una mano portavo la carretta, con l’altra mi tenevo su le mutande. Quando siamo arrivati lì, siamo andati a prendere gli abiti che erano arrivati dei borghesi, perché gli abiti dei borghesi dovevano andare in disinfezione. Siamo andati lì e quello che mi portava era uno spagnolo.

Ha cominciato a parlarmi, a chiedermi da dove venivo. Io gli ho detto che ero italiano; si capiva abbastanza bene lo spagnolo. C’era una cintura, l’ho presa subito. Lui aveva già fatto per darmi le botte. Ho detto: “Guarda, mi cadono i pantaloni”, le mutande allora mi ha lasciato prendere la cintura.

Tutti questi abiti, in quel momento c’era un carico, c’erano degli ebrei, c’erano dei bambini, delle donne e degli uomini, perché eravamo in gennaio, ad Auschwitz non potevano più entrare perché Auschwitz era già stata invasa.

Li hanno fermati lì, poi li hanno divisi, i bambini da una parte. Era una cosa che spezzava il cuore, vedere questi bambini, prenderli dalle madri, le madri che urlavano, i bambini che urlavano e loro gridavano: “Giudei, giudei”, delle botte.

Li hanno portati via. Io poi ho portato via quegli abiti, li ho portati fuori dal campo, Io ero nudo con un freddo.

Poi il giorno dopo si è fotografato il giorno prima, siamo stati fuori tutta la giornata che ci fotografavano uno per uno. Io non so il motivo, uno per uno, ci fotografavano uno per uno. Siamo stati fuori dalla mattina fino alla sera. Alle cinque, siamo rientrati alle cinque, con un freddo, ci ammucchiavamo, ci facevamo i massaggi, qualcuno sveniva in terra. Tutto il giorno così.

D: Quando ti hanno immatricolato lì a Mauthausen?

R: Quasi subito, due giorni dopo.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: Sì: 115.616.

D: E lì a Mauthausen fino a quando sei rimasto?

R: Per una ventina di giorni, venti, ventidue giorni. Qualcosa così, poi siamo andati a Gusen.

D: Quale Gusen?

R: Uno.

D: E da Mauthausen a Gusen con cosa vi hanno portato?

R: A piedi.

D: A Gusen ti ricordi il blocco dove ti hanno messo?

R: Sì.

D: Che blocco era?

R: Il blocco 40, adesso ho un poco dimenticato. Aspetta che mi ricordo…

D: Se te lo ricordi dopo. A Gusen 1 cosa facevi?

R: La Styr.

D: Lavoravi?

R:Alla Styr.

D: Ed era esterna al campo?

R: Sì, esterna, ma si andava a piedi. C’erano circa duecento metri, neanche.

D: E tu cosa facevi?

R: Facevo il tornitore e il fresatore.

D: La Styr costruiva per l’industria bellica?

R: Sì, mitragliatrici e fucili.

D: E tu eri addetto alla costruzione di armi?

R: Sì, la costruzione delle armi.

D: Ci spieghi una giornata di lavoro?

R: Sì. C’erano due turni, dalle sette di mattina alle sette di sera. O dalle sette di sera alle sette di mattina. Noi facevamo i turni. Alle sette di mattina noi uscivamo dal campo per andare al lavoro, gli altri venivano fuori dalla fabbrica e rientravano. Ci davamo il cambio lungo la strada. Si cominciava il lavoro. Mezzogiorno un mestolo di zuppa. Mezz’oretta, un mestolo di zuppa, bisognava partire di nuovo. Alle sette di sera si rientrava.

Lo stesso ci si dava il cambio lungo la scalinata, usciva il turno, noi scendevamo. Sempre così.

D: Ma le officine erano dentro in capannoni?

R: Tutte baracche di legno. C’erano tre, quattro file di macchine. Tre, quattro file di macchine ogni baracca e lavoravamo in settanta, ottanta, cento dentro ogni baracca.

D: Una volta che i pezzi erano finiti… Scusa un attimo. Stavi dicendo?

D: Ah, certo. Quando eravamo in quarantena quelle due baracche che erano dietro noi una notte s’è cominciato a sentire sparare di qua. Allora il Kapò che era spagnolo ha detto: “Guai chi si muove. Guai chi si muove”. Al mattino abbiamo preso, abbiamo portato fuori. Prender su tutti quei morti che avevo visto il gesto che avevano fatto, hanno buttato e che c’era la corrente. Hanno preso i pagliericci li hanno buttati sui fili per poi fuggire. Era una carneficina perché il sangue correva, ne hanno uccisi un mucchio. Poi dicevano che li avevano presi tutti.

Là nel cortile li prendevamo e li portavamo nel forno crematorio, non dentro il forno crematorio. Lì davanti c’era una scaletta, li mettevamo lì davanti, loro li prendevano dietro. Li portavamo lì davanti, tutti insanguinati. Ho visto cosa c’è in quelle baracche. Davano da mangiare come davano da mangiare ai maiali. Gli vuotavano la zuppa lì dentro, loro dovevano mangiare con la bocca così. Ho visto tutto.

Dopo otto, dieci giorni ci siamo vestiti e ci hanno portato a Gusen a piedi. Siamo arrivati a Gusen. Lì al mattino ci hanno dato tre numeri, uno al braccio e due ai pantaloni. Prima ne avevamo soltanto uno al braccio. Invece lì ci hanno dato i tre numeri, uno al pantalone, uno alla giacca e uno al braccio.

D: Ma sempre il tuo numero di Mauthausen?

R: Sempre il numero di Mauthausen 115.616. Ci hanno dato i tre numeri. Lì abbiamo cominciato il lavoro. Io sono stato fortunato, sono andato alla Styr. Una grande paura perché io non avevo visto mai una fabbrica, ero un contadino che lavorava in campagna.

Quando sono arrivato là solo con il rumore io stavo impazzendo. Fortunato che ho trovato un russo che mi ha voluto bene subito, mi ha insegnato il trucco perché se rompeva più frese al giorno, era sabotaggio, mi facevano male. Al mattino lui ha rubato tre frese al campo, ha aperto gli sgabuzzini, poi ha messo sotto il pattume e diceva, quando ne rompo una ne metto su un’altra.

Allora ho preso la mano, andavo bene. Poi lui ha preso la mano e andava abbastanza bene. Quel russo è stato la mia fortuna. Quel ragazzo russo. Lì incominciavamo il lavoro dalle sette del mattino alle sette di sera, c’era il turno, un mestolo di zuppa a mezzogiorno e così.

D: Atos, quando le parti che voi facevate erano finite, chi le portava via? Con cosa venivano portate via?

R: Le portavano fuori, lì c’erano i prigionieri che erano addetti al trasporto. Lì fuori c’è anche il mio amico di Bologna, avvocato Costa. La sera quando faceva buio veniva in baracca, veniva là un po’ a scaldarsi. Se lo vedeva il Kapò erano botte. Alle volte doveva fuggire di corsa perché se arrivava il Kapò lo picchiava. Lui era al trasporto fuori alla pioggia o al vento. Invece noi eravamo coperti almeno.

D: Se tu ricordi Atos, lì a Gusen 1 hai visto dei treni, c’erano dei treni?

R: C’erano i trenini che andavano su alla cava delle pietre e che andavano sotto le gallerie. Quando suonava l’allarme, ci facevano andare tutti dentro una galleria di corsa a piedi. Noi ci andavamo volentieri, perché quando era andata via la neve c’era un prato con l’erbetta. Quello era il nostro mangiare. Tutti correvano volentieri. Ero sempre là davanti perché lavoravo alla quarta baracca, andavo a Styr, c’erano trenta baracche, ero alla quarta, sono stato fortunato, quando suonava l’allarme, fuggivo e potevo mangiare un po’ più d’erba degli altri, ero tra i primi.

D: E quando tu sei rimasto a Gusen 1 hai sempre lavorato lì alla Styr?

R: Sempre lavorato alla Styr.

D: Fino a quando?

R: Fino al giorno della liberazione, al 5 alla sera. Il 5 maggio alle cinque alla sera.

D: Il tuo lavoro esattamente com’era? Cos’era?

R: Il tornitore percussori delle mitragliatrici oppure il mio lavoro è sempre quell’incastro … espulsore della cartuccia. E’ sempre stato quello. Lavoravo su due macchine.

D: E dovevate fare un certo quantitativo?

R: 700 pezzi al giorno. Si facevano sempre continuamente, non si poteva perdere tempo a parlare, discutere. Uno doveva andare sempre avanti a continuare il suo lavoro.

D: C’erano anche dei civili lì nella fabbrica?

R: Civili, c’erano più che altro, io vedevo solo partigiani. Non so se ci fossero dei civili. Il mio capoblocco era un tedesco, triangolo verde, un criminale tedesco, capoblocco.

D: No, dico in fabbrica a lavorare?

R: Lì non si può tanto parlare. Non si poteva parlare in più di tre. Se si parlava, al massimo con quello con cui lavoravi lì perché non si poteva uscire o fermarti nel gruppo a parlare. Anche quando ci si fermava la mezzora per mangiare, tu dovevi mangiare, parlare al massimo col tuo vicino, non si poteva parlare in più di tre.

Era difficile, perché anche al mattino prima di andare al lavoro c’erano due ore dalle cinque, un po’ fuori fino alle sette. Lì stavi in fila un’ora, un’ora e mezza sotto la pioggia. Per andare a lavorare, ci dovevamo mettere in coda, come quando rientravamo che anche i morti dovevano sfilare. Quelli che morivano, li facevi sfilare per la conta, non doveva mancare nessuno. Lì venivano contati tutti. Lì ho avuto tre episodi a Gusen.

Mi sono salvato dalla morte tre volte, il destino è così. Mi sono salvato quando mi hanno condannato gli artefici del Duce alla fucilazione là a Ponti in provincia di Cuneo che sono arrivati i tedeschi, mi hanno portato allo stadio e poi al carcere di Torino. Quella è stata la prima salvezza.

La seconda un giorno, non so se fosse una festa internazionale, dovevano uccidere due per baracca. Quel russo che lavorava con me, lui sapeva tutto quello che doveva succedere nel campo. Io non so chi fosse, lui sapeva sempre tutto.

Dice: “Stai attento quando rientri questa sera, ne devono uccidere due per baracca”. Allora io prima di entrare faccio un giretto. Infatti c’era una baracca alla 35 che era un criminale, era là che uccideva a furia di botte. Io stavo a guardare, dovevo pur rientrare. Se vedono che manco e mi cercano, vado alla finestra, dormivo davanti alla finestra.

Eravamo un gruppo di italiani, eravamo quattordici, quindici italiani. Allora busso nel vetro. “Cosa fai lì fuori? Vieni dentro, non succede niente”. Vado dentro, come rientro c’è il Kapò, mi preleva.

C’era un ragazzo di Asti, ha trovato la scusa che mancava un po’ di rosso dal triangolo rosso. Era una scusa perché avevamo il boccettino, potevamo darlo. Quel ragazzo di Asti viene a prendere le mie difese, “Vai via, vai via che devono ucciderne due, che non ti prendano. Ne devono uccidere due oggi ogni baracca”.

Invece ne hanno preso un altro, un russo e mi hanno portato via. Fuori dalla baracca un russo tutto infangato. Il destino lo manda dietro di me, prende il russo. Mi porta nella baracca dove andavamo a fare il bagno la mattina, dove c’erano i gabinetti.

Li ha legati con una corda dietro le mani, poi ha tirato su le travi, tirati così vivi, lasciati morire così. Si muore lentamente. Alla notte quando sono andato in bagno erano attaccati e guardavo che doveva essere la mia fine, quella doveva essere la mia fine. Anche quella volta lì m’è andata bene.

Il 22 aprile quello russo mi dice: “Stai attento, è arrivato il comandante nuovo. Quegli scheletri che sono in infermeria non vuole lasciarli agli invasori, agli americani”. Allora dico: “La camera d’aria l’abbiamo, si dà una gonfiatina, prendo una pompa si dà una gonfiatina, diventiamo belli grossi”. Si scherzava.

Alla sera quando sono rientrato avevamo cinque, sei, sette amici in infermeria. “Dai che andiamo a vederli”. Le due infermerie erano due baracche, si era formata una sola, tutti cadaveri. Sono andato a vedere tutti questi cadaveri, ma una cosa incredibile, non si può descrivere. Tutti questi scheletri, uno che morsicava l’altro, che era diventato pazzo. Una cosa… Io sono venuto via subito.

Alla notte verso le undici sono uscito a prendere un po’ d’aria. Quando stavo per rientrare davanti all’infermeria c’era tutti i tedeschi con gli elmetti e le maschere a gas davanti alle finestre chiuse, hanno dato il gas a tutti.

La mattina quando sono uscito sono andato a vedere, hanno dato il gas a quattrocento, quattrocentocinquanta, non so, una baracca, nella baracca stessa hanno dato il gas. A più di quattrocento, quattrocentocinquanta hanno dato il gas nella baracca.

Dopo quei giorni i forni crematori, perché a Gusen c’erano due forni crematori, andavano giù la notte per bruciarli; dovevano eliminarli.

Il 27 aprile io monto al mattino, quello che ha montato alla notte si conosce che la morte è il suo lavoro, tutti pezzi sbagliati. Dico col Kapò ci sono tutti i pezzi sbagliati. Meglio, dice, che tu sei un italiano, tu vai al Krematorium.

Quello era un polacco, per lui era una soddisfazione mandare al Krematorium un italiano. Allora non li poteva vedere nessuno gli italiani. Si sfregava le mani, questa volta vai proprio al Krematorium.

Il giorno dopo c’era una SS che quando facevamo l’appello a mezzanotte anche c’era quella SS lì, un ragazzo grande, lui non parlava mai. Una notte s’è rotta la cinghia… è quasi mezzanotte, c’è l’appello, vai, vai, il Kapò, quando diceva vai doveva andare.

Quella notte lì veniva un’acqua, una pioggia, lo fai per baracca. Quando arriva fuori nel cortile, la mia baracca è la quarta, lì c’è già la SS che mi aspetta. Via di corsa.

C’era un Kapò che era un polacco, un uomo che era centoventi chili che ammazzava la gente come niente, ammazzava anche i suoi paesani, non importava niente. Anzi un giorno c’erano due che dicevano: “Quando andiamo a casa te la facciamo pagare”. Li ha uccisi tutti due a colpi di zoccoli, due polacchi suoi amici. Era un criminale.

Quando arriva dentro questo criminale mi salta addosso, botte. Il tedesco dice, “Gut, basta”. Mi ha salvato il tedesco, mi ha salvato dalle botte. Quella notte lì è andata così.

Il 27 aprile come già detto viene questo sabotaggio. La mattina dopo il 27 aprile arriva questo tedesco alle cinque di sera, il Kapò dice: “Guarda”, mi picchia in una spalla, mi dice “Vai, vai che c’è il tedesco che ti aspetta”. C’era quel ragazzo con gli stivaloni sulla porticina che mi aspettava.

Mi porta davanti a quel comandante nuovo che era arrivato sei giorni prima. La paura che io avevo. Quando sono entrato comincio a parlare un po’ in tedesco, un po’ in italiano. “Mi parli italiano che io so bene l’italiano”. Era un italiano di Bolzano, dell’Alto Adige, uno dei nostri italiani.

Ho pensato, per quello forse mi ha salvato quella sera, perché ero italiano anch’io. “Parla con l’italiano”. “Guarda, quando sono rientrato stamattina tutti i pezzi erano sbagliati. Si conosce che quello che lavorava con me è morto, bisogna che sia morto, perché sbagliare tutti i pezzi, ha lasciato un mucchio, c’erano ancora tre pezzi da rifare, bisogna che sia morto. Il Kapò mi ha detto di lasciarmi andare così mi manda al forno crematorio se ci sono i pezzi sbagliati, prendo la colpa io, invece io non ho nessuna colpa, anzi ho lavorato tutto il giorno per disfare il mucchio, anche per fare tutti i pezzi ho lavorato”.

Lo dice al comandante, il comandante dice: “Vai a vedere se è la verità”. Tutti i morti, non scappava un morto, venivano registrati tutti i morti, registrati uno per uno, lì non scappava niente. Se mancava uno si stava fuori finché non veniva ritrovato.

Infatti, è andato a vedere, dice, “Sì, kaputt”. Mi ha detto: “Puoi andare”. Siamo usciti. Mi ha messo la mano sulla spalla. “Di dove sei?” “Di Ferrara”. “Ferrara è stata occupata, liberata dagli americani”. Dico: “Almeno la mia famiglia si fosse salvat!”. “No”, dice, “non c’è stata nessuna resistenza, tutto è andato bene”. Dico: “Lei lo sa che è tanto tempo che lotto per vivere? Ringrazio per quella sera che mi ha salvato dalle botte”. “Lascia stare. Mi raccomando, tra pochi giorni vedrai che ce la fai e andiamo a casa”.

Il 27 aprile ho saputo che Ferrara era già libera, che l’Italia era già stata liberata.

L’Italia è libera, l’Italia è libera, allegria con tutti i miei amici che lavoravano là dentro. Siamo stati liberati il 5 maggio alle cinque di sera. Quelle notti quando uscivo di notte per andare in bagno mi fermavo a guardare quel forno crematorio che buttava fuori quelle lingue di fuoco, un po’ si sentivano delle cannonate, un po’ speravo che arrivassero presto. Sono arrivati il 5 prima delle cinque di sera.

D: E dov’eri tu?

R: A Gusen. No, ero in riposo, non ero a lavorare. Eravamo lì che si doveva fare l’appello che si doveva andare a lavorare. Gli altri stavano lavorando, lavoravano, ma non c’erano più le SS, erano due giorni che erano fuggite. C’erano soltanto quei vecchietti della Wermacht e i Kapò che comandavano.

D: E cos’è successo alla liberazione?

R: Alla liberazione, quando ci hanno detto “Ci sono gli Americani, ci sono gli Americani”, alè, specialmente sono partiti i russi, io mi sono nascosto perché non mi prendessero per sbaglio, mi sono salvato fino adesso, mi sono ritirato nella mia baracca a guardare.

I russi e quegli altri sono corsi al forno crematorio, tutti quei Kapò che hanno trovato li hanno fatti fuori. Dopo un’oretta sono uscito, c’erano morti dappertutto, tutti i Kapò, specialmente i russi, addosso, li hanno massacrati tutti, tutti i Kapò sono stati massacrati. Sono stati massacrati tutti.

Dopo lì con delle carrette li hanno presi tutti, in un’oretta e li hanno portati fuori. Hanno chiuso la porta, non sono potuti rientrare subito gli americani finché non hanno ucciso tutti i Kapò, dopo hanno aperto la porta, sono entrati gli americani a girare. Anzi dopo che è entrato un italo-americano, abbiamo dato l’assalto alla cucina, l’assalto alle patate, chi bolliva di qua, chi cucinava qualcosa di là.

Chi ha mangiato molto è morto il giorno dopo. Ne sono morti un mucchio. Io il giorno dopo sono andato al forno crematori, ce n’era un mucchio, oltre quattrocento, perché c’erano dei miei amici di san Giovanni Persiceto che cercavano i fratelli, perché c’erano delle famiglie intere.

Poi sono andati a vedere questi cadaveri per trovare i loro fratelli, non li hanno trovati. Sono stati bruciati, io sapevo che nell’infermeria erano già stati bruciati.

C’era uno che cercava il fratello, un ragazzo di 18 anni, io pensavo che fossero stati entrambi bruciati quella notte che hanno dato il gas, invece uno s’è salvato dopo che è venuto a casa, non era neanche più normale.

Invece quel ragazzo di 18 anni è morto dopo là. Dopo fuori dal campo hanno fatto un’infermeria gli americani, un capannone per prendere i malati. Dopo che seguivano noi c’erano due dottori, un dottore che non so come si chiama, un dottore di Modena anziano che veniva nelle baracche, perché noi italiani eravamo tutti assieme, eravamo andati insieme ai russi.

Lì i malati venivano a prenderli, venivano nelle baracche quelli che avevano bisogno di essere curati, gli urgenti. Dopo trovai un italo-americano la mattina dopo, voleva vedere tutto il campo. Gli ho fatto vedere il forno crematorio, la ghigliottina dove li attaccavano, dove li mettevano col laccio al collo, ha preso giù le fotografie.

“Venite a trovarmi, sono a Gusen paese, più avanti. Vieni a trovarmi al mattino che ti do tutto quello che vuoi da mangiare”. Io avevo dei buchi così dappertutto, nella schiena, buchi nelle gambe perché dormivo sulle assi, nelle gambe delle piaghe così, dei buchi avevo dappertutto. Sono andato a pesarmi, ero 37 chili vestito, con i vestiti, con due zoccoli, con gli scarponi, tutto. Il mio peso era 35 chili al massimo. Quando mi hanno arrestato ero 102 chili.

Il mattino dopo sono partito, sono andato a trovare quell’italo-americano. Quando sono arrivato era lì che consumava il rancio. Allora mi sono nascosto. Fette di pane, i pezzi di carne in una botte. Come ho visto che non c’era più nessuno, sono andato nella botte per cominciare a mangiare. Mi sono visto circondato.

Allora ho cominciato a dire il nome di quel sergente italiano. Sono andati a chiamarlo. “Cosa fai? Non vedi che sono rifiuti?” “Rifiuti questi! Non mangio da sei mesi, non vedo un pezzo di pane, solo rape bollite”.

“Adesso vieni con me, ti porto fuori io”. Mi porta fuori dove facevano il mangiare loro. Due gavettoni, mi porta fuori della carne, ma per me era porcheria, era salata. Erano sei mesi che mangiavo queste rape. Per me era carne salata che restavo a bocca aperta. Dicevo, “Ma cosa mangiano, così salato?” Invece era normale, era normale, ero io che mi ero abituato a mangiare solo delle rape. Per me un po’ di salato mi sembrava una cosa salata.

Allora mi ha dato del pane, dei salami. Mi ha caricato. Sono andato dentro con cinque chili di zuppa, con lo zainetto di pane, di salame, di tutto. “Vienimi a trovare che ti do tutto quello che vuoi”.

Poi mi ha presentato il suo generale che mi ha dato anche un pacchetto di sigari. Poi ha raccontato tutto quello che aveva visto nel campo al suo colonnello, il colonnello non era ancora venuto a vedere.

Così dopo sono rientrato. Dopo ho messo su il burro, ho messo su un fornellino con un tegamino. Di notte mi svegliavo, mettevo del pane a friggere, la margarina, lo mangiavamo. I due o tre amici uno di Parma che gli ho salvato la vita, era in infermeria. Non era più capace di alzarsi. Se tu lo prendi su tutte le sere e poi lo fai camminare, è tornato a casa. E’ morto per un brutto male a Parma.

Due o tre di Milano, più anziani di me che erano dell’età di mio padre. Lì c’erano tutti quelli di Milano. C’era il professor… quello dei succhi, delle doghe di Milano… Carpi, c’era Carpi, c’erano due avvocati di Milano, c’era un certo Rossi, c’erano tutti quelli lì.

C’era Pedrazzoni che ha fondato il Comitato di Liberazione lì, tutti quei tesserini che abbiamo li hanno firmati loro, avevamo un tesserino noi.

D: Atos, scusa, a proposito di tesserino, al triangolo. Tu dicevi che avevi il triangolo rosso. Avevate dell’inchiostro?

R: Sì, se per caso andava via, nel triangolino rosso in mezzo salta via il triangolo, noi avevamo un pennellino dove c’era il barbiere, perché ogni otto giorni ci davano il rasoio sulla testa, una riga sulla testa, erano obbligati a darla.

Lì c’erano degli spagnoli, c’era quel ragazzo di diciassette anni, … qualche mestolo di zuppa in più, gli spagnoli perché facevano quel lavoro, anche quel ragazzo che gli dava una mano, qualche mestolo di zuppa in più gli davano.

Avevamo un vasettino di rosso se a uno saltava via lo smalto, si doveva dare subito lo smalto che saltava via. Lì saltava via lo smalto soltanto in un angolino. Era stata una scusa quella. Questa è una scusa perché doveva uccidere due per baracca.

D: E tu a Gusen uno dopo la liberazione fino a quando sei rimasto?

R: Siamo rimasti un quattordici, quindici, venti giorni. Poi dopo ci hanno portato a Mauthausen perché lì sono venuti i borghesi. Anzi, noi abbiamo fatto una rivolta. Non volevamo andare a Mauthausen. “Portateci al confine d’Italia e poi portateci a casa. Portateci a Bolzano, quando siamo sui camion portateci a Bolzano.”

Invece no, abbiamo fatto una rivolta perché non volevamo andare. Sono venuti gli americani con l’elmetto in tasca, un maggiore italo-americano che era un maggiore medico, ha fatto un grande discorso. C’era l’avvocato Costa. Dice: “Noi vogliamo andare in Italia perché noi siamo quei partigiani. Dicevate partigiani sabotate le ferrovie, fate sabotare qui, fate sabotare là, c’è andata male, siamo qui per quello”.

“Ma cosa volete voi Italiani? Vent’anni fa avevate bisogno degli americani per liberarvi, adesso dopo vent’anni… Fra vent’anni avrete ancora bisogno degli americani. Fuori”. Ci hanno caricato sui camion, ci hanno mandato a Mauthausen.

Dopo circa un mese che eravamo a Mauthausen il 2 luglio siamo venuti in Italia. Io sono venuto a casa il 2-3 luglio. Il 2 luglio sono arrivato a casa.

D: Ma come sei arrivato? Come hai lasciato Mauthausen?

R: Ci hanno portato col camion e caricati, ci hanno portati alla stazione. Alla stazione ci hanno caricato su un treno, quando è arrivato ad Innsbruck s’è fermato. Poi siamo partiti e siamo andati a Bolzano. Da Bolzano poi c’erano i camion che portavano alle città. C’erano i camion di ogni paese, si saltava su, ci caricavano, ci portavano a casa.

D: E sei arrivato a casa a luglio quindi?

R: In luglio.

D: A Ferrara?

R: A Ferrara, il 2 luglio.

D: Ascolta, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano, a Mauthausen e a Gusen 1 hai visto per caso se c’erano anche dei religiosi?

R: Eh, con me c’era il prete, don Narciso. Ce n’erano due. Don Narciso, quello di Milano, poi ce n’era un altro, non mi ricordo più come si chiamasse. Con don Narciso, eravamo sempre insieme. Anzi, una sera lì a Mauthausen, quando sono andato a Mauthausen il primo giorno ci hanno dato un pezzo di pane e della zuppa a volontà con delle patatine con semolino, non erano proprio rape, semolino.

Io che ero già stato militare in Germania sapevo che quello era un rancio per i militari. Allora dico con l’avvocato Costa e gli altri ragazzi, se ci danno questa roba siamo dei signori, gli ho detto.

Infatti l’avvocato mi dice sempre, avevi ragione. Non abbiamo più mangiato di quel semolino e patate. Si mangiava senza cucchiaio e ci hanno dato un bel pezzo di pane.

Io sono andato a Gusen 1, don Narciso è andato a Gusen 2. Mi sono informato, lui portava gli occhiali. Siccome sapeva il tedesco, si procurava qualche giornale. I Kapò l’hanno visto con un giornale in mano, gli hanno dato tante botte, via gli occhiali, non ci vedeva più. Il mio amico che era lì, partigiano con me, lui l’ha visto, l’ho visto morire, è morto a Gusen 2, è morto.

Tibaldi Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Italo Tibaldi, sono nato il 16 maggio 1927 a Pinerolo in provincia di Torino. Mio padre era ufficiale di Cavalleria alla scuola di Cavalleria di Pinerolo; dopo il disgregamento dell’esercito mio padre si unì alle formazioni della Resistenza sopra la Val Maira nel cuneese. Io sono diventato automaticamente staffetta, andavo su Torino per riferire le attività della Seconda Divisione Alpina Giustizia e Libertà della Valle Maira.

L’impatto che mi ha portato all’arresto e alla deportazione è avvenuto il 9 gennaio 1944 quando scendendo a Torino per riferire a quelli che avevano la gestione anche economica della struttura sono stato fermato su una delazione, di cui sarò poi informato al rientro, pertanto, il mio arresto è stato molto semplice perché a sorpresa la cosa diventa molto semplice.

Devo dire che il fatto che il mio arresto abbia comportato delle conseguenze successive molto pesanti non era assolutamente nei miei ragionamenti; non pensavo assolutamente a quello che poteva avvenire, sapevo che scendendo dalla montagna, avendo questo tipo di discorso potevo essere richiesto e potevo essere approfondito per i compiti che venivano svolti in montagna.

Sono stato trasferito poi all’ufficio della SD dove c’era il capitano Smith che interrogava, era un dipendente delle SS e dopo il suo interrogatorio il giorno 10 sono stato trasferito al carcere Le Nuove di Torino.

D: Italo, scusa, chi ti ha arrestato, erano italiani o germanici?

R: Erano italiani ma in borghese e altra gente in borghese probabilmente germanici.

D: Tu eri armato?

R: Ero armato, avevo una gioiellino che consentiva lo sparo semplice e anche la raffica. Purtroppo non ho mai più trovato una macchinetta del genere, sarebbe stato un simpatico ricordo.

D: Quando dici che sei stato interrogato da Smith, è successo in un posto ben preciso?

R: All’Albergo Nazionale in via Roma a Torino dove ci sono le due fontane, al primo piano. Vi era già un bel gruppo quando sono arrivato, vi erano personaggi di tutte le categorie; questo ha comportato il fatto che per me fosse una grossa novità vedere gente in borghese, mi sembrava che arrivando da una zona di ribelli dovessimo essere tutti pronti, invece, persone molto a modo, così mi sembrava, erano state prese nelle aziende, nelle fabbriche, infatti vedrò poi anche nella deportazione che vi è un mondo sociale molto eterogeneo e tutte le categorie rappresentante.

Il trasferimento dopo l’interrogatorio che avviene alle nove e mezza di sera e che mi lascia abbastanza grondante di sangue perché cazzottamenti vari, mi comporta il trasferimento alle carceri Nuove, verso le nove e mezza, via la cinghia dei pantaloni, la cravatta, le stringhe delle scarpe e vengo inserito al n. 60 del secondo braccio.

Quando entro trovo già altre persone che mi accolgono anche con diffidenza perché così sistemato posso aver fatto pensare che fossi stato buttato dentro come un infiltrato. Quindi, ho vissuto lì tre o quattro giorni, perché sono partito il 13 mattina, in una situazione che era per loro e per me di disagio. Saprò poi che erano due appartenenti al partito comunista, Montrucchio e Porcellana, avevano messo della dinamite sul tratto che viaggiava sulla ferrovia che da Pinerolo portava a Lusello San Giovanni.

A Lusello San Giovanni nella Val Pellice vi era una sezione staccata della Microtecnica, quindi il compito era conseguente.

L’altro era un barbiere il quale dirà: “Non ho fatto niente, magari facendo una barba mi sono espresso in termini negativi e mi sono trovato deportato”.

Il 13 mattina verso le tre e mezza sentiamo aprire le celle, sveglia, alzarsi, scendiamo nell’emiciclo del carcere. Siamo in 45, mancano 5 persone e il fatto che avviene conseguentemente all’attentato fatto da Pesce a un gruppo di ufficiali tedeschi, c’erano stati anche dei morti, hanno calcolato che i cinque ufficiali erano 50 nominativi ed esce un bando dal comando di Torino che dice: “Saranno deportati”. Parlano per la verità di Koncentration Lager, nel senso del concentramento, l’operazione sarà poi un’altra perché diventiamo KZ, un campo di eliminazione, differisco sempre fra eliminazione e sterminio perché considero che l’eliminazione è più quella di Auschwitz che è diretta per nuclei famigliari, Mauthausen è un campo politico per cui il trasferimento ha un significato più pesante, vi è un problema di stare molto attenti nel campo per quanto riguarda le varie nazionalità e dirò anche il perché.

Nel carcere mancano cinque persone e vengono raccolti cinque nominativi che sono cinque ebrei, i due Segre, padre e figlio, Trevese, due fratelli e Diaz che vengono conteggiati quindi abbiamo raggiunto i 50 e il numero è completo.

Si parte per andare alla stazione Porta Nuova dal lato dove sempre vengono caricati i carcerati, sulla via Sacchi. Arriviamo alla stazione e veniamo messi su questo carro bestiame e lì vi era il campo di sorveglianza, la SS di Torino cede alla polizia di frontiera la responsabilità di questo gruppo.

Il gruppo viene messo sul carro bestiame, 25 su un angolo e 25 su un altro angolo, sistemano in mezzo una di quelle panchine che chiamo dei giardini perché hanno la spalliera doppia, due da una parte e due dall’altra con il Machinenpistolen, la voce è che tutti dobbiamo stare seduti, che nessuno si muova perché sono pronti per procedere.

Il treno viene spedito in termini molto veloci perché alle cinque e mezza finisce il coprifuoco, cominciano ad arrivare altri treni, altra gente e questo dà fastidio, questo che parte dal binario 19 è un vagone un po’ strano, ci sono strani destini al binario 19, poi spiegheremo.

Viene agganciato ad una linea per Milano, il percorso lo conosciamo ma lo vediamo quando siamo al Brennero dove arriviamo alla sera, quasi a mezzanotte. Già ci accorgiamo che a destra e a sinistra ci sono le SS che camminano davanti e dietro con i cani, quindi, non è vero che non ci sia stato durante il trasporto qualche tentativo per tentare una fuga.

Vediamo dal trasporto, è composto da gente non giovane, quindi, il ragionamento fatto dal più anziano ha il suo significato, cioè: “Guardate ragazzi che questi hanno i nominativi, le famiglie, fanno rappresaglie per cui è inutile che facciate dei tentativi”.

