Tedeschi Natalia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno 1922.

Sono di famiglia ebrea. Una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti a Torino. I miei fratelli quando è il momento delle leggi razziali erano tutti e tre all’università e io nel 1938 – avevo 16 anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi con tutte le varie vicissitudini della guerra siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte.

Lì abitava una sorella di mia nonna e allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli e anche di evitare i bombardamenti sulla città.

Dei miei fratelli uno era andato con i partigiani al momento delle leggi razziali, uno era nascosto a Torino e l’altro era andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna, convinte però di essere abbastanza in una botte di ferro in quanto mio fratello che era nei partigiani, e che era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci, aveva detto: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa dovesse capitare, noi veniamo a prendervi!” Non è potuta succedere e non è successa.

E un giorno che eravamo a Saluzzo in albergo io sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo e sono arrivate due SS italiane. Sento che dicono: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente a avvisare mia mamma e mia nonna, e ancora adesso penso che forse, sapendo che eravamo lì, penso ma con molto ottimismo solo adesso, che forse han voluto darci tempo di metterci in salvo: forse, perché essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scala e ci avrebbero preso. In questo albergo proprio minuscolo c’era una seconda uscita che dava sulle scale: abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo salite fin su al quarto piano occupato dalla gente del posto che ci aveva dato ospitalità, però solo per certe ore, non potevano darci ospitalità per sempre. Allora si sono poi convinti, compreso l’albergatore che era venuto in aiuto, a chiamarci un taxi e a farci accompagnare a Sampeyre, in Valle Varaita, sempre in Piemonte. Solo che, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi dopo, ci hanno messo un po’ nella trappola dei topi, perché essendo in valle si poteva eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.

D: Quando è successo?

R: Questo è successo nel febbraio del 1944. Noi siamo stati a Sampeyre con mia mamma e mia nonna – anche lì in un piccolo alberghetto – per un periodo di tempo, poi sono arrivati i partigiani e noi più che mai ci sentivamo tranquilli, perché ce n’erano anche tanti ben armati e ben attrezzati; eravamo tranquillissimi. Solo che purtroppo invece da valle sono arrivati i tedeschi e hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, ma lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di finanza, che ci aveva visti a Saluzzo e ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di lire 5.000, ci ha denunciati ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi non avevamo mica niente da nascondere noi; siamo stati un po’ presi anche alla sprovvista perché appena arrivato il comando tedesco, ha detto: “Tenetevi a disposizione ché all’una di questa notte veniamo a prendervi.”

Allora sono venuti a prenderci; eravamo a Casteldelfino, sopra, vicino al confine, e avevano anche detto che io facevo parte dei partigiani. Allora sarebbe stato ancora più grave per me, perché forse mi avrebbero potuto passare alle armi subito. Lì ci hanno caricati e portati sotto a valle a Venasca dove siamo stati per 3 o 4 giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca; di notte dormivamo sui tavolacci.

Abbiamo dormito sui tavolacci delle celle di sicurezza, in promiscuità con tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Poi una mattina ci hanno caricati in treno e ci hanno portati all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo – ben poco – e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino.

D: L’Albergo Nazionale era sede di qualcosa?

R: Era sede del comando delle SS. Lì ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c’era poco da chiedere: eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, eravamo ebree e non sapevamo, per fortuna forse, cosa il destino ci avrebbe ancora procurato. Siamo poi passate alle Carceri Nuove di Torino, dove siamo state per 20 giorni; io ero in cella con mia mamma e mia nonna – io sottoscritta e due altre persone – in quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in carcere stretto e con solo la compagnia delle cimici: ce n’erano a profusione, specialmente di notte. Avevamo un’ora di aria, e io, tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me la messa non è che interessasse molto, era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle carceri c’erano piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, con piccole finestrelle ovali dove tu potevi stare unicamente inginocchiata su un’asse di legno. Così sono passati 20 giorni sino a quando un mattino ci hanno caricato su un pullman, non era un pullman era un camion, ci hanno portate a Porta Nuova, a Porta Nuova su un treno e siamo scesi a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.

D: Questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto, io penso, ai primissimi di marzo (1944). A Fossoli siano stati 20 giorni, senza naturalmente sapere assolutamente – con un’incoscienza unica – cosa sarebbe stato di noi, senza avere notizie dei miei fratelli, assolutamente non sapevo niente. Non sapevamo niente. Vivevamo proprio in una specie di torpore, di incoscienza, ma non solo noi tre, la mia mamma e la mia nonna, ma tutti, senza sapere cosa ci aspettava domani, così: non dico neanche con filosofia ma proprio con incoscienza.

D: A Fossoli vi hanno messo nel reparto delle baracche o nel reparto tende?

R: No no, nelle baracche, eravamo nelle baracche.

D: Vi hanno immatricolato a Fossoli?

R: No no, nessuna immatricolazione. So che c’erano campi dei politici, noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo stati lì 20 giorni. Se si pensa adesso, a distanza di tempo, naturalmente era non dico proprio un paradiso ma, in confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere non so, una pensione, una buona pensioncina. Siamo stati lì altri 25 giorni, con un certo trattamento; non si lavorava, da mangiare ce n’era a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose; una mattina ci hanno caricati sui carri bestiame, partenza con destinazione ignota: non si sapeva assolutamente. Però da quel poco che avevamo saputo si pensava di andare in Germania in un campo di lavoro, perché tutti dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.

D: Dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: Io penso di sì, perché lì non c’erano mica le rotaie, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna. Mia nonna da sposata faceva Sacerdote, noi invece Tedeschi: è salita nel vagone prima e non l’ho più vista, io ero con la mia mamma.

D: Cioè, venivate divise?

R: Per ordine alfabetico. Ci chiamavano per ordine alfabetico.

D: E questo “Transport” quando è avvenuto?

R: Il 16 maggio (1944), ed è stato il “Transport” più lungo che c’è stato: io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, è stato il più lungo di tutti, non so per quale motivo. Ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben 8 notti e 7 giorni.

D: In quanti eravate sul tuo vagone, se ti ricordi?

R: Più o meno saremmo stati una ottantina, tutti stipati.

D: Tutte donne?

R: Io penso di sì, di quello ho un ricordo un po’ vago. Quello che rimpiango molto è che tutte queste cose, se avessimo potuto dirle appena tornate, con la memoria più fresca, e con tutti i ricordi più freschi, sarebbero state diverse. Io rimpiango moltissimo che questo interessamento per noi sia arrivato quando noi siamo proprio ormai al lumicino. Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi che noi non sappiamo. Anche per il viaggio che ho fatto ad Auschwitz, le carissime insegnanti di Moncalieri ed i loro allievi han dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente niente; sono stati bravissimi perché hanno fatto delle dispense, cose eccezionali, ma a loro volta non sapevano niente, perché a scuola finiva tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda guerra mondiale assolutamente niente.

D: Allora il tuo “Transport” dopo 8 giorni.

R: 8 notti e 7 giorni; sono arrivata a Birkenau di notte.

D: Il vagone è entrato dentro?

R: Io direi che è entrato dentro, sulla banchina, e siamo arrivati di notte. Siamo stati nei vagoni fino al mattino dopo, quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame. Siamo scesi, tutti questi ordini in tedesco che non si capivano, abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì abbiamo creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, quelli che potevano entrare in campo o meno. Io sono sotto braccio a mia mamma, la mia mamma che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è proprio stata strappata dal braccio: è una sensazione che ho ancora adesso, sento il suo braccio che trema. Mi è stata staccata e io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto … ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A 5404, e siamo entrati in campo.

Io appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo mia cugina Giuliana Tedeschi. Era stata deportata con mio fratello Vittorio; mio fratello era nei partigiani ed era stato denunciato da un amico suo che era nei partigiani con lui: e l’ha denunciato come ebreo. Poi il destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione, a Mauthausen e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.

Ad ogni modo, entrando in campo vedo mia cugina che era venuta a Birkenau col marito e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, mio fratello che oltretutto aveva anche un braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando mi dice: “Ma sei sola?” io ho detto: “No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono andate in un altro campo”. E lei mi ha detto subito: “Toglitelo dalla testa perché di altri campi non ce ne sono”. Allora sono entrata in campo.

D: Quando tu dici che sei entrata nel campo, era il campo femminile?

R: Il campo femminile di Birkenau.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: Io penso che sia la baracca numero 10, che c’è tuttora. Però tu capisci che a distanza di tanti anni, di tanti anni, tante immagini si sovrappongono, e poi dei ricordi che ti sembrano nitidissimi, per me qualcuno lo è senz’altro, invece non lo sono. Appunto perché sono passati troppi anni.

D: Natalia, l’immatricolazione: ti ricordi come ti hanno tatuato il numero?

R: Sì, me lo ricordo benissimo. C’era una addetta a questo lavoro che aveva una piccola penna in mano con un pennino che finiva con uno spillo, e questo spillo era intinto in un inchiostro speciale; veniva tatuato il braccio in quel modo.

D: Lo facevate in piedi o sedute?

R: In piedi, non c’erano mica sedie, eravamo messe così su questa specie di scrivania, di tavolo che c’era, figurati se sedute! Le sedie in campo non sapevamo cosa fossero.

D: E veniva registrato il vostro numero?

R: Io penso di sì, però non ne sono sicurissima. Penso che se la Croce Rossa di Arolsen riporta il numero del tatuaggio è perché ha trovato dei registri, qualcosa con segnalate e registrate queste numerazioni.

D: Quando ti hanno tatuato c’era qualcuno che aveva in mano un elenco? vi chiamavano per nome? te lo ricordi?

R: Non ricordo; io credo che entrassimo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro li hanno dimenticati completamente. No, io credo che siccome eravamo tutti incolonnati, man mano che si passava davanti a questa che faceva i tatuaggi poi si andava alle docce.

D: E dopo, la vestizione?

R: La vestizione è stata una cosa tragica per i vestiti stracci; noi non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo che sono stata a Birkenau ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. Poi dirò dopo. Poi degli stracci addosso, proprio stracci; siccome ci veniva tolta tutta la roba che arrivava con noi, veniva tutta mandata in Germania, proprio gli stracci, quelli che erano inservibili, servivano per coprire noi. Io mi ricordo una mia amica – si finiva persino a ridere in quella tragedia – che, poveretta era del mio trasporto mi pare, no no l’ho trovata lì, aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.

I capelli li han poi tagliati dopo, perché come sono entrata in campo mi aveva detto tutte: ricordati di morire in campo se devi morire ma non passare al Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io disgraziatamente ho avuto un’infezione alla gamba, e non camminavo più, ho dovuto andare al Revier per forza, perché dico: “Tanto, per morire qui vado a morire nel Revier.” Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia e nel giro di 24 ore è diventata una cosa enorme, la gamba è diventata enorme, avevo un’infezione terribile, dico: “Camminare non posso camminare, vado in Revier“. Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio lontano su un altro mucchio, poi viceversa. Ad ogni modo io entrata in Revier ho detto: “Se è la mia ora …”. A parte il fatto che l’idea della morte non c’era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello, ho detto: “Sì, per morire vado a morire in Revier“. Non è che avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier, sono stata seduta su una specie di sedia, io con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto, e mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi tutte e due nude per 10 giorni, nude completamente, con questa che aveva il tifo che naturalmente si sporcava in continuazione, e con un’unica coperta. Quando ho chiesto, mi son fatta capire, di poter cambiare questa medicazione – chiamiamola pomposamente medicazione – era venerdì quando sono entrata in Revier, mi han detto: “Fino a martedì non si cambia”. Puoi immaginare quella carta cosa era diventata; se l’infezione c’era prima, dopo pensa cosa poteva capitare. E tu pensa che sono stata in Revier immobile per 40 giorni, e per 40 giorni tutte le mattine è entrato Mengele, tutte le mattine. Sai chi era Mengele? era l’angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo, elegantissimo col frustino in mano che segnava così nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Non penso se dietro qualche segnalazione dei più gravi, però andavano, le selezioni avvenivano così. Poi tu sai benissimo che chi doveva andare alla selezione, che doveva morire, era messo in un blocco particolare per 3 giorni, e per 3 giorni aveva un supplemento di viveri. Uno dice, perché? In campo c’erano tanti perché ma non c’era nessuna risposta a questi perché.

Quando sono uscita dopo 40 giorni miracolosamente dal Revier naturalmente non riuscivo a camminare, per via dei 40 giorni di immobilità; sono uscita ancora con una cicatrice lunga 5-6 centimetri, una ferita aperta, e mi hanno messo in un blocco di francesi dove c’erano anche delle italiane. C’era un’italiana di Venezia, Enrichetta Polacco, non so se l’avete sentita, solo che poverina adesso non può più testimoniare; era un tipo in gambissima, con una grinta, era arrivata già 2 mesi prima, sapeva come si svolgeva la vita in campo. Io mi era lasciata andare perché, uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra e quando mi alzavo tutte le ossa scricchiolavano come se fossero state senza lubrificazione. E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca che lavorava alle cucine, l’ha impietosita, era una deportata, e le ha detto: “Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me”, così mi ha lasciato andare. Lei da buona veneta mi diceva: “Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti devi far questo, muoviti, lavati”. Le devo molto perché proprio mi ha dato una scossa. Dopo entrata in campo ho saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino; quando l’ho saputo ero in Revier, non l’ho saputo subito: ho pianto un giorno e una notte consecutiva. Da allora non so più piangere, assolutamente. Mi posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più.

E allora sono andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro era un lavoro anche abbastanza fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa quelle lamiere per infilare i bastoni dentro. Portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna perché poi oltretutto non è che fosse un lavoro continuativo, si portava nelle ore dei pasti. Qualche volta, ma molto molto raramente, ci restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo.

Andando in Revier, una delle cose, un ricordo molto terribile, è che c’erano le donne che avevano partorito la notte e che c’erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di – neanche davanzale, come si può dire? – un ripiano, erano tutti lì che si muovevano, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato dopo o era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini lì davanti al Revier, diciamo.

Io sono stata lì facendo quel lavoro fino a quando un mattino c’è stato un appello particolare.

D: Un attimo Natalia, tu prima dicevi: “andare alla selezione”. Esattamente cosa vuol dire “andare alla selezione”?

R: Andare alla selezione vuol dire che tu eri segnata, eri predestinata ad andare ai forni crematori. Cioè ti mettevano in un blocco particolare, come ti ho detto ti davano il supplemento di vitto, e poi dopo c’era un … particolarmente di notte; sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire. Di Torino c’era stata una certa Vanda Maestro, non so se l’avete sentita nominare, che era ebrea e credo fosse anche partigiana, e che è morta in quel modo. La cosa tremenda è che tu sai quando sei in quel blocco per 3 giorni che devi andare ai forni crematori.

C’era questo Block… particolare, non potevi uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c’erano i contenitori e guai a te se arrivavi come ultima: dovevi prendertela e andarla poi a svuotare nel Waschraum.

D: Dicevi di quell’appello …

R: Questo appello, questa cosa particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima, ma tu capisci che lì né si aveva radio, né si aveva l’orario, un orologio che fosse un orologio non c’era, non ricevevi posta da nessuno, non avevi notizie, c’era solo una simpaticissima ungherese che era Pagni Margaret, la zia Margaret la chiamavamo, l’avete conosciuta questa Pagni Margaret ungherese? Veniva sempre a raccontarci, diceva: “Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio. Fra una settimana tutto è finito, state tranquille.” Inventava tutto tanto per tirarci su il morale, ma ci ha aiutato molto. Ad ogni modo quella mattina erano i primissimi di novembre, i Santi, e dal 23 maggio ero in campo a Birkenau.

D: Nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, oltre al numero ti hanno dato …

R: Sì, il numero da mettere sul vestito.

D: E il triangolo, ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sai che non me lo ricordo il triangolo, io ricordo il numero.

D: O la stella.

R: No, né la stella né il triangolo, però non prenderlo come oro colato perché son cose che a distanza di mezzo secolo si possono anche dimenticare.

D: Nel blocco, nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, con te c’erano solo le razziali?

R: Razziali; le capoblocco erano tutte polacche terribili, terribili le capoblocco, erano tutte razziali, c’erano francesi, c’erano italiane; sono andata dove si dormiva con le francesi, ho imparato il francese anche, e combinazione, la mia vicina posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me, era nata lo stesso giorno e lo stesso anno mio, era la mia gemella; era una certa Susanne, pensa che combinazione, avevamo la stessa età, precisa identica. Ad ogni modo sono stata lì e poi mi pare che mi abbiano cambiato di blocco: dopo eravamo – non so neanche come si dice in italiano – nelle koje, castelli dove si dormiva in 12 con un’unica coperta, dove si stava naturalmente di fianco perché non potevi star di schiena di sicuro; poi a metà notte ci si girava tutte. Con quella mia amica di Venezia di cui ti ho parlato prima eravamo sempre state vicine, sempre assieme; io le dicevo: “Guarda, ti ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come mia figlia!” perché eravamo tutte naturalmente con le ginocchia piegate infilate una dentro all’altra, poi a metà notte ci si girava; con quei pochi stracci che avevamo la sera quando si andava a letto, ci facevamo un fagottino e lo mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno rubato, una notte; la mia disperazione era terribile, dico: “Come faccio domattina, non posso mica presentarmi nuda all’appello!” Non so in quale modo l’ho recuperato, qualcuno poi me l’ha ridato.