In questa discussione, “andiamo, non andiamo”, qualcuno dice anche: “Questi quattro ce li mangiamo”. Tenete conto che avevo sedici anni ma avevo lo spirito di chi scendeva dalla valle e avevo questa reazione, io e gli altri anche, quel gruppo di giovani, finisce per accettare questa soluzione e in questo modo passiamo il Brennero ed arriviamo verso le 11,30 del 14 a Mauthausen.

E’ una stazione di confine, una fine corsa, passiamo il ponte sul Danubio e arriviamo a questa stazioncina. Leggere Mauthausen a noi non dice nulla ed io contraddico tutti coloro che dicono “Io ero stato destinato a…” perché non c’è nessuna destinazione in origine, non sai mai dove vai a finire perché possono anche cambiare in corsa, arrivano a Monaco e invece che a Dachau mandano in un altro campo.

Qualche anziano ricorda che nel ’15 – ’18 esisteva già un campo militare, infatti, troveremo poi il campo militare dove ci sono le salme di alcuni militari, le targhette, dove sono stati aggiunti dei deportati che ancora non erano in condizione di essere rintracciati nominativamente.

Penso che l’arrivo a Mauthausen per noi crei non una novità da paese a paese ma crea novità il fatto che dobbiamo attraversarla, cittadina molto bella, oggi lo posso dire perché sono anni che ci ritorno con tanti amici, lungo il Danubio, posizione splendida, noi passiamo in mezzo alla strada centrale e vediamo queste persiane che si chiudono, vediamo questi momenti che ci sembrano strani, noi che siamo scortati stiamo camminando su cinque, questo è il termine che ci porteremo dietro sempre, quando entriamo, quando usciamo siamo sempre per cinque, ed è anche più facile contarci. Il trasferimento avviene partendo dalla stazione per salire su fino al campo, non è molto lontano tuttavia è in salita e qualcuno è in difficoltà, stiamo viaggiando con il sacco, la valigia, siamo a gennaio del 1944, con la neve anche discretamente alta per cui il percorso è difficile, con le scarpine che abbiamo ma sarà altrettanto difficile camminare con gli zoccoli sulla neve perché lo zoccolo in legno si attacca per cui cammini sempre in bilico.

Si arriva a Mauthausen e veniamo dati in consegna alla gendarmeria di Mauthausen. Entriamo nel campo e l’impressione che ho avuto io è quella di essere in difficoltà iniziale che è quella di capire dove sei perché vedi questa fortezza ma non ti rendi conto del significato, non ti rendi conto di queste baracche se non quando vedi venire avanti in mezzo al piazzale dell’appello uno di questi carri da cavalli, con la barra in mezzo tirata da gente che ha la casacca a righe e sopra questo carro sono buttati un mucchio di cadaveri per cui cominci a pensare che la vita sia un’altra cosa. L’impatto che hai iniziale è che potresti anche affrontare in termini di condizioni soggettivamente forti, poi ti trovi in un impatto dove resterai coinvolto, poi lo sarai decisamente e bisogna adattarsi ad imparare la vita del campo, non è più la tua possibilità o la tua soggettività che conta ma sei coinvolto, qui si parla di globalità e in questa globalità ci sono 23 nazionalità, quindi difficoltà di capire, difficoltà di immaginare e attenersi anche a un comportamento che sia consono al campo. Sembrerà strano questo discorso ma se non capisci il campo non ce la fai.

Penso anche che il fatto di avere questo impatto così immediato, così forte crea due momenti, una reazione che è abbastanza naturale, quella di dire ci sono ancora quindi forse reagirò e dall’altra cominci a pensare che devi acconciarti a questa situazione.

Il fatto di arrivare subito a questa scelta è quella che ti dà una motivazione in più per continuare, diversamente, dopo poco tempo ti accorgi che non saresti uscito.

Pertanto, entri, ci siamo messi in queste file da cinque, viene chiamato un interprete, c’è un ragazzo che conosce bene il tedesco, Renato Orniotti, il quale fa da interprete e spiega quello che il comandante riferisce: “Siete in un campo di rieducazione, quindi, saprete che siete entrati da quella porta e quasi sicuramente uscirete di là”. Quando dice uscirete di là istintivamente guardiamo ma forse pensiamo che vi sia un’altra uscita, non ci rendiamo conto di che cosa vuole significare questa cosa, poi ci accorgiamo che in quella direzione c’è il camino dei forni crematori e impariamo dove è l’uscita e per troppi sarà l’uscita. Siamo messi con tutto a terra, tutti puliti, nudi, andiamo sotto, ci fanno la doccia dopo di che passiamo su un banchetto dove c’è il barbiere che, povero Cristo, con questa specie di rasoio che ormai ha tutti i denti, ci toglie tutti i peli davanti e dietro, prende questa cosa lo bagna, poi ci dà una pennellata di creolina poi ti giri e te ne dà una di dietro, in questo modo sei disinfettato perché tutto può esserci ma tutti disinfettati e tutti puliti.

Penso che questo impatto comincia a dirci qualche cosa, comincia a farci capire che il mondo lì è un altro, ci sono altre risposte.

Attraversiamo la piazza dell’appello e arriviamo alla baracca di quarantena.

D: Scusa, Italo, dopo la disinfezione siete andati nelle docce?

R: Prima della disinfezione andiamo alle docce, dal Friseur, poi ci danno la pennellata e andiamo alla baracca e quando adiamo alla baracca di quarantena non ci sono …

D: Siete sempre nudi o …

R: No, la vestizione arriva nella baracca, io ho avuto così …. attraversiamo, siamo subito alla baracca e veniamo immatricolati e registrati perché in quella sede ci chiedono che mestiere facevamo. Lo scrivano della baracca penso che sia polacco e insiste nello scrivere, io dico “Studente” e lui mette studente, così come ho nel certificato, mette vicino “manovale”.

Io dico “Sono studente non sono manovale”, “Vai, vai vai”, mi dice, forse quel “vai” è stata la fortuna perché lo studente non si sarebbe certo salvato, il manovale in qualche modo era utile. Ci viene assegnata la qualifica con il triangolo rosso dei politici e la scritta che viene messa sulla matricola, sopra il triangolo rosso sulla giacca e anche sul pantalone dove abbiamo solo la matricola. Ci viene dato un cinghietto in ferro con una cosina molto leggera in lamiera con il numero di matricola, questo mi sarà tolto poi … mi viene assegnata la matricola, sono il 42307 di Mauthausen e mi porto questo triangolo rosso di politico fino alla fine.

Vi è l’ingresso in questa baracca che non ha i letti a castello, ha solo per terra dei materassini di iuta che sono pieni di segatura, una cosina molto leggera, molto piccola, siamo 50 quindi abbiamo una numerazione che parte da 42.000. Abbiamo prima di noi un trasporto arrivato da Roma, 40.000 di matricola che ha fatto un percorso un po’ strano, è partito da Roma, Valenzano, ecc. due o tre superstiti che sono rimasti, oggi dovrebbero essere cinque o sei e vi è un amico a Roma che sta facendo questa ricerca.

Ne ho contati 257 che sono quelli che da Dachau sono stati mandati a Mauthausen, partiti da Roma il 5 gennaio sono arrivati a Dachau il 7, sono stati mandati al Wäscheraum, senza immatricolazione e poi 257 di questi me li sono trovati nella immatricolazione di Mauthausen quindi li ho inseriti. Li troviamo nella baracca quando arriviamo alla registrazione; erano arrivati il giorno prima, per cui noi arriviamo il 14 e loro erano arrivati il 13, dirò che la registrazione viene poi rilevata dal campo il giorno 15, questo per dirvi che se qualche volta trovate delle date che spostano un giorno non impressionatevi perché basta che siano arrivati alla sera magari li mettono il giorno dopo.

Qualche volta sul problema della numerazione hanno dei dati previsti, prevedono un trasporto di 540 persone, mantengono 500 numeri vuoti per poi inserirli, questo vale per le donne che vanno a Flossenbürg, i 60.000 di matricola.

La vita del campo di Mauthausen: siamo in baracca, non usciamo, non abbiamo compiti esterni, non andiamo in comandi esterni, il 28 viene questo trasporto abbastanza pesante, circa 500 che andiamo a Ebensee, lo sapremo poi. Veniamo chiamati per matricola anche perché siamo dei pezzi ed è più facile contare i pezzi che non nomi e cognomi ed è anche più facile come tempo, vi è un problema sempre di tempo, tempo, dobbiamo sempre correre.

Arriviamo in questa cittadina, posizione stupenda, c’è il lago, una cosa veramente stupisce, che cosa andiamo a fare? Ci sembra una stranezza questo trasporto ma la stranezza è che andiamo verso la parte di montagna e lì costruiamo il campo, ci sono quattro baracche, è arrivato prima di noi un altro trasporto che comprendeva tedeschi, polacchi, jugoslavi. Ci facciamo il campo nel senso che ci costruiamo tutto, mettiamo su le baracche, facciamo la recinzione, facciamo le guardiole per il personale di sorveglianza e qual’é la destinazione di questo campo?

La destinazione è la velocità che bisogna assolutamente adoperare per fare delle grosse gallerie che consentano il trasferimento di materiale utile alla missilistica perché vi è stato il bombardamento di Peenemünde da parte della RAF, è Alto Baltico per cui il senso di studio viene smantellato da questo bombardamento della Royal Force quindi la necessità di trasferire questo materiale rimanente in altri campi.

L’idea viene automatica perché è l’ultimo campo, quello più a sud visto da Peenemünde e si trova quasi al confine con l’Italia perché Salisburgo è a pochi chilometri dal Brennero.

La zona è bellissima, noi siamo lassù in questa zona, ci costruiamo il campo, abbiamo pochi rapporti con la cittadinanza perché non abbiamo un transito continuo se non attraverso due strade che vanno direttamente alle cave e ci vedono andare avanti e indietro e non c’è nessun atteggiamento particolare anche perché in quel momento avevano paura delle SS non di noi che eravamo messi in una condizione di non nuocere.

Arriviamo alle gallerie e cominciamo questo lavoro che farò dopo due lavori esterni, un lavoro al comando legno, dovevamo tagliare le piante per pulire la roccia e iniziare a fare la galleria.

Il secondo lavoro sarà sempre in galleria e la vita in galleria ad un certo punto era fatta su tre turni, mano a mano che si finiva il turno si faceva l’esplosione, c’era il crollo, quando si entrava si puliva con la pala per mettere fuori e liberare la zona. Dovevamo sempre arrivare a fine turno per cui 24 ore e lavoravamo con dei mezzi non ancora automatizzati se non dei perforatori che arrivavano ed erano utilizzati con i fioretti per bucare la roccia e che erano ad aria e potevamo indirizzarli abbastanza e ci aiutavano a perforare.

Devo dire che nei primi tempi i buchi venivano fatti in modo diverso; ci mettevamo questa macchina in spalla in due, spingevamo in su e facevamo il buco oppure siccome lavoravamo a un piano che distava sì e no cinque metri dal piano del suolo e sopra mettevamo una tavola verticale in modo che ci permetteva di essere uno contro l’altro con la schiena appoggiati, quello davanti con i piedi guidava, indirizzava la macchina che faceva il foro, quello dietro spingeva.

Questo contatto creerà quella che chiamo “la globalizzazione della solidarietà” perché se così non fosse stato anche nelle piccole cose, le piccole cose sono grandi cose, teniamo conto che è uno sguardo, un modo di comportarsi, nel comando legno, dico una banalità, ma se vengono destinate quattro persone, due sono 1,80 e due sono 1,50 e quei due di 1,50 si mettono in mezzo non portano niente mentre se c’è una scaletta in qualche modo si cerca di portare un po’ tutti, anche perché parlare non ci capivamo per cui non dovevamo fare lunghi discorsi, potevamo solo indicarci sull’opportunità, normalmente si trovava una soluzione che consentiva a tutti quanti di fare la propria parte.

Avevamo anche dei casi dove la gente non intendeva, il più esposto normalmente era l’italiano perché è una figura che viene discussa … Avremmo dovuto discuterne prima di iniziare l’intervista, la figura dell’italiano è belligerante, gli iugoslavi che ti dicono “Perché siete venuti in Jugoslavia?”, i russi che dicono “Chi te l’ha fatto fare di venire in Russia?”. Vi è poi questa frammistione fra l’internamento generalizzato, sarà poi un internamento militare e poi ci sono i lavoratori militari in Germania che sono altre figure, è difficile per loro cogliere, capire, la domanda che corre è “Come mai ti trovi nel campo?”

Torno una sera in baracca come le altre sere avendo lavorato al comando legno, sono all’interno del campo e vengo destinato dal capo baracca ad andare a lavorare con un gruppo di russi che hanno uno di loro che non ce la fa più e rimane in baracca.

Io li conosco come russi perché loro hanno la “R”, quindi, sono politici, poi ci sono degli “SU” che sono della Repubblica Sovietica; forse non è nemmeno giusto dire repubblica ma chiamiamola così, sono termini impropri ma … pazienza.

Questo impatto mi crea il fatto nuovo di incontrarmi con gente che parla un’altra lingua, sono isolato e studiato, evidentemente hanno questa sensazione di questo individuo nuovo che si inserisce e non riescono a capire perché ma per me è una normale sostituzione, non ho scelto, mi hanno buttato lì e vado, non puoi dire al capo “preferirei andare …”.

L’atteggiamento iniziale è di studio e io che sono il più giovane del gruppo non ho che da ubbidire, quindi, capito con la schiena con uno, un’altra volta sono io a spingere.

Dopo qualche tempo, abbastanza breve, vedevo che quello che avevo di schiena voleva parlare, anch’io ma … dice di essere stato in Italia, di essere stato a Roma, probabilmente, una persona che faceva parte di certi servizi che già avevano anche loro, scatta questo meccanismo strano per cui la domanda loro viene abbastanza immediata “Perché sei qua?”

Subito non ho una risposta perché mi sto chiedendo perché questo chiede “Perché ci sono, loro perché ci sono?”

Se me lo ha chiesto ci sarà una motivazione.

Dopo qualche giorno la domanda ritorna più sostanziosa “Mussolini, Badoglio, che cosa sei, con chi sei?” … “Non sono né con Mussolini né con Badoglio, sono un partigiano …. “

“Partisan” è un temine che impressiona e lascia sorpresi nell’interpretazione, noi li conosciamo i partisan, i russi li avevano avuti, sapevano come si erano battuti, Stalingrado, sapevano molto bene ma questa parola non riuscivano molto a … partigiano dove, quando?

Cercavo di spiegare che non essendo né questo né quello eravamo un’altra cosa, combattevamo il nazismo, loro hanno chiacchierato, è passato di nuovo qualche giorno e ho avuto la sensazione che per me era naturale, potevo dirla subito ma non ho mai pensato che potesse avere un impatto del genere, li ha molto interessati e ho visto un cambiamento di comportamento. Sono diventato il piccolo italiano, sono stato inserito in questo inserto e devo dire che mi sentivo protetto anche perché non dimentichiamo che i russi hanno pagato molto, i russi nel campo erano i russi ma la verità vera è questa, i tedeschi, i Kapò nel campo quando avevano a che fare con i russi avevano dei seri problemi perché avevano la velocità di espressione, tu oggi sei Kapò ma domani …. questi atteggiamenti erano molto pericolosi.

Ho creduto questo che sta avvenendo, a un bel momento non avremmo più parlato e la mia esperienza rimane la mia esperienza, finito e chiuso, ma se parlo noi c’eravamo, ecco il perché del discorso di cercare, approfondire, trovare, perché l’esigenza era di dire che eravamo tutti insieme, vi è stato anche un momento di pressione come succede in quelle condizioni dove ti abbruttisci a un punto tale per cui non ti rendi conto se sei o non sei perché il discorso della sopravvivenza ti pone dei vincoli precisi, cioè dire che puoi anche sopravvivere ma hai il dovere di essere uomo, avere un minimo di dignità e questa ritengo che sia una necessità primaria.

D: Vieni accolto nel gruppo dei russi …

R: Nel gruppo dei russi, cambia l’atteggiamento e durerà fino alla liberazione, il 6 maggio 1945, l’ultimo campo liberato, abbiamo il terzo cavalleria meccanizzata con il Capitano Timothy, con i due sergenti che entrano con l’auto blinda.

I russi mi hanno accompagnato fino alla fine e a loro devo anche un pezzo di pensiero, di ricordo perché la liberazione è una sola, se non è corroborata da tutti non ce la fai, non ti puoi salvare da solo, egoisticamente potresti pensare anche così ma quando ti accorgi che quando il campo è aperto per tutti siamo tutti pronti ad uscire ma non abbiamo la capacità, non abbiamo la forza, perché quando arrivi a 36 kg, tubercolosi polmonare bilaterale non hai nemmeno la forza di stare in piedi ma devi pensare che se sei arrivato fino a lì forse riuscirai ancora ad arrivare più avanti e ad andare a casa.

D: Avete costruito il campo di Ebensee, contestualmente oltre alle baracche avete costruito anche il forno?

R: Sì, il forno giù in fondo, l’ho indicato anche in quella piantina che ho fatto, ho rifatto in assonometria perché originariamente ho fatto anche il geometra, tanti destini in questi mestieri, adesso vi porto indietro poi vado avanti poi ti arrangi tu a collocare i pezzi …. il problema è che quando ho fatto il geometra nel Comune di Torino e mi hanno dato una zona un po’ in periferia, molto bella, ho seguito due scuole, poi mi hanno mandato al teatro Regio che è stato per me il biglietto da visita che mi porto dietro perché di teatro Regio se ne fa uno solo con un pazzo come l’architetto Monlino che è un personaggio eclettico e dice “Posa la macchina che prendo l’elicottero”, sono grato a tutti perché ho imparato sempre qualche cosa.

Vengo destinato in un momento di ferie alla zona centro dove ci sono le carceri, vado in Segreteria dal Direttore che mi dice: “Geometra se ci vediamo perché abbiamo alcuni servizi, la manutenzione ordinaria la fate voi, la straordinaria la facciamo noi, se potete darci una mano”. Dico: “Va bene ma è importante che parli prima con l’ingegnere perché voglio capire bene”. Parlo con l’Ingegnere Brizio e l’Ingegnere Capo Piasco e dico: “Ingegnere non si offenderà, vado dove vuole, faccio anche il giro di tutte le zone ma non mi mandi alle carceri perché è un ricordo troppo sulla pelle”. “Non ci abbiamo pensato!”, “Non potevate pensarci ma siccome ho transitato in quel luogo in condizioni un po’ diverse abbiate la bontà ….”

Per dire il destino, come il binario 19 è il binario che viene da Torino-Ivrea, come il discorso di dove sono stato portato subito quando mi hanno arrestato, alla caserma del genio che è diventato l’ufficio leva, passano gli anni, nel 1980 il Sindaco porta giù i ragazzi della leva e dove vado a finire? Vado a finire lì dove mi hanno portato qualche anno prima, ci sono delle botte di destino …

Primo incarico al Comune di Torino, Ispettore ai mercati generali … ero impiegato giornaliero, mi chiama il capo del personale e dice “Tibaldi lei è nelle condizioni ideali per fare questa funzione, faccia un salto ai mercati generali e dia un’occhiata”. Arrivo ai mercati generali, c’è una tettoia grande e sotto ci sono montagne di patate, e altre patate buttate lì, devo dire che gli impatti nella vita quando non hai più visto le patate, vedevi qualche volta la pelle, arrivi lì e vedi le montagne, allora dico che il mondo mi sta dando tanti di quegli schiaffoni che non finiranno mai, il destino ti porta queste cose.

D: A proposito di patate, nel campo l’alimentazione come era?

R: Il problema è che si tratta di fare la corsa alla gamella che è quella che hai dietro il sedere che hai appesa con il gancio che è questa di ferro smaltato rossa, con questa vai per prendere la zuppa che è un momento interessante e preoccupante per tanti versi perché quando entri e vedi il bidone in fondo cominci a metterti in fila e finisce che i primi non vogliono andare avanti perché prendono l’acqua, gli ultimi non vogliono stare indietro perché non prendono più niente, vedi che questa fila si spancia nel mezzo, a questa altezza tutti che spingono e gli altri che rallentano per cui si forma questa fascia che è feroce nel senso che sono quelli che sperano di beccare metà bidone.

Ti metti in questa cosa e vai avanti lì e ti arriva quello che ti arriva sperando che vada bene. Qualche volta c’è la fettina di pane, la domenica c’è il pezzettino di margarina, c’è questa specie di brodaglia non capisci bene se vuole essere un caffè o che cosa, le calorie sono talmente basse per quel tipo di lavoro, ma se vuoi la gente che lavora devi dagli da mangiare, non puoi pretendere di fare questi lavori pesanti. Cominci ad alleggerirti, ti inventi qualche cosa, mentre becchi il vagoncino che va ad attaccare i vagonetti dentro la galleria a lato hai i ciuffi d’erba, raccogliamo questa erba; lateralmente le locomotive hanno queste come dell’acqua, mettiamo questo batuffolo di erba dentro l’acqua, quando ha fatto due volte il tragitto è cotta per cui siamo dei furbetti, poi prendiamo dei pezzi di roccia che hanno sopra una patina che sembra margarina, la puliamo bene solo che questa ci crea nello stomaco un canale perché siccome è grassa, ha una funzione solo di riempirti la bocca, alla lunga questo sarà quello che creerà le grandi dissenterie per cui diventa un tubo solo, butti giù un bicchiere d’acqua e già va.

La vita del campo di Ebensee è una vita che non vivi perché non ci sei, alla mattina vi è sempre qualche problema perché o la visita dei pidocchi o qualche altra storia, a qualcuno mancano gli zoccoli, comincia che quelli che sono in condizioni così tolgono il nastrino e gli scrivono sulla pelle il numero di matricola e lo mettono fuori così già ci sono i gradi che ci sono e sei sicuro che rimane lì, quindi si alleggerisce il peso.

Alleggerendo il peso delle presenze, parlo di materiale umano in termini molto semplici. Per largo tempo noi subiamo i triangoli verdi che sono i delinquenti comuni, per la maggior parte tedeschi, qualche polacco, sono quelli usciti dalle patrie galere che avevano commesso uxoricidio o parricidio, cose di questo tipo, condannati a trent’anni ai quali è stata data un’ipotesi alternativa. Avevano una baracca con 500 persone, la gestivano, la dovevano mantenere in ordine, puntuale, precisa; la gente mangiava, dormiva, erano fatti del capo blocco, la gestivano come volevano, li legnavano, li ammazzavano, facevano quello che gli pareva ma dovevano tenerli sempre in ordine, funzionali che devono lavorare, soprattutto puliti, la pulizia prima di tutto.

Questo crea quel massacro che succedeva anche nei blocchi. Non si possono ricreare i gruppi nazionali perché sono fraintesi con gli altri, non solo, ma l’esigenza di non aver messo solo un gruppo nazionale nel blocco è dato dal fatto che lì forse si può studiare la fuga mentre se siamo blocchi di nazionalità diverse come dici a un russo “Andiamo via”?, Anzi, devi stare attento che la frase non circoli, ci sono anche questi timori e loro opportunamente fanno in questo modo di frammischiare le lingue per cui nasce il glossario del campo, questo linguaggio interno che è fatto un po’ di tutte le lingue dove abbiamo i termini più strani e dove ci sono poche parole e tanti sguardi.

Un’esigenza era quella di non lavorare, di osservare molto, di stare sempre con gli occhi aperti; purtroppo, tante volte non te ne accorgevi, ti arrivavano dietro e ti legnavano ma ogni minuto che guadagnavi era un minuto guadagnato.

Poi ci si accorgeva che si andava verso la fine; abbiamo lavorato come matti per andare avanti in queste gallerie, quando si usciva dalle gallerie si era distrutti la polvere rimaneva sui polmoni e di qui il fatto che tornando molti di noi sono andati al sanatorio.

L’operazione in galleria ha però un vantaggio, sembra strano, perché lavorando a 5 mt. e di notte quando la SS entra di là, con il cane, tutto bello pulito, gli apri l’aria per la nuvola di fumo e tu vedi la SS e lui non vede sopra, il cane le scale non le sale perché sono a pioli quindi è difficile, è un modo per salvarsi.

Questo per me è un nucleo molto importante, devo dire che ci si rende conto piano, intanto arrivano i pezzi per i missili, la zona dove fanno l’acqua sintetica, cercano di portare laggiù quello che loro hanno perso a Peenemünde. Arriva anche un gruppo che arriva da Sachsenhausen che viene direttamente a Ebensee e vengono poi mandati a Redl Zipf che sono quelli che fanno le monete false, un gruppo di falsari, poi ne conoscerò uno alla fine, l’ho visto ancora due anni fa che dice: “Io non esisto, non mi chiamo, mi chiamano gli altri e io mi chiamo “nessuno”, con delle mani d’oro che fanno queste monete intanto per poterle buttare sugli altri mercati, gli inglesi fanno monete inglesi, il discorso della moneta buttata in un discorso di questo tipo vuol dire falsare anche tutti i problemi economici.

Cominciano a passare come delle rondini sulla testa, apparecchi, le fortezze volanti che cominciano ad andare, vanno avanti e vanno a finire su Vienna, vanno a bombardare un po’ dappertutto. Ad un certo punto ti accorgi che il giro diventa quasi continuo perché si muoveranno con gli americani di giorno, questo è uno studio che ho visto dopo, e con gli inglesi di notte. Difficilmente gli americani viaggiavano di notte,gli americani avevano i grossi bombardamenti, gli Spitfire, i più piccoli giravano di notte perché facevano opera diversa come quella del lancio dei manifestini a firma di Truman, Stalin, Churcill che dicono negli ultimi mesi: “Attenzione perché vi consideriamo criminali di guerra, quindi l’umanità che avete a vostra disposizione salvatela, stati attenti”; cercano di intimorirli anche in questo modo e fanno capire che hanno finito.

Queste cose le recepiamo anche dall’atteggiamento del personale civile che ci segue nelle gallerie perché lì ci sono le ditte che ci hanno affittato, chiaramente il costo nostro non lo ricordo più, la trattativa avviene sempre con la società della SS per questi compiti e noi lavoriamo alla dipendenza di un Meister che ha premura perché viene sollecitato, trasferisce al Kapò questa sua esigenza, le SS invitano il Kapò a reagire e il Kapò mena anche perché deve far vedere alle SS che lui c’è. Qui nasce il discorso del rapporto tra le SS e il Kapò e i deportati; nei processi la SS dice: “Noi non eravamo nel campo, eravamo attorno al campo, facevamo sorveglianza”. Questo è falso primo perché ogni blocco aveva un responsabile delle SS che faceva la conta e parlava con il Kapò. Poi vi era l’appello e quando c’era l’appello c’erano tutti. Loro tentano questo marchingegno che non riesce, il Kapò si trova nella condizione che avendo accettato una soluzione deve comportarsi di conseguenza, non dico che lo giustifico ma dico che se già poteva maltrattarci in un modo, ci maltratta di più perché davanti alle SS doveva far vedere che è uno che osserva quello che gli è stato imposto, quindi, chi prende le legnate è sempre il deportato, non ne prende una ma ne prende 25 per volta che non sono date sul sedere perché forse le avresti anche accettate meglio, ma sul fondo schiena, cioè sui reni; quando le becchi sui reni ti alzi e fai la pipì con il sangue, non vi è altra soluzione perché i reni si sfasciano, le becchi una volta, le becchi due, la terza volta non ti tiri più su.

Il fatto è che ti corichi, ti metti giù e comincia questa legnata,le contano, tu le conti, quando hai finito ti tiri su, dici “Grazie”, atto più distruttivo che puoi dare perché già non ce la fai più e devi anche ringraziarli e da quel momento pensi di essere tranquillo per una qualsiasi stupidaggine. Quando hai il castello a tre piani, dormiamo tre per letto, due se siamo più fortunati, quindi due di piedi e uno con la testa, quello che è sull’ultimo piano quando deve salire mette i piedi sul primo, quindi nel salire schiaccia quel letto che non è a posto, quindi guai a prendere un letto a terra. Prendere un letto sopra: non aspettano tanto, ti chiamano due volte e poi ti tirano giù e vai per terra da due metri e mezzo. Se imbocchi il letto di mezzo sei controllato perché è chiaro che se ti muore uno vicino e sei nel letto di mezzo non puoi non dirlo, se sei lassù mangi anche la sua parte poi cerchi di andare avanti … lo dico onestamente: mi trovo una zuppa in più la mangio, vado a prendere le legnate ma intanto mangio. Queste cose sono quelle che ti fanno pensare che, comunque, forse più umanità si salvava, se ci fosse .. se ci fosse … 63 anni dopo parlarne con disinvoltura vuol dire anche fare a se stessi un grosso impegno perché onestamente la memoria tradisce tutti e tradisce anche te. La prima domanda che ho fatto non più tardi di 15 giorni fa che ero a Saint Vincent e ho incontrato i ragazzi, ho chiesto “Credete alla nostra memoria?”, hanno risposto “Sì” e sono andato avanti, ma è facile dire, “Quando si arriva a 81 anni mi vuoi dire che sei così limpido? Perché ricordi questi particolari?” Perché la scienza, non io, dice che io ricordo quei tempi e non ricordo che cosa ho mangiato ieri, è la meccanica della memoria, quindi, sotto questo aspetto mi sento abbastanza sereno anche perché non voglio mai fare una testimonianza né da protagonista né da vittima, non mi sento né vittima né protagonista, è stata una scelta così, ho creduto in quello che ho fatto, ho pagato per quello che ho fatto, ritengo di non essere un eroe, molti altri ce ne sono stati e non li abbiamo neanche conosciuti, non li abbiamo neanche ricordati, dell’oggi poi parleremo.

La liberazione il 6 maggio del 1945: verso le 14,30 del pomeriggio vediamo grosse nuvole di polvere … c’è il passaggio del giorno prima importante.

Il 4 il Comitato di Resistenza del campo di cui facevo parte con Ferrante, Dragoni e altri, riesce a far capire che siamo allo sbando delle SS per cui dobbiamo regolarci sul comportamento, non sappiamo se entreranno nelle baracche, non sappiamo il comportamento, il comandante del campo ci riunisce tutti, siamo in 18.00 sul campo di Ebensee, arriva con il suo cane, ha insieme le SS schierate con le mitragliette, dalle garrite vediamo gli altri che sono piazzati e noi siamo lì tutti schierati.

Sale su questo sgabello e inizia il discorso, tutto silenzio, e dice “Herren”, vuole dire “Signori”, siamo rimasti tutti, “Per un giorno siamo signori”, poi dice “Siccome noi abbiamo sentore che le truppe alleate arriveranno vogliamo salvaguardarvi, quindi, vi invitiamo ad andare in galleria e noi cercheremo di salvarvi il più possibile, vi garantiamo che faremo quello che dobbiamo fare e ci auguriamo che questo vi porti alla libertà, ecc. ecc.”

Il problema che lì parte l’impostazione del Comitato, tutti quanti rispondono “No”, subito non sanno perché rispondono no, il discorso è che davanti alle gallerie, specialmente all’imboccatura di un paio ci sono le locomotive … queste locomotive che servivano quei vagonetti che andavano avanti e indietro le hanno piazzate davanti all’imboccatura delle gallerie in modo che all’esplosione si chiudeva la galleria e morivano dentro come topi. Solo questo lavoro, far parte del Comitato di Resistenza di un campo era una cosa impossibile, voleva dire avere la pelle sulla corda ogni momento, se per caso si dovesse pensare che hai una funzione diversa. Ho sempre ammirato Franco Ferrante perché il fatto che sia stato spinto da noi a fare lo scrivano del blocco è stata una cosa per lui dolorosa ma per noi importantissima perché è l’unico modo per poter evitare di mandare qualcuno nei comandi più negativi per cui il lavoro che ha fatto questo uomo è stato immenso e gli va riconosciuto. Ricordo anche Morgante, e ce ne sono altri, li ricordo un po’ tutti perché li ho anche citati nella pubblicazione. Quindi, lì rimane fermo sullo sgabello, la cosa non lo ha reso felice più di tanto, poi scende, raccoglie le SS e vanno via.

Questo fatto ci fa pensare: “Perché adesso rientriamo nei blocchi e che cosa succede?”

Siamo tutti quanti in attesa di vedere che cosa succede. Succede che questi si cambiano e se ne vanno, lasciano gli abiti militari, si mettono in abiti borghesi e se ne vanno. Il comandante del campo viene beccato, gli americani arrivano, aprono la porta, le sentinelle non ci sono più ma hanno insieme la gendarmeria, i pompieri, questi ometti anziani con le bande rosse e blu, con dei fucili 91 alti così e ti fanno segno di stare lì, abbiamo tolto corrente ma siamo tutti nel campo, gli americani anche hanno paura perché 18.000 che scendono a Ebensee se la mangiano, non so con la pazzia che c’è in giro che cosa succede per cui il timore è anche questo.