D: Visto che stavi accennando ancora agli abiti, biancheria intima ne avevate?

R: Ah figurati! Pensa che – tanto fa parte della storia, lo posso dire – mi avevano rubato le mutande, e sono stata credo per 3 mesi senza mutande. Avevamo tutte una specie di camiciola sotto e un vestito, e basta, e queste scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero in Revier mi sono caricata di pidocchi, ma proprio da togliere a manciate, pidocchi da tutte le parti, tra le braccia, sulla testa: allora mi hanno rapata a zero. Non quando sono entrata ma dopo, perché ero piena di pidocchi.

D: Scusa Natalia, il ciclo mestruale?

R: Niente, quando ti dicevo che mi è venuta quell’infezione alla gamba, io do una versione un po’ semplicistica ma può darsi che fosse così. Quando sono entrata in campo t’ho detto era il 23 maggio, avrei dovuto avere il ciclo il 24: cessato completamente di colpo! Può darsi che questa infezione che mi è venuta alla gamba fosse, come si può dire? conseguenza di quello.

D: Anche per lo shock, probabilmente …

R: Io penso più che altro per quello, perché han cessato di colpo, io penso che sia stata una conseguenza.

D: Arriviamo a novembre.

R: Arriviamo a novembre: c’è stato un appello particolare. Naturalmente al mattino eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca, che ora fosse non so perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po’ più tardi, dunque non so, non ho idea di che ora potesse essere; fatto sta che siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non solo, ma io avevo la febbre, un febbrone, non ti so dire quanto ma avevo la febbre. Poi quando ci hanno avviate e ci han detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo, perché noi in campo si parlava sempre di un eventuale trasporto come di un miraggio, dato che non era mai avvenuto, miraggio, il miraggio è quel trasporto. E’ arrivato quel momento, però non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un carro bestiame, io mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho potuto muovermi di lì perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, 3 giorni e 4 notti, e ci hanno portato a Bergen Belsen.

A Bergen Belsen siamo arrivati, mi ricordo, che pioveva; non c’era la baracca per noi, e ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma a Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen. Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. Io sono passata davanti a questa Aufseherin, mi hanno scartata perché ero troppo magra, e sempre quella mia amica veneziana – la Aufseherin forse aveva un momento di, chi lo sa, non dico di bontà o di tenerezza, forse di comprensione non so – le ha detto: “Lascia venire mia sorella con me”. Allora mi han tolto dal gruppo e sono andata con loro. Dovete pensare che da Auschwitz-Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via, e si parlava solo e sempre di questo miraggio, di questi trasporti che non sarebbero mai avvenuti, perché noi non si sapeva.

Siamo arrivati a Bergen Belsen. A Bergen Belsen anche lì eravamo sistemati in baracche, soliti castelli, solite cose, poi ci hanno scelto per andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, bulloni, e si lavorava in 25, c’erano dei gruppi di 25. 25 di giorno e 25 di notte, dalle 6 del mattino alle 6 di sera o viceversa. Però lì non c’erano i forni crematori, se non altro. Pensate che noi andavamo a lavorare con 5 SS e i cani lupi. Immaginate in quelle condizioni cosa potevamo fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente!

D: Scusami Natalia, a Bergen Belsen ti hanno immatricolata ancora o no?

R: Niente.

D: E neanche in questo sottocampo di Buchenwald?

R: No niente, almeno, se loro avevano dei registri quello non lo so ma io ho solo avuto un’immatricolazione.

D: Un’altra cosa: il campo di concentramento era vicino o distante dalla fabbrica?

R: No, non era lontano, noi andavamo inquadrati 5 per 5, eravamo in 25; potevamo camminare 10 minuti, un quarto d’ora a piedi; era piuttosto vicino.

D: Tutte donne eravate?

R: Tutte donne sì sì, e lì ti dico si stava già leggermente meglio, appunto perché c’era poca gente e non c’erano i forni crematori. Pensa che noi si lavorava 24 ore su 24 con un intervallo di 10 minuti ogni 6 ore, no lavoravamo 12 ore non 24, 12 ore con questi turni, una settimana dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e l’altra dalle 6 di sera alle 6 del mattino. … tutto e per tutto, ci portavano da mangiare, avevamo, quando andava bene, 5 patatine, ma grosse così, e se no 4, e quello era tutto. Tu pensa che quando c’erano questi intervalli eravamo talmente sfinite che avevamo vicino a noi delle cassettine, che non so a cosa servissero, forse per del materiale, ma ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando non suonava il campanello: erano 10 minuti, 10 minuti solo.

D: Scusa Natalia, parlaci di questo campo. Era solamente un campo femminile?

R: C’erano pochissime baracche, saranno state 5, era una cosa molto piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen Belsen o Auschwitz-Birkenau, era più piccolo, non era così esteso. Il trattamento era leggermente più umano benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare; avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello. Però ti dico una cosa: la fame è terribile e chi non ha provato qualsiasi cosa non può rendersene conto, è inutile che uno dica. Ma la sete è peggio. La sete ti fa impazzire. La fame è terribile; noi sempre e solo a raccontarci e scambiarci le ricette di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Io l’ho già raccontato in varie occasioni: una mia carissima compagna di sventura, che era Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze, ha lasciato a Firenze, quando l’hanno arrestata col marito, 4 bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni, non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i 3 bambini più grandi in Israele, lei è stata deportata col marito, il marito poi non è più tornato, lui era oculista ed anche rabbino di Firenze, naturalmente una delazione anche lì. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa preferisci: un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?” Disse: “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che colmo! Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto questo, non riguarda me ma è una cosa tragica: Anna è poi riuscita ad andare in Israele, allora era ancora Palestina credo, e ha ritrovato i suoi bambini. Lavorava nell’ospedale ad Hassa, un attentato arabo nel pullman ed è saltata per aria. Pensi, portare a casa la pelle dopo quel popo’ di tragedia che c’è stata ed è morta così, poverina!

Ad ogni modo di Dessau dirò una cosa: i pezzi che facevo credo che sono serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a capire ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo del campo l’unico aiuto che ho avuto è stato uno di questo piccolo reparto che mi ha messo dentro a una specie di casco, come quelli che hanno le pettinatrici, un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice. E’ l’unica cosa che ho avuto; no, anche un’altra cosa, che poi vi dirò. Ad ogni modo lì una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già il cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz ci hanno spostati, perché c’era già l’avanzata russa. Si sentiva da lontano il cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos’era. A me è venuto sul fianco un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente quel camicino che avevo sotto il vestito era tutto appiccicato, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato, uscendo dalla fabbrica, su un camion, e anche lì abbiamo detto: “Dove andremo a finire?” Ci hanno caricato e il foruncolo, dopo un po’ che eravamo tutti in piedi su questo camion, è scoppiato: sono rimasta con quel popo’ di roba attaccata alle carni e non mi è venuta l’infezione. Ci hanno portato a Terezin, a Theresienstadt, dove sono stata liberata.

D: Quando c’è stato questo trasferimento?

R: Dunque: io sono stata liberata il 6 maggio (1945), poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale. Poteva essere aprile, metà aprile, perché non abbiamo lavorato tanto in fabbrica, praticamente 15 giorni; proprio le date adesso precise non le so, solo approssimativamente. E’ per quello che rimpiango adesso che ci facciate tutti questi interrogatori. Quando sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare – sei stato tu a Terezin? E’ una fortezza che hanno mantenuto così – ma nei miei ricordi era tutto diverso.

D: Parlaci di Terezin.

R: Posso dirvi poco di Terezin perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo di trovare. Ma su questo insisto perché Terezin è rimasto così com’era; indubbiamente, siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale e mi è successo di tutto, i ricordi si sono sovrapposti, si sono accavallati. Tu pensa che ho avuto il tifo petecchiale e un ricordo terribile di quella febbre che ho avuto: sono arrivata proprio al delirio, nel mio piccolo castello non c’ero solo io ma c’era un’altra, e quell’altra ero sempre io, uno sdoppiamento c’è stato. Io parlavo con quell’altra, l’altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Dunque puoi immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so perché lì era proprio delirio. E poi diceva, io questo non lo ricordo, chi era stato con me, che quando pregavo che mi portassero al Waschraum perché avevo bisogno di buttarmi dell’acqua addosso, han detto che ero cieca. Io questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei giorni è una cosa che non ricordo, non ricordo assolutamente. E poi lì al 6 di maggio è avvenuta la liberazione.

Io ho detto: “Ce l’ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta quando stavo leggermente meglio di fare 2 passi tutti i giorni, il terzo giorno farne 3, farne 4 … sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto: “Ci sono i russi, siamo liberi, ci sono i russi e siamo liberi.” Poi quando eravamo lì nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i belgi, ma gli italiani niente.

Allora appena stavo un pochino meglio in 4 siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andati alla Casa d’Italia. Alla Casa d’Italia a Praga dove ci hanno accolte, dove ci han dato anche credo qualche soldo – abbiamo girato un po’ per Praga – è venuta fuori tutta la nostra femminilità perché con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Puoi immaginare in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto! Guardi, l’ho raccontato alle ragazze di Moncalieri: nelle cose tragiche c’è persino una nota comica, perché è comica sì in quelle condizioni.

Poi anche di lì abbiamo lanciato degli appelli tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Un giorno abbiamo detto: “Cosa facciamo? andiamo via. Ci siamo – ho detto – andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia.” Allora siamo arrivati fino a Vienna, anche lì con mezzi di fortuna, a piedi, tutto quello che capitava, abbiamo preso un treno che andava al Brennero, solo che arrivati a Wiener Neustadt ci hanno fatti scendere dicendoci che non potevamo rientrare così alla spicciolata. Altri 40 giorni lì siamo stati, sistemate in case che erano state devastate; mangiavamo quelli che chiamavamo i “ceci imbottiti”, tutti pieni di vermi, però allora andava tutto bene. Pensi che – era estate, era maggio – cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura mica buttavo la mosca, no! continuavo a mangiare. Adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto, allora niente, tutto così. A Wiener Neustadt, anche lì, nessuno veniva a prenderci; c’erano i russi, allora noi eravamo anche molto giovani, e i russi volevano farci andare a lavorare di notte. A noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe finita. Allora abbiamo deciso: una mattina abbiamo preso la strada e ce ne siamo andate. Siamo arrivate a piedi fino a Sopron, che è in Ungheria. Ho avuto un lasciapassare che non serviva a niente, c’era solo scritto che eravamo andate a … con nome e cognome; però a quell’epoca il lasciapassare non serviva a molto.

Di lì siamo arrivati poi con un treno dei partigiani fino al confine con la Jugoslavia; arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi abbiamo chiesto perché: avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a pranzo con chi li aveva invitati! Il treno era fermo, noi sul treno, allora abbiamo detto: “E noi?” “Venite anche voi!” E siamo andate anche noi lì, però quelli poi tornavano indietro. Sempre con mezzi di fortuna che non le so dire, con camion, a piedi, siamo arrivati a, mi aiuti a dire la capitale della Jugoslavia, a Tirana, a Lubiana siamo arrivati. A Lubiana siamo andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare, c’erano dei campi di accoglienza, che allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì c’era effettivamente un altro campo di raccolta e non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati, allora abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione, siamo arrivate a Trieste. Su quel treno di Trieste un capotreno mica ci ha chiesto i biglietti, no, ci ha regalato un pomodoro! Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto.

Io mi ricordo che avevamo trovato una patata, piccolissima, e l’abbiamo mangiata così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: “Che meraviglia!” I bignè non sono mai stati buoni così. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste e siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte, ci hanno messo a disposizione delle brande: noi non eravamo più abituate a dormire sulle brande. Allora abbiamo dormito per terra.

Abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla comunità. E poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ho impiegato 8 giorni e sono arrivata a Torino. 8 giorni. E quando sono arrivata fino a Milano, allora mio fratello era fidanzato con una ragazza di Milano e mi ricordavo l’indirizzo, mi ricordavo il nome, sono andata a presentarmi. Noti che mio fratello si era sposato nel frattempo in Svizzera a Bellinzona ed erano a Torino. Io da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino dicendo che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto! Mi hanno preso per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente riconosciuto.

Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta militare che partiva da Milano alle 10, sono arrivata a Torino a mezzogiorno. I militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata deportata!” “Per carità, hai più diritto tu di un altro”. E poi è arrivata Porta Susa, qui alla stazione di Torino, ho preso un tram, non chiedetemi con quali soldi, non lo so, non mi ricordo, e sono scesa proprio alla fermata sotto casa. Qualcuno che mi ha visto in quelle condizioni mi ha detto: “Ma lei arriva da lontano!”, si vede che qualche notizia era già giunta nel frattempo. Dico: “Ma io arrivo dalla Polonia! Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri, e poi sono arrivata alla porta della mia casa senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio fratello che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, mia cognata era incinta di 3 mesi e aspettava un bambino, e mio fratello Cesare, che era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo lì che mio fratello Vittorio era mancato il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. Poi è nato il bambino che abbiamo chiamato col nome di mio fratello, e la vita ha ripreso, per forza.

D: Il sottocampo di Buchenwald, Dessau, era un campo solo per razziali quello o no?

R: Io me lo ricordo come un campo piccolino, c’erano poche baracche, io non so se dall’altra parte ce ne fossero delle altre; forni crematori lì non ne ho visti, però sono sempre stata con i miei compagni razziali, tutti ebrei: francesi, italiani o cosa ma sempre ebrei.

Quando poi sono venuta a Torino non abbiamo mai parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: “Basta con queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta!”. Ho trovato una persona che mi dice: “Ma cosa hai fatto? perché ti sei scritta il numero del telefono sul braccio?” E poi tutti in generale: “Ma basta, queste cose sono finite, sono passate, non parliamone più!” E quella è stata proprio una cosa che ha … completamente. Perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo assoluto. Proprio per queste frasi che ci venivano dette, che ci ferivano da morire.

D: Questo è durato fino a quando?

R: Sempre. Fino a pochi anni fa quando dal CDEC mi han proprio presa alle strette, mi han detto: “Devi fare queste interviste” “No” “Tu le devi fare”. E allora, come succede sempre, fatta la prima poi le altre mi son venute leggermente più leggere.

Anche se ripeto queste cose, sono convinta che nessuno potrà mai capire fino in fondo questa tragedia cosa è stata, se non quando se ne parla con i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua, e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che, con tutta la buona volontà che ci mettono per capirti, non arriveranno mai sul fondo.

D: E’ difficile testimoniare la fame, il freddo, la sete, le violenze, non solamente quelle fisiche ma anche quelle psicologiche?

R: Certo, perché hai sempre l’impressione di non essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice: “No, noi capiamo queste cose, noi ci immedesimiamo” non è possibile se uno non le ha vissute. Questa della deportazione è una cosa terribile, però qualsiasi cosa della vita se non l’hai vissuta tu gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì ma altrimenti no.

Per esempio c’è stata anche un’altra persona, quando sono tornata – sono tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono – che m’ha detto: “Sai, anche noi in fondo abbiamo patito tanto; mia mamma quando ha aperto un armadio, mancavano 2 lenzuola”.

Io arrivata a quel punto lì, ecco, io dico: “Sì, lei avrà sofferto perché le sono mancate 2 lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono mancati, 3 componenti della famiglia, la nonna la mamma e un fratello, mio fratello non aveva ancora 30 anni quando è mancato, qual è stato il nostro destino, solo perché siamo nati ebrei, tutto lì?!”

Palman Itala Tea

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Palman Tea, sono nata il 16 Aprile del 22 a Trichiana.

D: Che è in Provincia di?

R: Belluno. Perché è una Provincia Belluno.
Sono stata arrestata a casa mia l’11 Novembre del 44. 11 novembre del 44 sono stata arrestata. Chi mi ha arrestato è stata la Banda Carità di Padova, il famoso Tenente Castaldelli, mi sembra che si chiamasse.
Il mio era un recapito, allora sono entrati, io ero nel bar con tutti i clienti e c’era mio fratello Aldo, che era anche lui un organizzatore della resistenza, perché si può dire che la resistenza di Trichiana è nata a casa mia. È nata.
Vedo lui che salta, ha il cannocchiale e sta spiando in piazza perché aspettava una macchina dei partigiani di Belluno. Il Comandante aspettavano perché avevano una riunione. Salta dalla finestra ed io non so cosa succede e vedo due persone che entrano. Si avvicinano a me, ordinano qualcosa. Non so, io non so chi sono, non mi sbilancio, cerco di non parlare. Sento un colpo di pistola fuori. Sento un colpo fuori.
Mio fratello era saltato dalla finestra, era andato a vedere dal buco del portone se c’era ancora qualcuno in macchina, di fatti c’era un altro signore fuori, che sarebbe stato il terzo. Era senza… non aveva armi in mano, era là appoggiato alla macchina. Mio fratello ha fatto finta di avere la pistola, ha messo la mano sotto la giacca ed è andato a mani in alto. Questo qua si è messo con le mani in alto.
In quel preciso istante torna, arriva la macchina di Belluno che erano i Comandanti di Belluno. Ma mio fratello non li conosceva e questo neanche, allora si sono mossi tutti e due per andare a questa macchina per vedere chi fosse.
Quando mio fratello ha chiesto: chi siete, o l’altro ha chiesto: chi siete, non so quale dei due, questo si è voltato, è andato alla macchina, ha tirato fuori la pistola e si è messo a sparare. Mio fratello è riuscito a scappare, è ritornato dentro dal portone, poi è saltato dalla griglia ed è andato per i campi. È scappato.
I due che erano all’interno che hanno sentito il colpo fuori si sono lentamente avvicinati alla porta per vedere chi sparava fuori. Se era il loro amico, o se era qualcun altro. Quando si sono accorti che era il loro amico hanno sparato un colpo per aria, contro il muro dentro in sala, dentro nel bar, ed hanno detto: mani in alto tutti, non si muova nessuno, portate via la ragazza.
C’erano due ragazzi, due ragazzi che volevano entrare nelle file partigiane ed hanno portato via anche questi. Purtroppo uno era armato e li hanno uccisi subito. Li hanno uccisi. Mi hanno detto che sono stati uccisi poco dopo insomma.
Mi hanno portato subito al Distretto a Belluno. Mi hanno consegnato ai tedeschi, al maresciallo Palua, che è di Colle Santa Lucia, che parlava molto bene l’italiano perché era un italiano, di Colle Santa Lucia. Mi hanno messo nelle loro mani.
Lui ha incominciato subito l’interrogatorio, immediatamente. Ha incominciato l’interrogatorio: lei conosce Gianni. Gianni sarebbe stato l’intendente di zona, quello al quale io dovevo consegnare le lettere e dovevo riferire tutto. Lei conosce Gianni. Io faccio la tonta. Non so, perché nei momenti peggiori io riesco, riuscivo ad avere una calma tremenda, proprio, non mi scomponevo per niente. Io ho fatto la tonta ed ho detto: Gianni? Io non ho mai sentito parlare di questo Gianni, non so chi sia. Insistono: sì che lei lo conosce.
Avevo visto io che avevano aperto la porta e poi l’avevano richiusa, la porta era sulla mia destra, così. Cosa avevano fatto? Avevano aperto la porta, avevano messo la staffetta che avevano preso a Padova, e le hanno chiesto se ero io e lei ha detto di sì. Allora loro erano sicuri che ero io la responsabile.
Sì la conosce, non la conosce, ad un certo punto mi fa: vuole che le faccio vedere io chi conosce Gianni e chi conosce, e quante volte è stata a Trichiana e quante lettere le ha portato, e quante lettere sono state portate?
Me lo faccia vedere.
Mi mandano dentro questa ragazza, che è una staffetta che hanno preso a Padova. Io la guardo, non la conosco, non l’ho mai vista, può darsi che sia venuta nel bar, non dico niente perché nel bar viene tanta gente. Ma come faccio io a ricordare tutti? Non è possibile che io ricordi tutti. Sarà anche venuta, ma avrà portato delle lettere, ma chi è venuto a prendere le lettere proprio non lo so.
Così ho insistito su questa storia e mi hanno, hanno creduto per il momento, hanno creduto, poi mi hanno mandato su nelle carceri di Tabasso, e vicino c’era anche lei.
Io ho detto: ma che stupida che sei stata! Cosa ti sei sognata di andare a dire che venivi a casa mia? Non potevi trovare un posto qualsiasi? O in chiesa o dietro al cimitero? O un posto dove non succedeva niente? Ma proprio il mio nome?
Allora mi hanno…, io tutta la notte ho continuato a ripetere quello che avevo detto, per ricordarmelo bene il giorno dopo. Di fatti il giorno dopo quando mi hanno interrogata di nuovo ho ripetuto esattamente quello che avevo detto il primo giorno.
Così dopo mi hanno portato al Quinto Artiglieria. Al Quinto Artiglieria c’era una prigione dei pericolosi.

D: Ma sempre a Belluno?

R: Sempre a Belluno. Sempre a Belluno.
Era la prigione dei pericolosi. Prima di essere portata là c’era un questurino, un certo Sacchet, che pian pianino mi ha detto: attenta al n. 2. Solo così, due parole, ed io ho capito subito che era una spia. Di fatti mi mandavano al Quinto Artiglieria perché lei faceva la spia. Le carceri erano fatte con la porta di ferro, in maniera che lei poteva…, lei era quasi sempre libera, e passava per le celle.
Quando sono arrivata io ho capito subito come andava. Allora cercavo…, di giorno lasciavano aperta anche me e di notte mi chiudevano.
Ma io di giorno non potevo far controspionaggio, lo potevo fare di notte. Allora ho lavorato sulla serratura, non mi ricordo se con una forcina o con qualcosa, in maniera che non scattasse immediatamente, perché il tedesco tante volte quando passava alla sera dava il colpo alla porta e la serratura scattava. Io invece avvicinavo forte – forte, come se fosse scattata, ma non era scattata.
Quando la Paola, non potrei dire il nome della spia comunque ormai l’ho detto, quando la spia usciva, uscivo anche io e se lei andava giù da una parte io andavo dall’altra, e cercavo sempre di non vederla. Avvertivo i prigionieri, quelli che hanno portato dentro dopo di me e dicevo loro: state attente, cercate di non parlare con nessuno, solo questo io dicevo, non parlate con nessuno.
Una sera hanno portato dentro una gran retata di persone che veniva dal Mas, da quelle parti là, e c’erano tre ragazze. Erano quattro fratelli, no, due sorelle ed un fratello. Il fratello l’hanno messo nell’ultima cella in fondo nella parte, nell’altra parte di là, e sento che la Paola parla, parla… Questo qua parla, sento chiacchierare. Io ero uscita ed ero andata fino in fondo all’angolo delle celle, lei era sull’angolo per di qua e sentivo tutto quello che diceva. Sentivo parlare però non riuscivo a capire bene quello che dicevano.
Le due sorelle, io avevo avvertito tutti quelli che erano dentro, attenti, non parlate con nessuno, acqua in bocca, state zitti perché non ci si può fidare di nessuno.
Ad una delle sorelle, la più vecchia, le ho detto: non parlare con nessuno, hai capito? Stai zitta, tieni per te quello che sai e non parlare.
Non è andata a dirlo alla Paola? Quando l’ha detto alla Paola naturalmente lei il giorno dopo ha fatto la scena madre, io sono stufa di stare qua, si è messa a piangere, grida, due tedeschi l’hanno presa e l’hanno portata via. L’hanno portata giù al Comando a riferire tutto quanto, a riferire. Poi laggiù lei era di casa perché queste scene succedevano spesso insomma. Le hanno raccontato tutto quello che…
Poi c’era anche una cosa che devo dire, hanno portato dentro in cella Montagna, che era… un medico, che a forza di torturarlo aveva una cancrena alla gamba. L’hanno messo proprio alle spalle della mia cella. Avevamo la testa che si toccava, avevamo un muro ma avevamo la testa… Io sentivo tutto.
Sentivo tutto però un giorno sono passata di là, mi sono… visto che non c’era nessuno mi sono fermata e lui era steso con un fazzoletto sugli occhi, però vedeva sotto. Io gli ho fatto: che non parlavo, lui ha appena fatto la mossa con la testa.

D: Scusa, te ne sei andata?

R: Me ne sono andata.

D: Ecco, quando tu dici Montagna era il nome di battaglia?

R: Nome di battaglia Montagna, perché si chiama Mario…

D: Mario Pasi era?

R: Mario Pasi. Mario Pasi, si chiamava Mario Pasi proprio. Io l’ho conosciuto, l’ho assistito anche dentro. Per il momento io non sono andata tra i piedi, ho lasciato che la Paola si sfogasse, lei andava dentro e le faceva questo, le faceva quello, cercando sempre di… Perché lui non ha mai parlato, si è lasciato torturare ma non ha mai parlato.
Allora un giorno viene da me: guarda che io sono stanca di andare sempre da quello là, sono stanca di andare da Montagna, cerca di andare tu un pochino, perché io non ce la faccio più.
Va bene ho detto io, non è che ne abbia tanta voglia, ma va bene. Però l’ho lasciato stare ancora un giorno, ho fatto finta di niente, ed il giorno dopo sono andata da lui.
Lei non si è più interessata, visto che non è riuscita a cavare fuori niente ha lasciato che andassi tranquillamente io. Di fatti l’ho sempre curato, l’ho sempre assistito, gli davo da mangiare.
Quel biglietto che ha mandato fuori scritto con il sangue sono stata io a mandarlo fuori. Sono stata io a mandarlo fuori. Perché c’era un tedesco, uno della Wermacht, che entrava tutte le sere al Quinto Artiglieria, tutte le sere entrava in prigione. Faceva il giro di tutti i prigionieri, dava una sigaretta ad uno, una sigaretta all’altro, chiedeva se avevano fame, portava dentro del pane. Con me si è fermato tante volte a parlare questo ragazzo, non era tanto un ragazzo, sarà stato un uomo sui quarant’anni.
Mi ha detto appunto che io avevo il foglietto di scarcerazione pronto per Natale. Che sarei andata a casa a Natale.
Io gli ho detto… Poi dopo mi ha chiesto, perché ormai sentivano che la guerra andava male, e lui aveva paura. Allora mi ha chiesto, dice negli ultimi momenti, quando le cose andranno proprio male dice: lei può nascondermi? Lei può nascondermi?
Io sì la posso nascondere, però lei in cambio mi deve fare un piacere. Basta che non sia qualcosa contro la mia patria, contro i miei. No, io chiedo solo che mi porti dentro da mangiare, vestire ecc…
Allora io le davo le lettere che lui portava alla cassiera, ogni tanto la vedo ancora, la cassiera comunale del cinema, al comunale, le portava là, là c’era un’altra staffetta che andava a prenderle e le consegnava. Queste arrivavano a Trichiana, ed a Trichiana c’era mio fratello piccolo che aveva 13 anni che prendeva le lettere e le portava all’altro mio fratello che era in montagna.
È andata avanti così con questo qua. Attraverso questo qua io ho mandato fuori questo biglietto, perché non c’era modo di comunicare con l’esterno nella maniera più assoluta. Ero io che avevo il modo perché avevo… Perché questo qua sperava che io andassi a casa a Natale e che riuscissi a salvarlo. Che riuscissi a salvarlo.
Tornando a Montagna, poveretto, sono riuscita a mandare fuori questo biglietto attraverso…
Ricordo un altro particolare, c’era un certo Gazzetta di Cortina D’Ampezzo dentro, Gazzetta, ed una sera si è messo a dire il rosario, e tutti quanti hanno incominciato a voce alta, tutti quanti dicevano il rosario, era diventato un bum bum, proprio una voce. È arrivato Palua, non so era Palua che è arrivato in quel momento, è andato a far smettere subito. Hanno preso paura, c’è una rivolta, non avevano capito che era il rosario. …

D: Scusa Tea, il Distretto, quello che dicevi te, qui a Belluno, dove si trovava?

R: Qui in piazza, una facciata…, Piazza… adesso non mi ricordo il nome della piazza, mi sfuggono ogni tanto i nomi. È proprio qua, è vicino a qua, è proprio sulla piazza.

D: Lì c’era il Quinto Artiglieria?

R: No, il Quinto Artiglieria era su dove ci sono le caserme, dove sono le caserme lassù verso Mir, da quelle parti là, ci sono le caserme, il Settimo… Io ero nel Quinto Artiglieria, avevano costruito delle celle. Io penso che fosse la zona dove avevano i cavalli, dove avevano le stalle. Non so. So che là hanno costruito queste celle, e per entrare in quelle celle, prima di entrare in queste celle c’è un lungo corridoio fuori nel cortile tutto di filo spinato. Tutto un gran corridoio di filo spinato.

D: Ecco, Tea, però a Natale non ti hanno liberata?

R: No. Quando quella ragazza ha detto alla Paola che io… No, quando ho detto che stesse zitta allora lei ha capito che io dovevo sapere molte cose. Quel giorno che si è fatta portare giù al Distretto ha detto, perché ho avuto la conferma da Palua quando è stato arrestato, lei ha semplicemente detto che io dovevo sapere molte cose. Con queste tre parole sono finita in campo di concentramento.
Quando lei è tornata, dopo tre giorni, alle quattro del mattino hanno svegliato tutti, hanno chiamato tutti i nomi ed hanno fatto l’ultima partenza, sì, hanno fatto la partenza per il campo di concentramento.
Allora lei si è chiusa la porta, quella volta, l’unica volta che ha chiuso proprio la porta.

D: Quando era questo, te lo ricordi?

R: Questo non me lo ricordo quando doveva essere stato. So che Natale e Capodanno l’ho passato là al Quinto Artiglieria, l’ho passato in prigione là. Che poi quella notte, la notte dell’ultimo dell’anno erano in tre o quattro soldati tedeschi che passavano con le bottiglie, davano da bere e cantavano, ed io ho chiuso la cella, mi sono messa sotto, ho coperto la testa e non volevo neanche vederli. Non volevo. Come quando una volta ho sentito passare, ho sentito il passo di Palua, io ero seduta sul letto con i piedi contro perché lo spazio dalla schiena al muro ed i piedi contro il muro dall’altra parte, ero là e sentivo, ero dritta, ferma, e lui passa e si ferma davanti alla mia porta. Si ferma e mi fa: si vede negli occhi quanto odia i tedeschi, mi fa. Io lentamente giro la testa, guardo i suoi stivali, poi ritorno alla testa al mio posto. Ero tremenda, perché proprio… Si vede negli occhi quanto odia i tedeschi.

D: Ascolta Tea, allora l’ultimo carico quindi a gennaio probabilmente del 45?

R: Io penso a gennaio del 45, mi hanno portato al campo di concentramento.

D: Da sola o…

R: No, era un camion pieno. Da sola, la donna ero sola, unica donna, ma poi c’erano tanti uomini. Non è stato l’ultimo carico perché dopo ce ne sono stati altri.

D: Ascolta, ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno che è stato portato con te nel campo di Bolzano?

R: No. Che è stato portato con me nel campo di Bolzano non mi viene in mente il nome. Non mi vengono in mente i nomi, e neanche i volti, che strano. Perché dirò che io avevo la colite, avevo una forte colite, non stavo bene, di fatti quel giorno che mi hanno arrestata stavo parlando con il dottore. Con il freddo, perché mi hanno buttata sul camion, dietro, di notte era un sereno che si poteva infilare un ago, e di giorno nevicava tutto il giorno, tutto il giorno, con un camion a carbonella che ogni cento metri i tedeschi dovevano scendere a fare strada. Si può immaginare io che avevo mandato a casa già tutta la roba perché mi aveva detto che a Natale andavo a casa, ero con un cappottino nero, ero in lutto perché era appena morta la mamma, un cappottino nero senza guanti, senza niente, un freddo da morire.
Naturalmente mi torcevo dai dolori che avevo al ventre.
Allora un soldato ha fatto fermare il camion, ha chiesto ai Comandanti che erano in cabina se potevo andare in cabina. Gli hanno detto di no, e sono rimasta là.
Mi ricordo una cosa, abbiamo fatto Primolano, le curve di Primolano, una curva che è proprio ad esse, non si incaglia il camion proprio su quella curva là? Era di notte. Noi altri guardavamo le montagne limpide, belle, tutta questa neve in giro, e pensavamo se venissero a liberarci. Ma purtroppo il camion è ripartito.
Siamo arrivati a Bolzano. Non so se ci abbiamo messo due giorni, non mi ricordo quanto abbiamo messo, ma tanto, perché abbiamo fatto due notti in camion così.
Siamo arrivati a Bolzano che io ero proprio gelata. Poi una sete, una sete. Ci hanno fatto scendere, ci hanno allineati tutti sotto, sul muro del Comando, e dal tetto scendevano i candeloni lunghi così di ghiaccio. Io avevo una sete e guardavo questi candeloni di ghiaccio… pensi il freddo che c’era.
Poi dopo ci hanno aperto le porte, si vede che hanno preso i nomi, hanno aperto le porte di blocchi e sono entrata nel blocco.
Sono entrata nel blocco, mamma mia che impressione che ho avuto, vedere tutti questi castelli, tutte queste teste che uscivano dal castello, era tutta una testa che usciva dal castello. Questo corridoio con due file di castelli a tre piani. Insomma, io ero proprio…
Mi è venuta incontro la Maria Da Gios, la sorella di Checo Da Gios, quello che è stato impiccato con l’uncino, quello che è stato impiccato con l’uncino a Sedico, da quelle parti là.
Mi è venuta incontro lei poverina, poi là c’erano le quattro sorelle Rocco, tre sono morte, ce n’è ancora una. Mi hanno fatto posto in cima sul loro castello. Allora in cima sul castello con loro e la Maria Da Gios che faceva la spola dalla stufa, che non era nel nostro corridoio ma era nella parte di là dove c’era la Cicci, la capo blocco, la stufa.
Allora lei mi scaldava i mattoni e me li portava, e sono riuscite a scongelarmi un po’ le mani ed i piedi perché ero in condizioni… Mi hanno buttato su coperte, fatto bere un caffè.
Sì, poi sono arrivati quelli del caffè, perché io sono arrivata prima che passasse il caffè, allora ho bevuto questo caffè che era un po’ di acqua nera, sporca, così.
Dopo un po’ di tempo mi sono adattata, adattata ai gabinetti, adattata alle toilette, che era una cosa proprio esasperante.
Dopo andavo a lavorare alla galleria il Virgolo.