L’arrivo degli americani è prima lo studio, questa punta avanzata che viene e entra, vede l’ambiente e poi spiegheranno, abbiamo avuto paura perché la gente si è avvicinata all’autoblinda e non potevamo sparare, siamo usciti subito, abbiamo rinchiuso la porta. Poi si sono dati da fare, sono stati a Ebensee, hanno requisito le panetterie, arrivano, impiantano il campo della sanità e lì quando arriva il blocco ci sono tanti di colore, entrano e dopo dieci passi che hanno fatto hanno tutti la mascherina perché al fondo del campo, vicino al forno, non hanno più bruciato, devo dire che la maggior parte tornavano a Mauthausen, li mandavano indietro a Mauthausen. Erano più veloci i forni di Mauthausen, a un certo punto non ce la facevano più e hanno fatto le cataste: corpi umani, legna, corpi umani, legna, poi bruci, sono le pire. Chiaramente queste cose creano odori, dalla pelle umana esce un odore che non è sopportabile ed è quello che diciamo quando parliamo con quelli che ci dicono che la gente non sapeva, spieghiamo che quelli dei comuni vicini lo dovevano sapere anche se non volevano perché quegli odori li avevamo noi e li avevano anche loro in casa, il vento non restava lì, si muoveva, sono risposte implicite che ti vengano.

Quando arriva la sanità si preoccupano di vedere che siamo tutti messi come siamo messi e comincia a cercare di salvare il possibile. Commettono anche loro un errore nella bontà, nella volontà di salvare il tutto arrivano con questi carri enormi con sopra dei mastelli in legno, che sono di marmellata, cioccolata. La gente corre e si mette con la testa dentro, dopo di che non avevamo più mangiato nulla … lo stomaco non ha potuto accettare tutto, quando è arrivata la sanità queste cose le hanno subito regolate perché i medici hanno subito detto: “Non si può fare queste cose” Io avevo una palandrana addosso perché era quella che mi andava bene, che poi ho lasciato non so più a chi, a chi era peggio di me.

Sono rientrato alla fine di giugno o a metà luglio e la prima cosa è la disinfezione, quindi, queste tendopoli dove ci mettono sotto doccia e poi viaggiano con i DDT, grandi pompate, poi sotto, poi dicono che fa cadere i capelli, so che me lo hanno dato dappertutto, davanti dietro sopra sotto, poi sono cominciati i ritorni.

Restiamo non dico come, non voglio dire come sempre perché non so altre situazioni, ma restiamo i buoni ultimi, restiamo con gli jugoslavi perché volevano farci rimpatriare insieme, “Vi portiamo a Tarvisio, voi andate di là e loro vanno di là”.

I russi sono partiti allineati e coperti, i francesi sono partiti in aereo, restiamo noi, 283 italiani che siamo così e dico: “Se non ci muoviamo …” ero malmesso perché ero già con il coso scritto qua per cui stare in piedi era dura. Parliamo con l’americano e gli diciamo che anche noi vogliamo rientrare, “Se non viene qualcuno a prendervi come rientrate?” bisogna organizzare questo rientro, possiamo anche accompagnarvi, ma siamo a Linz. Poi vi era una diatriba nel comando americano perché quelli di Mauthausen dipendevano dalla Undicesima Divisione che aveva un comandante e che naturalmente diceva: “Essendo Ebensee un sottocampo di Mauthausen lo dobbiamo gestire noi”.

L’altro di Linz diceva: “Siccome Ebensee si trova a pochi metri dobbiamo gestirlo noi”. Volevano gestirci tutti ma restavamo lì.

Siccome l’ospedale americano era stato fatto in una caserma a Salisburgo, siccome eravamo tutti messi così abbiamo detto: “Liberiamo il campo e li portiamo lì”, per portarci via arriva Monsignor Leonzio Nicolai, cappellano dei civili italiani liberi lavoratori della zona di Linz. Monsignor Leonzio viene con una signora che traduce per parlare con gli americani e i tedeschi perché anche se non ci sono più sei nel loro territorio, devi sapere le strade.

Gli americani come sempre raccolgono tutti e ci imbarchiamo su questi camion con Monsignor Nicolai, andiamo all’ospedale di Salisburgo e lì vediamo il personale della Croce Rossa americana, vediamo le dottoresse che hanno la croce rossa dietro, mi visita un medico cinese o giapponese che ha delle tavolette nere e dice “Qui dobbiamo fermare la diarrea, prendi questo tavolette e avanti, poi aspetta a rientrare perché ti dobbiamo mettere in condizioni …”, “Io vorrei solo andare a casa” … Chiedere di andare a casa non è così facile, poi non sai nemmeno se trovi casa e che cosa trovi, il ritorno è lungo.

Passiamo questo periodo a Salisburgo e rientriamo attraverso il Brennero e troviamo sulle Alpi ancora dei gruppi di SS che sparano sui vagoni per cui è andata bene anche lì.

Arriviamo a Bolzano e ci portano tutti all’ospedale militare, vengo ricoverato con uno che sembravamo Cric e Croc, perché io ero stilizzato e questo era piuttosto corposo, un caro amico, che vive a Trieste, un tenore, qualche volta abbiamo mangiato anche la zuppa perché lui cantava, bisognava fare di tutto, “Italiano cantare”.

Arriviamo a Bolzano, siamo all’ospedale militare di Bolzano, siamo insieme noi due, visita, credo che sia il responsabile dell’ospedale che dice “Ragazzi voi due … “, quello che era così gli facevo così e restava il bollo perché era tutta acqua, aveva conservato l’acqua, una cosa allucinante, io stringatissimo e dice: “Dobbiamo fare degli esami, ecc.”, ci bloccano subito.

Dice: “Non puoi viaggiare”, ma rispondo che vorrei solo andare a casa, perché devo andare in mezzo alla gente, “Vado a casa”.

Un bel giorno arriviamo sotto e vi era del personale utilizzato come autisti con le macchine. Un giorno scendiamo e vediamo uno di questi che si stava facendo una cotoletta sulla pietra, noi due guardavamo pensando: “Noi non abbiamo visto niente, questo che dovrebbe essere un nemico gli danno delle sberle di carne di questo genere, qui è un altro mondo”, e l’idea che questo ci potesse portare via con la macchina mi è venuta subito.

Siamo saliti su questa specie di macchina e abbiamo avuto la fortuna di non trovare nessun gruppo partigiano perché con questa macchina con gli stemmi magari ci sparavano dentro, avrebbero detto che eravamo dei fuggiaschi ed eravamo noi due lì sopra, immaginate che fine triste andavamo a fare, poi si dice “il fuoco amico”.

Arriviamo a Milano alla stazione, poi lui è andato, un mucchio di giri per la ferrovia per i bombardamenti, poi mi chiedo perché prima non hanno mai bombardato le linee del Brennero e di Tarvisio, hanno bombardato a Peenemünde, abbiamo avuto il primo trasporto ebreo che è partito da Merano due mesi dopo, potevano bombardare anche le linee sul Brennero, probabilmente avremmo bloccato il discorso della deportazione, sono considerazioni che fai oggi dopo tanti anni.

Arrivati a Milano messi nella stanza dei reduci e lì sono tutti seduti su carrozzelle, sulla brandina, ci mettono su due carrozzelle e l’altro dice: “Devo andare a Trieste”, e dico: “A Milano ci sei”. Dall’ospedale non potevamo andare a Trieste e poi a Milano.

Comincia il primo impatto, duro, arrivano i famigliari che ci chiedono notizie: “Eri a Mauthausen, hai visto mio figlio?”, ma è già difficile ricordare una persona nella figura originale o vedere una fotografia ma quando devi vedere una persona che non ha capelli, ha tutto quanto rasato è difficile individuarlo, anche gli occhi cambiano, le figure si trasformano, non riesci più a individuarli, qualcuno che ha avuto la fortuna di camminare insieme all’ultimo minuto può dire: “L’ho lasciato a Salisburgo”, ma andare a spiegare …oppure anche il discorso di spiegare a una madre che hai visto il figlio andare al forno crematorio e alla camera a gas, come si fa? Intanto la camera a gas non sapevi che cosa era, poi quando hai cominciato a capire che cosa era fortunatamente eravamo già da un’altra parte ma le cose sono successe, le cose ci sono, la camera a gas è lì, non è che non si vede, certo si vedono altre camere a gas molto più importanti per l’eliminazione diretta che è quella di Auschwitz ma qui quanti ne sono passati a Mauthausen anche all’ultimo minuto che si poteva evitare! Il discorso della falcidia anche sui politici doveva esserci perché era gente che doveva sparire, soprattutto austriaci.

Arrivo a Milano e vi è questo impatto molto difficile. Quando vai su non sai dove vai ma quando torni indietro non sai che cosa trovi, non hai corrispondenza, non hai mezzi di comunicazione. Se hai famiglia magari dopo due anni c’è gente che ha fatto scelte diverse, magari hai perso i figli, hai perso la casa con i bombardamenti, un mucchio di cose che ti portano a dire: “Voglio andare a casa”, sapendo che ci possono essere sorprese ma te le poni come qualche cosa che può succedere, tanto quello che è successo l’hai sulla schiena.

Un giorno fanno un trasporto su Torino-Milano, mi viene a prendere un ragazzone che aveva il vestito di cachi e che aveva la bandiera tricolore, faceva il servizio volontario; mi prende come prendere un sacco, mi prende leggero, ero 36 kg, mi mette sul vagone, siamo io e lui seduti tranquilli e questo vagone parte destinazione Torino.

Arriviamo a Porta Susa a Torino, si ferma e non partiva più. Vi era questo capo stazione che andava avanti e indietro, ad un certo punto dico: “Non parte più questo treno, devo andare a casa”. Non ho fatto partire il treno io ma mi sentivo di arrivare, arrivati a Porta Nuova mi prende in braccio e mi mette lì alla Croce Rossa.

Siccome siamo in estate sulla porta vi sono queste tende fatte di tanti piccoli cosini di lamiera che tintinnano, mi è rimasta impressa questa cosa.

Entro, mi mettono sulla sedia a rotelle, una coperta sulle gambe e sto seduto, poi mi chiedono chi sono, spiego le cose e dico: “Devo fare degli esami… ti mandiamo in sanatorio oppure ti mandiamo dove sono finiti un po’ tutti quelli della Lombardia”.

Questo discorso di andare in sanatorio …Mi chiedono come ti chiami, mi chiedono se ricordo il numero di telefono, mi danno il telefono, faccio il numero e qui arriva una scena un po’ così e dico “Pronto, casa Tibaldi? Ho conosciuto un certo Italo Tibaldi che era in campo di concentramento, sta bene e tornerà quanto prima”, mia sorella prende il telefono e sviene.

Arriva mia madre che era stata fuori e chiede che cosa è successo. “Sai, mamma, ha telefonato uno dicendo che ha conosciuto Italo … “Dove è?” “Non so dove è, non ho capito” “Come non hai capito!” Volano quattro ceffoni sono volati perché non aveva capito, mia sorella me lo ricorda sempre, ho preso quattro schiaffoni per te e dico: “Mettili insieme a quelli che ho preso io”.

Lei era andata al comando da Smith, padre ufficiale, quindi, militare, lei parte e va da Smith e vuole avere notizie di suo figlio. Smith aveva detto: “Non so dove è, ma se torna sarà un uomo”.

Non so se sono tornato uomo, voglio dire che certamente sono tornato vecchio perché otto mesi così ti mettono fuori dalla tua generazione, diventi immediatamente vecchio anche per il campo perché essendo uno dei primi arrivati, pur essendo una matricola bassa nel campo sono già un anziano per cui il campo l’ho conosciuto per tutto il periodo.

E’ un momento difficile, un bel momento vedo muovere le tendine e vedo mia madre: “Allora?” “Sono qua!” “Non hai le gambe?” “Sì, le ho però ho la scabbia” “Cretino! La scabbia cosa vuoi che sia”. Dicono: “Dobbiamo portarlo su perché lei capisce…” e lei risponde: “Io me lo porto a casa, garantisco quello che vuole, ho un medico di fiducia, poi se deve andare da qualche parte, faremo gli esami”.

Per essere sicuri dicono: “Lei deve andare almeno all’ospedale militare”.

D: Scusa, Italo, mamma ti porta a casa come?

R: Siccome non c’era benzina, c’era la carrozzella con il cavallo, mi mettono sopra lì e rivedo Torino, via Sacchi… Ad un certo punto facendo un pezzo di strada vi sono le rotaie del tram che accompagnano per andare verso la zona dove vado io. Vicino alla carrozzella vi è uno dei ragazzi del panettiere che hanno davanti la ruota più piccola con la cesta da mettere e dietro la ruota più alta, questo sta fischiettando, infila la rotaia e il pane per terra. Istintivamente mi sono tirato in piedi e ho trovato la forza, questo tira il cavallo e dice: “Che cosa è successo?” “Non ha visto tutto quel pane?” “Sì c’è pane, ne vedrà” …

Sono arrivato a casa e non c’erano ancor ai condomini, ma c’erano i quartieri, “Italo, Italo”, il medico dice: “Abbiate pazienza ma dobbiamo fare altre cose all’ospedale militare”, tubercolosi polmonare bilaterale, mandano l’ufficio leva e quando chiamano la mia leva mi chiamano e gli mando l’atto di riforma, mi riformano, sono riformato. Poi mi arriva il brevetto, ero comandante di squadra partigiana perché ne avevo 15 con me in montagna; mi arriva l’avviso che sono Sergente Maggiore per cui a 16 anni sono Sergente Maggiore, i casi della vita … riformato … A casa è complessa per me perché mi rendo conto che nessuno ha visto e pensato a cose di questo tipo, spiegare cosa c’era nel campo … un giorno mi giro di colpo e vedo che uno fa all’altro “E’ fuori di testa, cosa vuoi stare lì a fare domande”.

Ho conosciuto parecchie opportunità, ho cominciato a girare con Primo Levi che mi voleva insieme forse perché ero un po’ sbarazzino, non mi piace affrontare questo tema in termini truculenti, non è questa la strada per andare nelle scuole, con i ragazzi. Devi partire con la convinzione che loro sono interessati a capire e che hai il dovere di testimoniare.

Se così è il dovere della testimonianza ti porta quasi naturalmente a essere in mezzo, non credo di essere un caso particolare ma credo che il lavoro che abbiamo fatto l’abbiamo seminato in tanti anni, abbiamo lavorato e mi permetto di dire con qualche serietà abbiamo lavorato, senza erosimi e senza atteggiamenti che sono solo demagogici.

Purtroppo, oggi il numero dei sopravvissuti è molto esiguo perché è una legge naturale. A Mauthausen eravamo circa 8.200, alla liberazione eravamo 856, oggi siamo 200 e poi vi è il problema che non è questo il numero giusto ma il numero giusto è quello di quelli che ancora qualche cosa riescono a dire o a scrivere su questo argomento.

Sono esperienze che vanno collegate una all’altra. Parlare della deportazione in senso stretto si può concludere in tre secondi, parlare di trasporto forse anche, dare una visuale più ampia, neppure suggestiva, neppure emozionale, non mi interessa l’emozione, mi interessa quel poco di emozione che serve ad entrare in argomento dopo di che il giovane deve sapere lui leggere e vedere, capire, se è così lui stesso diventa un testimone perché porta avanti quello che ha visto, non quello che gli ho detto io.

Temo fortemente che l’oblio cerchi di superare un po’ tutto, penso che non ce la farà se sapremo tenere fermi i campi, se li difenderemo per quello che sappiamo. Devo dire che la Resistenza internazionale si è fatta viva anche nella deportazione internazionale. Credo che per alcune situazioni che conosciamo più approfonditamene ci sarà comunque, piaccia o non piaccia, il ricordo, parlo di Marzabotto, parlo della Risiera di San Sabba, parlo di Fossoli, perché no anche di Borgo San Dalmazzo. Sono esperienze legate a te ma se non le trasferisci in tempo… Se abbiamo un torto è quello di aver dovuto cominciare tardi perché prima non siamo stati creduti e forse anche a ragione, forse abbiamo faticato noi a inserirci perché l’umanità camminava, noi siamo rimasti indietro, abbiamo perso due anni e due anni nella vita di una persona contano.

Per me è stata una fetta di gioventù che mi sono bruciato così, non mi rimprovero nulla, un’esperienza che ho vissuto e devo dire che dall’accoglienza che trovo ancora adesso vuol dire che in qualche modo l’abbiamo spiegata con serenità.

Se hai questa tua visuale di globalità, di solidarietà che è stata espressa in tanti sensi, anche religiosi, e hai soprattutto la tranquillità di sapere che non hai fatto nulla per tornare, non so se mi spiego, ma sei tornato, forse il destino ha previsto così, voglio dire che vi è ancora una forza, una capacità di dire che passa ormai da testimone a testimone.

Braini Vilma

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Sono Vilma Braini, nata il 14.06.1928. Sono Vilma Braini ma Brainic, i miei nonni e anche genitori, poi trasformati in Braini perché sotto il fascismo era così. Sono di origine slovena, cittadinanza italiana, nata qui a Gorizia, residente sempre a Gorizia Sant’Andrea. Ho già detto che sono di origine slovena, ho iniziato a collaborare con i partigiani già nel luglio 1943 alla caduta del fascismo e poi ho iniziato a capire qualche cosa.

Sono stata arrestata due volte, una prima volta nell’aprile del 1944 quando è stata fatta una spiata e sono venuti ad arrestarci in casa alle quattro e mezza del mattino, hanno arrestato me a casa mia e anche mio zio, ci hanno portato in carcere …

D: Scusa, Vilma, chi ti ha arrestato?

R: La prima volta sono venuti le SS con un interprete sloveno, qui a Gorizia.

Sono entrati in camera, dormivo con mia madre e un’altra sorellina più piccola nello stesso letto perché mio padre è stato portato via ai battaglioni speciali come sloveno, nel gennaio 1943. Sono entrati in camera senza bussare, hanno chiesto “Chi è Braini Vilma?”, ho risposto “Io”, “Vestiti e vieni con noi”.

D: Quanti anni avevi allora?

R: Avevo quindici anni!

D: Quando dici che eri nelle formazioni partigiane, intendi italo slovene o solo slovene?

R: Italo slovene e slovene perché qui il paese era sloveno ma si lavorava anche con gli italiani oltre l’Isonzo.

D: Ricordi le tue azioni, portavi ordini, facevi la staffetta?

R: Portavo ordini, biglietti e bigliettini, nel paese facevo la raccolta di viveri e medicinali, tutte queste cose che erano necessarie per i partigiani. Discutevamo anche delle questioni, imparavamo a parlare lo sloveno. Le scuole slovene non le abbiamo fatte, c’era qualcuno che ci insegnava le canzoni partigiane e per noi era un rinascere perché fino ad allora non si è capito perché si parlava solo l’italiano e i genitori a casa dicevano: “Qualsiasi cosa ti domandano, se ti dicono cosa parli a casa devi rispondere l’italiano”. Mia nonna non sapeva parlare l’italiano, mia mamma poco o niente, mio padre sapeva poco di più perché aveva fatto dei corsi di meccanica.

D: Ricordi se davanti ai negozi c’era la scritta famosa “Qui si parla …”

R: Non davanti ai negozi, nei locali pubblici, dappertutto “Qui si parla solo l’italiano”. Qualcuno ha ancora quelle scritte ma sono negli archivi, nei musei; in Slovenia credo che vi siano ancora certi manifesti che dicevano “Qui si parla solo l’italiano”. Non dovevi esprimerti in sloveno ma fra noi quando si giocava succedeva, fra ragazzi alle elementari nel momento della ricreazione avevamo un parroco che chiamavano “Spinacia” perché era brutto e cattivo, se ci sentiva parlare ce le dava per le mani.

D: Se vi sentiva parlare sloveno?

R: Sì!

D: Quando dicevi raccoglievamo viveri, medicinali, servivano per quell’ospedale partigiano?

R: Dappertutto servivano, non sapevamo dove andavano, non si sapeva nulla né dell’uno né dell’altro, anche nelle varie riunioni dove si andava non ci si chiamava mai per nome.

D: Il tuo quale era?

R: Il mio era “Belzostrelka”

D: Tradotto vuol dire?

R: Vuol dire “Mitragliatrice”. E’ stata fatta una mostra a Villa Manin con dei ritratti enormi, ve la farò vedere dopo!

D: Sono venuti quella notte, quella mattina prestissimo, le SS che erano stanziate qui a Gorizia e ti hanno detto di seguirle e ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato dietro la Chiesa, lì vi è una piazza e ci hanno messo uno distante dagli altri in modo di non poter parlare, vi erano dei soldati, delle SS che ci guardavano. Nel frattempo sono andati a prendere altra gente e quando hanno preso tutti quelli che erano nella lista, è stata fatta una spiata, hanno preso me, mio zio e altri di Sant’Andrea. Ci hanno portato in via Barzellini, in carcere.

D: In quell’arresto vi era anche Elvira?

R: No!

D: Ti hanno portato in carcere?

R: Lì sono stata per due mesi.

D: Ti hanno interrogata?

R: Mi hanno interrogata, ho sempre negato tutto perché alla mia amica hanno trovato un tappo con il simbolo della stella rossa che serviva da timbro, alla sera invece di portarlo via dove doveva portarlo lo ha messo nel cassetto del comò e lì è stata la sua condanna. Poi sono stati portati in Germania gli altri che erano arrestati con me. Sono stata l’unica ad uscire, in carcere ho conosciuto anche un signore che era amico di mio padre, erano della Pro Gorizia e quando mi ha visto ha chiesto: “Che cosa fai qui?”, ho risposto: “Non so”. Anche a lui non ho detto la verità perché non sapevo e questo signore ha fatto tanto, tramite un avvocato, e sono uscita dopo due mesi di carcere. Il 13 giugno il trasporto è partito per la Germania portando mio zio, questa mia amica e altri. I miei sedici anni li ho compiuti in carcere e poi sono uscita, sono stata ferma poco tempo perché mi hanno detto: “E’ meglio se stai ferma, non venire agli appuntamenti”. Si sapeva dove, anche se hanno cambiato tutti i posti di incontro, ci incontravamo anche lungo l’Isonzo dove vi erano boschi, caverne.

Il periodo dal giugno del 1944 fino a settembre 1944 avevano bisogno di me per portare certe cose nei paesi vicini, a Ranziano… quando arrivavo a Biglie vi era la staffetta che aspettava, se dovevo attraversare il Vipacco me lo facevano attraversare con una barca, per non andare sul ponte perché era pericoloso. Capitava qualche volta che bisognava correre sempre in bicicletta ma devo premettere che andavo molto fuori anche perché mio padre faceva il commerciante di frutta e verdura e abbiamo continuato questa attività, poi si è formato un gruppo ma mia sorella e mia zia lavoravano ancora e io anche ho continuato a fare queste cose.

Avevo un lasciapassare tedesco, avevo due lasciapassare, i partigiani sapevano che avevo quello tedesco e quello partigiano. Sapevo la parola d’ordine e ci portavano oltre il Vipacco per andare a Ranziano dove si dovevano portare queste cose ma solo biglietti, per la merce vi erano dei posti di riferimento dove portavano tutte queste cose. Un giorno mi vengono a dire che dovevo andare ad un appuntamento per ritirare dei medicinali e questo alla fine del 1944, sarà stato fine novembre, ho detto: “Va bene, dove devo andare?”, mi hanno risposto: “Devi andare ai giardini, lì ti avvicinerà un signore e ti darà dei medicinali, lui sa chi sei”. Troppe domande non si potevano fare, qualche volta meno si sapeva meglio era. Vado ai giardini ma non trovo nessuno, torno a casa e contatto questo signore avvisando che non c’era nessuno, “Ci sarà stato qualche disguido, vedremo”. Dopo pochi giorni viene questa persona e mi dice “Ora puoi andare”. Era dicembre, verso la fine. Vado per prendere questi medicinali e di nuovo non trovo nessuno e poi viene di nuovo questa persona per dirmi che sarebbe stato meglio che io fossi andata via perché lì non ero più sicura perché questa cosa era un po’ strana, “Fammi passare il Natale a casa poi vengo”. “D’accordo passa Natale e Capodanno ma dovresti andare…” “Va bene, vado”, dovevo prendere dei medicinali anche per mia nonna che aveva settanta anni. Vado e aspetto e cammino e arriva l’allarme, prendo subito l’autobus per andare verso casa senza aver trovato niente. Quando arrivo alla Stazione Centrale di Gorizia scendo dall’autobus perché non arrivava a Sant’Andrea e vado verso casa.

C’è un ponte dove passa la ferrovia, vengo giù per la scaletta, oltrepasso il ponte, guardo verso la città e vedo un gruppo di giovani che quasi conoscevo. Nel frattempo l’allarme era cessato, vado verso Sant’Andrea, vedo da via Fatebenefratelli, Sant’Andrea e la via Barca altri gruppi di ragazzi. Vado verso Sant’Andrea: questi vengono verso di me tutti in borghese, e mi chiedono se sono Vilma Braini, “Sì” ho risposto e mi hanno detto di seguirli.

Io in mezzo e loro una quindicina tutti intorno attraverso tutto il corso di Gorizia fino a via Barzellini e chi passava mi ha visto. Non salutavo nessuno, nel momento in cui ti trovavi in difficoltà era meglio non conoscere nessuno perché non si sapeva quello che poteva succedere.

Mi portano in via Panzeriti di nuovo e lì aspetto dopo Capodanno e mi vengono a chiamare per l’interrogatorio. Mi hanno detto che collaboravo con i partigiani e che ero andata in cerca di medicinali; ho detto che li cercavo per mia nonna, il tedesco ha cominciato ad urlare, gli interrogatori li facevano tutti in tedesco con l’interprete, qualche tedesco sapeva anche l’italiano, ho detto di no che non era vero. Mi hanno portato in carcere …

D: L’interrogatorio dove lo facevano?

R: La prima volta in via Bagni, erano le SS in via Bagni nella Villa Marpurgo, la seconda volta in via Crispi dove c’era la SD, un altro gruppo di SS. Vi era un ufficio collocamento e c’erano lì le SD, l’interrogatorio lo facevano sempre i tedeschi.

Ho detto di no, questo tedesco ha incominciato ad urlare e a dire di tutto, non le ho prese, era solo infuriato e cattivo. Mi hanno mandato di nuovo in carcere ma mi hanno portato in cantina dove c’era una cameretta con una tavolata e un bussolotto in un angolo e sono stata lì per tre giorni e tre notti.

D: Sola?

R: Sì, sola!

D: A sedici anni?

R: Sì, a sedici anni. Ogni giorni veniva la Madre Superiora perché nelle carceri femminili c’erano le suore. Veniva a trovarmi la Madre Superiora, entrava … c’era la guardia che apriva la porta … lei entrava. Le suore una volta avevano le maniche larghe; sfilava una mano e me la porgeva, solo con gli occhi mi faceva cenno di prendere quello che aveva in mano, una caramella o uno zucchero, senza carta, senza niente, io lo prelevavo e lo mettevo in bocca.

D: Ti ricordi il nome? Era Suor Pierina?

R: No, quella per me era la suora più in gamba di tutte e poi vi era un’altra suora buona, Anna, una cuoca.

D: A volte ti dava uno zuccherino senza dire niente?

R: A volte una caramella, solo mi chiedeva come stavo e mi diceva di pregare. Il secondo giorno che ero lì verso l’imbrunire, saranno state le quattro o le cinque, sento chiamare il mio nome, mi guardo in giro, in quella cantina vi erano quelle finestrelle che davano sul cortile dei condannati a morte, non so dirti chi era ma vedo che stava facendo qualche cosa e vedo delle ombre, alza la rete di questa finestrella e mi getta qualche cosa e dice: “Metti subito in bocca e vai sotto il tavolaccio, tocca, vedrai che si sposta il mattone, leva quel mattone e metti quella cartina lì”, così ho fatto. Ti aiutava a vivere, la solidarietà che c’è in quei momenti non si può descrivere.

D: C’erano cose da mangiare?

R: Sì, zuccherini, caramelle, qualche cosa c’era, questo per tre giorni e tre notti. Il terzo giorno sono venuti a prendermi ma avevo la bocca tutta arsa, non riuscivo più a parlare, mi si è gonfiata anche la lingua.

Mi hanno portato alla SD, ho atteso. Nel frattempo che aspettavo in corridoio è venuto un gruppo di donne, c’erano una mamma e una figlia con una borsa, ero seduta e questa mamma mi guardava, apre la borsa, prende un pezzettino di pane, chiede se può andare in bagno e torna con il pane tutto bagnato e mi dice: “Metti questo pane in bocca e non inghiottirlo”. Queste donne erano di Aidussina, era gente che avrà provato chissà quante cose brutte nella loro vita e mi ha alleviato l’arsura della bocca, della lingua, non riuscivo nemmeno a parlare.

Quando mi hanno portato dalle SS per interrogarmi hanno visto che non potevo parlare e hanno cominciato ad urlare e il cane ad abbaiare, avevano sempre il cane vicino, ad imprecare. Mi hanno tenuto ancora un po’ poi mi hanno riportato in carcere.

Quando arrivo in carcere trovo delle ragazze di Sant’Andrea. Anche se avevo i nomi illegali di tutte le ragazze ho solo guardato, ho fatto finta di non conoscere nessuno e sono andata nel mio angolo e lì sono rimasta senza dire niente.

Passa un giorno, passano due, ero sempre appartata, non volevo parlare con nessuno. Viene vicino a me una signora di Sant’Andrea e mi dice “Vilma, perché sei così?” “Ti prego non venirmi vicina”. “Non ti preoccupare, hanno ucciso un tedesco a Sant’Andrea e c’è stato un rastrellamento“. E’ stata come una libertà perché pensi sempre al peggio. Sentire queste cose anche se erano brutte, hanno rastrellato tanta gente, tanti giovani, poi mi ha raccontato la faccenda e ho detto “Sapete che non sono così ma purtroppo devo fare così” e poi ho raccontato qualche cosa e basta. C’era anche l’Elvira …

D: Avevano portato in piazza anche loro?

R: No, questo è il secondo arresto, questo era il rastrellamento, non so come sono state arrestate perché chi è andato a lavorare quel giorno, verso la fine di gennaio, li hanno lasciati ma chi non è andato a lavorare li hanno portati tutti via.

D: E lì hai incontrato l’Elvira!

R: Elvira la conoscevo già prima, ho incontrato in carcere l’Elvira che era amica di mia sorella, ci conoscevamo bene. Nella cella, quando sono tornata, ho trovato anche mamma e figlia e mi è rimasto in mente, non so se era il suo vero nome, si chiamava Diana Varallo. Nel frattempo hanno organizzato un trasporto per la Germania ma non ero inclusa io né Elvira ma quelle che era là prima di noi, ecco perché le celle erano piene. Giornalmente arrivavano donne, ragazzi, uomini ma loro erano sotto, noi eravamo all’ultimo piano.

Il tempo si è poi normalizzato, non venivano a cercarmi, tutti erano d’accordo che andava a lavorare in Germania. Venivano delle notizie in carcere, chi andava a fare le pulizie nei comandi delle SS sentiva qualche cosa poi ci raccontava, la guerra andava verso la fine, ma il 24 febbraio non mi hanno più interrogato, e ho saputo poi che è stato mandato via quel comandante, qualche cosa è successo per cui non sono stata più interrogata.

Il 24 febbraio era l’ultimo trasporto da Gorizia, Trieste, Pola, ma non più in treno da Gorizia bensì con i camion e le corriere e ci hanno portato fino a Pontebba.

D: Durante il trasferimento chi faceva la guardia? Erano germanici o anche italiani?

R: Anche italiani, gente che si conosceva. Uno mi guardava perché lo conoscevo bene, lo guardavo non di buon occhio ed era quasi triste. E’ venuto vicino perché durante il viaggio da Gorizia a Pontebba ci si doveva fermare perché vi erano i bombardamenti. In uno di questi posti, nei boschi, ci hanno fatto fermare per andare dove si doveva andare, questo ragazzo è venuto vicino a me e mi ha detto “Se scappi ti cercherò”. Io l’ho guardato così, è stato un attimo, “Se scappo mi spara” ho pensato, invece, forse lo avrà fatto veramente per aiutarmi, non ho mai saputo niente di lui.

D: Prima di ritornare al trasporto ci racconti di Suor Pierina?

R: Suor Pierina era tutto fare nel carcere, anche se c’era la superiora che non ricordo come si chiama. Suor Pierina mi chiamava quando c’era da portare il caffè ai minorenni, l’aiutavo; facevamo il giro del carcere delle donne. Mi trattava con autorità ma il suo cuore era buono, era autoritaria, imponente ma era buona d’animo, generosa. Facevo il giro con lei, in carcere ha avuto anche qualche amore.

D: Ti coccolava un po’?

R: Sì, ma anche lei aveva una simpatia per un uomo.

D: Ti ha fatto anche un po’ da mamma!

R: Sì, era una cosa inverosimile perché lei c’era e non c’era, vi era un corridoio enorme, con le celle di quelle che non dovevano parlare con nessuno e quando si portava a questa persona il pranzo, la portella si apriva e davi …

D: Nei confronti dei germanici come era Suor Pierina?

R: Per lei non c’era differenza, non si sottometteva, non so poi che fine ha fatto perché tornando dalla Germania non so se c’era ancora, non saprei dire!

D: Era lei che comunicava la lista dei Transport?

R: Sì!

D: Quando siete partiti il 24 quanti eravate?

R: Duecento, duecentocinquanta, non saprei dire esattamente. Io ero sulla corriera di allora, ma la maggior parte degli uomini erano sui camion.

D: Arrivati a Pontebba che cosa è successo?

R: E’ successo che nelle stazioni vi erano questi vagoni merci aperti e lì dentro, dentro, dentro. Se ci fosse stato un fiammifero o uno stuzzicadenti non ci stava.

D: Poi hanno chiuso il Transport … Vi avevano dato delle cose da mangiare o da bere?

R: Quello che avevamo portato da casa perché tutti i genitori hanno cercato di portare il massimo, lo zaino con pane, burro fuso nei vasetti, tutte quelle cose.

D: Perché tutti eravate convinti di andare in Germania!