D: Quando ti hanno immatricolata, Tea? Hanno dato un numero a te?

R: Sì, subito. Subito, appena arrivati.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Oddio…

D: Non te lo ricordi adesso?

R: No. Ce l’ho.

D: Dopo ce lo dici. I tuoi vestiti te li hanno lasciati o te li hanno tolti?

R: No, mi hanno dato la camicia piena di pidocchi e la tuta bianca. No, mi hanno dato tutti i vestiti del campo di concentramento, mi hanno dato. Sì, per un po’ di tempo sono stata là in campo senza… Poi mi hanno detto: se vuoi vieni a lavorare, andiamo a lavorare fuori che ci danno un pezzo di pane in più.
Una mattina sento: chiusi i blocchi, chiusi i blocchi, una mattina presto, chiusi i blocchi. Ho detto: chiusi i blocchi, perché chiusi i blocchi? Ci sono gli arrivi, c’è un arrivo si vede, ho detto.
Allora io scendo, non ero andata in galleria, non ero andata a lavorare quella mattina. Quella mattina non avevo voglia di andare a lavorare e sono rimasta a dormire. Chiusi i blocchi. Io scendo, il blocco l’avevano chiuso con le catene, però la porta non chiudeva bene ed in fondo io riuscivo a guardare fuori.
Guardo fuori e vedo il primo, uno di Trichiana. Guardo il secondo, è un altro di Trichiana. Guardo il terzo ed è anche quello di Trichiana. Insomma sono quattro, tutti e quattro di Trichiana.
Faccio in modo che mi vedano, allora si sono accorti di me e con le labbra ho fatto: Aldo… mio fratello? E loro hanno fatto no.
Li stavano rapando completamente a zero. Li stavano… Era Ugo Somacal, uno si chiamava Brancher, Bertino ed Arturo Bonetta. Poi Arturo Bonetto è morto, si è preso la tisi ed è morto poverino, sì.
Pensi che questi qua sono stati chiusi, sono stati messi sui vagoni che dovevano andare in Germania, e Pippo invece aveva rovinato strade, aveva rovinato ferrovie, aveva rovinato tutto, e dopo quattro giorni li hanno riportati.
Questi ragazzi che sono tornati in campo prima di partire avevano lasciato l’acqua là, avevano lavato dei panni. Quando sono tornati hanno vuotato bevendo tutta l’acqua sporca che hanno lasciato là dalla sete che avevano. Leccavano i muri dove c’erano delle goccioline d’acqua, dell’umidità, dalla sete che avevano.

D: Tea, quando ti hanno selezionata per mandarti al Virgolo a lavorare?

R: L’ho deciso, mi sembra di averlo deciso io. Ho deciso io, sono uscita ed andata al Virgolo con tutta… Sono entrata nella fila con tutti quelli che andavano a lavorare. Non so se l’ho detto alla Cicci che andavo a lavorare, può darsi che l’avessi detto alla Cicci, che era la capo blocco.

D: E dal campo al Virgolo andavate a piedi o vi portavano?

R: In principio siamo sempre andati a piedi, in principio. Poi dopo ci portavano con i camion, ma in principio attraversavamo tutta la città di Bolzano a piedi, attraversavamo. Tutta la città di Bolzano a piedi.

D: E lì nel Virgolo cosa facevate? Cosa facevi tu?

R: Io facevo, lavoravo ai cuscinetti a sfera. Allora facevo il sabotaggio, perché quando dovevo lucidarli esternamente li lucidavo poco, in maniera che tornavano indietro, e quando dovevo lucidarli dentro li tenevo sotto la macchina tanto in maniera che poi le palline dentro le dovevano scartare per forza.
Il capo, che era uno di Ferrara, perché era una fabbrica di Ferrara, era stata portata là al Virgolo, una fabbrica di Ferrara, mi diceva il capo là: attenta Tea, stai attenta perché se ti prendono ti fucilano.
Poi al Virgolo è successo un bombardamento. Non so come mai due ebree sono riuscite, non so da chi, hanno avuto due triangolini rossi ed hanno tirato via il loro giallo, perché loro non potevano andare a lavorare, gli ebrei non potevano uscire, però non so come hanno fatto, questo, hanno messo su i triangolini rossi e sono venute fuori.
Quel giorno c’è stato un gran bombardamento su tutte e due le porte, su tutte e due. Non so se prima hanno bombardato davanti e poi hanno bombardato dietro. I tedeschi hanno una paura delle bombe tremenda.
In quel bombardamento davanti uno dei capi ha perso un braccio, che è quello del frustino, che frustava sempre tutti, e dietro sono sparite le due ebree. Erano d’accordo, si vede che il bombardamento era stato organizzato, era stato organizzato tutto, perché dopo due giorni abbiamo avuto notizie che erano già in Svizzera. Sicché loro si vede che sono andate verso la porta dietro, dietro c’era qualcuno che le aspettava, mentre bombardavano davanti, perché prima hanno bombardato dietro e poi hanno bombardato davanti, allora loro sono andate verso il dietro e sono scappate.
Quando ci hanno messe in fila si sono accorti che sono sparite due ebree, mamma mia, mamma mia non so se ci hanno tenuti senza mangiare, non mi ricordo, però una punizione ce l’hanno data.

D: Ecco, Tea, vi portavano al mattino e tornavate alla sera?

R: Sì.

D: Non stavate là a dormire al Virgolo?

R: No, il Virgolo era una galleria con dentro questa fabbrica, con tutti i macchinari, con tutti i reparti, reparti per ogni lavoro ecco. I tedeschi, c’erano i tedeschi dentro. Ci portavano alla mattina e ci portavano indietro alla sera.

D: Quanto tempo sei rimasta lì al Virgolo a lavorare tu?

R: Dunque, al Virgolo a lavorare sono rimasta fino a marzo. Dirò, per spiegare il perché mi hanno portato a…
Devo fare un passo indietro e parlare di mio fratello Aldo.
Io avevo scritto una lettera a mio fratello Aldo dal campo di concentramento, dove dicevo tante cose del campo di concentramento, della spia della Paola, tantissime cose. Dopo parlavo anche, ma scritta in maniera non esplicita, doveva esserci una spiegazione mia a tutti gli argomenti, ma mio fratello teneva conto dei principali argomenti, e poi dovevo io…
Tra l’altro io ho chiesto se il nascondiglio funzionava ancora a casa mia, so che erano dentro i tedeschi, che avevano portato quelli della Wehrmacht, cioè avevano portato quelli della Todt a dormire là, perciò il nascondiglio credo che non servisse più. Però ho parlato di questo nascondiglio su sta lettera.
Mio fratello, c’è stato un grande rastrellamento, lui alla sera, al 5 sera lui, il suo Maggiore, il Maggiore Ceppel, con il Maggiore Benucci, inglese, si sono trovati a Sant’Antonio Tortal. Benucci era accompagnato da un ragazzo di loro, e mio fratello era con il suo Maggiore. A mezzanotte mio fratello era andato a dormire, si sono ritirati, i due Maggiori sono andati insieme alla casera in cima, Cima di Mel, ed Aldo con Brancher sono andati giù alla Casera Bolenghin più giù, molto più giù.
Alle cinque del mattino sentono una voce: ragazzi, siete circondati, siete circondati, siete circondati. Allora svelti – svelti saltano giù perché questa casera era fatta in modo che qui c’è una scala, qua guarda la montagna. Il Maggiore Benucci… Quelli che li hanno svegliati alla mattina alle cinque non sanno chi siano, erano una voce che ha detto: siete circondati dai tedeschi. Loro sono scesi immediatamente e sono andati alla porta della cucina, che era di qua. Entravano dalla cucina e qui salivano per una scala ed andavano sopra a dormire.
Allora svelti sono scesi, hanno spalancato la porta e lasciato tutto aperto così giù per questa scala e sono entrati nella cucina. Mio fratello ha detto: io devo andare ad avvertire la mia missione. No, fermati qua, non muoverti, non volevano lasciarlo andare. Lui si è messo la sua tuta bianca, perché era tutto vestito di bianco perché c’era una neve spaventosa.
C’è una valle là, una valle che non saprei come definirla, dicono che bisognerebbe andarla a vedere perché è straordinaria. Ha dei massi enormi, dei cunicoli. Una cosa non saprei come dirla, perché è piena di anfratti, è strana, una cosa molto strana. In mezzo c’è questo piccolo torrente che viene giù da questa montagna.
Allora mio fratello va su, arriva esattamente nel momento in cui lassù si stanno sganciando, perché una staffetta che è arrivata da Sant’Antonio li aveva già avvertiti che erano circondati dai tedeschi. Allora viene giù e cerca di… Prende l’arma del Maggiore Ceppel, un bazooka, e corre insieme ad un altro Maresciallo, e corrono giù per questa valle. Vanno a nascondersi, cercano di scappare ai tedeschi.
Quando sono arrivati giù in una valle si sono fermati, trafelati tutti e due perché a correre per portare questa mitraglia… Allora il tedesco che si era guardato in giro, non il tedesco, il Maresciallo americano che si era guardato in giro aveva visto un posto che era come.. non so dire, un pianoro, dove c’erano degli alberi che lo coprivano. Là potevano nascondersi.
Sta dicendo a mio fratello: guarda, guarda quel posto là è il posto bellissimo dove possiamo nasconderci tutti e due. Si volta per chiamarlo e non lo vede più. Lo vede che sta risalendo la salita. Sta risalendo la salita. Lo chiama: Aldo, Brauni lo chiama, perché il nome in inglese di battaglia, il nome che aveva prima mio fratello di battaglia era Nuvolari, Nuvolari perché era…
Pensi che ha portato via un camion che con le due ruote dentro stava in cima sulla strada, e quelle fuori erano fuori dalla strada, lui riusciva a portare il camion in montagna. Riusciva a portare. Lo chiamavano Brauni.
Adesso ho perso il fio…

D: Che lui stava scappando…

R: Lui non stava scappando, stava rimontando la collina, dove in cima poco prima aveva visto passare due tedeschi. Lui stava rimontando la collina e non ha dato retta al suo Maresciallo, non ha dato retta.
Questo Maresciallo ha cercato di salire l’altra collina dall’altra parte per vedere se lo vedeva, ma non ha più visto niente, allora è andato a nascondersi sul suo nascondiglio ed è rimasto là quieto.
Dopo un po’ lui sente il colpo di bazooka. Mio fratello si era portato si vede in direzione che in linea d’aria poteva arrivare alla Casera Bolenghi dove c’erano i cinque, c’erano tre italiani e due inglesi dentro. Di fatti ha sparato un colpo di bazooka.
Dentro in questa casera uno degli italiani stava guardando fuori dal finestrino da questa parte qua, dalla parte verso Trichiana diremo. Vede i tedeschi che stanno venendo su dalla collina, stanno venendo su con il mitra, e stanno per puntare, si avvicinano alla porta, stanno per sfondare la porta, mentre arriva il colpo di bazooka.
Cosa fanno i tedeschi? Si buttano a terra ed a carponi girano la casera, si portano sul davanti per vedere da dove veniva questo colpo di bazooka. Non hanno più toccato la cucina. Non sono più andati dentro.
Questo che spiava fuori da questa parte qua pian pianino contro il muro si è portato dalla parte di qua, dove c’era un’altra feritoia, un’altra di quelle finestre da montagna, ha guardato fuori anche lui perché lui ha detto subito: questo è Elio, questo è Aldo. Questo è Aldo, sono sicuro che è Aldo. Di fatti lo vede che scende giù su una stradina scoperta, per niente nascosta, e che zoppica. Perché lassù lui aveva sentito il colpo di bazooka, l’americano, poi dopo ha sentito un altro colpo. Si vede che i due tedeschi che erano lassù gli hanno sparato sulle gambe. Di fatti aveva una gamba ferita.
Hanno visto Aldo venire giù e si è appoggiato ad un albero ed è caduto, scivolato perché si vede che non ne poteva più, poi si è rialzato ed è corso in un’altra casera che era di fronte a quella dove c’erano i cinque. Proprio quasi una di fronte all’altra, qui c’è il torrentello che passa e sono una di fronte all’altra.
Lui aveva due bombe a mano, ha tirato anche le due bombe a mano dalla parte all’altra casera per attirare l’attenzione su di sé. Poi è tornato di qua. Purtroppo sopra la sua testa c’era un nucleo di tedeschi, c’era un comando tedesco ed hanno cominciato a sparare, a sparare, ed anche lui a sparare perché aveva la sua rivoltella. Il bazooka non l’aveva più, però aveva la sua rivoltella, le rivoltelle americane.
Ha ferito un tedesco che poi è morto, abbiamo saputo che è morto. Dopo questo combattimento lui lo volevano vivo, non lo volevano morto, lo volevano vivo, e volevano che finisse le munizioni. Però io sono sicuro che l’ultimo colpo se l’è sparato. L’ultimo colpo perché l’ultimo colpo se l’è sparato lui, sono sicura perché me l’aveva già detto: a me la corda non la metteranno mai. L’ultimo colpo che ho qua sarà mio.
Di fatti così ha fatto.

D: Tea, quando tu hai scritto quella lettera dal campo di Bolzano a tuo fratello, la lettera non è mai arrivata?

R: La lettera l’aveva sulla pancia mio fratello, assieme a tutti i soldi della missione, della missione americana. Aveva un gran pacco di denaro, perché hanno portato via anche tutto il denaro, un po’ uno, un po’ l’altro si sono portati via tutto il denaro, e la lettera ce l’aveva in mezzo a…
Questi che hanno trovato la mia lettera poi dopo niente… Sulla lettera dico a mio fratello: non mandarmi tutti i pacchi via clandestina, mandamene qualcuno con il mio numero di matricola, che il numero di matricola è 8934.
Ecco, mi hanno preso come prendere una mosca nel latte. Mi hanno preso. La tedesca, la lettera l’hanno mandata, quando hanno preso la lettera l’hanno mandata si vede al Comando a Belluno, il Comando a Belluno ha telefonato a Bolzano immediatamente, ed il giorno… non so, questo è successo il giorno 6, io penso che il giorno 7 erano già là. Il giorno 7 a mezzanotte è passato il Comando tedesco con la Tigre, che era una donna, con la Tigre, noi la chiamavamo Tigre, che passava ed a tutti guardava il cartellino.
Quando è arrivata a me che ha visto il cartellino ha dato uno strappone, l’ha tirato via e mi hanno portato via. Mi hanno portato al Corpo d’Armata.

D: Il 7 di che mese però, Tea?

R: Marzo, marzo.

D: Ti hanno portato al Corpo d’Armata a Bolzano?

R: A Bolzano. Prima mi hanno portata al Comando del campo di concentramento, e là naturalmente io non capivo una parola. Dopo mi hanno portato al Corpo d’Armata. Al Corpo d’Armata giù, sotto quel sotterraneo là, il giorno dopo al mattino alle 9 sento diversi passi sul corridoio e mi portano nella sala di tortura, che è più in fondo.
Là hanno incominciato a torturarmi. Hanno incominciato a torturarmi, allora mi hanno messo allo spiedo, allo spiedo. Mi hanno legato le mani così con del filo di ferro, le mani diritte con il filo di ferro, poi me le hanno infilate sulle ginocchia, infilate sulle ginocchia, e tra le mani e le ginocchia mi hanno passato un ferro. Poi mi hanno alzata, mi hanno messo su una scala a pioli, una scala doppia così, ed io rimanevo là con le gambe e la testa in giù.
Là hanno incominciato ad interrogarmi. Mi hanno interrogato.. scosse elettriche. Erano in due con una corda di bue, l’impugnatura grossa e poi fine – fine che mi bastonavano. Si mettevano in posa con le gambe larghe e giù botte, e giù botte.
Allora mi facevano in qua con le scosse elettriche, oppure mi facevano perdere i sensi con le scosse elettriche e mi facevano in qua con le bastonate. Finché… Volevano sapere se mio fratello era un Comandante, perché loro erano fissati che Aldo era un Comandante. Perché con tutta questa roba che aveva addosso, era tutto vestito d’americano, perché era tutto vestito d’americano, credevano che fosse un Comandante. Invece mio fratello non era un Comandante, era il fac-totum del Maggiore Ceppel sì, perché lui essendo perito edile, perito meccanico era, conosceva un po’ l’inglese, conosceva un po’ il tedesco perché allora studiavano il tedesco, non si studiava…
Tra tedesco, inglese ed italiano si capivano, ecco. Così.

D: Lì al Corpo d’Armata sei rimasta fino a quando?

R: Là mi hanno torturato finché basta, poi mi hanno tirato giù, quando mi hanno messo per terra… Perché quando non ne potevo proprio più, perché continuavano ad insistere: suo fratello è un Comandante, ad un certo punto ho detto sì. Allora mi hanno tirato giù e mi hanno messo giù, mi hanno messo per terra.
Suo fratello allora era un Comandante? No, ho fatto io. Non mi hanno rimessa su? Mi hanno rimessa su, mi hanno riappesa e botte ancora. Fino a che…
Durante l’interrogatorio volevano sapere il nome dei partigiani, allora ho dato i quattro nomi dei partigiani che erano in campo, perciò sono in campo e quelli non possono fargli più niente. Volevano sapere altre cose, allora del nascondiglio?
Io gli ho detto per filo e per segno dove è il nascondiglio, perché ero sicura che nel nascondiglio non c’era più niente. Per filo e per segno ho… Loro credevano che io avessi incominciato a parlare, erano tranquilli perché io ormai avevo cominciato a parlare. Queste due verità sì, insomma, per loro sono state sufficienti. Dopo hanno continuato sempre con Aldo, Aldo, il Comandate Aldo, era un Comandante.

D: Ma quando ti hanno liberata?

R: Niente, poi mi hanno portato in cella perché io non ricordo niente, mi hanno buttato in cella e là io non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, sentivo solo quando chiudevano ed aprivano la porta, e basta. Là sono rimasta diversi giorni, fino a che si è interessato il Vescovo Bordignon che ha chiesto al Comando di Belluno dove fosse la tal prigioniera, tal dei tali.
Allora svelti – svelti dalle celle del Corpo d’Armata mi hanno riportato alle celle del campo di concentramento. Ho fatto cella chiusa, il campo di concentramento, fino al 3 Maggio. Al 3 Maggio. Sono stata liberata il 3 Maggio. Ho una fotografia della Nella che scrive che… nel meraviglioso giorno della nostra liberazione, 3 Maggio 1945.

D: Poi cosa hai fatto? Quando ti hanno liberata cosa è successo?

R: Quando mi hanno liberata… No, ero là che aspettavo che mi liberassero, la Croce Rossa, ma non chiamavano mai il mio nome. Non sono venuti due soldati armati a prendermi e portarmi via dal campo di concentramento? Io ero sulla porta delle celle che aspettavo, di qua tutti andavano fuori 50 alla volta. Io ero là sulla porta che aspettavo, mi capitano due soldati armati e mi portano via. Mi portano al Corpo d’Armata un’altra volta.
Allora la Nella, che aveva saputo, non so come perché non era ancora finita la guerra e là c’era i partigiani, però un po’ nascosti. Quando hanno saputo che ero stata portata al Corpo d’Armata erano già pronti per intervenire se io non fossi uscita.
Sa cosa voleva il Comandante? Mi ha chiesto se in cella avevo parlato con qualcuno di quello che mi avevano fatto. Io non ho parlato con nessuno, sono sempre stata in cella segregata, come facevo a parlare?
Guardi dice, che se lei parla e racconta a qualcuno quello che noi le abbiamo fatto noi saremo sempre sulle sue tracce e la uccideremo in qualsiasi momento.
Io sono venuta fuori e non sapevo dove girarmi. Io so che mi sono trovata senza conoscere le strade, senza conoscere niente, senza… Mi sono trovata davanti al campo di concentramento, davanti alla porta del campo di concentramento. Dentro c’erano ancora due dei miei compagni. Ce n’erano ancora due.
Mi sono seduta là sul prato ad aspettare. Mi si avvicina un uomo che viene su da… Io non ho osservato, là c’erano i campi, alberi di tutte le sorti. Mi si avvicina uno e mi dice: era in campo di concentramento? Sì, ero in campo di concentramento. Di dove è? Di Belluno. Credevo fosse italiana.
Sono saltata in piedi e questo ha preso la via dei campi… Mi sono guardata intorno, vedevo che tutte le macchine arrivavano ed andavano giù per i campi, erano tutti fascisti che scappavano. Erano tutti fascisti che scappavano.

D: Tea, ma quando sei arrivata a Belluno tu?

R: Noi siamo partiti a piedi, siamo andati con la Nella ad Ora, poi abbiamo preso il trenino e siamo andati a Predazzo, a Predazzo ci ha ospitati lei e là abbiamo combinato che c’era una galleria che portava fuori su Fiera di Primiero. Siamo arrivati a Feltre il giorno dopo perché abbiamo dormito a Fiera di Primiero da qualche parte, e poi siamo arrivati a Feltre.
Io a Feltre dicevo ai ragazzi: sbrigatevi, andiamo a casa, andiamo a casa, perché io ho i miei fratelli e voglio vedere Aldo, voglio vedere Aldo, partiamo.
Ci incamminiamo, fuori dalle porte di Feltre incontriamo due di Trichiana, io mi fermo, loro si fermano, e ci chiedono… La prima cosa, Aldo? Dov’è Aldo? L’ha visto? Vedo che questo alza gli occhi e guarda sopra la mia testa. È diventato pallido.
Io mi giro e c’è Bertino dietro di me che gli fa segno che io non so niente. Allora mi dice, l’unica cosa che ho chiesto: è stato impiccato? No, mi hanno detto no, è morto in combattimento.
Poi io non ho più parlato fino a Trichiana, ero di ghiaccio. Finché mio fratello piccolo ha sentito che era in arrivo la sorella dal campo di concentramento, è venuto di corsa con la sua biciclettina piccola, è saltato dalla biciclettina, è saltato sul carro, ci avevano mandato il carro, e così sono tornata a Trichiana.

Pianegonda Noemi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Noemi Pianegonda, sono nata a Valli del Pasubio, 30/11/30.

D: Noemi, la tua famiglia era, la famiglia in cui si appoggiava il regime fascista, oppure?

R: No, era appunto, io sono cresciuta in una famiglia dove, vorrei dire, l’ho sempre respirata quest’aria antifascista, anche il papà è stato perseguitato dal fascismo, non ha mai preso la tessera né il distintivo, che allora era quasi obbligatorio per poter avere un lavoro. Lui si è adattato a fare tutti i lavori, però non ha mai accettato quest’imposizione, quindi io l’ho respirata da bambina quest’aria, non è come si suol dire, dalla sera alla mattina io ho fatto da staffetta partigiana, che me lo sia sognata.
C’è un qualcosa dietro, che me la sono portata come una ricchezza, un patrimonio di cultura, di storia. Papà era così, col tempo abbiamo capito di più le cose, e quindi, la mia famiglia è stata così. Un papà meraviglioso.

D: Tu sei nata nel 30, quindi nel 44 avevi?

R: Ho compiuto 14 anni in carcere.

D: Che cosa succede nel novembre del 44?

R: Il 18 novembre, di sera hanno arrestato mia sorella, io sono stata arrestata il 19 mattina, 18 novembre del 44, era di sabato.
Io mi trovavo in Collegio, perché facevo la terza media, dalle Canossiane a Schio.

D: No scusami, il microfono.

R: Va bene?

D: Sì, sì.

R: Io mi trovavo in Collegio dalle Canossiane a Schio.

D: Scusa.

R: Una domenica mattina, il 19 novembre, che era di domenica, come tutti, si andava a messa, alle sei e mezza si sente suonare una scampanellata, la chiesa dell’Istituto era anche vicino alla portineria.

D: Che Istituto era?

R: Istituto Canossiane, le Suore Canossiane, io ero lì per fare la terza media, il terzo anno.

D: A Schio?

R: A Schio.

D: Mentre la famiglia?

R: La famiglia viveva a Sant’Antonio, allora non c’erano le scuole medie nei paesi come adesso, era l’unico mezzo per poter continuare.
Sentiamo questa grande scampanellata alle sei e mezza di mattino, e va bene così, poi viene una suora e mi dice: ” Noemi” e mi batte sulla spalla: “ci sono due signori che ti vogliono in portineria”, e gli dico: “Ma chi sono questi due signori”, e dice: “Non lo so” le dico: “Chiami la Direttrice” dico “perché la suora portinaia, non è responsabile di noi educande”. Noi eravamo le educande lì dentro. Viene la Direttrice e dice: “Assisto anche io, cosa vogliono” loro dicono, che sono amici di mio fratello. Due signori vestiti molto bene, che poi avrò modo di conoscerli in carcere per gli interrogatori, mi dicono che sono amici di mio fratello, però sono andati a Sant’Antonio dalla famiglia e non l’hanno trovato, loro hanno estremo bisogno di parlare con lui, per mettersi in contatto.
Io, già preparata un po’ dal papà, anche dalla mamma, dalle sorelle, gli dico: “Guardi che io dal 1 ottobre” allora, s’incominciava la scuola il 1 ottobre ” è da Ottobre” dico “che io manco da casa, non so mio fratello…”. ” Ma non è possibile” dico: ” Non lo so” dico, “studiava a Vicenza” ” Si ho cercato”, ” Non lo so veramente”.
Allora questi due dicono alla Madre, sì, la Direttrice, si chiamavano Madri le Canossiane, e dice: “Allora Madre ce la dà, la bambina, che la portiamo su dalla mamma, così confrontiamo se dice il vero”. E lei, era la sorella dell’Onorevole Cappelletti di Vicenza, che poi è stata anche Onorevole, era una suora sveglia. Dice: “No, mi spiace, se io non ho un permesso scritto, un’autorizzazione scritta dalla mamma, dice, io la bambina non ve la do, a me è stata consegnata, e qui rimane”.

D: Ci puoi descrivere questi due signori, che erano venuti?

R: Erano, uno grande, magro, con dei baffi, pallido di viso, me lo ricordo, con dei baffetti neri. L’altro, invece, era più robusto, più piccolo, con un accento spiccatamente fiorentino, proprio, tutte e due, mi ricordo, col cappotto blu, sia perché noi l’avevamo come educande, che era la nostra divisa il cappotto blu, mi ha fatto specie vedere, già eravamo in tempo di guerra, si vedeva ben poca gente vestita bene, con la camicia bianca, cravatta, tirati a lucido, diciamo. Questi erano i due, che poi erano i due famosi, che hanno arrestato l’Adriana, Vallì, la mamma e che poi ci siamo ritrovate in carcere.
È passata così la domenica, in apprensione dico: “Chissà che la mamma possa telefonare”. Non sapevo, le suore disperate, dice: ” ma cosa è successo?” ” Non lo so, io non volevo dire Walter di qua, anche se dico che è in montagna, come faccio a sapere dov’è” lo dicevo fra me questo.
Non so niente di Sant’Antonio, da lassù nessuno.

D: Noemi forse bisogna dire qualcosa prima? Tu hai detto, ho fatto la staffetta partigiana.

R: Sì.

D: Che cosa significa?

R: Significa, portare degli ordini a mio fratello che era un Comandante partigiano, all’altro Comando portare degli ordini, di spostamenti, notizie, piccoli messaggi ma che erano importanti, perché c’era un collegamento fra loro, almeno quello che capivo io. Dicevano, guardate che c’è un rastrellamento in corso a Posina, diciamo, allora dovevano spostarsi, oppure, guardate che viene su qualcuno a trovare, lo so, erano volte che poi io, non aprivo quasi mai neanche i biglietti che mi davano.

D: Quindi, tu portavi dei biglietti di carta?

R: Dei biglietti di carta.

D: Quanti anni avevi?

R: Tredici.

D: Quando facevi questo…?

R: Sì, perché i quattordici li ho fatti dentro.

D: Dicevi, che tuo fratello era Comandante partigiano di che Brigata?

R: No, della Garemi e della pattuglia quella di Sant’Antonio, che in pratica l’aveva quasi fatta lui, formata lui, tutti i ragazzi del paese quindi avevano una fiducia in questo, allora, a quel tempo, studiavano in ben pochi. Lui era già Perito, si era anche iscritto all’Università ai Ca’ Foscari, perché allora non era permesso andare all’Università, l’Istituto Tecnico Industriale non permetteva di accedere ad altre Università, era aperta solo Economia e Commercio che potevano andare.
Intanto è venuto l’8 Settembre, e quindi, non ha potuto più frequentare, i ragazzi della sua pattuglia avevano una fiducia, perché quello che diceva lui, erano convinti: ma se lo dici tu Walter, va bene, con l’entusiasmo che avevano diciotto vent’anni, ecco questo è stato.
Io continuavo, mi ricordo che da Sant’Antonio a Malunga è un bel tragitto, sono quasi due chilometri in mezzo ai boschi, l’ho fatta anche quattro volte una volta, quando c’era in vista il famoso rastrellamento, che poi è stato grosso veramente.

D: Quand’è stato, quello…?

R: È stato quello, il 17 giugno del ’44.

D: Dov’è avvenuto?

R: È avvenuto a Posina, ma, le truppe che avevano visto, le notizie che arrivavano, non dicevano, sono diretti là, erano dislocate da Schio un po’ a rastrello, diciamo, quindi le notizie non potevano dire vanno a Posina.
Allora, no, hanno visto più movimento di là, allora corri su a dirlo, poi torna, poi hanno cambiato.
Lo facevo qualche sera quando era buio, allora qualche partigiano mi accompagnava fino ad un pezzo di bosco, dove in cima al bosco vedevo giù Sant’Antonio, il mio paese, avevo anche paura, insomma.

D: Noemi, chi li faceva questi rastrellamenti?

R: C’era…

D: Tu lo sai?

R: Sì, c’era la Wehrmacht, poi c’era un commando, che adesso io non lo so, perché a quel tempo, sia perché non avevo ancora capacità come adesso di capire, c’era un commando di russi a Marano Vicentino, insieme a questi rastrellamenti mettevano dentro anche questo, sarà stato, trenta o cinquanta persone di russi, che si erano dati, e che quelli menavano.
Questi sono stati feroci, hanno detto nelle contrade, dove c’è stato il rastrellamento, perché hanno incendiato, in pratica quasi una vallata e di là.
Quel rastrellamento del 17 giugno, hanno bruciato case, morti, e così.
Dicevano che c’erano questi russi che erano dislocati a Marano Vicentino, dopo di più, io non so.

D: Questo rastrellamento, tu sai se per caso era in relazione a qualcosa, perché è avvenuto questo rastrellamento?

R: Perché…

D: Perché è noto?

R: Perché loro sapevano, loro dicevano che sapevano che quella zona del Pasubio e di Posina, praticamente fa corona così, Pasubio e Posina, dicevano che era infestata dai ribelli anche perché, dicevano i ribelli loro giustamente, perché i partigiani nostri quando passava qualche macchina la sabotavano come sempre, quindi c’era sempre qualche atto di sabotaggio, e questo dimostrava che c’erano dei controlli, solo che loro non sapevo quanti erano i partigiani, erano pochi. Una volta succedeva qua, diciamo, una sparatoria, un’altra succedeva là, quindi dava l’impressione che fossero in tanti, poi si chiamavano, avevano questa furbizia, io ridevo allora. Ehi pattuglia, pattuglia C, pattuglia A, ecco che allora… questo sarà successo poche volte, però ha dato l’impressione ai tedeschi, che fossero tanti, invece…

D: Mi spieghi cosa vuol dire ribelli? Hai detto ribelli, chi sono?

R: Sono ragazzi, che non avevano accettato di andare sotto, dopo l’8 Settembre di arruolarsi nella Repubblica, parecchi sono stati anche i militari che avevano disertato dopo l’8 Settembre, che non si sono più presentati, anzi, il primo Comandante Partigiano della Garemi, è stato un certo Sergio, nome di battaglia, era Attilio Andretto di Bevilaqua, Verona. Era un tenente degli alpini che era scappato via, non mi ricordo da dove se da Verona, dov’era di servizio o verso la Valdosta, ed era arrivato dalle nostre parti, dietro lui si era portato un altro militare. I primi vorrei dire sono stati proprio i militari che si sono nascosti in montagna.

D: Quindi i ribelli sono i partigiani?

R: Sono i partigiani.

D: Torniamo al 19 novembre del ’44.

R: La domenica è passata così. Dopo lunedì, martedì, mercoledì, adesso non ricordo, se sia stato il 21 o il 22, ricordo che era di giovedì mattina si ripresentano un’altra volta questi due signori con un foglietto della mamma, con scritto di consegnare la bambina, Noemi Pianegonda, a questi due signori, firmato la mamma.
La suora piangendo è andata a prendermi il cappotto, i miei compagni sono venuti fuori e mi hanno abbracciato “Noemi vedrai che torni” io non capivo neanche cos’era. Monto in macchina con loro, ed era una vecchia Balilla, vecchia diciamo adesso era una Balilla nera, monto in macchina e mi portano a Sant’Antonio.
Credo che mi portino a casa mia, e invece prima di casa mia una volta c’era una trattoria, c’è ancora adesso, ma l’avevano requisita per fare il Comando Tedesco, c’era una compagnia tedesca a Sant’Antonio, i tedeschi, e mi fanno andare lì. Naturalmente che proprio fra casa mia e questa casa ci saranno tre metri di distanza, mi affaccio alla finestra e vedo la mamma che attraversa la casa e va nel cortile, l’ho vista andare in magazzino, dalla finestra l’ho vista, non potevo chiamarla perché era pieno di tedeschi, sotto nel magazzino, avevano adibito la mensa, la cucina per questa compagnia tedesca, che c’era a Sant’Antonio. Al giovedì, questo.

D: In macchina, questi due ti hanno detto qualcosa?