R: In Germania a lavorare!

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Tanto, non c’era mai fine, siamo arrivati fino a Monaco, poi gli uomini li hanno distaccati e poi hanno agganciato un treno di cose per militari, ricordo dei vagoni, c’erano anche dei camion sui treni. Andavamo verso Berlino verso il fronte, non sapevamo esattamente ma era così.

D: Non vi hanno mai fatto scendere dal treno?

R: Nei boschi, ci hanno fatto scendere, andavamo a fare i bisogni poi si mangiava la neve bella fresca.

D: Avevi diciassette anni, c’erano persone più anziane?

R: Tante persone anziane.

D: Sia italiane che slovene?

R: Poche italiane, la maggior parte slovene; escluse l’Elvira tutte le altre erano dei paesi vicini.

D: Finalmente arrivate ad una stazione dove vi fanno scendere.

R: Ci fanno scendere e ci fanno avviare verso questo Lager. C’era un lago da una parte, cammini, guardi e non capisci che cosa è, si spalancano queste porte con tante urla e ci mandano nelle baracche con tutta la nostra roba e lì siamo stati due giorni e una notte.

D: Il Lager era quello di…

R: Ravensbrück . Quando passavamo oltre la rete vi erano delle deportate vestite così, noi le guardavamo e ci chiedevano di dove eravamo, noi rispondevamo che eravamo italiane, slovene, dicevamo sempre di essere italiane ancora quella volta. “Ma di dove siete, Gorizia, Trieste, Postumia? Se avete da mangiare vi preghiamo, dateci qualche cosa perché vi toglieranno tutto!”

Noi ci guardavamo e dicevamo: “Come ci toglieranno tutto, perché?”

Qualche piccola cosa l’avevamo. Poi ci dicevano: “Non vi avvicinate alla rete perché la rete è tutta elettricizzata”. Qualche cosa abbiamo dato ma poco perché diventi cattiva, egoista, e siamo state lì per due giorni. Il secondo giorno ci hanno di nuovo messe in colonna e fatte ripartire.

D: Quando siete arrivate a Ravensbrück non vi hanno fatto la spoliazione?

R: Niente, noi avevamo tutto, siamo partite da Ravensbrück di nuovo e siamo andate verso Bergen Belsen.

D: A Ravensbrück non vi hanno fatto nulla?

R: Nulla!

D: Vi hanno lasciate in una baracca?

R: Sì!

D: Tutte del vostro trasporto?

R: Sì! Tutte donne perché Ravensbrück è un campo di concentramento di donne.

D: Lì non vi hanno fatto niente?

R: Niente!

D: Dopo due giorni vi hanno rimesso in colonna ancora in treno?

R: Ancora in treno sui vagoni e ci hanno portate a Bergen Belsen!

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bergen Belsen?

R: Non so come descrivere. Tu camminavi per entrare in questo Lager e vi era come una polvere, qualche cosa che si muoveva, non capivi che terreno era, non c’era nemmeno la neve, ma non capivi che cosa erano… Ci hanno portati fino in fondo al Lager dove c’erano queste baracche, ci hanno portati in una baracca dove ci hanno detto di lasciare le nostre cose bene ordinate, piegate su delle panche, le scarpe con i lacci allacciati e ci hanno detto: “Andrete a fare la doccia e all’uscita troverete tutte le vostre cose che avete lasciato”. Questo è stato detto in tedesco, polacco, la maggior pare erano polacche quelle che ci bastonavano e imprecavano, le Kapò.

D: Arrivate a Bergen Belsen vi fanno lasciare lì tutto, la doccia, e la Veronesi era con te?

R: La Veronesi era con me, sempre con me.

Lì ci hanno fatto le procedure di ingresso, la spoliazione, le docce, uscite fuori dalla doccia all’aperto, era fine febbraio, primi di marzo, entrate in un’altra baracca dove come entravi ti consegnavano e non capivi che cosa era, vestiti sporchi, laceri, non erano i tuoi vestiti e ti sei vestita come potevi. Io avevo un vestito celeste di lana, tutto liso, un cappuccio arancione e un cappotto che non era verde, grigio… Non avevamo le casacche zebrate ma i vestiti che hanno trovato, sulla schiena la stoffa zebrata e il triangolo rosso scritto in italiano. Ci siamo vestite ma siamo rimaste scalze perché le scarpe non c’erano. Uscite da questa baracca c’era il nostro mucchio di scarpe, pazzesco, come poter trovare un paio di scarpe che ti andassero bene. Vedo i miei scarponi e più giudizio che fortuna vedo questi scarponi e me li metto, li ho avuti per tutto il tempo …

D: Senza calze!

R: Stracci, come si poteva, poi ci hanno dato una Miska con un cucchiaio e hanno detto che quello era per il cibo. Se lo perdevi … ci hanno mandati poi nelle baracche. Cercavamo di stare più unite, eravamo tutte di queste parti, ci conoscevamo, tutte slovene, e siamo state più insieme possibile, siamo entrate in questa baracca dove c’era altra gente, ucraine, francesi …

D: Accennavi prima al triangolo, ma oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Quella era una tragedia nel senso che quando ci hanno dato il numero ti hanno fatto capire che si doveva impararlo a memoria ma non in sloveno o in italiano ma dovevi impararlo a memoria in tedesco. Quelle che c’erano già ci hanno aiutato a impararlo a memoria, non lo puoi dimenticare né in sloveno, né in italiano né in tedesco. Il mio numero è 36.848, dove vado lo dico in tutte e tre le lingue … è bello così!

D: Perché è giusto … anche voi avete subito la depilazione?

R: No, noi non abbiamo subito né depilazione né altro perché non c’era tempo, non c’erano i mezzi, c’era tanta gente… a Bergen Belsen c’erano tante donne.

D: Nel blocco più o meno in quante eravate?

R: Tanti, tanti, era enorme … per terra non più sulla paglia ma sulla polvere, ormai era quello che era e si dormiva per terra.

D: Siete entrate in una baracca dove c’erano già altre deportate? Vi hanno accolte bene?

R: Non c’era un saluto, ognuno faceva quello che poteva fare. Il grande lavoro era pulirsi i pidocchi, cercare di eliminarli. Ci si aiutava l’una con l’altra sulla testa perché non potevi farlo da sola, ma i vestiti, era indescrivibile come da un giorno all’altro ci si trovava addosso tutti questi pidocchi che ti succhiavano il sangue.

D: Con le russe come è andata?

R: Con le ucraine non avevamo problemi, con le polacche sì. C’erano tante ucraine ma non tante nel blocco. La maggior parte erano polacche e quelle caso mai se potevano te le davano, se non stavi in riga, se volevi uscire, ti guardavano ore e ore ad aspettare le SS che ti controllavano e ti dicevano: “Queste sono tante, 10 morte e 10 vive”. Erano davanti alle baracche perché doveva passare prima la SS, poi il carro per portare via le morte.

D: Quante volte al giorno all’Appelplatz?

R: Una sempre e durava ore e ore. Se c’era qualche cosa che non andava anche alla sera, o perché era successo qualche cosa nel Lager o per punizione ci mettevano all’appello e lì stavi ore e ore al freddo a calpestare questa terra che non capivi che cosa era. Dopo pochi giorni ci hanno detto: “Questa è la nostra cenere” perché dalla baracca dove eravamo noi poco più lontano vi erano i crematori che fumavano giorno e notte. Poi abbiamo capito, vi era questa brutta terra nera, cenere, e si calpestava, non c’era altro da fare.

D: Che cosa è la “cumba”?

R: “… e noi cantiamo la bella cumba, cumba, cumba”; tutte noi slovene ci mettevamo tutte vicine e si cercava di cantare le canzoni partigiane.

D: La cumba che canzone è?

R: Non è una canzone slovena …

D: Non te la ricordi adesso?

R: No!

D: E’ un canto partigiano?

R: Sì, era serbo …

D: Vi mettevate nel blocco …

R: Sì e cantavamo le nostre canzoni partigiane, cantavamo anche “Mamma” in italiano perché fino a Lubiana tutti si cantava in italiano e le polacche un giorno hanno sentito che cantavamo “Mamma” e ci hanno detto “Italiano … mamma”. Le abbiamo guardate e non sapevamo cosa fare, poi Elvira (che aveva una voce bellissima) ha detto “Ragazze cantiamo, fa bene anche a noi”. Abbiamo cantato “Mamma” e poi ci hanno dato un pezzetto di pane per ciascuna, le polacche, le Blockowe

D: Le Blockowe italiane non le avete viste?

R: No, non posso dirlo …

D: La maggior parte erano polacche …

R: Anche ucraine ma poche, la maggior parte polacche.

D: Al mattino appello lunghissimo …

R: Lunghissimo, ore e ore sull’appello, se avevi bisogno di andare in qualche posto dovevi chiedere il permesso e correre, correre, per arrivare prima che arrivasse la tedesca perché c’era la SS tedesca che veniva a guardare. Una volta non sono riuscita ad andare fino a dove dovevo andare, mi sono fermata dietro a una baracca e c’era la SS lontano che mi vedeva. Sono scappata di nuovo … lei mi ha visto con il cappuccio arancione e non potevo dire che non ero io … non mi hanno bastonato né castigato … solo una volta le ho prese da una Blockowa polacca perché le polacche avevano all’entrata della baracca il loro angolo ed era con dei fusti… Dormivano più in alto di noi, io e l’Elvira abbiamo chiesto se si potesse andare sotto lì, ce ne hanno date tante che metà basta, “Italiani, traditori!” Ci dicevano di tutto, fascisti no ma traditori si. Quelle Blockowe … I politici avevano un rispetto in più perché vi erano tanti altri criminali, c’era di tutto, non nel nostro blocco, nella nostra baracca ma negli altri posti c’era gente, ucraini, tanti rom, ungheresi, quelli erano di una dignità enorme, avevano la loro regina…

D: Cosa ti ricordi dell’alimentazione?

R: Prima non ho finito nel dire che la SS mi ha individuata e sono stata castigata nel senso che quel giorno il pane non mi è stato dato, ma ci davano la pagnotta e doveva essere tagliata in dodici pezzi e quel giorno solo in undici. Chi doveva tagliarla ha fatto lo stesso dodici pezzi così il pezzettino di pane l’ho ricevuto anch’io e le altre una briciola in meno. Qualcuna il pane non se lo mangiava tutto subito e qualche volta qualche briciola scappava ma c’erano tragedie per un pezzettino di pane. Quello che mi davano lo mangiavo subito, non dicevo “Dopo”, tutto subito. Quando c’era la fila per andare a prendere questa minestra ti dovevi mettere subito in fila. Le ucraine, quelle che erano già più anziane andavano sempre per ultime e chi dava la minestra … qualcuno dava l’acqua e le altre avevano la parte più densa, cosa c’era? C’era una brodaglia con bucce di patate con la rapa nella Miska e guai se la perdevi e quando finivi di mangiarla la pulivi e mangiavi con le dita; qualche volta la lavavi e qualche volta no, non c’era il tempo …

D: Al mattino vi davano Caffé Ole?

R: Ci davano un pezzettino di pane… non so se cosa era, qualche cosa ci davano.

D: Poi la zuppa.

R: A mezzogiorno.

D: Alla sera?

R: Basta! Non era proprio mezzogiorno …

D: Anche tra voi donne c’era qualcuno che faceva la conta per dividere la fetta di pane?

R: Si faceva il giro.

D: Questo a chi … questo a chi …

R: No, non c’era più quell’entusiasmo perché eravamo sfinite.

D: Al lavoro non vi hanno mai mandate?

R: Mai mandate! Chi ha lavorato in quel campo ha lavorato per il campo dentro ma per due o tre giorni. Verso la fine il campo si stava evacuando e i magazzini erano pieni di roba nostra e i tedeschi ci hanno fatto fare la colonna da Belsen, dal campo di concentramento fino a Bergen, alla stazione ferroviaria. C’era tutto un giro di prigionieri che portavano la merce alla stazione e lì ne sono morti tanti perché qualcuno non ce l’ha fatta.

D: Quando siete arrivati a Bergen Belsen c’era già il tifo petecchiale?

R: C’era già il tifo petecchiale, c’erano gli ospedali … e chi era dentro raccomandava: “Se vi sentite male, se vi sentite qualche cosa non andate mai, non chiedete, cercate di aiutarvi come potete ma non chiedete di andare in infermeria”.

D: Nessuna di voi ci è andata?

R: No, per fortuna. Se andavi là non ti davano nemmeno quello che ti dovevano dare, restavi lì e basta.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: La liberazione è stata cosa … eri talmente sfinita che non riuscivi nemmeno a pensare e a credere, non c’erano più tedeschi, non c’era più l’appello, ti davano da mangiare qualche cosa, chi c’era, chi non c’era, però ricordo che vi erano degli uomini in civile con la fascia bianca. Ci hanno fatti sgomberare le baracche, hanno fatto delle immense tende e ci hanno portato lì, ero già ammalata e l’Elvira mi curava, se non c’era lei non so se sarei stata qui, questo lei lo sa. Quando mi portava fuori dalla tenda guardavamo in giro e le dicevo “Elvira per cosa serve tutta quella legna, perché non fanno fuoco?” avevo freddo. “Vilma, mi diceva, non è legna, sono cadaveri”. Un giorno si sentono dei camion, dei rumori e c’erano i soldati inglesi ma questi uomini li hanno fermati, non li hanno lasciati entrare perché vi era l’epidemia e non so dopo quanto tempo è arrivata la Croce Rossa, in tuta, maschere antigas, ci spogliavano del tutto, ci mettevano delle coperte da dove veniva fuori la polvere, e ci hanno portati negli ospedali militari di Bergen e lì sono stata tanto tempo, non ricordo nemmeno quanto tempo. Ci hanno curato bene perché tanti sono morti quando è arrivata la Croce Rossa e hanno dato da mangiare le scatolette, il pane. Devo dire che le slovene erano provate e hanno detto: “Non dovete prendere niente”. Le addette di quella baracca andavano a ritirare il mangiare, prendevano le scatolette di carne, una volta vi erano dei limoni di celluloide, il succo di limone. Quelle hanno portato a ceste quelle cose, scatolette di carne, hanno trovato delle pentole, hanno messo questa carne dentro e poi andavano a raccogliere lontano dal Lager delle erbe, le lavavano e cucinavano questa carne con quelle erbe da mangiare liquido, erano delle donne meravigliose, sapevano il fatto loro.

D: Sei rimasta in ospedale fino a quando?

R: Fine maggio perché la prima volta che mi sono alzata, non ricordo quando, sono andata alla toilette da sola, mi sono guardata nei vetri e non mi sono conosciuta perché ero trasformata, magra, avevo la bocca così, le orecchie … guardavo le altre e non erano così … Piano piano siamo rinsavite ma quando ero ancora all’ospedale è venuta una delegazione di partigiani jugoslavi, della Croce Rissa, ed è stato un bene anche per noi, hanno chiesto se c’erano delle slovene croate, ci hanno detto che il 1° maggio i partigiani erano arrivati a Trieste e questo per noi era una cosa meravigliosa, abbiamo lottato per questo, abbiamo vissuto per questo, nel male era bello sentire parlare di queste cose e poi ci hanno detto che chi era guarito dall’epidemia sarebbe stato portato nei paesi vicini. Noi ci hanno portato vicino ad Hannover, in una cittadina nelle scuole, in infermerie dove c’erano quelle che stavano poco peggio e lì siamo stati fino a che non ci hanno fatto partire, sono venuta a casa con le jugoslave. E’ la Croce Rossa jugoslava che ha organizzato tutto …

D: Che percorso hai fatto al ritorno?

R: Tutta la Germania, l’Austria, Lubiana, Postumia e a casa.

D: Quando sei arrivata a casa, mamma …!

R: Vorrei dirti una cosa prima del trasporto. Nel trasporto partito da Gorizia vi erano anche due donne incinta di cui nessuno sapeva, nemmeno nel Lager. Finita la guerra hanno partorito, a Bergen, una bambina e un bambino. Erano in una scatolina, una cosa inverosimile e sono ancora vivi, la ragazza si chiama Mira e il ragazzo Boris.

D: Erano slovene?

R: Sì, uno di Ranziano e uno di San Basso. Una cosa indescrivibile.

D: Quando sei arrivata a casa?

R: Sono arrivata a San Pietro in treno, mia madre era di San Pietro. Sono andata da mio zio, ho lasciato le cose che avevo con me e gli ho chiesto la bicicletta e sono venuta a casa da San Pietro. Qualcuno mi ha visto ed è andato più forte di me e quando sono arrivata vicino alla caserma degli Alpini, una volta vi era la Campagnuzza ora vi è il Villaggio degli Esuli, lì c’era la Campagnuzza dove una volta andavamo a pascolare le capre. Ho incontrato mia nonna con la mia sorellina piccola che aveva due anni, mi sembrava di vedere qualche cosa di bellissimo, mia sorellina bionda bionda e la nonna, poi mi è venuto incontro mio papà, la mamma mi ha aspettato a casa, era una donna riservata …. sono momenti che non si possono descrivere, passano gli anni e non puoi dimenticare.

D: Il Lager è brutto per tutti, gli uomini ma anche per le femminucce, ad esempio, il ciclo mestruale …

R: Niente, cessato completamente dall’oggi domani, ma anche a casa non c’era più niente. Il corpo era tutto una vescica, ci hanno curato, io camminavo così, sulla spina dorsale avevo una crosta.

D: Per una donna soprattutto il ritorno, l’umiliazione del corpo, la violenza ma anche non fisica, ad esempio la spoliazione, non è uno scherzo.

R: Io ero giovane, tante erano giovani, ma quelle madri e quelle nonne che avevano il petto che gli veniva giù, non sapevano come celare… Anche noi, non si sapeva dove mettere le mani, come coprirti, attorno a te vi erano solo uomini, nelle baracche le donne.

D: Questo oltraggio della persona …

R: Il non parlare più per tanti anni, il non accettare questa cosa anche nel senso che tu sei tornata, la mia amica non è tornata. Era quasi una colpa perché anche se non ero con questa mia amica, andavo a trovare la mamma, e non era piacevole.

D: A tua mamma non hai mai raccontato che cosa è stato Bergen Belsen?

R: Ho iniziato a parlare di qualche cosa con mio figlio….

D: Vent’anni dopo? Quindici?

R: Mi sono aperta con i nipoti che sono stati il mio toccasana, sono nipoti meravigliosi, raccontavo a loro queste cose come una storiella, la bambina mi diceva quando aveva cinque o sei anni: “Nonna, ancora, ancora, la tua guerra voglio”. Raccontavo un poco di questo, un poco di quello, un poco di quell’altro, qualche cosa dico anche adesso, ti dirò che con i miei nipoti ero ad Auschwitz, io ero Kiascia e lei era Vilma perché lei mi portava, sono delle esperienze meravigliose. Con il nipote ero a Mauthausen e a Ravensbrück, ho chiesto a mio figlio e alla nuora se potevo chiedere a loro di venire. Mio figlio dice “Che cosa chiedi a me, chiedi a loro”, “Se siete d’accordo, c’è la scuola”, “Chiedi a loro, se vogliono venire”.

D: Quanti anni avevano quando li hai portati?

R: La ragazza quattordici, anche David aveva quindici anni ma la seconda volta ne aveva diciotto.

D: Quando sei ritornata dopo tanti anni a Ravensbrück …

R: Era nel 1985, ero dappertutto con la delegazione jugoslava. La prima volta nel 1985 ero con loro, ci siamo guardate perché vi erano i russi, a Ravensbrück si poteva vedere il lago, i Bunker, i crematori, il grande muro ma nel Lager non potevi entrare perché vi erano i russi e allora ci guardavamo e dicevamo “Dobbiamo entrare”.

Con un gruppo siamo andate davanti a questo protone e ci hanno aperto. Quando ci hanno aperto ci hanno fatto un effetto … non avevamo il coraggio di oltrepassare questo portone, poi ci siamo fermate, abbiamo ringraziato, salutato e siamo andate via, questa la prima volta che ero a Ravensbrück. C’era un incontro internazionale, ci hanno fatto un’accoglienza inverosimile, hanno parlato tutte le delegazioni, la musica. Alla fine di tutto questo sono partiti dei palloncini di tutti i colori, tanti, tanti e una scia di bambini con la camicetta bianca e blu e un fiorellino in mano è venuta verso di noi. Erano tedeschi, non sapevamo cosa fare, eravamo esterrefatte, li abbiamo abbracciati, erano bambini, non avevano colpa ma era dura, tremendo. Con questi gesti ti liberi di qualche cosa …

D: Sempre al ritorno, il sospetto che una donna sia sopravvissuta all’altra, hai avvertito qualche cosa?

R: Il sospetto in che senso?

D: Nel senso soprattutto legato al corpo femminile.

R: Il sospetto no, il corpo femminile no perché non ho subito violenze …

D: La gente di qua quando sei arrivata …

R: Non parlavo, “Sei tornata, stai bene?”mi dicevano nel paese, ma quando andavo in città mi sputavano in faccia. Andavo tutti i giorni in città perché facevamo i commercianti, mio padre era un commerciante, andavo ogni giorno al mercato e i fascisti mi sputavano, mi dicevano “Titina e sciava”, questo per anni.

D: E’ importante che i giovani conoscano queste cose?

R: Sì, io parlo tanto con i giovani, ero con il Treno della Memoria ad Auschwitz. Quest’anno eravamo in treno, l’anno scorso con le corriere e si è parlato tutta la notte, avevi a disposizione tanto tempo, hanno fatto anche un DVD, tutti hanno elaborato queste cose. Era un treno di 700 giovani, da Torino a Bari… poter parlare, poter dire le tue opinioni, rispettare quelle degli altri e anche gli altri rispettano le tue.

Ho parlato con tanta gente, vi era gente che non capiva, io sono sempre stata comunista, da quando ho iniziato, non ho fatto scuole slovene, il pensiero di potermi esprimere liberamente! Abbiamo lottato per questo, per me è un ideale, anche se qualcuno mi dice che è un’utopia spero di mantenere sempre questo mio ideale.

Pahor Boris

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Boris Pahor, nato a Trieste il 26.8.1913, come cittadino austriaco. Per quanto riguarda il mio arresto dopo l’8 settembre scappo anch’io. Ero interprete presso prigionieri jugoslavi, prima ufficiali poi a Bergamo vi erano quelli francesi; vengo a Trieste con un treno e la faccio franca fino alla stazione centrale di Trieste.

Alla porta vi era un carabiniere, un militare tedesco e si era ingabbiati. Alcuni sono montati su un treno che partiva e abbiamo viaggiato fino a Miramare dove siamo saltati giù dal treno e siamo scappati verso Contovello e Prosecco ed io ero deciso di andare dai partigiani per salvarmi dalla città.

Mia mamma che era di origine contadina è venuta su da Barcola a portarmi stivali da montagna e un sacco da montagna che poteva tenere la pioggia. Intanto che mi preparavo per partire è venuta mia sorella minore insieme con la sorella di Pino Tomasic, quello che era stato fucilato dopo il secondo processo per la difesa dello Stato nel 1941. Mi dicono: “Cosa vai a fare, i partigiani possono fare senza di te, qua a Trieste abbiamo bisogno”.

Mi sono calato giù alla chetichella e dico: “Qua non mi pescano i tedeschi” perché a Trieste conosco tutti i buchi e per un po’ mi sono arrangiato a raccogliere il necessario per i partigiani. Abbiamo fondato un Comitato nel centro della città ed erano di Lubiana i collaboratori, clericali sloveni che combattevano secondo loro l’ateismo comunista. I comunisti erano la parte più combattiva del Movimento di Liberazione Nazionale sloveno, erano insieme con i comunisti cristiani sociali, i liberali di sinistra e la maggior parte della cultura slovena. Invece questi disgraziati (non posso dire altrimenti) sono venuti qui da noi, avevano una caserma al rione San Giovanni e in città avevano un centro di polizia scoperto dopo perché io avevo collaborato con la rivista dei cristiani sociali di Lubiana perché possiamo dire che era la gente di cultura più qualificata. Ho mandato una novella e me l’hanno pubblicata con tutto che il mio sloveno era abbastanza scadente ma si vede che l’hanno corretta e questi hanno pensato: “Siccome questo ha pubblicato dai cristiani sociali certamente è legato con loro”, soprattutto perché tutti i nostri sloveni della regione Venezia Giulia erano capi tutti antifascisti organizzati, dai comunisti fino ai liberali e ai cattolici, si era tutti antifascisti, soprattutto qua, sapevano che dalla parte cattolica, persino i nostri sacerdoti, erano dalla parte antifascista, contro il Vaticano perché ha dovuto obbedire al Duce e la Chiesa ha dovuto pensionare l’Arcivescovo di Gorizia, che era un vescovo fantastico, aveva detto: “Il Vangelo insegna di dare la lingua che parla un popolo, dare anche la maniera di pregare nella propria lingua; mi manterrò a questa norma o se si vuole a questo cristianesimo pratico a costo di perdere la Mitra pastorale” e poi l’ha persa e hanno mandato via anche lui.

Loro sapevano di questo e sono venuti proprio con questa idea di prelevare tutti quelli che potevano diventare membri della lotta di liberazione nazionale, si presentavano come partigiani bisognosi di dormire e accoglievano la gente festosamente. Non si era parlato sloveno per vent’anni, era tutto proibito quello sloveno, a sentire un uomo che parlava sloveno ci cascavano come pere cotte.

Purtroppo, il primo trasporto eravamo in 600. Questa polizia è venuta a casa mia, abitavo in via San Nicolò, n. 13 – IV piano, sono venuti al mattino alle 6,30, il portone a quell’ora era sempre chiuso e si sono arrangiati loro il giorno prima per la chiave. Erano in 4 o cinque, uno era in abiti civili, gli altri avevamo la divisa un po’ differente, avevano qua una specie di tricolore sloveno. Hanno svegliato la famiglia, quello che era peggio in tutta la questione era che uno dei militari, c’era un capitano prigioniero al lago di Garda dove ho fatto l’interprete, era uno sloveno, vi era un tenente colonnello sloveno, un capitano e un altro; uno si è rifugiato a Trieste e non sapeva se andare dai partigiani o no, mia mamma cattolica ha detto “Prendete la camera delle due sorelle”, una andava a dormire nell’altra camera e dormivamo insieme. Ci avevano presi tutte e due. Io avevo una macchina da scrivere e avevo un articolo che avevo preparato contro i nazisti sotto il marmo del tavolino di notte. Ho detto a mia sorella quando mi salutava in anticamera prima di andare via: “Butta via quello che c’è sotto il marmo”. Invece di aspettare che fossimo andati via è andata subito a cercare il marmo e l’hanno pescata, mi hanno fatto tormentare dalla SS. Mi hanno portato prima in un loro ufficio in centro e mi hanno dato un po’ di colpi con dei cinturoni che avevano, dicevano che mi avrebbero fucilato. Dopo è venuto uno che doveva avere un’autorità superiore, un giovane e dice “Mandiamolo a marcire”, parlava sloveno ….

D: Professore, questo quando è avvenuto?

R: E’ avvenuto il 21 gennaio 1944. Lì sono stato una giornata io e questo disgraziato di capitano, era simpatico, abbiamo fatto un mese e mezzo di prigione insieme. La sera mi hanno consegnato in prigione, ormai avevano fatto il loro dovere e sono stato in cameroni dove c’era posto per quattro persone, eravamo in 32! Le pescavano sul Carso queste persone… Dopo quattro o cinque giorni mi chiamano perché ero già preparato, certi avevano le facce tumefatte, già provate, c’era un comunista, gli avevano fatto delle cose con l’elettricità. Alla radio aveva parlato anche dei sindacati, di come sono ben organizzati, ha ceduto, io avevo paura siccome come costituzione non sono forte, avevo paura di essere tormentato.

Al primo piano di questo palazzo che adesso stanno rifacendo, c’erano le celle, avevo in mente che ve ne erano tre, pare che ve ne siano state altre, o le hanno messe dopo. Io ero colpevole di non essermi presentato perché ero sottufficiale interprete, quando avevano bisogno di questo interprete volevano un ufficiale, il mio reggimento era Cremona, avevo fatto un anno di Libia prima, ho detto “Non sono ufficiale ma la lingua croata la so”, quindi, il mio colonnello mi ha fatto prima caporale poi voleva avere un sergente e quando sono venuto a Trieste ero un sergente, avrei dovuto presentarmi al comando. Ero due volte colpevole, la prima per non essermi presentato, la seconda era che trovandomi con la macchina da scrivere e quel mio articolo ero un antinazista; lui si è fermato soprattutto sul punto della macchina da scrivere più che sul fatto che non mi sono presentato al comando militare.

Vi era la questione della macchina da scrivere che, per fortuna, me l’avevano cambiata alcuni giorni prima. Avevo una macchina molto in gamba, questi nostri uffici avevano bisogno di macchine che facevano copie e me l’hanno tolta dicendo “La sua macchina è troppo bella, gliene diamo un’altra”, per fare le copie ci mettevano dentro tre, quattro carte carbone.

Alla SS dico: “Questo me lo hanno dato perché dal momento che non avevamo la possibilità di studiare lo sloveno, come studente universitario mi hanno detto di correggere la lingua, non è battuto sulla macchina che hanno trovato da me” e là si capisce, ci hanno giocato su abbastanza tempo, poi mi hanno legato a una sedia con un pezzo di manico di scopa tra le gambe in maniera che ero con la testa in giù e le gambe in aria, uno da una parte e uno dall’altra e davano dei colpi; ero come una zebra quando sono tornato in prigione, ero ben conciato.

Volevo dire che lui ha cominciato il discorso dicendo “Noi abbiamo avuto tante occasioni in Europa di parlare con gli intellettuali e ci siamo sempre trovati d’accordo su come poter lavorare insieme”. Tra di me pensavo: “L’avete fatto ma la conseguenza sarà che ne prenderò di santa ragione” e ho resistito, “Se non comincia con l’elettricità spero di farla franca”. Chi ha dato il testo da correggere non mi ha detto chi era, mi ha incontrato al caffé e per essere legali non si dice nome e cognome. Mi arrangiavo con il tedesco perché avevo fatto il seminario cinque anni, avevo sempre insufficiente in tedesco non perché non fossi capace di impararlo ma perché non lo sopportavo dal momento che i nostri vecchi non parlavano dell’Austria a cui si era soggetti. Mi è servito in campo di concentramento il tedesco come mi è servito il francese che ho fatto a Padova. Mentre ero interprete sul Lago di Garda andavo a fare degli esami con il permesso del colonnello, se non mi arrestavano quei disgraziati di collaboratori finivo a Trieste, mi laureavo e volevo andare a fare il partigiano con un attestato di studio perché dicevano che i partigiani erano una raccolta di gente che non faceva niente, erano non mezzi delinquenti ma fannulloni, la gente che non voleva essere del Movimento di Liberazione Nazionale aveva una brutta concezione di questi che si raccoglievano nei boschi, dicevano: “Che razza di esercito è questo?”, conoscevano qualcuno che non aveva mai fatto niente di interessante e che andava a fare il partigiano. Non volevo essere uno studente che non ha finito i propri studi ma volevo finirli.

Mi hanno chiuso durante una notte in un armadio a muro. Da noi abbiamo nelle vecchie case questi armadi a muro, non potevo stare né in piedi né mettermi giù, dovevo stare accucciato. Quella paura dell’ambiente chiuso l’ho sempre avuta, anche andare sotto terra con le miniere, quello è stato il peggio che ho sofferto. Il giorno dopo si è messo a dettare tutto quello che avevo detto e credo che sia stato l’unico caso. C’era tanta gente che se voleva fare a tutti una cosa simile c’era da battere a macchina moltissimo, invece si vede che voleva dimostrarmi una specie di legalità e ha battuta a macchina dicendo “Ha collaborato con i comunisti”, “No, dico, con il Movimento di Liberazione Nazionale”, ha corretto e mi ha fatto firmare.

Ho capito dopo che se avessero pescato uno che era con me, se avesse fatto il mio nome sarebbero stati capaci di farmi impiccare perché tante volte avveniva questo, lo racconto anche nel mio libro, una volta tre polacchi hanno fatto così. Molte volte ho avuto fortuna!

Ho firmato questo e dopo vi era uno di questi lubianesi che faceva il servizio, e mi dice “Vada via, mandatelo in prigione”. Allora sono andato in Coroneo e sono stato quasi tutto il mese di febbraio, mi pare che sia stato il 26-27 febbraio e abbiamo fatto questa vita di preparazione e per fortuna ci hanno mandato via perché pochi giorni dopo al Conservatorio di Musica triestino li hanno impiccati sulle scale, le finestre in via Ghega … se fossi stato lì sarei finito dentro, anche con la firma che ho fatto non sarebbe servito niente.

A Dachau come tutti i campi appena arrivati vi erano i bagni grandiosi, ci prendano via tutto quello che era peloso cominciando dal pube e sotto le ascelle, i capelli, dopo il bagno c’era la disinfezione come le giumente, con un pennellone che bruciava maledettamente e dopo si era sulla neve. La neve c’era già a Trieste, in carcere si andava a fare le passeggiate sul terreno bagnato dalla neve. Era una spianata dove da una parte si usciva fuori dalla doccia e dall’altra si era in fila per passare davanti ad una baracca dove si dava nome e cognome e ci davano il numero che si sarebbe cucito sulla parte sinistra del petto, il triangolo rosso come prigioniero politico e bisognava dichiarare la professione. Non ero preparato e ho detto “Studente universitario”, ed è la peggiore professione per loro, tutta gente che andava a scavare e a lavorare nella cava; se avessi saputo prima avrei inventato qualche cosa.

Il fatto è che all’uscita della baracca si prendevano un paio di pantaloni, una specie di camicia, roba che come vestizione invernale era una miseria, un paio di zoccoli per camminare sulla neve, era un disastro. Quando siamo partiti da Trieste le nostre mamme ci avevano preparato tutta la lana, cappotto pesante, eccetera, è stata una delusione tremenda.

Davanti a una baracca, eravamo 600, siamo stati fermi non so quante ore prima di farci entrare dove si sarebbe dormito e siamo rimasti lì sei o sette giorni, non so la data giusta, si perde poi la concezione del tempo. Poi ci hanno fatto un altro svestimento e ci hanno mandato in Alsazia, in un paese che si chiamava Markirch che voleva dire Chiesa della Maria, in francese si chiama Saint Marie aux mines, che vuol dire Santa Maria alle miniere.

D: Vi ricordate il vostro numero a Dachau?

R: Dovrei andare a pescare le lettere …. posso trovarlo …

D: A memoria non lo ricordate?

R: Dopo di questo ho avuto quello di Natzweiler, poi quello di Dora, dopo Bergen Belsen.

D: Quando siete partiti da Trieste vi hanno portato dal Coroneo alla stazione?

R: Questa partenza e anche quella dopo la mia, siamo tutti partiti dalla parte commerciale, dove c’è adesso il silos. La prima partenza era uguale a tutte le altre solo che a Trieste vi erano tutti vagoni chiusi, diversi trasporti che ho fatto dopo erano chiusi e aperti, peggio era in quelli aperti, si era esposti al freddo e alla pioggia.

D: Da Dachau a Markirch come vi hanno portato?

R: Come al solito era un treno da carro bestiame e ci hanno scaricato alla stazione, ci hanno portato in un’industria di pellame, era tutto a piano terreno con una specie di tavolato dove correva l’acqua sotto e lì vi erano i soliti letti a tre piani per dormire i castelli, là mi sono ammalato perché dal punto di vista intestinale sono suscettibile e ho subito lo shock perché ci alzavamo alla mattina di buon ora e si andava a fare 3 km da un traforo che era ferroviario, abbandonato, e bisognava trasportare i binari da una parte in modo che poi hanno cementato l’altra parte e hanno fatto la fabbrica di motori per i missili, i “V2”. Bisognava lavorare 12 ore e ritornare a piedi sulla neve in questi stanzoni; non era organizzato come i campi normali, era tutto da costruire e dopo che ci davano quel pasto pomeridiano, un pezzo di pane sempre uguale, una specie di pane come una cartolina illustrata di due dita di altezza, si andava a dormire e dopo un’ora e mezza all’appello perché o mancava o … stanchi di 12 ore di lavoro, dormi un’ora e mezza … è morto uno dei triestini, uno di Padriciano, dopo un mese e a me su quella cassa di morto mi hanno portato a Natzweiler. Mi sono buttato per terra, il pane non lo mangiavo, il comandante mi ha dato alcune pedate e mi ha messo su questo camion che partiva, erano 50 km. Da Strasburgo e da questa specie di campo, abbiamo fatto tutte quelle salite, avevo 38 gradi di febbre. Il capo del quale dopo sono diventato interprete, mi ha dato un’aspirina, dopo due o tre giorni l’organismo si è rimesso a posto, ho avuto qualche purga, anche adesso porto sempre con me il sale amaro, sono quello dell’intestino difficile, ma là mi hanno messo in una baracca, una manifattura, e si tagliavano dei pezzettini di diverso materiale. Hanno detto che poi mettevano insieme i pezzettini, facevano dei palloni per i bastimenti affinché non battano contro il molo. Stava con me Gabriele Foschiatti di cui parlo, non sapevo che era del Partito d’Azione; mi diceva che dopo la guerra avremmo organizzato il problema delle minoranze; tra di me pensavo “Venire proprio davanti al forno crematorio per fare l’amicizia tra i popoli!”. Tornando ho letto un libro che hanno fatto a Udine proprio dedicato a lui, c’era una specie di organizzazione sulla carta e poi il fantastico è che è il controllo delle minoranze dei diversi stati deve essere fatto in base a un’organizzazione europea, non ciascun stato dà per se stesso e oggi abbiamo il Parlamento Europeo, ma non c’è una legge dove gli Stati siano obbligati ad essere controllati.

D: Come vi ricordate Natzweiler quando siete arrivati?

R: Era terribile perché è fatto a scalinate, quindi come da noi dal mare fino su al paese del Carso. L’avevo confrontato con i nostri vigneti, lì vi erano i vigneti della morte, ogni giorno non si faceva solo la vendemmia dell’estate. Entrando e andando su per le montagne, alla prima entrata che si fa vi è il patibolo di legno, quando abbiamo fatto il primo incontro con quelli che erano gli anziani. Come nelle vite militari, la recluta che viene deve subire da prima gli anziani, poi i caporali, i sergenti; l’unica entrata è per quel camino che vedi laggiù, vi era un forno crematorio alla buona, vi era un camino di latta, ora lì l’hanno fatto in muratura, ma non era un grande campo, un campo di istruzione. Si capisce che stare alle adunate con neve dappertutto, si camminava sulla neve, restare lì due o tre ore era la fine del mondo, quello è l’unico caso dove ho pregato. Adesso sono credente nel senso che mi inchino davanti all’universo, al mistero ma come istituzione no. Invece una volta ero uno studente che aveva fatto il seminario, ho fatto due anni di teologia, è stata una preghiera della paura quindi, la preghiera non dovrebbe essere fatta in base alla paura ma si vede che già il primo uomo una volta con la paura ha creato il mistero della vita.

Specialmente di notte o di sera, solitamente non si facevano gli appelli, ma con il dilungarsi di un appello restavano tutte queste scalinate piene di gente e poi c’erano i fari, ci sono delle foto, c’era un disegnatore francese che ha fatto dei bei disegni su queste notti o serate scure, oppure quando c’erano i nuvoloni che si potevano toccare con la mano, ho descritto un’impiccagione ed era là che sono stato scosso.

Bisogna dire che su sedici blocchi la metà erano già ammalati, impotenti, gente che era in posizione orizzontale, era difficile uscire guariti da quelle baracche. Quel medico francese che è venuto a farci le fasciature perché avevano paura dei pidocchi, quindi, voleva dire tifo e i tedeschi stessi avevano paura, c’era il pericolo che prendevano anche loro.

Mi hanno tagliato un panericcio (in lingua tecnica non ricordo), c’era una specie di marcio che si è formato e un chirurgo belga ha fatto tre tagli ed ero quasi guarito, avevo una fasciatura di carta, non c’erano fasciature in tela, era tutta carta e mi tenevo questo braccio e dico: “Fino a che ho la fasciatura non vado a finire in qualche ….” più in là di mezzo chilometro c’era la cava. Questo medico dice: “Non so cosa fare, questo è guarito” e ho detto: “Non ti interessare, dammi la fasciatura ancora una volta!” Ha visto che mi arrangiavo in francese, “Italiano si vede che in francese te la cavi”, dico: “Me la cavo ma non perché sono italiano, ho fatto l’università, due esami, e poi sono solo cittadino italiano, la nostra regione è slovena”.

Dice “Ci sono tanti russi, polacchi, ciechi”; ha avuto la buona idea di dare il mio nome, l’ufficio che ho avuto non c’era nel regolamento del campo, c’era un interprete che era uno sloveno di Lubiana, faceva per la parte slava, mi hanno fatto da aiuto interprete al medico capo che era un medico in gamba, e bisogna dire che nel campo di Natzweiler e in quello di Buchenwald, c’erano i cosiddetti NN che in tedesco vuol dire “notte” e “nebbia”. Potevano fare di loro quello che volevano, erano destinati alla morte prioritaria, avevano sulla schiena della giacca, o quello che poteva essere una giacca, una N in rosso. Questo valeva per i francesi, per i belgi, gli olandesi e i norvegesi.

D: A Natzweiler vi hanno immatricolato un’altra volta?

R: Sì, sì!

D: La baracca della tessitura dove eravate voi era la numero 6?

R: Doveva essere stata la 8 perché era in alto, o la 8 o la 7, potrei anche sbagliarmi perché tante cose non mi interessavano, tante cose veramente le ho conosciute dopo. Trovandomi nel luogo del bagno c’era per terra uno zingaro, bello, forte, con la bava azzurra, sapevo che in qualche posto lo avevano gasato ma non mi sono mai interessato, pensavo che fosse nel campo invece fuori, lì dove c’è vicino una specie di rifugio, vi è quel casotto che è una specie di bagno.

Mi interessava nominare questo medico, un primario, non sapeva altro che il tedesco, dovevo aiutarlo anche in francese, l’italiano non lo sapeva quasi nessuno; sono stato suo interprete da marzo a settembre, perché la seconda armata francese con gli alleati erano a Belfor che non era lontana e avevano paura che circondassero il campo e tutti quelli che camminavano li hanno fatti marciare giù fino al treno, dopo non so se sono andati a Dachau perché lì non accettavano volentieri gente di cui non avevano bisogno; Dachau era un campo elite per i tedeschi, i primi deportati erano comunisti, socialisti antinazisti. Quelli che invece, erano ammalati, bisognava portarli dalla baracca fino al camion davanti al campo e dopo dal camion giù e caricarli e si capisce che era un trasporto, erano trasporti malvagi per la maniera con cui bisognava arrangiarsi, bisognava portarli a peso d’uomo. Per caso vi erano delle carriole, i russi facevano questi lavori di fatica, messi in carriole attorno al campo che aveva le scalinate in mezzo ma poi tutto in giro vi era la possibilità di andare con i camion e lì si capisce che c’era tanto bisogno di camion che molte volte bisogna aspettarlo.

Arrivati a Dachau di nuovo tutti quanti la doccia, avevano paura che infettassimo il campo, vi era un mucchio di morti davanti alla doccia. Dachau era grande, vi erano stracci, gavette, tutto il possibile e immaginabile, quelle strisce di carta, come racconto nel libro.

Quando si è entrati vi era questa specie di disastro e il disastro era che moltissima gente non poteva stare in piedi ed era ancora viva, doveva stare sdraiata; vi erano questa specie di anziani, molte volte non erano simpatici, non erano tutti politici, erano pezzi di galera che se la prendevano con i prigionieri come volevano. Poi vi erano anche gli anziani veri e propri ma questi non avevano questo lavoro diretto specialmente quando si entrava nel campo, certi sì ma non erano tanto simpatici, specialmente quelli che facevano i barbieri, gridavano, si faceva tutto gridando e poi quando bisognava levare i peli anche se ve ne erano pochi… Siamo finiti in un blocco di quarantena che era speciale perché non avevano più coperte e ci hanno dato dei sacchi: quello non mi andava giù, essere in un sacco non lo sopportavo, soffro di chiusura, non l’ho mai potuto accettare. A Dachau vi erano 3.000 sloveni, era un grande numero per la piccola Slovenia occupata dagli italiani e dai tedeschi, non so se i tedeschi dalla parte tedesca hanno cercato di svaligiare, mandare la gente verso il sud, hanno fatto man bassa per liberarsi della popolazione slovena da parte loro facendoli partire dalla Slovenia. Quelli che hanno il Movimento di Liberazione nazionale finivano nel campo di concentramento. Si vede che vi era qualcuno di questi sloveni del Movimento Cristiano Sociale che collaborava con il Movimento che i cosiddetti collaboratori li mandavano a Dachau senza avere la documentazione che attestasse che erano legati a quel Movimento, come preventiva, era moltissima gente, gente di cultura, vi era un chirurgo sloveno di fama europea, professori universitari. Hanno trovato tra le cartelle anche Boris Pahor e siccome con questo cristiano sociale avevo pubblicato una novella o due hanno visto che ero da salvare, mi hanno tirato fuori dal blocco e mi hanno trovato un posto da infermiere nel blocco della dissenteria, della cacca. Avevo questo polacco che si faceva passare per tedesco che aveva delle maniere abbastanza rudi; questi disgraziati avevano ancora un corpo in forma o normale e facevano tutto lento, non erano più da far lavorare, lo lavavo, e lui voleva una cosa molto più sbrigativa. La prima occasione che c’era me l’ha data Dora: hanno fatto un’organizzazione speciale per fare sabotaggi, vi erano ingegneri russi, francesi insieme con gli ingegneri tedeschi, hanno pescato i missili che non partivano oppure partivano e cadevano giù e quando li riportavano indietro sapevano da che parte era stato fatto il sabotaggio. Ne hanno impiccati una quindicina, hanno fatto una specie di rotaia attraverso il tunnel.

Insieme a questi ingegneri vi erano anche degli amici che facevano gli infermieri, come hanno partecipato quelli dell’infermeria non so, il fatto è che ne hanno scaricati una decina e hanno chiesto a Dachau dieci infermieri. In parte sloveni, poi vi era un croato e siamo partiti con treni normali fino a Dora; ho dormito una notte in prigione perché non sapevano dove mandarmi e poi hanno deciso per Natzweiler che dipendeva da Dora.

D: Prima di arrivare a Dora che cosa è successo a Monaco?

R: A Monaco vi erano i bombardamenti e le distruzioni, li facevano in maniera tremenda. Dalla baracca della quarantena si poteva, se si voleva, andare a fare i volontari a Monaco in città per scaricare il materiale, le macerie. Non avevo nessuna voglia di andare a lavorare e lì qualcuno ha avuto la maniera di mangiare perché dove cadevano le bombe vi era qualche cucinetta e hanno riempito le maniche delle giacche di cibo. Noi abbiamo incontrato la gente quando si andava in stazione e vi era un attacco aereo e ci siamo rifugiati, eravamo insieme con i cittadini impauriti, ci guardavano con una specie di occhiate che non si sapeva se erano di commiserazione o di paura, non erano di astio in quel momento.

In treno eravamo con questa gente, guardati dalle guardie e dopo mi hanno fatto fare servizio di infermiere, era un piccolo campo, tre o quattro blocchi, vi erano tre cambi. Si andava a lavorare in questi tunnel, questi trafori; molte volte mi hanno pregato, specialmente gli olandesi che erano lavativi e non avevano nessuna voglia di andare di notte. Per andare non era così semplice, prima si faceva un pezzo a piedi, dopo un pezzo con il trenino a scartamento ridotto dove vi erano le finestre rotte, faceva freddo, quando si arrivava ad un paesello bisognava salire su quei treni ribaltabili e specialmente per quelli malati arrampicarsi su era un lavoraccio. Non era un viaggio da accettare. Sono andato per liberarmi del campo anche perché dormivo insieme con i malati, mi sono preso la tisi dagli ammalati con cui dormivo e ci sono andato tre volte, erano 20 gradi sotto zero, dove c’era il vestiario ho avuto una specie di giacchettone che mi arrivava fino alle ginocchia ed era abbastanza solido.

Poi mi ricordo un ……. che aveva un paio di mutande lunghe che nessuno aveva e io me le sono cucinate in un vaso, con l’acqua bollente e ho indossato queste mutande lunghe così sotto il mio pantalone normale avevo queste mutande lunghe che era un caso tutto speciale, con 20 gradi sotto zero stavo bene, avevo una specie di riparo.

Questi disgraziati venivano da me, non entravo nel tunnel ma stavo fuori della baracca con due guardie, con gli ammalati. In queste baracche vi erano delle stufe che si facevano scaldare con quei quadratini di mattonelle di materiale pressato; era fuori che si moriva ma dentro vi erano solo malati. Lì ho avuto la fortuna di fare l’infermiere in una maniera, prima di partire dalle baracche, mentre si mettevano in fila, tutti questi ammalati, specialmente quelli che avevano la dissenteria, si lasciavano cadere i pantaloni e mostravano questa specie di … i resti di caffé, non so come si potrebbe dire, che scendevano giù fino alle ginocchia e a quelli si dava un bigliettino per presentarsi in infermeria, quindi, nelle baracche.

Sei o sette di queste cartelle le davo poi c’era qualcuno che aveva la febbre e aveva il termometro; intanto che uno si cavava i pantaloni davo il termometro all’altro, avrò salvato qualche vita ma era l’unica maniera che avevo di fare cosa utile come infermiere perché per tutto il resto avevo del carbone vegetale, una pasta bianca che faceva come una specie di gesso, ma se non c’era liquido caldo tutta quella roba invece di aiutare impasticciava lo stomaco, non faceva cosa utile, tutto il resto erano aspirine, disinfettante per le ferite, alcol. Lì sono stato fino ad aprile, ho avuto una emottisi che mi ha preoccupato molto, vi era un medico francese che faceva passare per medico anche suo fratello che non capiva niente di medicina e non mi piaceva come medico perché sapeva trafficare con il capo medico, era un medico reggimentale, non una SS. Avevo uno sloveno che aveva la febbre alta alla mattina e alla sera no, era un caso di tisi, potevo dargli un po’ di minestra a mezzogiorno invece dice a questo benedetto capitano “Sì, sì lo mandiamo a Dora”, “Ma”, dico in francese “c’è posto qua”, “No, perché là vi è una baracca speciale per ammalati simili”.

Me la sono legata al dito. Questo tipo non mi piaceva ma ho visto la visita che mi ha fatto. Il mio polmone aveva sputato sangue e aveva detto che non ci trovava niente ma credo che lo abbia detto a mio favore perché se avesse detto c’era un inizio di tubercolosi mi avrebbero scaricato. Mi ha mandato a Dora per fare una visita, i raggi che erano un assurdo fantastico con tutta quella gente che moriva e non avevano più posti nei forni crematori, avevano mucchi di cadaveri che ardevano. Sono stato a Dora quella settimana e mezza, ho visto la morte e lì è morto un infermiere sloveno che è venuto dal comando e si è preso il tifo e siccome non sapevamo nemmeno noi infermieri come è toccata a questo nostro amico, abbiamo fatto la proposta al capo che c’era, un olandese, di fare il controllo dei morti, l’autopsia. L’hanno fatta, davanti a questa baracca vi era un mucchio di gente, corpi che ardevano; arrivavano dei trasporti interi dalla parte russa perché liberavano i campi perché non volevano che venissero in mano ai sovietici e venivano dei treni completi di corpi coperti anche di calce, disinfettati, che venivano trasportati su questa specie di collina dove li bruciavano,. Vi erano questi trasporti infiniti e dopo i primi di aprile, avevo avuto dei bombardamenti, siamo stati un certo tempo senza acqua e senza luce, erano chiodi perché questi corpi di dissenteria si lavavano ma senza luce era una cosa …….. era una cosa infernale! E’ venuto poi questo ordine di scaricare il campo e fare il trasporto. Quelli che potevano camminare sono partiti ma siamo rimasti in quattro o cinque infermieri, più di cinque non eravamo. Vi era questo mio amico infermiere di Spalato, speravamo di restare insieme invece ha detto: “Ci fanno fuori tutti, vado a piedi, se c’è da camminare cammino” e si è salvato, l’ho incontrato dopo la guerra e non ha nemmeno voluto salutarmi. Sarà che abbiamo avuto questa specie di disgrazia che i comunisti sloveni dopo che si sono staccati, dopo che Stalin li aveva scacciati dall’Internazionale hanno fatto quel processo alla staliniana per mostrare ai russi che anche loro sono come loro e moltissimi di questi comunisti onestissimi hanno finito la loro vita impiccati e altri hanno fatto undici anni di carcere. Anche gli ex deportati non avevano tanto piacere di essere riconosciuti perché non si sapeva mai se c’era qualche spia che per vendicarsi… I processi erano finiti, io ne ho incontrato uno, un celebre pittore sloveno, incontrato a Lubiana il primo giorno: mi ha dato la mano ed è andato per le sue e questo l’ho scritto anche nel libro.

Io ero attaccato ai miei malati tanto è vero che c’era la sala vicino dove vi erano gli ammalati con le ferite ma c’era mancanza di minerali. Il corpo umano era esposto a ferite flemmoniche, le chiamavano così, che non si trovano oggi negli ospedali, lì invece bisognava incidere, vi era il pus, e poi vi era molto da fasciare.

Intelligentemente abbiamo scaricato tutto quello che abbiamo trovato nell’infermeria delle SS, molti bisturi, alcol, fiale di zucchero … non so come si dice in termine tecnico, lo zucchero della vite, lo zucchero che si mette nelle fiale agli ammalati, la flebo; hanno fatto anche delle pastiglie di questo zucchero, lo comperavo quando andavo in montagna per resistere, c’erano fiale da 10-20 cm e quelle le abbiamo adoperate in qualche caso per fare iniezioni. Il fatto è che abbiamo fatto un viaggio di cinque giorni, credevo fossero tre invece ho trovato in questi giorni la data e non ci siamo fermati dappertutto perché non sapevamo dove scaricare questo materiale, tutta questa gente semimorente, bisognava caricarlo da prima, uno o due ne abbiamo seppelliti, c’era un russo che faceva questo; di solito i russi facevano tutti i lavori di fatica, era gente che lavorava sul serio, non ammettevano un lavativo senza la voglia di lavorare. Ci siamo fermati il giorno dopo, ne abbiamo seppelliti 150, abbiamo lasciato vuoto un vagone, quello vicino alla macchina e poi non ne abbiamo più seppelliti altri. In vagoni aperti siamo arrivati a Bergen Belsen che il campo era pieno zeppo e anche lì ci hanno scaricati davanti a piccole caserme di un piano e hanno fatto delle foto. Ci siamo fermati vicino a un treno con un carico di patate. Uno ha scavalcato due rotaie, è andato fino a quel treno per prendere due patate e le SS hanno sparato e hanno traforato l’avambraccio e a questo polacco ha detto “Per una patata guarda cosa hai fatto”, prima gli ha detto “Stai attento”, poi si vede che è andato a cercarlo, poi ha trovato del nero, ha trovato delle scarpe, e si è unto con quel nero come un giorno di festa ed è andato lungo i vagoni e lo hanno riportato in linea orizzontale, scaricato nel vagone. Questa è una mia idea, è andato a cercarlo, poteva stare zitto, perché finire all’altro mondo due giorni … molti giorni dopo, caso mai sarebbe stato liberato anche lui. Gli infermieri sono stati così intelligenti che tutti questi malati che trovavamo, che potevano camminare li abbiamo aiutati e anche lì c’era poco da fare. Lì ci hanno liberato gli inglesi il 15 o il 16 aprile 1945 e hanno distribuito delle scatole di prosciutto cotto molto ben cotto e molta gente è andata all’altro mondo con quel prosciutto cotto e non c’erano cucine, e abbiamo dovuto impiantarle.

Con due francesi amici dissi: “Guarda che tagliamo la corda”. Non c’era filo spinato, c’erano i primi tentativi di cannibalismo, c’era gente affamata già nel campo mentre noi infermieri eravamo in posizioni migliori perché un po’ ci arrangiavamo. Con il pane che restava, con il pane che si ordinava per il giorno dopo quando il giorno dopo c’erano morti, si facevano piccoli pezzettini, un po’ di minestra in più ma già lavorare dentro era salute, tanta energia guadagnata. In cinque giorni non ho toccato né da mangiare né da bere, non ve ne era per nessuno, immaginate quelli in piedi, non potevano nemmeno accasciarsi perché non c’era posto, già lì vi era un mucchio di gente morta.

Mi hanno detto: “Noi tagliamo la corda se vieni con noi, e dico: “Meno male che me la cavo, che vado verso la Francia” e poi abbiamo fatto autostop con questi camion vuoti che tornavano indietro per prendere altro materiale. Loro due stavano in piedi e salutavano queste truppe che stavano arrivando ed io ero sdraiato in questa coperta sul tavolaccio del camion. Ad un certo punto ci hanno lasciato e siamo andati a piedi di nuovo e abbiamo dormito in un paese, non abbiamo trovato niente di caldo, la gente era scappata perché aveva paura dei militari.

Siamo arrivati alla frontiera olandese e là gli olandesi avevano preparato dei treni speciali di prima classe per quelli che tornavano. Non erano solo dalla parte nostra ma anche dalle altre parti, non solo da Bergen Belsen. Così abbiamo fatto il viaggio attraverso il Belgio fino alla frontiera francese, poi ci siamo fermati a Lille dove vi era il primo luogo dove abbiamo dormito con le lenzuola e con il pacco della Croce Rossa americana e siamo arrivati a Parigi.

A Lille abbiamo fatto questa sosta che era il 2 maggio, vi era il giornale Liberation, vi erano giornali di un formato di un quarto di giornale, Le truppe jugoslave hanno liberato Trieste”, questo lo racconto in un mio libro uscito in Francia, “Primavera difficile”, ho firmato un contratto e dovrebbe essere tradotto anche in italiano; arrivato a Parigi mi sono presentato all’ambasciata jugoslava e pensavo che dal momento che erano là si sarebbe risolto, invece è stata una bidonata perché ho perso tutto quel tempo che sono stato in Francia come jugoslavo, un mucchio di soldi hanno preso quelli che avevano la documentazione di essere stati là un anno e mezzo e io come jugoslavo sono andato fino a Trieste come deportato politico perché mi hanno dato la tessera dei deportati politici francesi e mi hanno curato come se fossi uno di loro, ho combattuto con i militari clandestini di De Gaulle.

Sono stato là fino a quasi a Natale del 1946 e sarei rimasto ancora lì ma siccome avevo una sorella minore che ha preso la tisi anche lei, scendendo dal quarto piano semivestita con il freddo che c’era, il medico disgraziato della mutua le diceva che aveva un’influenza invece di fare subito un controllo e dopo nel 1947 è morta. Sono tornato nel 1946 ed è morta a novembre del 1947.

Un po’ le due sorelle mi hanno fatto il predicozzo, là ho conosciuto un’infermiera e mi sono innamorato, per fortuna sono tornato alla vita mentre vi erano moltissimi deportati che si suicidavano, ogni giorno la radio cercava “Hai conosciuto il numero tale ..? l’hanno visto?” I primi mesi anch’io ero senza voglia, ho comunicato a casa ma non mi interessava tornare, poi a Trieste vi era il pandemonio, vi era il Movimento di Liberazione Nazionale diretto dai comunisti che non voleva avere contatto con i cosiddetti imperialismi e a scapito dell’interesse che avremmo avuto noi di avere come amici il governo militare alleato hanno fatto il contrario ed è stata una balordaggine politica fantastica.

Questa mia vita in Francia è stata molto in gamba perché mi arrangiavo con il francese entrando nel campo, poi un anno sono stato con i francesi e i belgi, ho conosciuto pochissimi sloveni in questi campi dove ho fatto il mio lavoro come infermiere, il francese lo parlavo abbastanza bene là poi ho fatto una specie di Università sdraiato sulla sedie di vimini. Eravamo la maggioranza, si potrebbe dire quasi tutti, ex prigionieri di guerra francesi, vi era poca gente deportata, uno è morto subito i primi mesi che era là, poi ho conosciuto un polacco e c’era poca gente deportata e questi erano simpaticissimi, tutta gente abbastanza anziana richiamata per la Seconda Guerra Mondiale ed erano tisici anche loro e si sputava, vi erano le bacinelle, cartoncini, sacchetti.

In questo mio libro “Primavera difficile” racconto questa specie di incontro e li si prendevano in giro, “Domani ti portano una cassa da morto”, “No, il prossimo sarà per te”, eccetera, ho imparato il francese, quello popolare, non solo quello parigino ma tutte queste specie di espressioni che mi sono servite dopo quando mi hanno pubblicato in Francia e mi hanno accolto come uno di loro perché anche oggi se occorre cambio disco e parlo francese come se parlassi italiano …

D: Lì avete conosciuto il vostro amore!

R: Per conto mio era una specie di ritorno alla vita in una maniera anormale perché questa francesina simpaticissima, intelligente, finita anche lei in un sanatorio che non aveva niente, il padre che non ha voluto che facesse delle scuole e aveva il dono del disegno.

In sanatorio non so quanto tempo è rimasta. Aveva letto tutti i libri che vi erano in biblioteca, si interessava non era costretta, era molto dotata per la letteratura. Un medico che ha scoperto che non aveva più nulla diceva “Cosa fai qua tu, perché non fai l’infermiera?”, l’hanno fatta infermiera ed era bravissima.

D: Non l’avete portata in Italia?

R: Non aveva il coraggio di venire, ha trovato uno abbastanza ricco del paese che le voleva bene, era un suo amico di infanzia e suo padre le diceva: “Qua vi è un partito in gamba, cosa vai a metterti con uno là?”. Il peggio era che gli ufficiali che erano anche loro ammalati avevano raccontato della Jugoslavia quello che avevano conosciuto durante la Prima Guerra Mondiale: “Lì ci sono le capre,le pecore che passano per le strade della città per andare in montagna, cosa vai a finire laggiù?”

Lei era un po’ sbilanciata, poi le ho spiegato che cosa è Trieste in confronto alle pecore, ma la madre che piangeva che voleva avere i nipotini e il padre che è andato a prenderla in sanatorio e l’ha portata a casa per paura che scappasse, ero tormentato, due anni è durata questa cosa e la racconto nel romanzo che si chiama “Nel labirinto”, tradotto in francese, ci sono queste sue lettere, aveva già il passaporto per venire poi è andato tutto fallito. Mi dispiace perché si sarebbe trovata la maniera, io non ho potuto andare a cercarla perché arrivato a Trieste ho dovuto finire la laurea, finire l’Università. L’avrei portata a casa mia come poi ho fatto con mia moglie quando avevo già il servizio come professore ma per impiantarmi e trovare un posto, ci volevano soldi, denaro e non ho fatto bene a portarla a casa mia perché mia madre era molto religiosa, io non ho voluto sposarmi in chiesa, mia mamma ce l’aveva con me e anche con mia moglie che non mi ha fatto fare quello che voleva anche la sua famiglia che era religiosa …. fino a che non mi sono deciso con l’aiuto di mio padre di comperarmi una casetta a Barcolla. I primi tempi ha dovuto andare dai suoi perché quella casetta che c’era ho dovuto distruggerla nella parte superiore ed alzarla, il primo armadio che c’era ha aspettato che fosse fatto il piano per essere coperto; ero non un poveraccio ma in male condizioni economiche per cui non potevo dire: “La vado a prendere e la porto”. Un altro forse avrebbe avuto più coraggio e avrebbe detto: “Trovo qualche casa del Carso, una cameretta per due persone e la impianto lì”, praticamente, è andata a finire male.

D: Professore, ritornando a Natzweiler vi ricordate se c’era una baracca isolata dalle altre perché facevano anche degli esperimenti?

R: Non era una baracca ma una casetta in muratura ….

D: Non la camera a gas, intendo dentro nel campo.

R: Nel campo non c’era questo …

D: Non c’era una baracca recintata?

R: Questo era fuori del campo, poi sono andato a visitare, c’è vicino quello che si chiama Struthof è appunto questo posto perché Natzweiler prende il nome del paese che adesso si chiama Natzweiler. I nomi tedeschi li hanno lasciati, qua non so perché hanno tirato via quella “e”.

Sono stato al corrente degli esperimenti perché vi era non separato dal campo ma dentro, mi sembra fosse stato il quarto blocco. Dirò una corbelleria perché non sono mai stato attento. Hanno voluto tanti russi comunisti, dicevano loro, per fare degli esami e hanno trovato anche dei recipienti, volevano fare esami del cranio per dimostrare che hanno uno sviluppo mentale differente dal normale, non so in che blocco vi erano questi resti ma quello che ho visto che hanno fatto alcuni giorni prima era questo giovane di cui parlo anche nel libro che gli hanno dato una dose minore e che stava sdraiato e quando passavo vicino tirava il fiato come un pesce fuor d’acqua, non poteva né vivere né morire e non so come sia finito perché l’hanno trasportato con il trasporto di Dachau. Vi erano questi istriani-sloveni non so dove li hanno trovati ed erano destinati al gas e li hanno presi come zingari, poi si sono difesi e hanno detto: “Siamo italiani”, “Zingaro o italiano è lo stesso” hanno risposto.

Uno di loro più intelligente che ha capito che andava a finire male ha detto: “Siamo austriaci”, e questo li ha salvati perché intanto prima a calci hanno cercato di farli tacere e poi finalmente uno ha insistito e diceva che sapeva parlare il tedesco in maniera austriaca, era un tedesco di seconda mano e questo è bastato.

Hanno chiamato un interprete sloveno, non hanno chiamato me perché avrei detto subito che ero dell’Istria. In diversi casi ce l’avevano con gli italiani, come i tedeschi stessi perché nel 1915 avevano lasciato la triplice per andare dagli alleati che offrivano di più e gli alleati volevano prendere un pezzo della Slovenia, l’Istria e gli alleati si interessavano poco di queste regioni e hanno detto: “Dopo la guerra vi diamo questo” …. fatto sta che questo lubianese è arrivato a capire che in sloveno hanno spiegato “Siamo stati soldati austriaci” e allora li hanno cacciati in blocco ma è un po’ strano perché di solito gli zingari li avevano sotto il titolo di zingari, non so perché hanno trovato fuori questi istriani ma si sono salvati.

D: Donne a Natzweiler c’erano?