R: No, mi hanno detto:” Vedrai che adesso troverai la mamma” dicevano “e troverai anche tuo fratello”, io dico, ripeto ” Io non so niente” dico, proprio non lo so, ripeto. Ma gentilissimi loro, proprio, uno mi accarezzava le ginocchia, uno le mani, erano proprio, uno davanti e uno seduto con me.
Il giovedì mi vengono a prendere, ho dormito lì in questa stanza, con una brandina e lì vogliono sapere ancora ” Guarda che abbiamo arrestato, noi siamo della SD” dice ” noi abbiamo arrestato le tue sorelle, che sono già in prigione, domani” dice “partirà anche la tua mamma, e se tu non ci dici dov’è tuo fratello e il papà” dice “farai la stessa fine anche tu”. Io ripeto che non lo so, piangevo, mi portavano una ciotola di qualcosa da mangiare e guardavo fuori se vedevo la mamma.
Venerdì mattina, invece sento un rumore, guardo in strada e vedo un camion carico, noi avevamo un negozio di generi alimentari, carico d’ogni cosa che cera dentro nel negozio, ed era inverno, l’inverno del 44 è stato molto nevoso, tanta neve e freddo, in cima al camion seduta c’era la mamma, che me la ricordo ancora, questo paltò marrone quel collo di volpe che ce l’aveva lei, così la vedo e la saluto, e lei mi guarda, il camion è partito verso il Passo, ed è andato a Rovereto, e lì è andato al carcere.

D: Lei è andata in carcere con tutta la roba requisita?

R: Sì. Quella non si sa dove l’abbiano portata, la mamma l’hanno portata.
Io invece, sono partita il pomeriggio. Sono partita il pomeriggio, sempre con la stessa macchina e con una ragazza che avevano arrestato di Valli del Pasubio, suo papà era un partigiano, ma io la conoscevo di vista era già tre anni che ero in Collegio non è che conoscessi tutti del paese, di vista, dico: ” Anche tu” dico ” E sì”.
Io sapevo che aveva il papà partigiano, ma proprio un partigiano autentico, e non ci stavamo in macchina allora ho dovuto sedermi sulle ginocchia di questa ragazza, di questa Antonietta, di là un tedesco e andiamo verso il Passo.

D: Quale Passo?

R: Passo del Pian delle Fugazze, e vedo che tutti e due tirano fuori la pistola.

D: Antonietta a Pianalto?

R: No, i due della SD

D: No, l’Antonietta era a Pianalto?

R: Sì, tirano fuori tutti e due la pistola, io non capivo il perché, poi invece, continuavano con la testa a girare a destra e sinistra, avevano paura che i partigiani che facessero qualche, l’ho capito più tardi, quando nel punto più freddo, andavano via velocissimo, più freddo, più stretto, più buio come strada, andavano via velocissimi, ma erano così, così proprio, dalla paura che avevano. Hanno tolto la pistola, quando siamo stati agli ultimi paesi della Vallarsa, prima di arrivare a Rovereto.
Andiamo in carcere, il direttore del carcere, prima fa entrare l’Antonietta, io sono lì, prende le impronte, io mi ricordavo dal papà che aveva fatto il Carabiniere, che diceva prendevano l’impronta, e quelle rimangono per tutta la vita nel casellario, una cosa brutta, diceva allora. Oddio, dico, anche quello fanno, io pensavo chissà cosa, e il direttore dice: “Ma la bambina” mi chiamavano bambina, perché portavo due trecce che arrivavano alle ginocchia, col nastro in testa, questo cappotto da Collegio, con i bottoni tipo alla marinara, diciamo, cappotto blu con i bottoni dorati, ed ero piccola proprio, dice: “ma quanti anni hai?” “Tredici” “quando li fai” dice “i quattordici anni?” “al trenta di novembre” allora si rivolge a loro e gli dice: “Io non posso accettarla” dice “perché c’è il regolamento, che dice che, prima di quattordici anni non possono entrare in carcere”. “Ma no, qui non ci sono leggi” dice: “Mi spiace ma io non l’accetto”, loro hanno confabulato fra loro, allora il direttore gli fa, “Mancano pochi giorni, che compie i quattordici anni, qui vicino c’è l’Istituto di Suore, se volete.”
Mi hanno portato, loro sono andati a bussare, insieme con me, all’Istituto della Sacra Famiglia che è l’Istituto Tacchi di Rovereto, un pensionato per gli anziani, con le suore. Lì sono stata fino al giorno del quattordicesimo compleanno.

D: Le suore non ti hanno chiesto niente?

R: Sì, mi hanno chiesto, sono state carine, man mano, un giorno, anzi, sono venute fuori perché hanno suonato e sono venuti loro due a prendermi e dice: ” La dobbiamo portare a Villa Maffei, a Rovereto” dice ” per un interrogatorio” dice “Possiamo venire anche noi” dice “perché la bambina” no, no, no, invece loro in due, non si muovevano mai una da sola. Io sono partita con loro due, e loro due dietro.

D: Questo prima del compimento del quattordicesimo compleanno?

R: Prima, prima, due giorni dopo, proprio, che ero lì dalle suore.

D: Villa Maffei, che cos’era?

R: Era una famosa villa, l’ho saputo dopo questa, che è dopo Piazza Rosmini in collina a Rovereto, la villa dove c’era il Comando Tedesco e della SS, che hanno detto che era famosa per gli interrogatori, per le torture, soprattutto per gli interrogatori snervanti. Mi hanno portato su a Villa Maffei, mi ricordo che c’era un caldo dentro, una giornata fredda e dentro era caldo, io col cappotto, dicevo: “Mi posso togliere il cappotto?”, sempre in piedi, vicina al tavolo.
“No, questa è una doccia che devi farla, di sudore, perché poi verranno delle altre docce” sono stata lì, l’interrogatorio era sempre quello, se sapevo, se sapevo “Non lo so”, poi dico “se fosse”, allora io mi sono lasciata dire “ma se fosse in montagna, come faccio a sapere dov’è? Come faccio”, dico “a saperlo”, “Ma lui l’avrà saputo che i suoi sono stati arrestati” ma dice ” ma, tu sai la zona dov’era” ” Non lo so” allora lì mi hanno dato quattro ceffoni, potenti.

D: Questi due che, sempre i soliti due?

R: Questi due, insieme con uno della SS, lì.

D: Erano sempre in borghese?

R: In borghese, e c’era un Comandante anche della S.S. in divisa, quello vicino, tanto che mi si è riempita la bocca di sangue, ho preso il fazzoletto e ho visto che era il dente, non spezzato, era sotto otturazione, probabilmente con due ceffoni così, che poi mi sono portata questo dente nero, una paletta davanti per vent’anni, era morto, non mi faceva male, io l’ho lasciato stare, per dire, era andata dentro una goccia di sangue, è diventato nero.
Dopo due o tre ore, due ore abbondanti d’interrogatorio, mi hanno detto: “Andiamo”, sono andata all’Istituto Tacchi, il 30 novembre, le suore che mi facevano le coccole, che mi trattavano, il 30 novembre la mattina sono venuti a prendermi e sono entrata in carcere, una cella da sola e la paura che ho avuto, no, neanche del… Adesso la faccio ridere, c’era freddo alle finestre mancavano i vetri, la neve entrava e i lettini delle celle erano fissi per terra, quindi non li potevi spostare, la neve ti entrava e ti copriva la mattina le gambe, e questo cappotto, lo tiravo su, chissà perché avevo paura dei topi, mi dice lei, quanto bambina ero insomma, questo lettino e pregavo, pregavo tanto, non sapevo fare altro. Questa pagnotta di pane, che era dura e pesante, come un chilo, questa mollica che era uno schifo, mi divertivo a fare…, mangiavo la crosta, e la mollica facevo la borsetta, l’attaccavo su per il muro, facevo un po’ di scarpe, quelle piccole cosette che può fare una bambina, io dico.

D: Eri in isolamento?

R: in isolamento.

D: A quattordici anni?

R: Sì, la fame era tanta, che dopo un mese, ho cominciato a mangiare la borsetta, la stella, il tacco della scarpa che si era sfilato, poi è anche vero, non la sentivi neanche più, si fa per dire, non si sente, l’ho sentita, ma ci si abitua anche a quello.

D: Eri in una sezione…?

R: Era la sezione donne, ma il reparto, cioè, le due celle in fondo erano isolamento.

D: Tu sapevi che le sorelle tue erano vicine?

R: L’ho capito, me l’ha detto la carceriera, me l’ha detto ma aveva una paura di parlare, povera, perché erano ossessionate anche loro da com’era il regolamento, diceva: ” C’è la tua mamma e anche le tue sorelle” oggi. Domani ” guarda che loro stanno bene” ” Glielo ha detto che ci sono anche io?” “no”.
Allora, cosa è successo, dopo quattro cinque giorni d’isolamento, mi hanno messo in un’altra cella, con un’altra signora, mi pare che fosse di Genova, la sera quando erano le cinque, dopo aver portato la minestra le carceriere aprivano le porte e nel corridoio dicevano il rosario e noi tutte rispondevamo. Io ho detto, come faccio a farmi capire dalla mamma e dalle sorelle, che sono qua anche io? Allora si diceva il rosario in latino, e io spiccavo marcatamente il latino, per farmi sentire, e l’Adriana ha detto: “Questa è mia sorella” l’ha capito, non la prima sera, magari l’avrà capito dopo, allora hanno capito che c’ero anche io dentro.

D: Perché non avevate nessuna possibilità di comunicare?

R: No, nessuna, nessuna, né aria fuori, né niente.
Il terrore era quando, sentivi il tintinnio delle chiavi, che arrivava la carceriera insieme alla SS.
Questo Comandante che ho visto su a villa Maffei, erano sempre loro della SD che interrogavano, e questa cella, andare giù nella stanza degli interrogatori, era qualcosa che stringeva, macchiata di sangue, metà muro, tutta schizzata.

D: Quindi ti portavano all’interrogatorio?

R: L’interrogatori in quella stanza, proprio, era… qualcosa, lì, sempre, e dov’era…

D: Puoi descriverci un tipo d’interrogatorio, tipo come avveniva, che cos’era?

R: Ma niente, io mi sedevo così, e loro là, poi uno magari, si sedeva sulla tavola, gambe così, come andava, ” Raccontami di tuo fratello”, “Ma mio fratello ha sempre studiato a Vicenza” e dai con questo Walter, e dai “ma il papà?” “ma il papà” il papà invece poi ho saputo da loro che è scappato quella sera che hanno arrestato loro, ma io non lo sapevo, il papà dico “io non lo so, sarà andato da parenti, non lo so dove sia andato”, “tu devi dirlo”, ma ci avevano il pallino fisso.
Anche lì mi ricordo, dice, facevano così, giocherellando il nervo di bue che avevano lì, dice “la vedi questa?”, “sì”, “lo sai che cos’è?” ” sì” dice “se tu non parli, la useremo con te”, io ” va bene” dico, “io non lo so” e allora lì, mi hanno riempito di botte, veramente, sono andata sopra che sono stata, non avevamo specchi, non avevamo niente, ma sentivo che indolenzivo dappertutto, il viso.

D: In quanti uomini contro di te?

R: Sì, due. Si alternavano, Oddio, sarà durato, cinque minuti, dieci, per me è stato un inferno. Abituata al rispetto di casa, abituata ad un Collegio dove credevo il mondo, dire la Madonna, per dire, ecco, la famiglia, dicevo, ma dove sono caduta, ma cosa è successo.
Io non pensavo neanche a me, continuavo a dire: ” Oddio ma la mamma, e la mamma?” e stato struggente, veramente, il carcere, il campo un po’ meno.

D: Nel carcere avete passato anche il Natale?

R: Sì, il Natale.

D: Si è distinto in qualche cosa questo giorno o era come gli altri?

R: Il Natale si è distinto, in quanto abbiamo avuto un mangiare un pochino più abbondante, una zuppa con dentro un po’ di carne. Da notare che la mamma era riuscita per la carceriera a mandarmi un quarto di mela, ed io assieme con l’altra, perché si divideva tutto, non la mangiavamo la succhiavamo perché durasse di più, e mi ricordo, credo, che sia durata due giorni, a Natale, appunto…
Invece a Natale io sono stata da sola, la mamma e le sorelle le hanno messe assieme. Loro hanno potuto vedere la mamma in che stato era ridotta, a loro ha detto la mamma, mi ricordo che me l’ha detto dopo, perché dice non mi date la bambina, non è giusto, dice, che la bambina viva con la mamma di un delinquente, di un ribelle, dice.

D: Dice, che vivevi con chi?

R: Vivevo con una prostituta, non è giusto, non è educativo che una bambina viva con una madre di un delinquente, un ribelle.

D: Vuoi raccontarci che cosa e successo un giorno con questa tua compagna di cella?

R: Sì, come dicevo io, con un ingenuità perché allora c’era tanto tabù
non è come adesso, una sera vengono dentro due in divisa, dice: “Tu, tutti girati dall’altra parte” mi fa, io mi giro dall’altra parte, mi ricordo che era la cella dell’infermeria, c’erano due lettini staccati, ma distanti uno dall’altro, e io mi giro dall’altra parte, naturalmente sei lì, non capivo neanche cosa fosse successo, e poi dice: “Beh, tu vai fuori, che adesso faccio io”. Lei la sentivo piangere, sentivo questo muoversi, questo… ad un certo momento mi sono girata, posso dirlo proprio, li ho visti uno sopra l’altro, mi ha sconvolto, veramente, ho detto: “Oddio, ma quello la sta picchiando” si figuri ancora, a cosa pensavo io, ma quella.
Poi è arrivato il terzo, il quarto faceva la guardia invece sulla porta, io non ho più detto niente, la mattina dico: “Cosa ti hanno fatto?” “Meglio che tu non lo sappia” dice, piangeva, piangeva e da lì è partita un’emorragia, non avevamo niente.
In Collegio, sotto ci vestivano ancora alla moda un po’ antica, portavo la camicia, lunga come il vestito, senza maniche. Ho detto: “Senti le mutande, no, la maglietta è di lana, ti do la camicia che almeno” e quella è riuscita ad infilarselo sotto, perché era imbrattata di sangue, l’acqua era gelata dentro, bene o male si è pulita, lei non ne ha mai parlato, ed io non ho più voluto parlare, lei si è chiusa e non ha più parlato, quindi è stata quello che hanno detto, che non ero degna di stare con mia madre.

D: Con questa signora di Genova c’è stata fino a quando?

R: Fino al giorno del bombardamento del carcere, poi non è venuta al campo con noi.

D: Ma ascolta, spiegaci, la bambina di quattordici anni, si può dire bambina?

R: Sì.

D: Di quattordici anni, dire in questo modo, a che cosa si aggrappa per…

R: Guardi…

D: Per non impazzire, non so, vogliamo capire.

R: Non so, io mi sono aggrappata, guarda, mi è entrata addirittura, in un certo momento, di dire: ma Dio, ma dove sei, che cosa è successo? Io non capivo, pareva proprio sconvolto completamente, l’insegnamento che avevo ricevuto in Collegio, dico: ma allora è tutto falso quello.
Il papà che mi diceva, che già mi raccontava, la sua vita militare, il suo servizio, che succedevano casi così, ma allora ha ragione il papà, ma ci sono questi casi, ma è possibile? Non so a cosa mi sia aggrappata, alla preghiera, forse sì, ho pregato tanto, che se Dio probabilmente ha ascoltato, diciamo noi che non ascolta, ma, ascolta, non va perduto niente, ecco. Dopo il bombardamento…

D: Quando è avvenuto questo bombardamento?

R: Il 31 gennaio, il giorno di San Giovanni Bosco, me lo ricordo.

D: Il 31 gennaio del?

R: Del ’45, era il giorno di San Giovanni Bosco, perché io mi ricordavo le date, così, dicevo, guarda, oggi è San Giovanni Bosco che è il protettore degli studenti, anche dicevano allora, chissà che faccia cambiare le cose.
Le carceri sono crollate, io ho avuto la fortuna di salvarmi, perché a mezzogiorno, alle undici viene la carceriera e mi dice: “Noemi, metti su il cappotto che andiamo in un’altra cella” perché la cella dell’infermeria era grande come questa, e dice “è arrivato un altro convoglio” dice “è l’unico, ma alloggiano poco, poi verrai ancora qua” e dice, “se vuoi fare, anche a meno del paltò” dice “guarda, lascialo lì, che dopo torni, e solo una questione di poco” “va bene” io dico.
Allora io parto con lei, e questa signora, e andiamo giù alla cella proprio al piano terra, al numero 2. A mezzogiorno e mezzo viene il bombardamento, non ha colpito in pieno la cella dove ero io prima, dal terzo piano ci sono stati 35 morti.
Allora lì ci hanno portato alla caserma che, la chiamano la caserma Rommel, a Rovereto, ma non era, era lo stabile solo, non c’erano dentro i militari, e ci hanno fatto alloggiare là quella notte in mezzo alla paglia, nel tavolaccio, e lì per la prima volta ho visto la mamma e le sorelle e Walter. La scena che c’è stata, credo che abbiano pianto tutti, la mamma era irriconoscibile, Walter poi, l’espressione di Walter che aveva, una mandibola di qua, un orecchio mezzo staccato, la barba lunga, ecco lì, ed il giorno dopo invece siamo partiti per Bolzano.

D: Anche due zii erano lì?

R: Anche il fratello e la sorella della mamma, perché loro pensavano che il papà, quella sera che stava per rientrare a casa, quando hanno arrestato, Vallì e Adriana, papà stava per rientrare, ma qualcuno, uno della Polizia Trentina poi deve essere stato, dice: “Valentino, non entri che c’è la Polizia” lui non è entrato, è andato per il paese, è scappato. Loro pensavano che i parenti, giustamente, avessero dato ospitalità al papà o anche a Walter, che c’era anche Walter in casa quella sera.
Quindi loro per rappresaglia hanno arrestato anche il fratello, ed è stata una sofferenza per lui ma anche per la mamma, e non diciamo di Walter, la sua serietà dopo, dice, ” Ma cosa ho fatto io”, dice “per la mia famiglia?” viene … anche questo, di dire.

D: Noemi, complessivamente, ti hanno interrogata quante volte?

R: Guarda…

D: A Rovereto?

R: A Rovereto, saranno state tre o quattro volte, non di più, dopo hanno messo, unite la mamma e le sorelle, e sono cessati gli interrogatori, anche per Vallì, anche per me, per tutti, perché? Ci siamo detti: “Ma, chissà?” avevano arrestato mio fratello, quindi il capitolo era chiuso con noi.

D: Quando è successo questo arresto?

R: Sa che lì, guarda, a casa…

D: Circa?

R: Circa, è stato qualche giorno prima di Natale, vorrei dire che fosse stato il 16, a casa ce l’ho, un 16 o un 17, prima di Natale, perché l’interrogatori erano cessati in quel periodo lì, la Vallì ne ha avuti molti di più interrogatori, io ne ho avuti meno, ma adesso non so, però hanno cessato quasi contemporaneamente, diciamo, quando hanno arrestato lui, hanno finito con noi.

D: Praticamente era dai primi di febbraio…

R: Al 2 febbraio, siamo entrati ai Lager.

D: Ma come siete arrivati da Rovereto?

R: Da Rovereto, ci hanno caricati la mattina, due per due.

D: Due per due, cosa vuol dire?

R: Due vicine, dovevamo fare le scale, ma prima di passare le scale, perché era questa caserma, questo casermone era rialzato, dovevamo scendere le scale, prima di scendere le scale una per una dovevamo mettere le mani dietro e proprio con dello spago stringevano i polsi, in una maniera, e giù. Quando siamo scesi vediamo che Walter e altri tre, anche l’ingegnere Busnelli e un altro, tre mi pare che fossero non sono con noi, non li avevano chiamati. A noi ci hanno caricato su un camion e già eravamo così stipati col telo giù.
Mi ricordo che siamo arrivati verso sera a Bolzano, non finiva più questa strada, la strada tutta buche dai bombardamenti, ed è stato una sofferenza anche il viaggio, perché io mi ricordo che avevo vicino a me Padre Maurizio che era il Cappellano del carcere, era tutto fasciato in testa dalle botte e anche dal bombardamento. Ad un certo momento è crollato, era proprio davanti a me, così in piedi, è andato giù ed è venuto la SS, quattro ne avevamo, ai lati del camion, e l’ha preso, così per la testa, con le fasce e l’ha alzato, e io l’ho sentito che ha detto: “Oddio ma questo è troppo”.
Con queste mani legate è impossibile fare movimenti, ti devi spostare con le spalle, io mi ricordo che cercavo di tenerlo su questo uomo. Ad un certo momento, perché avevano anche le pile che ci guardavano, ogni tanto, questi quattro. Un momento che non ci hanno guardati, dico: “Padre Maurizio, tiri più su le mani” essendo piccolina io magari, con i denti, dopo tanto sono riuscita a tagliarli lo spago “li tenga davanti” dico, e lui mi ricordo, che mi ha stretto la mano. Poi era venuto anche ospite a casa nostra, dopo finita…
E dico quel Padre, sentirlo dire “Ma Dio questo è troppo” mi ha fatto impressione, insomma, quando sono arrivati al campo, a me pareva di essere arrivati in manicomio, perché le torrette accese, quei fanali quando arrivava qualche convoglio, e quindi tutte le ombre parevano gigantesche, non so, vedevo deformato. Poi una porta di una baracca, che non sapevo che erano baracche, ma che si aprivano e mettevano fuori le teste “Oddio” dico, ” ma qui è un manicomio” e lì siamo state tante ore in piedi per l’immatricolazione, e dopo l’immatricolazione…

D: Come é avvenuta l’immatricolazione, cosa facevano?

R: Lì, a destra c’era, non era come l’abbiamo vista ieri, il campo, io sono stata sconvolta ieri. C’era il cancello qui, ma prima del cancello c’era un piccolo fabbricato, una casetta in muratura, e lì c’era dove venivano scritti tutti i deportati che entravano.

D: Prima di entrare dentro il campo?

R: Prima di entrare nel campo, era subito a destra, lì c’era questo ufficio immatricolazione e lì ti prendevano il nome e cognome e ti davano un triangolo col numero, e qui il tuo nome andava perso, diventavi un numero.

D: Triangolo di che colore?

R: Rosso che era politico. Perché io avevo fatto…

D: Numero?

R: 9155, io sono abituata a dire 9155. Diciamo che ha fatto un po’ ridere anche il discorso del mio triangolo rosso… ridere, parliamo di alcune persone che hanno voluto sentire “Ma cosa ci fai dentro tu deportata politica” e dico “sono, sono la sorella di un delinquente partigiano, dico” “allora portalo come onore”. Tipo Professor Meneghetti questo, ecco allora portalo con onore, no, difatti parla, io parlavo con Mario, che è il nostro presidente, e diceva di preciso non lo sappiamo, ma credo che tu sia l’unica, la più giovane deportata politica, parliamo, perché d’ebrei ce n’erano in Italia, dice almeno nell’aria di Bolzano.

D: In che blocco siete andati?

R: In blocco A e F, F lì, blocco donne, che poi di là, subito c’era il blocco E, di quelli pericolosi, che non li lasciavano uscire.

D: Quindi eri con le tue, la tua mamma e sorelle?

R: Ero con la mamma e le sorelle, sì.
Un altro particolare che vorrei dire dopo essere immatricolata, ci hanno mandato alle docce, io ritorno mi scusi se io mi riprendo, dopo taglia caso mai, la doccia, io non avevo mai visto la mamma nuda. Adesso ritorniamo indietro coi tempi, c’era quel pudore, quel modo, e mi ricordo la mamma che io l’ho guardata così, e dico: “Oddio che bella questa doccia, questo caldo” io dicevo, e la mamma mi guardava e si faceva così con le mani, quel gesto come di pudore, di nascondere, lì ci hanno dato la tuta, a me non ne hanno trovato una che andasse bene, allora mi hanno dato una camicia nera.

D: I vostri vestiti?

R: Li abbiamo lasciati la, che sono andati alla disinfezione, quindi non l’abbiamo più trovati, solo le scarpe ho trovato, e lì siamo andati ai blocchi.

D: Ci descrivi il tuo vestito?

R: Il mio vestito, il primo, io ho portato per venti giorni, questa camicia nera, proprio una camicia nera, come usavano i fascisti, col polsino, il colletto, i bottoni e fatta un po’ rotonda proprio gli spacchi, invece che gli spacchi era fatta come si fanno nelle camice che si fanno al giorno d’oggi, a me arrivava a metà gamba.

D: Poi cosa avevi?

R: Non avevo niente sotto.

D: Era febbraio!

R: Era febbraio, ma non avevo niente, avevo solo le scarpe mie, che mi ricordo, erano un paio di mocassini, fatte a mano, belle pesanti.
Poi hanno recuperato una tuta, piccola dicevano loro, ma io la giravo in su parecchie volte, lo stesso qua, consisteva di iuta grossolana diciamo, ecco, non so, fatta di canapa, color giallino, con una croce sulla schiena con un altro segno sulle ginocchia, ed il triangolo che bisognava portarlo qua.
Anche la storia del triangolo, sembra facile dirlo, ma bisognava attaccarlo, con che cosa? Non c’era né filo né ago, bisognava farlo, e con che?
Gli uomini dei blocchi di là, che stando dentro tutto il giorno, avevano imparato anche qualche cosa, avevano costruito un ago di legno, fine, fine, e così con dei capelli, mi ricordo, coi capelli delle mie trecce mi hanno cucito il mio triangolo.
Altrimenti erano botte, se non avevi il triangolo.

D: Ci parli delle condizioni sanitarie all’interno del campo?

R: Non sarebbero neanche da dire, non esistevano.

D: Il gabinetto, la latrina, la doccia?

R: La latrina c’era, doccia no, c’era un lavello lungo tipo abbeveratoio per i cavalli, usciva, non è che mancasse l’acqua però, l’acqua c’era, pochina ma c’era questo filetto d’acqua che veniva fuori, scorreva via e andava giù nella latrina, che di là c’era la latrina quindi portava anche via.
Non avevi un asciugamano, non avevi niente, né un sapone, né un pezzo di straccio da asciugarti.

D: La latrina com’era?

R: Era un fossato, e ti appoggiavi sopra, stare attenta di non cadere, e l’acqua dal lavello passava, qui c’era l’acqua che veniva fuori e di qui c’era la latrina, quindi l’acqua passava dalla latrina e portava via, diciamo.

D: Quindi era a cielo aperto?

R: A cielo aperto.

D: Non avevate una tettoia?

R: No, era nella tettoia, ma era, diciamo verso il muro, qui c’era il blocco e di là c’era questa porticina e c’era questo, diciamo, questo lavatoio, e ti lavavi così.

D: E pulirsi.

R: È stato il disagio più grosso che io abbia avvertito oltre la fame, che poi la fame, guardi, non è vero che… non la sentivi più, era diventata talmente, sentivo gli odori, ma proprio, l’acqua in bocca, dicevo, Dio che fame, che sfinimento. Se però, il discorso fra lavarsi e pulirsi io ne ho sofferto molto per la pulizia, qualcosa di atroce. Ma ci pensi Carla, non avere un pezzo di carta da pulirti.
Che poi sono stata fortunata ad avere la tuta, che almeno non avevo più tutto quel freddo, perché la camicia, ho trovato un pezzo di… qualcuna mi ha dato uno spago, qualcosa da legarla, perché era larga la camicia, e mi passava su l’aria, un freddo, ma non ho mai avuto niente, però, sono sempre stata bene.

D: Ascolta, parlavi del Professor Meneghetti?

R: Sì.

D: Chi era?

R: Era il Rettore dell’Università di Padova, io l’ho conosciuto, intanto è entrato molto tardi al campo, è entrato verso la fine di marzo.

D: Deportato anche lui?

R: Deportato, era alle celle, quelli delle celle, uscivano un’ora al giorno a prendere l’aria, e dovevano camminare in circolo di fronte alle celle, dove ci siamo fermate proprio ieri, che ho detto almeno qui…
Noi entrando da lavoro si faceva il giro del campo così, si passava davanti a loro per venire su, ed andare nel blocco di qua.
Lì ho visto un giorno questo signore, era mastodontico, una persona che guardarlo ti metteva rispetto, capelli bianchi, questo pizzo, e lui mi fa: “Cosa fai, tu col triangolo rosso” e dico, avevo anche paura a parlare, perché di là c’erano i due ucraini sugli scalini delle celle, nell’entrata delle celle, e dico: ” Sono qua, perché sono la sorella di un Comandante partigiano” dico, ” ma allora lo porti come onore”. Il giorno dopo tornando verso le sette di sera, lo stesso ” Ma studiavi?”, ” Sì” “ho studiato tanto anche io sai” mi fa lui, “cosa facevi?” “la terza media” “e adesso?”, “adesso piango” dico, perché, ho la mamma…”
Una parola oggi, due domani e tre domani, una sera mi vede che torno piangendo “Cos’è successo?”, ma sempre adagio, dico: “E’ scappato uno che era con noi”, dico, “e l’hanno ucciso” era che lavorava nel magazzino d’armi, ha tentato, diciamo, di fare il guado di andare di là, ma i cani l’hanno preso, e gli hanno sparato, e l’hanno ucciso, e dico, “è sempre un compagno, nostro”, e dice, ” non lasciarti abbattere, sai, non dargliela vinta, conosci la chimica?” “non so neanche cosa sia” dico, “le formule chimiche?” ” no” allora lui mi fa: “sai che cos’è il rame?” “il rame? Sì” “ecco come quelle leghe là, allora domani io tè né do tre da studiare, quattro da studiare a memoria, così tieni la mente” “mica ho voglia” dico, “ho altro da pensare, adesso, il mio compagno che è morto, la mamma” dico, “no, ce la devi fare” e con quella, devi fare, mi ha portato tutte le formule di chimica, e ogni giorno mi interrogava, come si chiama, lo zinco, la formula, la formula, dopo visto, “Va bene, ti porteranno via tutto”, questo era già passato quindici giorni lì, “ma la tua mente, no, il tuo sapere non lo devi, non devi dargliela vinta” e quello mi ha rincuorato, altroché, ma insomma c’è gente che ancora.
Poi gli ultimi giorni, tanto la sorveglianza, e andata scemando un po’, non c’erano più, prima cosa, che non abbiamo più visto le guardie nelle torrette.

D: Quante torrette c’erano?

R: Quattro, quattro, che poi fossero illuminate tutte e quattro, no, e sempre, qualche volta c’era questa, quella, che incrociavano le luci così, ma c’erano quattro.
Mi ricordo, che verso la fine, mancavano otto giorni, ormai, che mi ha preso in braccio, e dice: ” Ma, sei la mascotte del campo, sei stata meravigliosa” ” Ah, meravigliosa” dico ” è passato” e adesso dice ” adesso ricostruiremo” mi fa.

D: Noemi, facevi un accenno al lavoro, che lavoro, dove lavoravi?

R: Dunque, il primo periodo, il primo mese, sono andata insieme a mia sorella Vallì, alle caserme di Gries, e là…

D: A fare cosa?

R: Là facevamo, le stanze degli ufficiali, e poi, naturalmente se avanzava tempo, perché eravamo in quattro, andavamo in cucina a sbucciare le patate, o quello, a dare una mano alle cuoche, e poi c’erano le scarpe da pulire di questi ufficiali, si lavorava. Poi nel pomeriggio, si lavorava lo stesso allora in cucina per preparare per la sera, quello l’abbiamo fatto per un mese.
Dopo invece, hanno detto basta, anche perché è successo che noi abbiamo visto un movimento molto particolare alle caserme, continuavano ad arrivare militari, militari, militari, era diventato veramente, non più quattro caserme, non potevano starci dentro anche dieci, per dire, nel movimento, non lo so, non ci avevano fatto più andare. Allora ci hanno portato, noi quattro con altri sei uomini, o sette, vedendo il campo così sulla sinistra, c’erano due capannoni e lì c’era un capannone dove c’erano delle armi che ritornavano dal fronte dove bisognava oliarle, oppure non so, sistemarle, quello che si poteva toglierli la ruggine, e lì abbiamo fatto questo lavoro, fino alla fine, praticamente, cioè fino agli ultimi giorni, della liberazione.
Lì, ci siamo anche divertite, se si può dire divertiti perché gli uomini ci dicevano: “Portiamo dentro qualcosa, tu piccola, guarda che non ti fanno la…” la palpa, la chiamavano, in dialetto, proprio così, una volta sotto le ascelle, una volta, ero riuscita anche a trovare un paio di mutande, allora dentro su le mutande, i pantaloni, una lima, un pezzo di ferro, dice: “Ma perché dobbiamo portare dentro” dice “se fanno l’altro trasporto, tutto serve, per quelli che vanno” e lì abbiamo portato dentro parecchio, parecchio, quello che si poteva ma insomma. Poi hanno fatto la spedizione al 25 febbraio, ma che dopo sono ritornati al campo perché era impossibile nei collegamenti, cioè, dalle strade, dalle ferrovie che era impossibile.

D: Noemi, in quanti eravate ad andare a lavorare in questo capannone?

R: In questo, eravamo, quattro donne e sei o sette ragazzi.

D: Tutti i giorni uscivate?

R: Uscivamo ogni mattina, tornavamo la sera, però, come ti dicevo, era proprio vicino al campo, lì noi. Però quel giorno che è scappato questo ragazzo, che poi l’hanno ripescato e l’hanno rilasciato due giorni in mezzo ai campi perché ognuno lo potesse vedere, perché non potevi girare la testa dall’altra parte, eri obbligata a guardarlo.

D: Era lì?

R: Era lì in mezzo al campo.

D: Ucciso?

R: Ucciso, tutto bagnato, con quel freddo, cosa hanno fatto: noi della squadra ci hanno puniti due giorni senza pasto, e la mamma era abituata alla sera, perché noi che andavamo a lavorare ci davano una pagnotta in più, e la sera era abituata che gliela portavo. Guarda, viene da piangere, tre mesi di campo, tre mesi di pagnotta, non né ho mai mangiata una sai, te lo giuro, io non l’ho mai mangiata, la portavo alla mamma e la divideva con la zia, e dico, cosa dico alla mamma questa sera che non ho la pagnotta da darle, e qualche volta invece di portarla intera alla mamma, gli e ne davo metà e qualcuna ne davo a qualcun altro. La mamma fa: “hai il pane Noemi?” “No mamma, oggi non c’e l’hanno dato, sai a nessuna”, “non importa”.
Due giorni, freddo che fosse, guarda, perché era una brodaglia però era qualcosa di caldo a me dava sostegno, tant’è vero che dopo il terzo giorno che ci hanno dato il pane, la minestra, sai che ho vomitato, scusa il termine, io ho vomitato il primo boccone di pane, non mi andava giù, per dire la fame, per dire tutto il resto.