R: Non ne ho mai vista una, le uniche donne che sono venute e hanno finito i loro giorni a Natzweiler sono quelle che erano in un altro campo e che pare facevano parte dei partigiani o le hanno prese perchè aiutavano i partigiani come hanno fatto gli italiani con Arbe, quelli che erano finiti malamente, paesi interi in questo campo della Dalmazia e potevano anche essere presi come aiuto partigiano, non ricordo il numero giusto ma forse una cinquantina di persone, li hanno portati in campo e mi pare ci fosse anche un prete con loro, a Natzweiler li hanno messi tutti nel blocco della prigione …

D: Nel Bunker

R: Dicevamo Bunker, c’erano delle celle dove non si poteva né alzarsi né sedersi, i medici di notte hanno controllato. Uno a uno dal Bunker attraverso la terrazza un colpo alla nuca, non c’era la possibilità di impiccare, hanno sparato e dopo vi era la seconda, la terza, a uno a uno, e vi era l’unico caso dove vi erano delle giovani che nessuno ha pianto, sapevano dove andavano, non c’era altra maniera di uscire dal campo la notte.

D: Professore, è importante che i giovani di oggi conoscano la storia della deportazione?

R. Ho sempre sottolineato dove mi hanno fatto parlare del mio vissuto che eravamo nei campi dei deportati politici, quindi noi eravamo antinazisti per cui non abbiamo niente a che fare con i campi dove sono finiti gli ebrei, quelli che rimanevano in vita dopo tutti quelli che morivano con il gas. Certi sono rimasti, potevano servire specialmente ingegneri per opere, come Primo Levi, hanno fatto una vita di campo simile al nostro solo che lì non avevano interesse di farli morire presto perché volevano servirsi di loro come al campo di Dora per i missili. Lavoravano ma siccome lavoravano all’interno, il cibo anche scarso, la gente serviva fino a che dopo se facevano sabotaggi finivano anche loro impiccati.

Bisognava sottolineare che vi erano questi campi cominciando da Dachau, Buchenwald, Dora che erano insieme con tutte le dipendenze. Se si pensa che Natzwelier dipendeva da Dachau immaginarsi tutto quell’arcipelago di dipendenze. Ad esempio, Dora era una dipendenza di Buchenwald, che poi aveva alle proprie dipendenze che non si sa quanti campi.

Hanno costruito vicino al campo un centro che chiamano Centro Europeo del Resistente Deportato e questo vale per tutta Europa e si conosce anche questo anche se i francesi non hanno fatto tanta propaganda e molte volte ho scritto di questo. In Francia mi hanno detto il bollettino dei deportati dove pubblicavo molte volte che erano deportati di Dora-Mittelbau, e dicevano “Caro Pahor, caro Boris, questa tua discussione che fai sui campi è una specie di antisemitismo”. Dico: “Dove antisemitismo se parlo parallelamente della gente che è andata all’altro mondo, diventata cenere come gli altri .. il problema ebraico e io sono antisemita?” “Guarda che queste cose come le impianti tu…!” “Come le impianto io, siamo o non siamo stati antinazisti, siamo o non siamo stati in questi campi dove si moriva di malattie. Oltre agli impiccati, abbiamo il diritto o no?”

Bisogna far conoscere, non siamo niente, non avevamo niente a che fare con la gente che è finita con l’olocausto, non c’era niente di olocausto da parte nostra, eravamo semplicemente destinati a morire perché antinazisti e quelli che siamo stati con i francesi, belgi, olandesi e norvegesi. Era semplicemente una vendetta tedesca verso questa parte di Europa che si è messa contro la Germania e speravano che questa parte dell’Europa avrebbe capito che la razza superiore tedesca aveva certi diritti.

Capuzzo Bacio Emilio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Io sono nato nel 1926 ad Anguillara Veneta, un piccolo paese in provincia di Padova.

D: Come ti chiami?

R: Capuzzo Bacio Emilio

D: E sei sempre stato lì ad Anguillara?

R: Ad Anguillara sono rimasto fino al 1938.

D: E poi dopo?

R: Poi dopo la fame, il freddo e la miseria costrinsero mio padre a venire in cerca di lavoro in provincia di Milano.

D: E sei arrivato a Nova Milanese?

R: Siamo arrivati a Nova Milanese nel mese di agosto del 1938.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Io avevo 12 anni.

D: E sei andato a scuola qui?

R: No. Quando ero al mio paese, cioè Anguillara Veneta, si viveva nella miseria totale; ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni.

D: Non avevate i soldi?

R: C’era solo la fame.

D: Il tuo babbo lavorava dove?

R: Mio papà era l’unico metalmeccanico del paese, quando venne convocato dal suo datore di lavoro, il quale gli chiese se aveva fatto la tessera del Partito Fascista, mio padre naturalmente disse di no. Perché era un socialista. Allora il suo datore di lavoro disse: Lei, se vuole continuare a lavorare in questa piccola fabbrica, deve fare la tessera del Partito Fascista, altrimenti da domani lei non può più entrare in questa piccola fabbrica”. Mio padre, da buon socialista, rifiutò questo ricatto. Non solo venne licenziato dal posto di lavoro, ma addirittura sfrattato di casa, perché di proprietà di un fascista, con tre bambini, uno di quattro anni e mezzo, uno di tre anni, uno di uno e mezzo. Io ero ancora nel grembo di mia madre, pertanto posso solo dire che le prime sofferenze le ho subite quando ancora ero nel grembo di mia madre.

D: Quindi dopo avete trovato un’altra casa lì ad Anguillara?

R: Adesso qui bisogna chiarire un momentino i fatti. Con l’aiuto dei diversi parenti che avevamo, cioè con piccoli prestiti, è riuscito a comperare un pezzettino di terreno e costruire una piccola casa comune, avendo poi il peso ed il pensiero di come pagare quei debiti. Infatti quando siamo venuti a Milano, ha potuto vendere quella casa, soprattutto per pagare i debiti che avevamo.

D: Quando tu dici Milano intendi Nova Milanese?

R: Intendo Nova, perché il piccolo appartamento lo trovò qui a Nova.

D: Dove?

R: Nel cortile dei Garlati.

D: A quel tempo non andavi a scuola?

R: Quando sono arrivato a Nova in pratica avevo fatto solo la terza elementare. Ho dovuto abbandonare la scuola che non avevo ancora 10 anni, pertanto quando sono arrivato a Nova, che avevo 12 anni, ho dovuto continuare la scuola e fare la quarta e la quinta elementare.

D: Ti ricordi dove andavi a scuola?

R: In via Roma. L’unica scuola che c’era a Nova era in via Roma.

D: Quindi dal ’38 in avanti tu sei andato a scuola in via Roma?

R: In via Roma. Finita la quinta elementare avevo già qualche mese in più dei 14 anni, allora l’unica cosa era quella di fare il libretto di lavoro. Mi recai in Comune, fatto il libretto di lavoro non ebbi nessunissima difficoltà a trovare il primo lavoro, diciamo, che fu alla SIB di Desio, dove costruivano le casseforti. Però nello stesso tempo io andavo a scuola di apprendistato all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avuto quel piccolo diploma, trovai subito lavoro alla Breda Campovolo.

D: Che dov’era?

R: Era tra Sesto e Bresso.

D: Lì lavoravi dove? In reparto?

R: Sì, lavoravo come apprendista aggiustatore, e posso dire che tutti noi guadagnavamo abbastanza bene, perché c’era un buon cottimo, diciamo, ma tutto questo durò molto poco, circa 2 anni, perché arrivò, come tutti sanno, eravamo già in piena guerra, e arrivò addirittura la caduta del fascismo il 25 luglio 1943.

Da allora le cose si fecero molto, ma molto brutte perché quella fabbrica venne addirittura occupata dai tedeschi perché avevano invaso l’Italia, e occupata quella fabbrica. Abbiamo dovuto addirittura smettere di produrre il nostro caccia bombardiere che all’inizio della guerra era sicuramente uno dei più veloci e forse il migliore in Europa. Abbiamo dovuto, addirittura in poco più di 15 giorni, metterci a produrre un bimotore bombardiere, che si chiamava Cant Z, il nome me lo ricordo, il Cant Z si chiamava.

Si lavorava, però era sparito il cottimo in pratica. Noi lavoravamo tranquilli anche se non molto volentieri fino a quando arrivarono le prime voci che non dovevamo correre quel grosso rischio di sabotare, perché era un grosso rischio, ma di rallentare la produzione perché finiti quei bombardieri lì, sicuramente sarebbero arrivati a bombardare la fabbrica, e così fu.

D: Ascolta un attimo, Bacio, lì in fabbrica, il movimento operaio era abbastanza sensibile, attivo con il discorso legato al movimento della Resistenza?

R: Guarda, quella fabbrica era quasi una fabbrica militare. Basta dire che il direttore ed il vicedirettore erano due alti ufficiali dell’aviazione. Pertanto non bisognava assolutamente pronunciare una parola che andasse contro la guerra o addirittura contro il fascismo. Abbiamo capito che tutto andava per il peggio, bombardamenti, e la guerra si pensava che non potesse finire a breve. Arrivò addirittura il primo sciopero del ’43. Il primissimo, anche se non fu un gran sciopero, però fu sempre uno sciopero per protestare contro la guerra, cioè per la pace, e soprattutto anche per il pane. Perché avevamo le tessere e mi sembra che fossero due etti di pane al giorno, pertanto era soltanto fame.

D: A persona?

R: A persona. Però avevamo solo quello, non è da dire che noi potevamo avere una buona bistecca oppure un piatto di spaghetti, era solo quello.

D: Ma lì, il movimento operaio, dentro in fabbrica, i tuoi compagni di lavoro, quelli più grandi?

R: Quelli più grandi. Avevamo capito che dovevamo prepararci per questo sciopero. Ed in pratica io, oltre che essere un portaordini, con il grosso rischio perché avevamo l’ordine di non allontanarci dal nostro reparto, e questo fu a metà febbraio del ’44, e quando incontrai, per puro caso, il mio capo reparto che lui viaggiava sempre in bicicletta quando faceva gli spostamenti, e lo incontrai, mi fermò e mi disse: “È questo il tuo posto di lavoro?” “Ma sono andato così a salutare un mio amico”, però lui non mi credette, in pratica. Lui non mi credette, tant’è vero che dopo 2 o forse 3 giorni vennero a cercarmi a casa i fascisti ed i tedeschi.

Fortuna volle, era il pomeriggio verso le 17.30, che davanti al mio portone di casa c’era Olivo Favaron, che lavorava insieme a me. Era a casa in malattia da diversi giorni e mi doveva consegnare il certificato della malattia perché noi avevamo la mutua interna, quando vide arrivare i fascisti ed i tedeschi che gli chiesero: “Abita qui un certo Capuzzo Bacio Emilio?” “Sì, abita sopra”. Ma nel frattempo lui prese la bicicletta e mi venne incontro, e mi trovò, perché noi smettevamo più o meno alle cinque e mezza di lavorare, e mi dice: “Guarda che ci sono i fascisti ed i tedeschi a casa a cercarti”. Allora io, alla sera, non andai a casa neanche a dormire, niente, e trovai un piccolo posto sicuro, diciamo. Andai addirittura dal fidanzato di una mia sorella, e lì rimasi per qualche giorno.

D: Scusa Bacio, i fascisti ed i tedeschi che sono venuti a casa tua, di che piazza erano, non lo sai? Non erano di Nova?

R: Non si sa. Venivano chissà da dove.

D: Da fuori?

R: Sì. Da fuori, sicuro.

D: E cosa volevano?

R: Non lo so. Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché oramai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora, allora mi avvicinai ai primi gruppi di partigiani.

D: In fabbrica?

R: No, qui a Nova. Infatti andai, il primo cascinotto fu quello di Felice Beretta, ed il secondo quello di Luigi Erba. Trascorsi dai 15 ai 20 giorni.

D: Scusa Bacio, però tu in fabbrica andavi lo stesso a lavorare?

R: No, niente, adesso ti spiego.

Trascorsi, mi sembra 15 giorni, eravamo verso il 15 marzo, quando la bufera dello sciopero era già superata in pratica, allora io mi presentai all’ufficio del capo reparto. A dire la verità ero anche armato perché il rischio lo avevo già previsto. Mi presentai addirittura armato. Come mi vide, mi disse: “Come mai sei qua?” Ho detto: “Perché, lei non sa niente?”. “A cosa vuoi alludere?” “Non sa che sono venuti i tedeschi ed i fascisti a casa, a cercarmi? E lei ne sa qualcosa. Si ricorda quando mi ha trovato sulla strada e mi aveva chiesto dove ero andato, e che il mio posto doveva essere sul banco del lavoro? Dopo tre giorni sono venuti a casa a cercarmi i fascisti ed i tedeschi.” Mi ha detto: “Cosa vuoi dire con questo?” “Lei mi deve dire cosa posso fare, adesso, io”. E allora lui mi guardò in faccia e mi disse: “Guarda, se tu mi prometti che continuerai a far sempre quello che hai fatto, cioè a non spostarti più dal tuo posto di lavoro, dammi la mano e io ti giuro, come un padre di famiglia, che sarai tranquillo”. Purtroppo questo durò poco più di un mese.

D: Sei ritornato in fabbrica?

R: Sì, sono ritornato. Oh, mi ha dato la parola. E allora quando poi sembrava quasi tutto tranquillo purtroppo, il 24 aprile era di domenica, una domenica mattina verso le 11, arrivarono le super fortezze volanti, a ondate successive, e rasero, diciamo quasi completamente, quella fabbrica. Dopo alcuni giorni mi arrivò una cartolina di presentarmi al comando tedesco per essere mandato a lavorare nella fabbrica della Junker che si trova in Germania. Mi feci subito un’idea diversa e non esitai un solo giorno per fare una scelta, quella di aggregarmi ai gruppi di combattimento partigiani, cioè la GAP.

D: Ma sempre di Nova erano?

R: Sì, sempre qui, la GAP in pratica, le sue azioni non le faceva in montagna, c’era la GAP e la SAP che più o meno facevano le stesse cose. Il nostro compito era quello di tentare i sabotaggi, tagliare i fili del telefono, volantinaggio, scritte sui muri e possibilmente disarmare, perché avevamo assoluto bisogno di armi.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri partigiani novesi?

R: Qui ce n’è diversi.

D: Quelli del tuo gruppo, prima.

R: Sì, quelli del mio gruppo, noi eravamo circa 12. Posso subito fare i nomi. I primi sono andati in montagna. In Valdossola, che furono Olivo Favaron, Giulio Villa, Renato Tagliabue, Attilio Sereni, e Biondi Giorgio.

D: Dove vi trovavate qui a Nova?

R: Il nostro cascinotto era, almeno per gli ultimi giorni, era il cascinotto di Vanzati Emilio, che si trovava nelle vicinanze di Desio. Però quando arrivò l’ordine di prepararsi per partire, perché era la fine di giugno del 1944, come prima cosa dovevamo procurarci un camion, per caricare non solo tutti noi, ma addirittura le armi ed il vestiario e soprattutto una macchina che doveva segnalare il pericolo in caso ci fosse stato.

D: Sapevate dove dovevate andare in montagna?

R: Dovevamo andare verso Dongo, quella era la nostra zona. Però il giorno prima era arrivato un segnale che, almeno dicevano, che noi eravamo segnalati in pratica, allora abbiamo avuto l’ordine di spostarci, e ci siamo spostati al Bosco della Valera, che è un bosco grandissimo. Lì siamo stati due notti in assoluto segreto. Purtroppo dopo due giorni accadde un fatto gravissimo.

D: Ascolta Bacio, quindi voi eravate lì cosa è successo?

R: Eravamo verso le 12.30, dopo pranzo, io ero di guardia, con il mio mitra in spalla, ed arrivò una ragazza in bicicletta. Era ormai troppo tardi per ritirarmi, mi aveva già visto, io la fermai e le chiesi subito: “Come mai ti trovi qui, dove stai andando?” “Ho un appuntamento con il mio fidanzato” “A che ora hai appuntamento?” Mi ha risposto: “Verso la una meno un quarto, dovevamo trovarci qui”. Gli altri, che erano nell’interno del bosco, sentendomi parlare con questa ragazza, vennero fuori e mi chiesero subito: “Chi è questa ragazza?” Io risposi che non lo sapevo, che l’avevo trovata lì e che mi aveva detto che aveva l’appuntamento con il fidanzato. Però passavano i minuti ed il fidanzato non si vedeva, allora Giorgio, che aveva l’arma in mano con il famoso difetto che non teneva la sicurezza, lui forse credeva di non avere il colpo in canna ed in modo scherzoso ha detto: “Guarda che se sei venuta per fare la spia, fai una brutta fine”. Ma lo diceva in modo scherzoso, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte e partì un colpo. Io ho visto il fatto che era sicuramente gravissimo perché veniva fuori addirittura il cervello, e allora io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante.

D: Bacio, lui si era appoggiato la pistola alla sua fronte?

R: Sì, se l’era appoggiata.

D: Alla sua testa?

R: Alla sua testa.

D: Non alla ragazza?

R: No, alla sua testa, ecco quale fu il fatto grave. Io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante, che abitava a Muggiò. Si chiamava Merati Enrico ed io ero l’unico a conoscere l’abitazione del comandante. Arrivato a Muggiò, entrai, era ancora a tavola che pranzava, gli raccontai il fatto, si mise le mani nei capelli. Allora io ed un altro suo amico, che poi è morto nel campo di Mauthausen

D: Robecchi.

R: Ecco, io non sapevo il nome, poi ho saputo che era Robecchi. Prima di entrare nel bosco della Valera, io sono ritornato a questo bosco per sentire le novità, cosa avevano fatto in poche parole e 100 metri prima credo di arrivare al bosco della Valera, dissi a Robecchi: “Tu fermati perché non si sa mai, potrebbe essere pericoloso”. Come io misi piede dentro il bosco della Valera, sentii sparare alcuni colpi per intimarmi di fermarmi. Mi chiesero subito perché ero andato in quel bosco e chi ero e perché ero andato in quel bosco della Valera. Io dissi subito che avevo sentito delle voci che si era ferito un ragazzo, addirittura Biondi Giorgio che abitava nel mio stesso cortile, e che ero venuto per vedere. “Tu non sai niente di tutto quello che c’era qua?” “Io no, perché dovrei sapere qualcosa?”. Allora visto che loro non si decidevano a lasciarmi andare dissi: “Dovete lasciarmi andare, perché i miei genitori saranno preoccupati”. Allora lui ha ordinato a due, perché lui era il comandante, era un brigadiere, ha ordinato a due della Guardia Nazionale Repubblicana: “Portatelo in Caserma, guardate che se fa brutti scherzi o tenta di scappare, non dovete aver paura a sparare”.

D: Bacio scusa, questi erano di Nova o di Desio?

R: Era la Guardia Nazionale Repubblicana di Desio perché lì c’era la caserma.

D: E ti ricordi quando era venuto qui a Nova il Battaglione Azzurro germanico?

R: Ecco, loro in pratica, sono venuti, credo verso la fine del 1944. Perché all’inizio non c’erano, all’inizio.

D: Ma tu te li ricordi questi?

R: Io a dire la verità non li avevo mai visti perché dopo quello che era accaduto io mi allontanai da Nova e rimasi alle cascine di San Fruttuoso.

D: Beh, dopo ci arriviamo. Quindi quelli erano di Desio.

R: Sì, erano della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.

D: Ma c’erano solo italiani, non c’erano tedeschi lì al bosco della Valera?

R: No, no. C’erano solo loro.

D: Ascolta, lì eravate te, Biondi?

R: Eravamo io, Biondi, Attilio Sereni, Macciantelli Maurizio, Erba Luigi.

D: Ma quando è successo il fatto lì di Biondi, della pistola, tu sei andato a Muggiò, gli altri cosa hanno fatto?

R: Gli altri hanno telefonato alla Croce Rossa, perché pensavano, almeno, c’era un filo di speranza per cercare di salvarlo.

D: Biondi lo hanno portato in ospedale?

R: Sì, loro hanno telefonato subito alla Croce Rossa. Lo hanno portato all’ospedale di Desio, gli altri hanno fatto sparire tutto quello che avevamo, era un piccolo accampamento, non è che c’era un granché, le armi e allora dopo in pratica io ho dimostrato di essere tranquillo al massimo, anzi continuavo a dire: “Ma dopo mi lasciate andare a casa, perché io non ho fatto niente, non so niente”.

E allora arrivato sulla via Milano, che è la via della circonvallazione di Desio, uno dei due disse all’altro: “Tu portalo pure in caserma, tanto vedo che è tranquillo”. Come arrivai sulla via Garibaldi, che è quella che ti porta in centro a Desio, c’erano sì e no 200 metri ad arrivare alla caserma, ho detto: “Questo è il momento buono”. Perché io nel frattempo macinavo come fare questa fuga, perché ero deciso a tutto, perché o mi ammazzano oppure dovevo tentare in tutti i modi a scappare. Allora presa la via Garibaldi gli ho dato sicuramente 100 metri di distacco. Arrivai alla Foppa.

D: Eravate in bicicletta?

R: Ero sulla bicicletta di Macciantelli Maurizio che era una bicicletta da donna. Quando arrivai alla Foppa nel fare una curva mi saltarono tutti e due i freni, andai a sbattere contro il marciapiede, ebbi la forza di alzarmi, e in quella arrivava lui con l’arma in pugno e mi intimava ancora l’Alt e mi disse che se tentavo ancora di scappare mi sparava. Ma proprio con l’arma appoggiata.

Però nel frattempo si avvicinarono decine di persone, addirittura c’era uno in borghese, avrà avuto una trentina d’anni, e disse subito: “Ma non vedi che è un ragazzo spaventato, toglili almeno l’arma puntata”. Era un poliziotto in borghese. Pensa un po’. Allora lui disse, “Sì, ma non è necessario tenere l’arma puntata”. Allora lui ritirò l’arma, ma nel frattempo voleva portarmi in caserma. “Io in caserma non voglio venire”, ho detto, “perché io non ho fatto niente, perché devo venire in caserma?” E allora, in pochi minuti, si riempì la strada, perché era domenica, e hanno cominciato a gridare: “Lo lasci stare, non vede che è un ragazzo?”. Sentì che la popolazione era solidale con me, però ha avuto il coraggio di dire: “No, non è un ragazzino, questo qui ha commesso un reato grave”. Io allora gli dissi che non era vero. Allora lui mi rispose: “Perché allora non vuoi venire in caserma, se non hai fatto niente?” Allora io trovai un’altra scusa, e dissi: “Se io vengo in caserma, siccome mi è arrivata una cartolina che dovevo andare in Germania ed ho rifiutato, pertanto potrebbe essere grave venire in caserma, pertanto io non ci verrò mai in caserma”. La popolazione ha iniziato a gridare: “Lo lasci andare, lo lasci andare”.

Nel frattempo si era aperto un varco, io naturalmente sono partito come una freccia, si può dire. Entrai in un cortile, scavalcai un muro, adesso l’altezza precisa non la so, ma ancora oggi stento a credere come io abbia fatto a scavalcare quel muro. Scavalcando quel muro addirittura entrai in un giardino privato dove c’era il negozio della famosa Maddalena che era una merceria, sulla via Garibaldi. Lei in pratica era in strada che guardava anche lei cosa succedeva, allora io le toccai una spalla e dissi: “Adesso lei mi deve nascondere”. “No, io ho paura”. Mi ha aperto il cancello e sono arrivato a Muggiò, dove erano tutti in stato d’allarme, pensando che mi avrebbero torturato, che avrei parlato, chissà che fine avrei fatto. Come mi hanno visto, un respiro di sollievo, in pratica. Mi dissero subito che lì di posto sicuro non ce n’era, partire per la montagna diventava sicuramente più difficile. “Tu non ce l’hai un posto, non dico sicuro, ma almeno tranquillo dove andare?” Io dissi di sì. “Io vado a Borgomisto, lì ho la fidanzatina, e in pratica tenterò almeno di farmi vedere il meno possibile”.

Passarono circa 10 giorni; io avevo cambiato già diversi cascinotti, perché non volevo dare il minimo sospetto, continuavo a spostarmi. Mentre ero su un sentiero che va verso le cascine di San Fruttuoso, arrivarono due persone, che dopo ho saputo chi erano, uno era Enrico Carpani che adesso spiegherò chi era. Come mi vide, mi dice subito: “Non avere paura, siamo dei tuoi”. E allora io presi coraggio, mi dice: “Ma non ti ho mai visto, da che parte arrivi, chi sei, con chi sei…” e gli spiegai il fatto. Allora lui mi ha detto subito chi era. “Io comando un gruppo così e così, alle cascine di San Fruttuoso, della SAP”. Non più della GAP, ma erano squadre di azione partigiana. “Se vuoi venire con me, adesso ti porto dove puoi dormire e se sarà possibile magari trovarti qualche cosa da mangiare”. Allora andò a casa sua, mi prese un pezzo di pane giallo, forse un pezzetto di formaggio, mi spiegò tutto quello che dovevamo fare, e allora tutto sembrava tranquillo, perché addirittura lui aveva il collegamento con la montagna, con la divisione di Moscatelli, figurati un po’.

Il compito della SAP non era solo quello di procurare armi, o di disarmare, per portarle in montagna, ma possibilmente anche di vedere di trovare indumenti. Io sono rimasti lì 4 mesi, a San Fruttuoso. Abbiamo fatto un’azione perché avevamo bisogno assolutamente di un camion per spedire la roba in montagna, avevamo indumenti di prima necessità, diciamo. Io addirittura dovevo segnalare se era possibile fermare il camion o lasciarlo andare. Eravamo sul viale Monza, io ebbi un sospetto, perché aveva il tendone, allora io non lo segnalai. Infatti, lo sai chi c’era su quel camion? Fascisti e tedeschi che sono andati a svaligiare quel magazzino che ci aveva promesso che ci dava un po’ di roba. Allora in pratica il sospetto del proprietario del magazzino cadde sul nostro comandante. Allora noi cercavamo di trovare la verità. Infatti venne un sospetto, perché con i tedeschi ed i fascisti che erano andati a svaligiare il magazzino, sicuramente c’era qualcuno del posto. Solo io non lo sapevo, ma lui sapeva che tre di San Fruttuoso facevano servizio alla caserma dei fascisti di San Fruttuoso. Io addirittura ero andato a trovare la mia fidanzatina, loro tre si avvicinarono ma non sono riusciti a bloccarlo e a disarmarlo. È partito un colpo, in pratica due se la sono cavata bene ed uno riuscirono a prenderlo, lo hanno torturato ed ha fatto tutti i nomi.

Allora io, forse dopo qualche ora, ritornai e vidi addirittura che il cascinotto dove dormivo io, era in fiamme, che era il cascinotto di Enrico Carpani. Non c’era più nessuno, erano scappati tutti. Lui era venuto a Nova, perché aveva dei parenti a Nova, ed a Nova ha subito organizzato il primo gruppo che ha trovato a Nova, che sono stati quelli che poi hanno arrestato, e ti dico subito chi erano, in pratica si arrivò verso la fine di ottobre.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Erano 4 mesi che non andavo a casa.

D: La caserma che tu dicevi dei repubblichini, era quella di San Fruttuoso?

R: Sì, c’era proprio la caserma dei repubblichini.

D: E loro hanno tentato di fare l’assalto alla caserma?

R: No, di prendere uno di questi tre.

D: Che era lì in caserma.

R: Sì, era di sentinella, hai capito?

D: Ho capito. Quindi tu era già 4 mesi e più che non venivi a casa.

R: Sì, che non andavo a casa. Erano tutto luglio, agosto, settembre ed ottobre.

D: Di qua non sapevi niente?

R: Di qua io non ho saputo più niente, perché io mi sono aggregato con la SAP.

D: Che Biondi era morto?

R: Sì, per sentito dire. Biondi era morto dopo 2 o addirittura 3 giorni.

D: E gli hanno fatto il funerale qua?

R: Sì, hanno fatto il funerale.

D: A Nova?

R: Sì.

D: Degli altri invece tu non sapevi?

R: Non ho saputo più niente.

D: Contatti non ne avevi più?

R: No, completamente.

D: Una cosa, a casa tua non era andato nessuno a cercarti?

R: Più volte sono andati, sempre quelli della Guardia Nazionale Repubblicana. Mi cercavano e addirittura il giornale aveva anche esagerato, mi cercavano addirittura per omicidio. Quando io ho testimoniato davanti ai genitori di Biondi e avevo detto come era accaduto il fatto, cioè che si era puntato la rivoltella alla fronte ed era partito il colpo, gli altri avevano testimoniato la verità come ho fatto io, ma loro non mi hanno mai creduto, lo sai perché? Perché il dottor Oglio che era il primario dell’ospedale di Desio, ha dichiarato verbalmente che quello che avevamo detto noi non era vero, e cioè che il colpo lo aveva ricevuto alla nuca, ed era uscito dal davanti. Pertanto loro avevano il dubbio che fossi stato io. Perché lui continuava a dire: “Tu devi dire la verità, anche se ti è partito un colpo involontario.” “Ma la verità è questa”, dicevo. Il mio mandato di cattura, se c’era poi, era questo; l’imputazione era ricercato per omicidio, addirittura.

Allora loro hanno messo sul giornale di presentarsi, mi hanno dato un termine che scadeva, di presentarmi entro 48 ore, altrimenti dovevo essere catturato morto o vivo. Ma io non potevo presentarmi, vado a presentarmi per correre tutto questo rischio?

Allora la burrasca momentaneamente venne superata, diciamo così. In pratica dopo questi 4 mesi, che si era alla fine di ottobre, Benito Mussolini emanò un bando di perdono per tutti, partigiani, sbandati, renitenti, che non avevano commesso reati di sangue, se si presentavo entro 10 giorni venivano perdonati. Io approfittai per andare a casa, per salutare i miei, dopo circa mezz’ora che ero in casa, sarà stato verso le 9 credo, cioè le 21.00, vidi arrivare quelli delle Brigate Nere. Io come li vidi ho detto subito: “Sono venuto a casa per presentarmi”. “No, vieni con noi che c’è da chiarire qualcosa”. Infatti mi portano alle Brigate Nere di Cesano Maderno, e lì ebbi una grossa sorpresa, vidi addirittura Tagliabue Renato, grondante di sangue, perché lo avevano torturato a morte, come? Durante un’azione che andò male, perché si bloccò la macchina addirittura nelle vicinanze della caserma di Cesano Maderno. Lui tentò la fuga, perché erano in quattro, purtroppo rimase chiuso in una via cieca, lo arrestarono, lo torturarono e lui ha fatto tutti i nomi, anche il mio perché loro volevano soprattutto sapere chi era questo Carpani Enrico, e allora: “Chi lo conosce?” “Dov’è la sua abitazione e chi ha collaborato con lui?” Ha fatto anche il mio nome, e allora quando io sono arrivato e l’ho visto conciato così, gli ho detto subito: “Ma chi te l’ha fatto fare a te? Ma come mai hai fatto anche il mio nome?” “Perché io non capivo più niente”. Ma io avevo sempre un filo di speranza, cioè firmare che mi lasciassero, hai capito? E invece no, non fu così. Addirittura ci presero, io, Sironi Mario e Frigerio Mario, ci caricarono su un motocarro e ci portarono a Monza, alla caserma, non so se era delle SS o della Wehrmacht.

D: Alla caserma o al carcere?

R: No, no, alla caserma. Perché loro non potevano, quelli della Brigata Nera, portarmi al carcere. E mi consegnarono ai tedeschi, in una villa, che adesso io non so dov’era questa villa. Mi sembra che mi abbiano tenuto lì sì e no 5,10 minuti. Loro ci hanno consegnati, poi ci hanno caricati su un camion e ci portarono al carcere di Monza. Siamo stati lì più di un mese, sì almeno 40 giorni.

D: In cella?

R: In cella. Eravamo io, Sironi Mario e Frigerio Mario.

D: E loro perché li avevano presi?

R: Perché aveva fatto i loro nomi, prima del mio, aveva fatto i loro nomi. Loro non erano nella macchina che ha fatto l’azione, erano in casa tranquilli che dormivano. Li hanno presi, arrestati, in pratica, anche loro pensavano che forse firmando si sarebbero salvati, no, ci hanno consegnato ai tedeschi. E si salvò proprio Renato Tagliabue. In pratica, lo fecero firmare, rimase nelle Brigate Nere solo lui, solo lui.

D: Ascolta, quando tu eri giù a Monza, nelle carceri di Monza, siete mai stati interrogati, voi?

R: No, niente, il verbale lo hanno fatto le Brigate Nere.

D: E basta?

R: Sì, basta dopo.

D: I tuoi genitori sono venuti a Monza, in carcere?

R: Non potevano, non potevamo parlare né ricevere. Ricevere per esempio un pacco, oppure parlare per un colloquio qualunque e siamo rimasti lì più di 40 giorni. Molto prima di Natale, verso il 20 di dicembre, credo, ci caricarono su di un camion e ci portarono al carcere di San Vittore.

D: Solamente voi tre o c’erano degli altri?

R: C’erano degli altri che noi non conoscevamo. Arrivati al carcere di San Vittore, chiusi in una cella, dopo forse poco più di mezz’ora o un’ora, passò la guardia carceraria e io gli dissi subito: “Ho bisogno di parlare” “Cosa c’è?” “Guardi se io trovo da fare qualsiasi lavoro, non so, pulire i corridoi, distribuire il rancio, basta che ci sia da uscire da questa cella” e dopo un’ora venne e mi disse: “Guarda da domani mattina tu vai a distribuire il rancio, pulisci i corridoi, distribuisci il rancio, ti va bene?” “Sì, ho detto, va benissimo”.

D: Ti ricordi in che raggio eri?

R: Ma adesso non so se era il terzo o il quarto. Perché tu come entri a San Vittore era, tu non puoi immaginare, sì ma forse era il quarto raggio, perché il quinto era quello sopra. Nei cameroni c’erano gli ebrei, me lo ricordo perché andavo a distribuire il rancio, e allora mi hanno detto subito queste prime parole: “Guarda che c’è da distribuire il rancio anche agli ebrei, ci sono famiglie intere, ma tu non devi pronunciare una parola, devi solo dare il rancio”. “Sì” ho detto io.

Infatti quando ho distribuito il rancio uno di questi ebrei si allontanò un momento dalla guardia e mi disse subito, perché lui forse pensava che io fossi un civile, uno di servizio lì, e mi disse: “Non sai se c’è la possibilità di corrompere?” e gli ho risposto “Ma io sono come voi, corrompere cosa?” E loro si sono convinti subito che ero un carcerato come loro, che distribuivo il rancio. Si sono scusati e basta. Allora lì rimanemmo credo fino al 20 o al 21, forse il 20 o il 19 di gennaio,poi ci caricarono.

D: Gennaio di che anno?

R: Del 1945, il 19 o forse il 20, ci caricarono su due pullman, adesso non ricordo bene che pullman erano, ma poi ho saputo…

D: Dell’azienda tranviaria?

R: Ecco, dell’azienda tranviaria, l’ho saputo poi dopo, io. La partenza era sempre verso l’imbrunire, verso sera, perché c’erano i caccia che mitragliavano. Siamo arrivati alle porte di Brescia, si guastò il pullman e allora piano piano ci misero in fila e siamo andati verso il carcere di Brescia, aprirono il portone e ci hanno fatto dormire tutta la notte sul corridoio.

D: Eravate in tanti lì?

R: Sì, un pullman pieno, era.

D: Chi c’era a fare la guardia?

R: La SS. Abbiamo dormito, e alla mattina prestissimo, forse erano le cinque, partenza per Bolzano, si viaggiava su questo pullman, che nel frattempo avevano sistemato; sul pullman c’era un ufficiale delle SS che parlava un italiano perfetto, e allora mi è venuto un dubbio: “Come mai un ufficiale delle SS parla così bene?” Poi venni a sapere che Bolzano e tutto l’Alto Altesino se l’era annesso la Germania e loro si presentavano o con la Wehrmacht o con le SS. Ma poi ho saputo tutto questo.

Beh, siamo arrivati a Bolzano, era quasi mezzogiorno. La prima sorpresa fu un po’ di orzo cotto nell’acqua, neanche il sale c’era, e allora noi per assaporarlo un momentino c’era uno che aveva una scatoletta di estratto di sardine, e mi metteva mezzo cucchiaino, però il sapore non era simpatico. Era una specie di filoncino, di pane nero, sembrava quasi piombo, d’ogni modo queste erano cose normalissime. Allora venne poi la sera. Io mi ricorderò sempre, alla mattina ci svegliavano sempre prestissimo, ho fatto due mattine la conta sul cortile.

D: Ascolta, quando siete entrati a Bolzano vi hanno fatto la spoliazione, vi hanno dato qualcosa?

R: No, niente, solo rasati con la macchinetta, solo i capelli.

D: E basta?

R: Sì che poi li avevo lunghi un dito, perché appena arrivato a San Vittore mi avevano rasato

D: Un numero non te lo hanno dato?

R: No, niente numero, perché forse pensavano già che la partenza era a breve.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Come fai? Avevo fatto due notti lì, in pratica. Perché la terza notte alla sera, verso le cinque mi hanno portato…

D: E con te c’era anche Mario?

R: Sì, Mario Sironi e Frigerio Mario, adesso ti spiego, allora ci prendono, ci portano alla stazione.

D: Questo il terzo giorno.

R: Questo al terzo giorno, di sera, ci chiudono dentro i vagoni, dopo qualche minuto sai cosa ci è venuto in mente? Di cantare “O mia bella Madonnina” guarda che, questo me lo ero dimenticato, questi come ci sentono cantare, “Smettetela di cantare”. Dopo un minuto o due aprono il portellone e ci fanno scendere in due. Ho pensato “Porca miseria!” invece no, era arrivato il camion del pane, dentro i sacchi. Dovevamo svuotarlo dai sacchi e accatastarlo sulla motrice davanti. In due eravamo. Io avevo fatto il mio dovere. Come si finisce, lo sai cosa fa il tedesco? Ci guarda se avevamo il pane. Quello che era insieme a me aveva nascosto un filone di pane, glielo ha portato via e poi gli ha dato quattro calci. “Tu niente?” Il filone che aveva portato via lo ha dato a me. Io come sono arrivato sul vagone l’ho distribuito.

D: Eravate in tanti sul vagone?

R: Guarda, senza esagerare, eravamo minimo una cinquantina.

D: C’era anche gente più anziana di te?

R: C’erano addirittura due o tre, forse anche quattro che avevano sui sessant’anni. C’era un avvocato, un ingegnere, un dottore chimico ed in pratica chiusi su questo vagone, la partenza al rallentatore, poi ci siamo fermati, eravamo quasi sempre fermi tra una stazione e l’altra, non si sa il perché. Lì non potevi tentare la fuga, perché erano lì con i mitra spianati. Come si parte, si mette in moto il treno, sento che c’è un mormorio e ho scoperto che si stavano preparando per tentare la fuga. Un gruppetto, e soprattutto uno di Bovisio, l’ho saputo adesso il nome, perché non si conosceva neanche i nomi in pratica, adesso ho saputo che si chiama Bignami, stavano scassando il lucchetto, perché il lucchetto era quello dello sportello, hai capito? Non quello del portellone grande, quello dello sportello.

Allora io pensavo che forse era una lima a triangolo, non lo so, e invece lui ha detto che era una specie di piede di porco, non so dove l’aveva, che poi lui lo ha confessato qui in Comune, ha detto che lo aveva messo dentro ad una pagnotta di pane, subito dalla partenza da San Vittore, lui così raccontava. Io tutto questo non potevo saperlo. Beh, scassato questo lucchetto, aperto il catenaccio c’era anche da tagliare, ecco perché io avevo pensato ad una lima a triangolo, perché c’era da tagliare anche tutti i reticolati, perché nella parte esterna avevano messo delle file di reticolato, come hanno fatto, so solo che sono riusciti a tagliarlo, e si sono buttati giù i primi due. Questo di Bovisio ed un altro che era di Ferrara.

Poi il treno comincia a viaggiare, io ero in terza posizione, incominciano a dire, “Ma perché ti devi buttare, rischiare la vita, sei giovane, ancora tante speranze”, che poi come hanno visto che io ero deciso a buttarmi giù dal treno, piuttosto che niente hanno detto: “Possono fare la rappresaglia, visto che ne mancano tre”. E allora ho pensato: “Perché non avete proibito anche agli altri due di buttarsi?” Qualcuno ha cominciato a dire: “Se lui ha preso questa decisione, perché noi dobbiamo impedirglielo? Tra due o tre non cambia niente, è volontà sua, lo deve fare e basta”. In pratica oramai eravamo quasi al Brennero, lì ha rallentato un po’ il treno, ma in piena notte, sai com’è, vai a sbattere contro qualcosa, era la morte sicura, ma anche ferirsi era morte sicura, perché poi ti torturavamo anche a morte, anche questo devi dire, però che mi salvò sai cosa fu? Il mezzo metro di neve, e forse anche qualcosa in più. Nel buttarmi sono scivolato giù dalla scarpata, e non mi sono fatto niente, solo un po’ graffiato.

Ho camminato diverse ore. Mi sono accorto di essere in Italia quando ho visto la Fortezza, ho visto un vecchietto, una persona anziana, e ho chiesto se c’erano molti chilometri per arrivare a Bolzano. Adesso non mi ricordo più quanti chilometri saranno una quarantina forse, più o meno. Ma insomma mi aveva detto i chilometri, che adesso non ricordo più, e allora mentre sto camminando arriva un camion tedesco, e si ferma un cento metri davanti a me. Lì c’era forse un bar, un tabaccaio, non mi ricordo più adesso, magari si sono fermati a bere un bicchierino di grappa, e allora mentre loro salgono sul camion, io arrivo proprio lì, ho rallentato un momento perché mi era venuto subito l’idea di saltare, anche se non riuscivo a salire, di saltare sul camion, magari di non farmi vedere per la seconda volta, e invece quando arrivo lì mettono in motto il camion io ho visto che dove c’era la ruota di scorta c’era spazio e allora mi sono infilato sotto, e prima di arrivare alle porte di Bolzano, sai chi ho trovato? Quello di Bovisio che era saltato giù prima di me. Ma molti chilometri prima perché lui l’aveva fatta tutta a piedi.

D: Quindi tu quando eri sul camion hai visto Bignami.

R: Bignami. E allora io gli ho fatto un segno, come a dire, appena posso saltare giù, perché il camion viaggiava, che lo aspettavo in poche parole, ho fatto solo segno così e basta. Come sono arrivato alle porte di Bolzano, il camion rallenta, perché c’erano le strade ghiacciate, non mi sono fatto niente, mi sono buttato giù dal camion, era già forse poco più di mezzogiorno, perché ho visto un gruppetto di operai davanti ad una piccola fabbrica. Parlavano veneto, io mi sono avvicinato, ed ho chiesto, come inizio, se avevano qualche bollino da darmi per comperarmi il pane. Loro mi guardavano in faccia e mi hanno detto: “Ma dove lavori, chi sei?”. Io ho risposto: “Lavoro lungo la ferrovia, sotto i tedeschi, però mi danno poco da mangiare. Se avete un bollino, due, tre, quattro, quello che avete”: Allora loro hanno aperto il borsellino e mi hanno dato forse due bollini mi sembra, ma adesso non lo ricordo bene, e al primo forno del pane, sono entrato e per la prima volta lo sai cosa ho visto? Lo strudel. Allora io gli ho fatto segno, “ma per questo ci vuole?” “No, questo può prenderlo senza bollini”. Nel frattempo avevo atteso sì e no dieci minuti, però mi è venuta un’altra idea, se hanno fatto questo buon gesto, ho pensato, provo a vedere se mi danno un’informazione per vedere come posso arrivare a Milano, e con quale scusa? E allora mi è venuto in mente di dire che mia mamma non stava bene, che però i tedeschi non volevano lasciarmi nessun permesso per andare a casa a Milano, ho chiesto: “Voialtri non sapete per caso se c’è qualche minima possibilità…”

D: Ma questo a chi lo hai detto?

R: Ai ragazzi lì. Sempre ai ragazzi, che sono tornati lì.

D: Della fabbrica?

R: Sì, quella piccola fabbrica, loro erano fuori. E mi hanno detto che sapevano per sicuro che tutte le settimane arrivava un camion della Montecatini da Milano e che poi tornava con un secondo carico, ma che loro non sapevano, di provare ad andare e chiedere informazioni.

Allora nel frattempo, dopo mezz’ora circa arriva il Bignami; per prima cosa gli ho dato il pane e gli ho spiegato il fatto che tutte le settimane partiva un camion della Montecatini che andava a Milano. Ci siamo appostati, più o meno quei ragazzi mi avevano spiegato la strada. “E allora tu vai avanti che non dai sospetto”. Ha suonato un campanello, io sono rimasto in strada; suona il campanello si presenta davanti alle guardie “Ho saputo che parte un camion tutte le settimane, non possiamo avere almeno un passaggio?” “Qui passaggi non ce n’è per nessuno” ha detto. Però il camion partiva la sera dopo, e allora dovevo informarmi come arrivare là. Noi alla sera giravamo, tanto per tirare sera, e all’imbrunire abbiamo visto un tramvai fermo, e siamo saliti. Siamo arrivati ad un piccolo paese, adesso chi è che se lo ricorda, entriamo, là era quasi tutto scritto in tedesco, in una trattoria e chiediamo se avevano qualcosa da darci. “No, non c’è niente”. Allora abbiamo trovato una scusa, “Perché noi vogliamo vedere se troviamo anche un posticino dove dormire, lei qui non ce l’ha?” “No, qui camere per dormire non ce ne sono”. “Perché siamo due camionisti, ci si è guastato il camion, eravamo a Bolzano ed in pratica fino a domani mattina non può consegnarcelo”. Lì c’era uno di loro che ci fa: “Guardate, io posso aiutarvi se vi accontentate, ho una bella stalla, ho dentro un cavallo, vi porto un po’ di paglia e delle coperte, se vi accontentate”. Abbiamo risposto di sì, che bastava riposarsi. Alla mattina addirittura ci hanno portati su in casa e ci hanno dato il caffelatte, pensa un po’. Riprendiamo il tranvai, e andiamo ancora a Bolzano, là eri in mezzo ai tedeschi, perché erano SS e Wehrmacht. Ad un certo punto io ho pensato, perché il mio pallino era Montecatini, o salto su di dietro o salto su in qualche modo io devo andare a Milano, allora sai cosa ho fatto? Ho detto a questo di Bovisio, “Guarda per dare meno sospetto, sai cosa facciamo? Dividiamoci, tu vai per conto tuo, io vado per conto mio”. Mi sono incamminato e sono andato verso la Montecatini. Suono il campanello, era verso mezzogiorno, come mi vede la guardia mi dice: “Ha bisogno?” Io rispondo: “Ho saputo che stasera parte il camion per Milano, se potete darmi un passaggio”. Allora mi guarda in faccia e mi dice: “Però devi dirmi la verità”. “Sì certo.” “Sei scappato dal campo di concentramento?” Io ho detto: “Dal campo di concentramento no, ma sono saltato giù dal treno che non cambia niente. Adesso se volete salvarmi bene, altrimenti me lo dite che troverò qualche altra possibilità”. Lui mi ha detto che ne avevano salvati diversi, e che avrebbero salvato anche me.

Mi chiese se avevo fame, se avevo mangiato, è andato in mensa, mi ha portato un bel piatto di minestrone, e poi mi ha detto che il camion partiva alla sera, verso l’imbrunire, perché viaggiare di giorno era pericolosissimo, perché veniva mitragliato. Là c’erano le brandine delle guardie: “Sdraiati lì, riposati, quando è l’orario giusto, ti chiamiamo”. Verso le cinque e mezza sento alcuni passi, infatti non solo la guardia, ma addirittura cinque o sei in borghese, mi sembra che ci fosse anche una donna, adesso non ricordo bene, ma erano in 5, 6 o 7 non ricordo più. “No, non spaventarti, siamo così e così e vogliamo solo sapere”. Allora mi hanno chiesto come, perché mi avevano arrestato, il treno, e ho spiegato qualcosa. “Noi ne abbiamo già salvati tanti, siamo in contatto con CLN Alta Italia”, adesso io non ho chiesto perché, come mai, e loro mi dissero subito, “Hai qualche soldo in tasca?” “Sì”, ho risposto. Avevo una piccola miseria, hanno fatto una colletta, avevano tirato su circa 400 lire, mi sembra, a quei tempi là non era poco, e in più la guardia mi ha dato una piccola borraccia di grappa, perché diceva che viaggiando su un camion avrei sentito freddo. Perché mi avevano nascosto …

D: Nel cassone?

R: Ecco. “Sul cassone, se senti freddo ti bevi un goccio di grappa”. E allora ogni tanto, “Alt, fermati”, c’erano i controlli, i blocchi, loro guardavano i documenti, e ti lasciavano andare. Quando siamo arrivati alle porte di Usmate, prima di Monza, arrivano i caccia che mitragliavano tutto quello che vedevano in movimento, allora blocca il camion, salta giù, io sono saltato anch’io e ho salutato. “Io me ne vado per conto mio”, ho fatto tutto il giro del parco di Monza, perché passare per Monza poteva essere pericoloso, e nella Piazza di Biassono non trovo, non vedo proprio uno che lavorava insieme a me al Campovolo? Allora lo guardo, sì, è lui, e lui mi chiama e gli spiego tutto. Mi ha portato a casa sua, e alla sera con due biciclette, anzi no, una bicicletta, io in canna, mi ha portato. Come arrivo a casa, verso le sei e mezza, perché siamo partiti verso sera, mia mamma è rimasta, perché mai più lei pensava di vedermi così. Mi dice subito: “Guarda che un’ora fa sono venuti quelli della Guardia Nazionale a cercarti”. “Ma tu non gli hai detto che mi avevano arrestato e mi avevano consegnato ai tedeschi?” Loro agivano tutti in modo autonomo e questo è stato.

D: Ti ricordi quando sei arrivato qui a Nova, che giorno era, più o meno? Quando sei scappato, quando ti hanno lasciato giù dal camion?

R: Guarda, era verso il 26 o il 27 gennaio, del ’45.

D: E poi sei rimasto qui a Nova?

R: No, sono tornato subito là, perché avevo diversi amici.

D: Dove là?

R: A Borgomisto. E infatti qualcosa ho potuto almeno trovare, mi hanno dato un pezzettino di pane, dello stracchino, una cosa e l’altra. In pratica lì si tentava ancora di organizzarsi. E abbiamo fatto una piccola squadra, eravamo in 5. Però diciamo che 3 non erano proprio tranquilli, perché lì a Borgomisto dormiva un ufficiale dei Repubblichini, lui era siciliano, però lì aveva la fidanzata e allora veniva a casa, ma era uno dei nostri, per cui ho detto io: “In montagna non posso andare”, e in pratica ci ha dato le armi e due bombe a mano. Perché lui diceva che era impossibile andare in montagna, perché era arrivata una nevicata, alla fine di gennaio del ’45. “Allora adesso state lì tranquilli, e poi vedremo”, freddo faceva freddo, però verso il 15 di febbraio ho saputo che lì vicino a Cinisello si era avvicinato questo tizio, era un parente di questo mio amico, che poi era venuto anche lui in montagna, si chiamava Bellotti, questo qui aveva uno zio che abitava in una fattoria vicino a Magenta e suo figlio era su in montagna. Allora lui ha fissato un appuntamento, e siamo partiti in tre, questi qui davanti ed io e il mio amico di dietro, con le biciclette, a Rho non ci ferma una squadra di fascisti con il suo comandante? “Fermi. Dove andate?” E allora noi niente, ma proprio sinceri al massimo, ci hanno chiesto i documenti, la carta d’identità, la mia era un po’ falsata, no? Al posto della data 01.02.26 davanti al 2 il mio amico aveva messo 1, perché le carte d’identità si scrivevano tutte a mano a quei tempi. E allora: “Quando sei nato?” “Sono nato l’1 del 12” “E allora perché non ti presenti?” mi ha detto quest’ufficiale. “Perché non mi hanno ancora chiamato, adesso come mi chiamano, vado.” “Ma puoi anche presentarti prima”. “Sì ma siccome siamo in 7 fratelli, e c’è solo mio padre ed una sorella che lavorano, e uno è nell’aviazione e l’altro è nella X MAS per adesso sto a casa per aiutare un po’ la famiglia” “Va bene ha detto, ma dove state andando?” “Stiamo andando da un amico del mio socio, qui, che ha una fattoria e diverse risaie e vogliamo vedere se possiamo avere qualche chilo di riso”. Pensa un po’. Ma ti racconto proprio la verità, eh, qualche chilo di riso. “Sì”,ha detto, “andate pure” E siamo arrivati a questa fattoria, in questa fattoria dopo due giorni arrivò la staffetta a prenderci, sempre a piedi, e la prima tappa l’ho fatta a Suno, lì c’era il comandante di distaccamento, il comandante era Lupo.

E lì ci ha tenuto tre giorni, però ha detto “Io qui non posso tenervi, perché il distaccamento non può superare i 34, 35 uomini, vi devo consegnare al comando di battaglione che si trova a Cavaglio d’Agogna.” E allora alla mattina presto ci siamo incamminati e siamo arrivati al comando di battaglione, il comandante di battaglione si chiamava Scacchi. Alla seconda o terza mattina mi ha detto: “Te la senti di andare giù insieme agli altri che dovete portare su il pane?” Perché ci facevano il pane fresco, eh? Giù al forno, farina requisita ad un mulino dove c’era un presidio fascista, sai chi ti vedo? Carpani Enrico. Come mi vede, mi ha chiesto, e allora gli ho spiegato il fatto, lui andò subito dal comandante di battaglione a spiegare chi ero e chi non ero, come arrivo su mi chiama il comandante di battaglione e mi dice “Guarda è venuto il tuo ex comandante che lo hai visto giù in paese e vuole portarti con sé, io ti terrei, vorrei che tu rimanessi qui, perché ho saputo quello che hai fatto e in pratica siccome adesso ne arrivano moltissimi di nuovi, in montagna, pensiamo di fare un altro distaccamento. Se rimani qui, con la formazione di questo nuovo distaccamento tu farai il vice comandante.” All’inizio io accettai, accettai perché io non ho mai voluto grosse responsabilità, “Si” ho detto, “io rimango”. Però il comandante del distaccamento non c’era mai lì perché era il comandante della Volante che sequestrava gli ufficiali per darli in cambio ai partigiani. Allora in pratica, dopo credo neanche 15 giorni, si pensava ad un grosso rastrellamento, cioè l’allarme era quello, avevamo capito che la responsabilità era troppo grossa, perché io sì potevo rischiare per conto mio, perché con quello che avevo fatto avevo rischiato diverse volte, ma era quel peso lì, la responsabilità degli altri, io non me la sentivo, e allora ho detto “Mi avete fatto vice comandante, ma il comandante non c’è mai? Perché io devo avere tutte queste preoccupazioni e questo peso di essere responsabile anche per gli altri?” E allora mi ha detto: “Sai cosa facciamo? Dobbiamo formare la squadra dei guastatori, aggregata al comando di battaglione”. Uno addirittura, Fieramosca, era un comandante di distaccamento, e durante un’azione aveva lasciato diversi morti, e anche lui non se la sentiva più. Gli altri erano tre capi squadra e in più il Topo che lo avevano dato in cambio, sì, lo avevano fatto prigioniero e dato in cambio. “Se tu accetti di far parte di questa squadra”. “Sì”, ho detto.

E allora lì ho accettato, e sono rimasto con la squadra dei guastatori. Ma in un certo senso potevamo essere in certi casi tra i più fortunati. Adesso ti spiego perché. Quando attaccavamo i presidi, Borgomanero, Cressa, Romagnano, dovevamo noi bloccare la strada in caso di rinforzi. Lo sai come si minava la strada? Con le bombole di ossigeno, si riempivano di dinamite, soprattutto la gelatina e avevamo tritolo, gelatina, miccia detonante, miccia lenta ed i detonatori. Guarda che c’era un grosso rischio, la mettevamo da un lato della strada e con il percussore, eravamo sempre in due, uno tirava il percussore e tirava il filo di là della strada, quando arrivava il rinforzo che poteva essere un autoblindo, e se partiva era un disastro, ma dovevamo sempre scegliere un posto dove potevamo, in caso, difenderci. Hai capito? O attraverso un canale, un fosso o una casa, perché dovevamo stare lì più o meno, per curare, anche un cane poteva avrebbe potuto far saltare.

Perciò il pericolo c’era e in caso se arrivava il camion che erano magari duo o anche tre, saltava sì il primo, ma gli altri due cominciavano a sparare, e in quel caso lì bisognava non scappare ma anche difendersi e avevamo delle armi che erano abbastanza micidiali, perché lo Sten era un grosso rischio perché poteva fare bersaglio a 50 metri, non di più. Lo Sten era un’arma sicurissima perché non si inceppava mai, ma il Bren faceva bersaglio a 200 metri. Era un’arma potentissima. In ogni modo ci andò benissimo, il rischio peggiore lo abbiamo corso al presidio di Arona, quando abbiamo attaccato il Presidio di Arona, io ed un altro dei guastatori, il giorno prima, avevamo lì due prigionieri, un maresciallo ed un tenente; erano due padri di famiglia, e non sapevamo come poterli salvare, perché mandarli a casa, tenerli lì non potevamo, beh è arrivato l’ordine di portarli su al comando di divisione che era su a Bocca, sempre a piedi, allora li consegniamo e nel frattempo però ci viene consegnato il primo bazooka che lo avevano lanciato tre giorni prima.

E con quello abbiamo anche fatto l’attacco del presidio di Arona. Lì ci sono stati solo 14 morti, perché sono arrivati tutti i rinforzi da Meina, che erano più di 100 tedeschi, e quei famosi 100 tedeschi lo sai chi erano? Quelli che quando sono arrivati dopo l’8 settembre e hanno rastrellato, mi sembra più di 200 ebrei, donne, bambini e vecchi, li hanno massacrati e buttati dentro al lago. Allora è successo così, quelli erano animali in pratica, non erano esseri umani, erano animali.

Allora poi è arrivato il rinforzo della Folgore da Novara, abbiamo resistito quasi 3 ore, ma poi abbiamo dovuto ritirarci e ci abbiamo lasciato 14 morti, più 3 civili. Ad ogni modo il rischio peggiore io l’ho avuto alla fine, quando sembrava che tutto fosse finito, non so se era il 23 aprile, perché noi, in pratica al 23 aprile avevamo già in mano i carri armati della Folgore di Borgomanero. E’ riuscito un prete a convincerli alla resa, perché oramai era la fine, era inutile resistere, spargere sangue. Erano i peggiori che c’erano, basta dire che al presidio di Borgomanero tre volte abbiamo tentato e non hanno mai ceduto. L’ultima volta che pensavamo di farcela, lo sai come? D’accordo con gli americani che dovevano gettarci due o tre bombe, e invece era una giornata di vento e le bombe non hanno centrato in pieno il presidio e abbiamo dovuto ritirarci.

Avevamo addirittura i loro carri armati, mi sembra il 23 aprile o forse il 24 arriva un ordine che a Castellazzo di Novara si sono concentrati, allora si diceva, più di 2000 fascisti. C’era la Monte Rosa, la Folgore, le Brigate Nere; noi come guastatori dovevamo perlustrare prima le cascine, prima di arrivare lì. Arriviamo nella prima, non troviamo niente, senza chiedere permesso, un colpo alla porta e si sfondava. Arriviamo alla seconda, io do un colpo alla porta e mi vedo due, avevano la nostra divisa, la divisa cachi che l’avevamo messa su 15 giorni prima. Quelli del Monte Rosa avevano il color cachi come la nostra e io stavo per dire: “Ma sono i nostri” no, invece loro avevano le fiamme bianche, noi invece avevamo le stellette bordeaux, “Ma no questi sono fascisti!” Il Topo lì mi dice di disarmarli, io li disarmo e fuori c’era Mosca, “Voi altri chiedete rinforzi, tentate di accerchiarli, io rimango qua dentro”, però un minuto prima, disarmati questi, al Topo viene in mente di guardare nell’altra stanza, e stavano venendo giù diversi fascisti. Sempre quelli, e allora scarica, si può dire, una raffica di mitra, e allora diciamo ai due che erano rimasti: “Ce ne sono altri?” “Sono sopra che preparano la mitraglia per la difesa”. E quindi loro, Fieramosca, il Topo hanno costeggiato il muro e hanno portato questi due fascisti dove c’era il grosso, per avvertire che bisognava accerchiarli. Io ero in trappola, cosa faccio, cosa non faccio, di là sentivi i lamenti perché qualcuno era ferito, in poche parole, in pochissimi minuti cominci a sentire sparare a destra, a sinistra, e sai cosa è stato il miracolo, diciamo così? Che quelli che erano sopra, come hanno sentito che stavamo per accerchiarli, sono saltati giù, perché erano al piano superiore, li vedo volare dalla finestra, meno male. Lì mi sono salvato.

D: Il 25 aprile come te lo ricordi?

R: Il 25 Aprile poi era una festa, perché oramai la guerra era finita, gioia, qualche piccolo divertimento, era normalissimo.

D: Voi siete entrati a Novara, però?

R: Sì. Dopo è arrivato l’ordine, io per 2 o 3 serate ho dormito con una famiglia privata, dopo il 25 aprile. Due notti mi sembra. Poi è arrivato l’ordine, ho caricato il camion e abbiamo dormito in una caserma a Novara, al 29 mi sembra, siamo saliti su un treno e siamo venuti alla grandissima manifestazione di Milano.

Io però, ti dico la verità, quando sono arrivato in stazione al posto di stare insieme a tutti gli altri, lo sai cosa ho fatto? Mi sono preso il tranvai, la gioia è stata quella, sono venuto a casa. Quando sono sceso, arrivato in piazza, perché io abitavo in quella che chiamavano la piazzetta, quasi in centro, vedo mio padre con mezzo toscanino in bocca, e io non sapevo quello che era successo a Nova, che c’erano state le sparatorie ed i morti. Allora io nella contentezza, mi è venuto in mente di sparare 4 colpi, con lo Sten, perché mio padre era là, indifferente, che si fumava il sigaro. Allora come mi ha visto, dopo 10 minuti arriva Luigi Erba, mi ha detto, “Sì, sei arrivato, pienamente d’accordo, la gioia di essere arrivato, però non dovevi fare quello che hai fatto perché è successo così e così, la gente è ancora spaventata, abbiamo avuto 3 morti…”, o 4 mi sembra, quella del Poldelmengo e 2 civili, minimo. Ecco, ma io cosa ne sapevo? Allora diciamo così sono tornato ancora in Valsesia, mi hanno dato il mio diploma, era verso il 10 maggio, tornai a casa, e purtroppo il lavoro non c’era più. Bisognava ricostruire la Breda Campovolo, e tutti si erano dati da fare per ricostruirla con picche, pale, carriole. Io ho lavorato una quindicina di giorni, poi è arrivato il capo del personale, mi guarda e mi dice: “Tu sei così e così?” “Sì”. Mi ha detto: “Guarda vedo che non è il tuo mestiere, lo fai perché lo fanno tutti gli altri, però in attesa che venga ricostruito il nuovo capannone, se vuoi, io sono amico del comandante della piazza di Como, vai su e per un po’ rimani nella polizia partigiana. Già c’era Luigi Erba, era andato su già 4 o 5 giorni prima, allora a metà o alla fine di giugno, no a metà giugno, sono partito e sono andato là, ho presentato il diploma che mi avevano dato in Valsesia e una cosa e l’altra. “Sì, sì”, mi ha detto, “allora dimmi adesso qui ci sono due posti dove andare. Vuoi andare alla caserma dove sono tutti gli altri, ma visto chi sei, io preferirei che tu rimanessi alla caserma delle finanze, perché lì abbiamo diversi prigionieri fascisti pericolosi, che non abbiamo potuto metterli nel carcere di Sant’Antonino. E siccome tu ci dai la massima fiducia perché lì abbiamo bisogno di gente sicura”. “Sì, ho risposto, per me va bene”.

Lì ho fatto 4 mesi, nella polizia partigiana, fino alla fine di novembre. Ma dopo quando sono venuto via, io non è che ho chiesto il diploma, i documenti, li ho lasciati là e basta.

De Bastiani Argentina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

D: Nata?

R: Nata a Cesiomaggiore il 4.11.1927, provincia di Belluno.

D: Argentina, com’è stata la tua scelta di aderire alle formazioni?

R: La mia scelta è stata che l’8 settembre sono entrati i tedeschi in Feltre. Da lì i soldati che erano militari lì sono andati in montagna. Lì si sono formate le formazioni partigiane.

Mio padre che è sempre stato un antifascista ha aderito a queste cose anche perché quando c’era Pippo che buttava giù le armi, i vestiti, il latte condensato, lui aiutava le persone che erano non in montagna, in paese, a nascondere le armi.

Poi i partigiani si sono fermati in Pedavena, Monte Grappa, ma io ero su Pedavena, non sul Monte Grappa.

Un bel giorno sono passati a casa mia, dovevano andare alla Feltrina di Feltre a far saltare questo piccolo stabilimento.

Mio padre ha fatto da mangiare a questi partigiani, una quindicina di partigiani che sono passati di lì.

Io lì ho conosciuto il comandante della Brigata Gramsci che si chiamava Bruno. Il suo nome è Brunetti Davide.

Da lì ho incominciato a fare la staffetta. Andavo a Feltre a vedere il movimento dei tedeschi. Andavo in montagna a portare dei bigliettini che il Comitato di Liberazione giù…

D: Dicevi, andavi su in montagna…

R: Andavo su in montagna a portare i bigliettini e a portare anche qualche cosa da mangiare perché su non ne avevano tanta. Con me c’erano anche tante altre staffette che facevano il mio stesso lavoro.

Però il primo tempo sono stata in piano col Comitato di Liberazione, si andava a Feltre a portare gli avvisi che dovevano portarci i soldi.

Poi si andava sulla Feltre-Belluno a fermare i tedeschi e a portargli via le armi.

È sempre stato così fin quando non mi hanno arrestato.

D: Ascolta, questi spostamenti con cosa li facevi?

R: In bicicletta.

D: Quanti chilometri facevi?

R: Non so, sono andata anche a Treviso, andata e ritorno in un giorno. Robe da non essere normali. Tant’è vero che mi sono fatta anche male perché andando in bicicletta c’erano le rotaie, la bicicletta è scivolata, però io dovevo andare per forza a Treviso.

Lì c’è stato anche un bombardamento mentre sono andata. Non sapevo che via prendere. Ho messo a posto il manubrio e sono andata e tornata.

D: Il tuo nome di battaglia?

R: Zara.

D: E quando te l’hanno dato? Chi te l’ha dato?

R: Subito i partigiani quando mi sono presentata al comandante.

D: Ma l’hai scelto tu o te l’hanno dato?

R: No, me l’hanno scelto loro.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Allora avevo sedici anni.

D: Quando ti hanno arrestato?

R: Il primo novembre.

D: Del?

R: 1944, alle 2.00.

D: E dove ti hanno arrestato?

R: In casa di Sempronio che era un comandante di partigiani. Lì ero andata per prendere una carta d’identità di un comandante di un’altra brigata.

Io avevo la carta d’identità. Mentre eravamo lì, eravamo una quindicina, abbiamo sentito i tedeschi.

Allora sette sono riusciti a scappare. La Luigia, l’Amalia, la Piera, io più cinque o sei ci hanno portati via.

Tant’è vero che c’era un professore che si chiamava Pingo. Questo l’hanno legato ad un palo e lui gli ha detto di non picchiarlo che poteva essergli utile. Difatti ha fatto poi la spia.

Da lì mi hanno portato nella caserma degli alpini a Feltre.

D: C’erano sempre i tedeschi?

R: Sì, anche i fascisti, c’era dentro uno che è stato liberato dalle prigioni di Belluno, Baldenich, hanno liberato due russi e altri tre che dovevano essere fucilati.

Questo era dentro insieme a loro, era un delinquente, è andato con i partigiani e si chiamava Roccia.

Da lì poi lui s’è messo con i tedeschi e ha detto tutte le persone che conosceva. Tant’è vero che quando mi hanno chiamato per l’interrogatorio il 4 novembre c’era lui e mi ha detto: “Stai meglio adesso o quando ci hai fatto da mangiare?” subito me l’ha detto, però prima di arrivare all’interrogatorio quando mi hanno arrestato, la nipote di Sempronio che è una che è venuta poi a Bolzano con me si è messa a letto.

Io facevo finta di darle da bere. Nel frattempo ho inghiottito la carta d’identità, perché se mi prendevano con quella carta d’identità ero fucilata all’istante.

Però il comandante del gruppo di questi fascisti, tedeschi m’ha detto: “Tu piccola vai”. Invece questo Roccia ha detto: “No, lei non deve andare perché lei è una partigiana”. Capito? Allora…

D: Scusa, Zara, cosa volevano sapere da te?

R: Sapere i nomi dei partigiani, dove si trovavano, se erano armati, tutte queste cose.

D. Sotto interrogatorio.

R: Sotto interrogatorio, poi era il 4 novembre, il giorno del mio compleanno, mi hanno interrogato.

Però la sera prima è venuto in cella un tedesco, che poi era venuto anche a Bolzano con un cane così.

Si è rivolto a me e mi ha detto: “Tu sei una partigiana?” Ho detto: “No”. Tu sei una partigiana, io ho detto sempre no, lui mi ha dato quattro o cinque schiaffi e il giorno dopo mi ha portato lì.

In cella eravamo in sei con una branda sola.

D: Tutte donne?

R: No, avevano messo dentro un trentino militare per sentire cosa dicevamo noi e un altro comandante dei partigiani insieme a noi per vedere se gli parlavamo, però questo che si chiamava Cimati mi conosceva, ma non mi ha mai guardato. E io non ho guardato lui. Capito?

D: Lì fino a quando sei rimasta? Lì alle carceri.

R: A Feltre otto giorni. Il giorno 8 alle 2.00 di notte ci hanno portato via su un camion, ma non ero solo io, eravamo una ventina.

D: Oltre a te c’erano altre donne?

R: Uomini e donne. Ci hanno portato al Corpo d’Armata di Bolzano. Lì ci hanno tenuto tre giorni, poi ci hanno portato in campo.

D: Scusa, Zara, la strada che avete fatto di notte… Avete fatto la Valsugana?

R. Sì, la Valsugana.

D: E non vi siete fermati?

R: Mai.

D: Mai?

R: Mai.

D: Siete arrivati al corpo, lì ti hanno ancora interrogato?

R: No, lì no. Lì non mi hanno interrogato. Da lì poi non mi hanno più interrogato, altri sì, però io no.

D: Quindi ti hanno portato nel campo di Bolzano?

R: Di Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Mi ricordo che erano lì con i mitra appena dentro il cancello. Mi hanno portato dentro in una stanzetta. Lì mi hanno tolto i vestiti borghesi, mi hanno dato la tuta da militare con la croce dietro e il triangolino e mi hanno messo nel luogo dove c’era la Cicci.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio bianco e rosso.

D: E ti hanno dato anche il numero?

R: 5944.

D: Ti hanno tagliato i capelli?

R: No.

D: Non te li hanno tagliati?

R: No, non me li hanno tagliati.

D: La tua biancheria, hai potuto tenere qualcosa?

R: No, no, hanno portato via tutto loro. Noi avevamo su una camicia da militare, la divisa militare era, una mantella militare, gli zoccoli, però freddo da morire, perché senza maglie né niente, non c’era il riscaldamento dentro.

D: Nel blocco hai trovato altre persone, altre donne?

R: Nel blocco, non mi ricordo più quante eravamo, però ho incontrato Laura Ponti e Ada Bufalini che mi hanno fatto da mamma diciamo. Laura aveva dieci anni più di me, ne aveva ventisei, era del ’17 mi sembra Laura Corti.

Lì ho incominciato… Hanno chiamato i più giovani ad andare a lavorare. In un primo tempo sono andata in un ospedale militare a pulire patate e ad assistere i feriti tedeschi che c’erano dentro.

D: Sempre a Bolzano?

R: Sempre a Bolzano. Sarà stato un chilometro a piedi, andata e ritorno. Stavamo lì a pulire le patate. Andavamo a turno perché almeno si mangiavano le bucce.

D: Senza farvi vedere.

R: No, vedere, erano lì, dovevi buttarle via perché le buttavano ai maiali loro le bucce, ma noi eravamo peggio dei maiali.

Lì sono andata poco perché poi sono andata in un altro magazzino a mettere bottoni sulle divise militari.

Da lì sono andata poi vicino al campo dove c’era un magazzino che si spostava con attrezzi, tenaglie, martelli, cose varie, viti.

Lì sono rimasta poco. Lì abbiamo portato dentro del materiale per quel blocco che era vicino a noi, perché quando andavano via, perché non venivano più perquisiti quando partivano e noi avevamo avuto la fortuna di prendere questi attrezzi, tenaglie, martelli in modo che il primo vagone che è partito sono riusciti a scappare prima di arrivare al Brennero grazie a noi insomma.

Poi dopo non potevano più andare in Germania perché avevano bombardato la linea. Da lì poi sono andata in un altro posto dove sono andata con quello che sono scappata, col Sicilia, gli ho detto di scappare con me perché era uno delle SS.

Non mi ricordo più cosa facevamo in quel posto.

D: Sempre fuori del campo?

R: Sempre a piedi fuori del campo.

D: Ascolta, te li ricordi gli appelli nel campo?

R: No.

D: Al mattino non facevano l’appello?

R: Sempre, perché quando andavamo al Virgolo non so se cinque/sei volte facevano l’appello, perché lì in galleria potevi nasconderti benissimo, capisci?

Noi lì in galleria si lavorava dodici ore su dodici, da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno con un etto di pane e un po’ di sbobba con vermi dentro, quella roba lì.

D: Ascolta, quindi quando ti hanno chiamato per andare al Virgolo, dal campo vi portavano al Virgolo come?

R: In un primo tempo sì, andavamo a piedi. Poi dopo alcune notti si sono presentati dei partigiani che volevano liberarci. Allora hanno visto che la cosa non andava bene, ci hanno messo in una caserma vicino al Virgolo, eravamo a due passi come da qui al centro Bovisio.

D: C’erano anche gli uomini, altri deportati lì al Virgolo o solo voi donne?

R: No, quello di Limbiate era lì, c’erano di tutte le razze, eravamo in tanti a lavorare in questo stabilimento.

D: Cosa facevate?

R: Cuscinetti a sfera per una ditta di Imola, si chiamava la IMI

D: Lì al Virgolo cos’è successo? Tu sei stata tanto tempo lì al Virgolo?

R: Sì, sono stata finché sono scappata. Abbiamo fatto anche uno sciopero perché ci davano tre sigarette al giorno. Non avevi da mangiare… Una sigaretta si fumava in dieci. Lì ho cominciato a fumare.

Abbiamo fatto lo sciopero, è venuto il comandante del campo di concentramento, ci ha detto che poteva fucilarci tutti e noi gli abbiamo detto: “Siamo coscienti di quello che abbiamo fatto, però noi lavoriamo dodici ore”, sapevamo che questa ditta era l’unica che faceva cuscinetti a sfere, almeno dateci cinque sigarette al giorno, su dodici ore che lavoravi, era giusto che ci dessero questo.

Pane no, perché il pane non te lo dava nessuno, però il pane qualche cosa ce lo portavano dentro quelli di Ferrara della IMI. Sì, ci portavano dentro qualche cosa, qualche pezzettino di pane.

D: Dentro nella fabbrica, nella IMI, c’erano solo tedeschi a fare la guardia o anche i fascisti?

R: Quelli delle SS, tanto italiani che tedeschi, erano quelli delle SS che c’erano lì. Ma dentro, ce n’erano due all’entrata da una parte e due dall’altra. Passavano. Se vedevano che non lavoravi, venivano lì a farti il frustino sulle spalle. Io l’ho ricevuto tre volte.

D: Perché?

R: Perché non hai la forza di stare in piedi. Se le macchine non funzionano e dovevano funzionare, capisci? Come fai a stare in piedi?

D: Allora ti menavano?

R: sì, col frustino grosso così.

D: Ti hanno menato?

R: Tre volte. Però quella volta…Mi sono dimenticata di dire che sono andata fuori a bere dai miei genitori, c’era questo Sicilia, ritornando hanno chiesto chi era andata a bere l’aranciata al bar.

Io ho detto: “Sono stata io”, non potevo mettere a repentaglio le altre ragazze. Allora la Tigre ha incominciato a picchiarmi in faccia, anche due uomini tipo mio marito, sempre in faccia. Da lì sono andata dieci giorni in infermeria perché mi era uscito sangue dappertutto in faccia, poi avevo una faccia grossa così.

D: L’infermeria del campo?

R: Sì.

D: Quando arrivavano i tuoi genitori, cosa ti davano?

R: I miei genitori mi portavano su marmellata e latte condensato.

D: Poi?

R: La polenta una volta.

D: E lettere non te ne davano?

R: Sì. A Feltre oltre che per il rastrellamento eravamo in tanti arrestati. Nel rastrellamento sono stati 1.500. Poi tutti gli altri. C’era un camion di un industriale di Feltre che veniva su col camion, aveva un figlio anche lui lì.

Allora portavano su un po’ per tutti, si distribuiva fra di noi. Però sai quando tu sei lì non puoi dare niente a nessuno. Invece c’era gente che si nascondeva e faceva anche venire il nervoso.

Cosa ti costa dare un cucchiaio di latte condensato ad un’altra persona? Invece c’erano quelle che erano state arrestate con me che non davano niente a nessuno, tant’è vero che avevo rotto un po’ i rapporti.

D: Quindi ti davano le lettere da distribuire?

R: Distribuire, sì e quella volta che ho preso le botte, questo Sicilia con cui poi sono scappata, mi ha portato dentro lui le lettere nel blocco.

Poi volevano sapere chi era la guardia. Dovevo dirlo prima forse.

D: Non ha importanza.

R: Volevano sapere chi era la guardia che mi ha portato a bere l’aranciata. Ho detto: “Guardi, in tre sono venuti dentro, sono in tanti, non li riconosco. Può venire chiunque, ma non li riconosco. Ne ho approfittato ad andare a bere un’aranciata. Voi se foste stati al mio posto, non sareste andati? Però, dato che sono qui, non sono scappata, non ho fatto niente di male”.

Loro volevano sapere chi erano le guardie, ma non gliel’ho detto. No, tanto, oggi o domani ci avrebbero fatti fuori tutti. Si pensava che ci avrebbero uccisi in massa lì a Bolzano. C’era il forno crematorio anche lì, ultimamente hanno detto che c’era. Io non l’ho visto, però hanno detto che c’era.

D: Zara, quindi quella volta le lettere…

R: Le ha portate dentro lui in blocco.

D: Tu però le portavi anche fuori le lettere?

R: Sì, da Laura Ponti, le portavo al caporeparto della IMI, era Laura. In un foglietto così ci saranno state cento parole, però lei si fidava di noi, non ci perquisivano quando andavamo fuori, perché le lettere non sono mai state portate dentro da noi.

Quando noi eravamo in campo ci perquisivano.

D: Quando tornavate?

R: Sì, fuori no, ma dentro sì.

D: Nel tuo blocco avevate i letti a castello?

R: Sì, a quattro castelli.

D: In quanti dormivate per ogni ripiano?

R: Non so. So che c’erano quaranta prostitute.

D: Con voi?

R: Con noi, sì, venute da Genova, tutte malate. Infatti avevamo anche fatto un po’ di appello perché erano malate con noi. Noi eravamo politiche, non ne volevamo sapere di queste, perché loro non andavano a lavorare. Noi sì.

Ad esempio Laura Ponti lavorava in lavanderia. La Bufalini era in infermeria. Loro non potevano uscire perché erano pericolose.

D: Dentro nel blocco avevate i servizi igienici?

R: Sì, c’era il gabinetto e un rubinetto d’acqua per lavarsi la faccia, ma non per lavarsi sotto.

D: Le docce te le ricordi?

R: Erano fuori, andavamo dentro una trentina alla volta a fare la doccia. Lì è stata la prima volta che sono andata a fare la doccia. Vedermi lì nuda con tutte queste donne. Mi sono messa un affare addosso. Ho detto: “Qui ti fanno morire.”

Appena dopo due giorni che sono arrivata ho lavato le mie mutandine. Le ho messe sul reticolato, le ho tirate giù che erano nere di pidocchi, nere.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’era anche il blocco celle?

R: Sì, il blocco celle, poverine! Quella che ti ho detto che doveva scappare, si è confidata con la ragazza di uno delle SS e quando era il momento di scappare, sono arrivati quelli del campo e l’hanno portata via, l’hanno portata in cella e anche torturata.

D: Tu te lo ricordi quello?

R: Si sentivano le urla, perché le celle erano così, noi eravamo qui, quando ci facevano l’appello, c’erano i finestrini aperti, si sentivano le urla.

C’era una di Padova che ha buttato fuori i suoi ori tutti a pezzettini. Lì portavano dentro anche i bambini ebrei a picchiarli.

D: Il primo tentativo di fuga tuo?

R: Il primo tentativo di fuga è stato… De Luca si chiamava il comandante dei partigiani, lì aveva la moglie. Lei mi ha detto: “Vuoi scappare con me?” Ho detto: “Sì, sì”, perché io avevo sempre intenzione di scappare.

Allora mi dice: “Guarda che alle 2.00 di questa notte noi dobbiamo essere a un imbocco della galleria”.

Noi avevamo capito che era all’imbocco, all’entrata, invece era all’altro imbocco. Lì quelli della IMI ci hanno procurato mezzo litro di Vov, l’abbiamo bevuto tutto.

Alle 2.00 di notte hanno cominciato: “I banditi, i banditi. I partigiani, i partigiani”. Noi che eravamo messe con i vestiti borghesi, perché i miei genitori poi mi hanno portato su ancora dei vestiti borghesi, abbiamo appena fatto in tempo a toglierci i vestiti, a metterci la tuta.

“Banditi, banditi”. Però c’era un macchinario a quell’imbocco della galleria, c’era un prigioniero che faceva andare questo macchinario. Hanno interrogato lui. Questo marito di questa gli ha chiesto il mio nome. Emma si chiamava lei. Sono venuti subito a cercarci.

Notare che lui ha disarmato una guardia, per tre giorni, sicché qui era un sottopassaggio, noi si passava di qui, per tre giorni lui è rimasto lì sul marciapiede mentre noi passavamo.

C’era questa guardia che era un cecoslovacco, non l’ha mai fatto arrestare. Lui per tre giorni ha cercato di far sì che sua moglie potesse scappare.

Infatti, lei si è tinta i capelli, si è nascosta mentre stavano sorvegliando la galleria in un cassetto della scrivania. Ci saranno stati trecento militari fuori. Lei cosa ha fatto? È passata fuori assieme ai borghesi. Ha avuto una forza grande, grande, però sono venuti a cercare me.

Lì mi hanno picchiato un po’, mi hanno detto: “Tu devi sapere dov’è”. Io non so, non so, non mi hanno fatto niente, però ero sorvegliata giorno e notte, con chi parlavo e cosa dicevo. Per un po’ di tempo, poi mi hanno lasciata libera. Libera, nel senso che non mi sorvegliavano più.

D: Zara, quando vi hanno spostato dal Lager di Bolzano e vi hanno messo in questa caserma vicino al Virgolo, voi facevate quante ore al giorno di lavoro?

R: Dodici.

D: Al mattino e dodici di notte?

R: Sì, si partiva da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno.

D: E quando vi fermavate per mangiare?

R: Fuori, nella galleria.

D: E cosa vi davano da mangiare?

R: Ci davano un etto di pane. Al mattino ci davano un po’ di caffè sporco di orzo senza pane né niente. Il pasto maggiore era una tazza di sbobba con dentro il pane raffermo, gli avanzi del pane e dell’orzo e i vermi che galleggiavano.

D: Questo a mezzogiorno?

R: Che fosse stato mezzogiorno o mezzanotte, era il pasto maggiore questo.

D: E poi?

R: La sera un po’ di brodo e basta.

D: E basta?

R: Basta. Non si poteva stare in piedi.

D: Lì in questa caserma dove dormivate voi? Sempre sui letti a castello?

R: No, eravamo tutti nelle brande. Sì, lì si stava bene a dormire, solo che il giorno di Pasqua noi ci siamo affacciate alla finestra e loro continuavano a spararci su da basso perché non volevano che noi ci affacciassimo neanche alla finestra.

D: Il giorno di Pasqua di che anno? Del ’45?

R: Del ’45, sì. Io sono scappata, non mi ricordo più se il 22 o il 23 di aprile.

D: Eri dentro ancora al Virgolo?

R: Sì, sempre al Virgolo.

D: Come hai fatto a scappare quella volta? Poi non sei scappata da sola?

R: No, sono scappata con tre donne, una di Imola, la Gina, la Ester di Vercelli e sette uomini.

Al cambio di guardia ho detto al Sicilia: “Adesso dammi il mitra perché adesso è ora di andare. Guarda, se vuoi venire con me, gli ho detto io, tu sai che finita la guerra, perché la guerra finisce, tu verrai messo in prigione, se vuoi venire con me, ho detto, io ti salverò, dirò quello che hai fatto tu”.

“Io ho fiducia in te perché ho conosciuto anche i tuoi genitori, però preferisco stare a Bolzano perché ho la fidanzata qua”.

Da lì subito fuori c’erano i partigiani e ci hanno accompagnato, noi tre donne in una stanza quasi vicina al Virgolo e gli uomini li hanno portati alla Lancia.

Da lì loro sono partiti a destinazione. Invece sono venuti a prendermi dopo tre giorni. Ho lasciato lì la Gina e la Ester, non so più come sono andate a finire.

Io so che sono venuti a prendermi con una macchina nera, mi ricordo e mi hanno portato in un negozio di scarpe. Avevo già un documento falso che venivo da Innsbruck.

Sono stata lì un po’. Da lì arrivava un camion dell’alimentazione di Merano con dentro un altro prigioniero che aveva rotto le braccia, sotto il sedile dove ero seduta io c’era questo qui.

Niente, mentre stavo per salire sul camion sono passati due delle SS, gli aguzzini del campo. Non sapevo se andar su nel camion o consegnarmi.

Mi sono decisa ad andare su, mi hanno dato un pastrano nero. Loro mi avrebbero riconosciuto, sì, perché era quello che mi aveva fatto prendere le botte.

Da lì mi hanno portato a Feltre e sono andata proprio nel covo degli assassini. Uno, non mi ricordo più come si chiamava, questo era un fascista che ha fatto portar via tanti partigiani.

Tant’è vero che è stato processato, ha preso venticinque anni, dopo neanche un anno è stato liberato, è andato a finire in Argentina.

D: Tu sei andata a testimoniare?

R: Sono andata a testimoniare perché uno di santa Giustina, era un partigiano, mi ha detto: “Senti, Zara, se tu riesci a portare a casa la pelle, dì ai miei genitori che chi mi ha fatto arrestare è un tizio”. Adesso non mi ricordo più come si chiamava.

Difatti quando c’è stato il processo, c’era Meneghelli, direttore del manicomio di Feltre, che è stato portato a Mestre. Questo qui li ha portati a Mestre. Lui era un ex comandante. Quel comandante dei partigiani che era dentro in cella con me che poi è riuscito a scappare, li hanno portati a Mestre.

Arrivati a Mestre, dentro c’erano già i tedeschi e in prigione c’era lui che è andato a testimoniare, questo tizio dove io mi sono fermata a testimoniare, che lui era un partigiano, che è andato poi a morire a Mauthausen negli ultimi giorni.

D: Era con te nel campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Poi hanno fatto il Transport a Mauthausen?

R: Sì, perché il blocco che c’era vicino a noi era il blocco dove c’erano i provvisori. Dopo due o tre giorni partivano. Fin quando la ferrovia funzionava, poi c’erano i camion che li portavano avanti e indietro.

D: Del Lager ancora cosa ti ricordi? C’era il muro di cinta con il filo spinato attorno?

R: Sì, tant’è vero che uno ha tentato di scappare, sua madre l’ha visto impigliato nei fili, nel filo spinato.

D: C’erano le garitte con le guardie?

R: Sì.

D: Queste te le ricordi?

R: Sì. Mi ricordo dove c’era il comando, dove c’erano le celle, dove ci portavano a lavarci la faccia, perché non tutte potevano lavarsi la faccia dentro lì, dove facevamo il bagno in trenta/quaranta persone.

D: Sempre dentro nel campo ti ricordi se quando tu eri nel campo c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Si, infatti io dal Corpo d’Armata ad andare al campo ero assieme a un prete. Ho detto alle mie compagne di sventura, “Qui adesso ci portano a uccidere”, abbiamo pensato, perché dal Corpo d’Armata ci hanno portato, era lunga dal Corpo d’Armata ad andare dove c’era il campo, fuori per queste strade di campagna.

Abbiamo detto: “Ci portano ad uccidere”. Quando ti prendono, sei sicura che fai una brutta fine. Uno non spera più di vivere. Quando uno cerca di scappare, allora sì, ci riesce, ma sai che se va male ti fanno fuori, questo era il detto.

D: E questo sacerdote era uno di che parti?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: No, perché noi una volta che eravamo dentro, le donne da una parte e gli uomini dall’altra.

D: Ma questo sacerdote che era assieme a voi era anche lui deportato però?

R: Sì, un deportato anche lui. Ce n’erano diversi dentro.

D: Dei bambini l’hai già detto. Di donne eravate in tante?

R: Adesso non mi ricordo quante, ma un due/trecento sì. Quaranta/cinquanta erano delle prostitute. Il resto eravamo tutte di noi.

D: Questo nel tuo blocco.

R: Sì, non soltanto politiche, anche quelle di rastrellamento, eravamo tutte assieme come donne.

Ho lasciato fuori una cosa, che nel blocco vicino a noi avevano fatto una galleria a mano, mancava mezzo metro per scappare.

Il capo blocco che era un bolzanino ha avvisato e lì sono stati portati fuori. Noi siamo state la vigilia di Natale, la notte di Natale in piedi fuori del campo, perché portavano fuori questi prigionieri, ogni dieci frustati, buttavano addosso un secchio d’acqua e rinvenivano.

Avevano detto “Siamo stati noi”, invece tutti avevano fatto il lavoro e quel disgraziato di bolzanino ha fatto questa cosa.

Poi abbiamo saputo che dal campo guardando c’era un castello in alto, li portavano lì a fucilare. Quelli che hanno picchiato, li hanno fucilati, così abbiamo saputo.

Perché ci hanno lasciate fuori? Perché abbiamo tolto i mattoni per dare da mangiare a loro. Loro non ci hanno dato niente. Noi siamo state con metà mangiare per darlo a loro.

A noi per castigo ci hanno fatto star fuori del campo.

D: All’appello.

R: All’appello. Giorno e notte in piedi. Se cadevi, erano lì col frustino a dartele addosso.

D: Una bella notte di Natale!

R: Oh, sì.

D: L’albero di Natale non è stato fatto?

R: L’albero di Natale con quei poveri che erano lì appesi.

D: Zara, ti ricordi quando è venuto il vescovo di Belluno dentro nel campo a celebrare messa?

R: Sì, me lo ricordo, ho anche il santino.

D: Ma tu sei andata a sentire la messa?

R: Sì, sono andata a sentire la messa, soltanto che, ti ho detto, io sapevo tramite i partigiani che i partigiani di Belluno avrebbero dato un golfino per tutti noi bellunesi, però lui ha detto: “A chi non fa la comunione non do il golfino”.

Io ho detto: “Qui non si deve venire a fare queste cose. Tu non devi guardare chi ha un’idea diversa dalla tua. Dato che lui fa queste cose, io non faccio la comunione”.

D: E non hai preso il golfino.

R: No.

D: Faceva freddo però.

R: Faceva freddo con niente da mangiare, figurati te, altro che freddo. Avevamo una copertina grossa così e sotto avevamo il crine, questi castelli che poi hanno tutte … Quando ti alzavi la mattina eri più rotta che altro.

D: Zara, per una ragazza di sedici anni, diciassette anni, l’esperienza del campo di concentramento cosa vuol dire?

R: Vuol dire che impari tante cose, amare un po’ il prossimo che oggi non c’è più. Impari a soffrire, impari anche a soffrire per sopravvivere.

Non ti so spiegare cosa si prova con tutta sincerità. È una cosa che non so spiegarmelo, non so proprio spiegarmelo.

So che quando sono tornata e ho visto tante persone che erano contro noi, contro noi partigiani, avevano il fazzoletto rosso, mi sono messa a piangere. Io ho detto: “Forse non ne è valsa la pena del nostro sacrificio”. Lo giuro.

Fra questi c’era uno, io ho saputo, che è lui che è andato dai tedeschi a dire che la mia famiglia era rossa e che io ero partigiana.

D: E’ stato lui a fare la spia?

R: Sì, tant’è vero che mio padre finita la guerra è andato, gli ha sputato in faccia e gli ha detto: “Se moriva mia figlia, tu a quest’ora non ci saresti più stato”.

Però lui non ha reagito, no.

D: Zara, prima tu dicevi che la prima volta che hai fatto la doccia lì al campo sei rimasta un po’ scioccata perché nuda, assieme ad altre trenta donne…

R: Io avevo vergogna a vedermi in sottoveste con mio padre. Una volta era così.

D: Quel pudore, cosa voleva dire nel campo perdere il pudore?

R: Non so, io mi sarei lasciata ammazzare piuttosto che andare lì. E’ stata per me una cosa più forte di quando mi hanno picchiata.

D: Un’umiliazione più forte?

R: Sì, più forte, perché io fino a che è morto mio padre, adesso è un discorso diverso, ho ottantatré anni, gli ho sempre dato del voi.

Per me che con mio padre avevo una vergogna di parlare, di farmi vedere solo in sottoveste e trovarmi lì nuda così, con donne di tutte le età.

Ce n’era una poverina di venti anni che aveva un gran bel seno, si chiamava Piera e mi ha detto: “Mamma, a cosa devo assistere. Anche questo ci fanno fare?” Lei non voleva spogliarsi. L’hanno picchiata perché non voleva spogliarsi. Anche lei ha detto queste cose.

Io posso dire che oltre alle botte non mi hanno fatto nient’altro. Le botte sì, ma nient’altro mi hanno fatto. Hanno tentato qualche cosa? No.

C’era questo ucraino, quello che mi picchiava, forse io gli piacevo, ma io tutt’altro che star lì a fargli il sorriso. Erano cattivi, erano proprio cattivi.

D: Ti consideri fortunata?

R: Sì, di essere tornata sì, però avrei preferito morire lì.

Sì, perché quando ho visto le persone che veramente ci odiavano perché noi portavamo da mangiare ai partigiani e poi vedermeli col fazzoletto rosso, è stata una cosa brutta, brutta, brutta.

Tu devi pensare che io per tre mesi dovevo mettermi i guanti perché mi graffiavo dappertutto, perché dicevo “Adesso mi picchiano, adesso mi torturano, adesso mi ammazzano”. Per tre mesi una vita così ho fatto.

D: Questo dopo che sei scappata?

R: Sì, quando sono tornata a casa.

D: Dopo la Liberazione?

R: Sì. Ma vedere queste persone proprio… Noi abbiamo avuto anche degli inglesi, abbiamo portato da mangiare anche a degli inglesi, questi sono venuti in Italia dopo finita la guerra.

D: Questo a casa però.

R: Sì, a casa.

D: Prima di essere arrestata?

R: Sì, nel… Prima, prima di essere arrestata, sì. C’era mio fratello che era, lui ha quattro anni meno di me, aveva tredici anni, lui e un altro mio cugino andavano in montagna a portare da mangiare a questi inglesi, erano scappati a Bologna e si erano rifugiati lì.

Cinque erano insieme a noi partigiani, gli altri, questi non hanno voluto andare dai partigiani, però vivevano in paese così, senza riguardo per noi, vedevano e non interessava niente. Diciamo anche questo, che noi abbiamo rischiato la vita più di una volta per loro, perché loro si esponevano, andavano in giro e sapevano… Capito?

Mio padre è stato tre ore nella mangiatoia della mucca.

D: Nascosto?

R: Sì. Perché l’avevano cercato per portarlo via. Mia madre al muro e mio fratello e mio padre nella mangiatoia della mucca.

Il giorno in cui io sono andata a Bolzano, loro sono andati lì a fare rastrellamento a casa mia. Capito?

Tante persone anche oggi. Sai cosa avevano detto? Che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. La cattiveria delle persone. Hanno detto che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. Non sapevo neanche cosa voleva dire avere un bambino!

D: Questo passaggio. Tu dicevi che a Pasqua c’è stata la messa nel campo, però a Pasqua quando vi affacciavate dalla finestra…

R: Sparavano su.

D: Ma sempre lì nel campo questo?

R: No, lì vicino al Virgolo, nella caserma.

D: Perché non dovevate guardare fuori della finestra?

R: No, non dovevamo guardare fuori della finestra.

D: Per vedere il paesaggio.

R: Non dovevamo, anche se era Pasqua, non dovevamo guardare fuori. Poi c’era quella Tigre lì che viaggiava continuamente con un cane grosso così, oltre ad avere paura di lei avevamo paura del cane.

D: Oltre a queste tue amiche, quella di Imola, quella di Vercelli, la Laura di Milano e la Bufalini, ti ricordi altri deportati? Anche uomini?

R: No, di uomini non mi ricordo.

D: Il Tarvisio non te lo ricordi?

R: No, perché anche se lui lavorava al Virgolo, gli uomini da una parte e anche quando eravamo a fare l’appello, gli uomini davanti, noi dietro, ma non eravamo insieme. Non c’era contatto tra uomini e donne. Non ci lasciavano il contatto.

D: Questo Virgolo in sostanza in che cosa consisteva?

R: Una galleria.

D: Una galleria per fare una strada?

R: No, qui passa l’Isarco e la ferrovia che va al Brennero, qui c’è una galleria con tre crocefissi in alto e dentro lì c’era questo stabilimento.

D: Lo stabilimento dentro la galleria.

R: Sì.

Dovevano tracciare una strada, hanno fatto questa galleria e dentro lì hanno messo questa fabbrica. Adesso è la strada che si fa per andare al Brennero, passi sotto il Virgolo, passi dentro la galleria del Virgolo. È una strada. Prima invece avevano messo dentro questa fabbrica.

D: Come mai in tutti questi anni a Bovisio non c’è mai stata l’occasione per parlare ai ragazzi delle scuole?

R: Perché nessuno mi ha mai interpellato, perché nessuno a Bovisio sapeva che io sono stata in campo di concentramento.

D: Perché non l’hai detto tu?

R: No, a nessuno. Perché io venuta qui sono andata a lavorare, avevo i figli da mantenere, farli studiare, non avevo certo tempo di andare in giro. Anche perché io appena venuta qui sono andata alla Snia, avevo ventisette anni.

D: Alla Snia di Varedo?

R: Di Varedo. Sono andata tramite i sindacati, non mi ricordo più. Ero andata a Milano, all’ANPI, mi avevano fatto il certificato che ero stata partigiana e avrebbero dovuto assumermi. Mi hanno fatto la visita e tutto. Il giorno in cui dovevo presentarmi per andare a lavorare mi hanno detto che ero troppo vecchia a ventisette anni e io non ho mai avuto aiuto da nessuno, a parte che io non ho chiesto niente a nessuno, però io non ho mai avuto niente da nessuno.

D: Zara, dopo il Lager, dopo la liberazione, tu hai mai avuto paura di questa tua esperienza che avevi fatto? Di questa tua esperienza del Lager?

R: No. Io non avevo paura, ero diventata forte. Diciamo la verità, sei bambina a sedici anni, si è bambini. Vai davanti al pericolo senza renderti conto che c’è il pericolo, perché andando a fare la staffetta io non sapevo niente cosa voleva dire, però era il mio istinto di andare, non per far vedere alla gente, per il mio desiderio di poter aiutare.

Ti dirò di più, finita la guerra, quando c’è stata la ritirata dei tedeschi, sono venuti nella montagna, qui c’è il mio paese, qui una piccola montagna. Io sono andata a portare del pane ai tedeschi e c’erano due che erano a Bolzano della Wermacht e mi hanno riconosciuto.

Mi hanno detto: “Noi ti abbiamo trattata male e tu vieni a portarci questo?” “Sì, perché io so cosa vuol dire essere prigionieri”. Ho portato le lamette, sapone e del pane, due cesti di pane. Mi sono fatta aiutare da mio fratello, però loro si sono meravigliati che io avessi fatto quel gesto.

Io so cosa vuol dire essere prigionieri. Tu hai un’idea, io ne ho un’altra, però siamo sempre prigionieri.

Ma non ho avuto aiuto da nessuno.