D: Noemi, invece le caserme a cui accennavi prima erano verso la montagna?

R: Sì, sì, proprio, tanto che noi si lavorava, terzo o quarto piano, adesso non so quanto alte fossero, avevano fatto una passerella in legno, un ponticello in legno, che andava dentro la montagna e c’era una galleria che era tipo un rifugio, avevano portato dentro anche l’infermeria, loro.

D: Sai, se avevano un nome queste caserme? Ti ricordi un nome?

R: No, io mi ricordo le caserme di Gries, era un quadrato di caserme, ricordo il cancello, che si entrava, attraversavo tutto, poi andavo su questa così di sinistra, e sopra avevano fatto questo ponte di legno, che guardare in giù dava anche un po’ una vertigine, e dentro allora, dentro abbiamo visto che c’erano i militari, ma c’erano i letti con le lenzuola bianche dei militari che erano feriti, noi invece guardati a vista sempre dalla Wehrmacht, deve essere stato lì, sempre all’inizio della galleria proprio l’imbocco, dove vedevamo gli aerei che sganciavano e viceversa.
Invece, che fosse quanto lunga non lo so, perché noi siamo andati fino lì, c’e ne erano due, dicevano che dopo faceva anche una curva, che andava di là.

D: Come ci andavate dal campo a lì?

R: A piedi, ogni mattina.

D: È ben lontano?

R: Sì.

D: Ricevevate da mangiare lì?

R: Sì, noi sì, e là ti dirò che mangiavo anche benino quella zuppa, perché non facevano… erano le cuoche, erano tedesche, non so, ma non facevano differenza per noi, prigionieri o loro.

D: Chi vi accompagnava tutte le mattine?

R: Veniva a prenderci uno della Wehrmacht, un soldato, non era sempre quello, più o meno sì, è stato anche quello. Qualche volta è venuto, una volta, lo chiamavamo Billy, uno piccolo, portava il fucile 91, che era grande, lungo il 91. “Oh”, dico “sotto il 91 c’è Billy”, ormai lo prendevamo anche così, e lui uscendo dal campo fa: ” Questa strada” e c’indica lì, e noi avevamo una voglia di vedere il centro, cos’era, “Sì, sì” abbiamo detto, allora abbiamo fatto Via Torino, e la gente, mi ricordo, era l’ora delle sette, sette e mezza, andavano a fare la spesa, non so, ci sono state parecchie persone che ci hanno dato delle mele, qualcuna anche il pane, in Piazza Vittoria c’era una che ci ha detto: “Puttane”, ecco.
Poi non lo so per strade, che strade abbiamo fatto, siamo arrivati al Gries e ne abbiamo sentite di tutti i colori, basta dirti l’incoscienza, di fare una roba, scusa, una cosa di quel genere, arrivare là alle nove le dieci che fosse, potevano pensare che fosse successo qualcosa, ma non ci si pensava sai, non è che, dicevo anche ieri con Vallì, non è che io avessi avuto, neanche paura di morire sai, cioè, forse era anche l’età, l’incoscienza, io avevo più paura per la mamma.

D: Noemi, la liberazione?

R: La liberazione, l’avevamo già sentita tre o quattro giorni prima nell’aria, qui guarda, c’era Radio Campo, il Professor Ferrari che era il capo campo dell’infermeria, il Professor Meneghetti, che ci avevano già detto, sono qua, sono alle porte, ormai ci sono, va tutto bene?
Tutti erano contenti, e mi fa il Professor Meneghetti: “Cos’hai?” “Non provo niente” ho visto gente felice che si abbracciavano, anche le mie sorelle, guarda, mi viene ancora la pelle d’oca, ti direi una bugia se ti dico che ho provato qualcosa. Io ero svuotata, guarda, nonostante l’aiuto che mi ha dato psicologico, il Professor Meneghetti, sentivo che andavo proprio calando non mi interessava più di niente, per dirti che non ho provato niente, ci avessero detto, ma guarda arrivano domani, sono arrivati oggi, oppure arrivano, va bene.

D: Quanto ti è durato, diciamo questo disinteresse, questo allontanamento?

R: Fino a quando non sono tornata a casa, che non è tornato mio fratello.

D: Da dove?

R: Da Dachau

Capuzzo Bacio Emilio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Io sono nato nel 1926 ad Anguillara Veneta, un piccolo paese in provincia di Padova.

D: Come ti chiami?

R: Capuzzo Bacio Emilio

D: E sei sempre stato lì ad Anguillara?

R: Ad Anguillara sono rimasto fino al 1938.

D: E poi dopo?

R: Poi dopo la fame, il freddo e la miseria costrinsero mio padre a venire in cerca di lavoro in provincia di Milano.

D: E sei arrivato a Nova Milanese?

R: Siamo arrivati a Nova Milanese nel mese di agosto del 1938.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Io avevo 12 anni.

D: E sei andato a scuola qui?

R: No. Quando ero al mio paese, cioè Anguillara Veneta, si viveva nella miseria totale; ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni.

D: Non avevate i soldi?

R: C’era solo la fame.

D: Il tuo babbo lavorava dove?

R: Mio papà era l’unico metalmeccanico del paese, quando venne convocato dal suo datore di lavoro, il quale gli chiese se aveva fatto la tessera del Partito Fascista, mio padre naturalmente disse di no. Perché era un socialista. Allora il suo datore di lavoro disse: Lei, se vuole continuare a lavorare in questa piccola fabbrica, deve fare la tessera del Partito Fascista, altrimenti da domani lei non può più entrare in questa piccola fabbrica”. Mio padre, da buon socialista, rifiutò questo ricatto. Non solo venne licenziato dal posto di lavoro, ma addirittura sfrattato di casa, perché di proprietà di un fascista, con tre bambini, uno di quattro anni e mezzo, uno di tre anni, uno di uno e mezzo. Io ero ancora nel grembo di mia madre, pertanto posso solo dire che le prime sofferenze le ho subite quando ancora ero nel grembo di mia madre.

D: Quindi dopo avete trovato un’altra casa lì ad Anguillara?

R: Adesso qui bisogna chiarire un momentino i fatti. Con l’aiuto dei diversi parenti che avevamo, cioè con piccoli prestiti, è riuscito a comperare un pezzettino di terreno e costruire una piccola casa comune, avendo poi il peso ed il pensiero di come pagare quei debiti. Infatti quando siamo venuti a Milano, ha potuto vendere quella casa, soprattutto per pagare i debiti che avevamo.

D: Quando tu dici Milano intendi Nova Milanese?

R: Intendo Nova, perché il piccolo appartamento lo trovò qui a Nova.

D: Dove?

R: Nel cortile dei Garlati.

D: A quel tempo non andavi a scuola?

R: Quando sono arrivato a Nova in pratica avevo fatto solo la terza elementare. Ho dovuto abbandonare la scuola che non avevo ancora 10 anni, pertanto quando sono arrivato a Nova, che avevo 12 anni, ho dovuto continuare la scuola e fare la quarta e la quinta elementare.

D: Ti ricordi dove andavi a scuola?

R: In via Roma. L’unica scuola che c’era a Nova era in via Roma.

D: Quindi dal ’38 in avanti tu sei andato a scuola in via Roma?

R: In via Roma. Finita la quinta elementare avevo già qualche mese in più dei 14 anni, allora l’unica cosa era quella di fare il libretto di lavoro. Mi recai in Comune, fatto il libretto di lavoro non ebbi nessunissima difficoltà a trovare il primo lavoro, diciamo, che fu alla SIB di Desio, dove costruivano le casseforti. Però nello stesso tempo io andavo a scuola di apprendistato all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avuto quel piccolo diploma, trovai subito lavoro alla Breda Campovolo.

D: Che dov’era?

R: Era tra Sesto e Bresso.

D: Lì lavoravi dove? In reparto?

R: Sì, lavoravo come apprendista aggiustatore, e posso dire che tutti noi guadagnavamo abbastanza bene, perché c’era un buon cottimo, diciamo, ma tutto questo durò molto poco, circa 2 anni, perché arrivò, come tutti sanno, eravamo già in piena guerra, e arrivò addirittura la caduta del fascismo il 25 luglio 1943.

Da allora le cose si fecero molto, ma molto brutte perché quella fabbrica venne addirittura occupata dai tedeschi perché avevano invaso l’Italia, e occupata quella fabbrica. Abbiamo dovuto addirittura smettere di produrre il nostro caccia bombardiere che all’inizio della guerra era sicuramente uno dei più veloci e forse il migliore in Europa. Abbiamo dovuto, addirittura in poco più di 15 giorni, metterci a produrre un bimotore bombardiere, che si chiamava Cant Z, il nome me lo ricordo, il Cant Z si chiamava.

Si lavorava, però era sparito il cottimo in pratica. Noi lavoravamo tranquilli anche se non molto volentieri fino a quando arrivarono le prime voci che non dovevamo correre quel grosso rischio di sabotare, perché era un grosso rischio, ma di rallentare la produzione perché finiti quei bombardieri lì, sicuramente sarebbero arrivati a bombardare la fabbrica, e così fu.

D: Ascolta un attimo, Bacio, lì in fabbrica, il movimento operaio era abbastanza sensibile, attivo con il discorso legato al movimento della Resistenza?

R: Guarda, quella fabbrica era quasi una fabbrica militare. Basta dire che il direttore ed il vicedirettore erano due alti ufficiali dell’aviazione. Pertanto non bisognava assolutamente pronunciare una parola che andasse contro la guerra o addirittura contro il fascismo. Abbiamo capito che tutto andava per il peggio, bombardamenti, e la guerra si pensava che non potesse finire a breve. Arrivò addirittura il primo sciopero del ’43. Il primissimo, anche se non fu un gran sciopero, però fu sempre uno sciopero per protestare contro la guerra, cioè per la pace, e soprattutto anche per il pane. Perché avevamo le tessere e mi sembra che fossero due etti di pane al giorno, pertanto era soltanto fame.

D: A persona?

R: A persona. Però avevamo solo quello, non è da dire che noi potevamo avere una buona bistecca oppure un piatto di spaghetti, era solo quello.

D: Ma lì, il movimento operaio, dentro in fabbrica, i tuoi compagni di lavoro, quelli più grandi?

R: Quelli più grandi. Avevamo capito che dovevamo prepararci per questo sciopero. Ed in pratica io, oltre che essere un portaordini, con il grosso rischio perché avevamo l’ordine di non allontanarci dal nostro reparto, e questo fu a metà febbraio del ’44, e quando incontrai, per puro caso, il mio capo reparto che lui viaggiava sempre in bicicletta quando faceva gli spostamenti, e lo incontrai, mi fermò e mi disse: “È questo il tuo posto di lavoro?” “Ma sono andato così a salutare un mio amico”, però lui non mi credette, in pratica. Lui non mi credette, tant’è vero che dopo 2 o forse 3 giorni vennero a cercarmi a casa i fascisti ed i tedeschi.

Fortuna volle, era il pomeriggio verso le 17.30, che davanti al mio portone di casa c’era Olivo Favaron, che lavorava insieme a me. Era a casa in malattia da diversi giorni e mi doveva consegnare il certificato della malattia perché noi avevamo la mutua interna, quando vide arrivare i fascisti ed i tedeschi che gli chiesero: “Abita qui un certo Capuzzo Bacio Emilio?” “Sì, abita sopra”. Ma nel frattempo lui prese la bicicletta e mi venne incontro, e mi trovò, perché noi smettevamo più o meno alle cinque e mezza di lavorare, e mi dice: “Guarda che ci sono i fascisti ed i tedeschi a casa a cercarti”. Allora io, alla sera, non andai a casa neanche a dormire, niente, e trovai un piccolo posto sicuro, diciamo. Andai addirittura dal fidanzato di una mia sorella, e lì rimasi per qualche giorno.

D: Scusa Bacio, i fascisti ed i tedeschi che sono venuti a casa tua, di che piazza erano, non lo sai? Non erano di Nova?

R: Non si sa. Venivano chissà da dove.

D: Da fuori?

R: Sì. Da fuori, sicuro.

D: E cosa volevano?

R: Non lo so. Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché oramai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora, allora mi avvicinai ai primi gruppi di partigiani.

D: In fabbrica?

R: No, qui a Nova. Infatti andai, il primo cascinotto fu quello di Felice Beretta, ed il secondo quello di Luigi Erba. Trascorsi dai 15 ai 20 giorni.

D: Scusa Bacio, però tu in fabbrica andavi lo stesso a lavorare?

R: No, niente, adesso ti spiego.

Trascorsi, mi sembra 15 giorni, eravamo verso il 15 marzo, quando la bufera dello sciopero era già superata in pratica, allora io mi presentai all’ufficio del capo reparto. A dire la verità ero anche armato perché il rischio lo avevo già previsto. Mi presentai addirittura armato. Come mi vide, mi disse: “Come mai sei qua?” Ho detto: “Perché, lei non sa niente?”. “A cosa vuoi alludere?” “Non sa che sono venuti i tedeschi ed i fascisti a casa, a cercarmi? E lei ne sa qualcosa. Si ricorda quando mi ha trovato sulla strada e mi aveva chiesto dove ero andato, e che il mio posto doveva essere sul banco del lavoro? Dopo tre giorni sono venuti a casa a cercarmi i fascisti ed i tedeschi.” Mi ha detto: “Cosa vuoi dire con questo?” “Lei mi deve dire cosa posso fare, adesso, io”. E allora lui mi guardò in faccia e mi disse: “Guarda, se tu mi prometti che continuerai a far sempre quello che hai fatto, cioè a non spostarti più dal tuo posto di lavoro, dammi la mano e io ti giuro, come un padre di famiglia, che sarai tranquillo”. Purtroppo questo durò poco più di un mese.

D: Sei ritornato in fabbrica?

R: Sì, sono ritornato. Oh, mi ha dato la parola. E allora quando poi sembrava quasi tutto tranquillo purtroppo, il 24 aprile era di domenica, una domenica mattina verso le 11, arrivarono le super fortezze volanti, a ondate successive, e rasero, diciamo quasi completamente, quella fabbrica. Dopo alcuni giorni mi arrivò una cartolina di presentarmi al comando tedesco per essere mandato a lavorare nella fabbrica della Junker che si trova in Germania. Mi feci subito un’idea diversa e non esitai un solo giorno per fare una scelta, quella di aggregarmi ai gruppi di combattimento partigiani, cioè la GAP.

D: Ma sempre di Nova erano?

R: Sì, sempre qui, la GAP in pratica, le sue azioni non le faceva in montagna, c’era la GAP e la SAP che più o meno facevano le stesse cose. Il nostro compito era quello di tentare i sabotaggi, tagliare i fili del telefono, volantinaggio, scritte sui muri e possibilmente disarmare, perché avevamo assoluto bisogno di armi.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri partigiani novesi?

R: Qui ce n’è diversi.

D: Quelli del tuo gruppo, prima.

R: Sì, quelli del mio gruppo, noi eravamo circa 12. Posso subito fare i nomi. I primi sono andati in montagna. In Valdossola, che furono Olivo Favaron, Giulio Villa, Renato Tagliabue, Attilio Sereni, e Biondi Giorgio.

D: Dove vi trovavate qui a Nova?

R: Il nostro cascinotto era, almeno per gli ultimi giorni, era il cascinotto di Vanzati Emilio, che si trovava nelle vicinanze di Desio. Però quando arrivò l’ordine di prepararsi per partire, perché era la fine di giugno del 1944, come prima cosa dovevamo procurarci un camion, per caricare non solo tutti noi, ma addirittura le armi ed il vestiario e soprattutto una macchina che doveva segnalare il pericolo in caso ci fosse stato.

D: Sapevate dove dovevate andare in montagna?

R: Dovevamo andare verso Dongo, quella era la nostra zona. Però il giorno prima era arrivato un segnale che, almeno dicevano, che noi eravamo segnalati in pratica, allora abbiamo avuto l’ordine di spostarci, e ci siamo spostati al Bosco della Valera, che è un bosco grandissimo. Lì siamo stati due notti in assoluto segreto. Purtroppo dopo due giorni accadde un fatto gravissimo.

D: Ascolta Bacio, quindi voi eravate lì cosa è successo?

R: Eravamo verso le 12.30, dopo pranzo, io ero di guardia, con il mio mitra in spalla, ed arrivò una ragazza in bicicletta. Era ormai troppo tardi per ritirarmi, mi aveva già visto, io la fermai e le chiesi subito: “Come mai ti trovi qui, dove stai andando?” “Ho un appuntamento con il mio fidanzato” “A che ora hai appuntamento?” Mi ha risposto: “Verso la una meno un quarto, dovevamo trovarci qui”. Gli altri, che erano nell’interno del bosco, sentendomi parlare con questa ragazza, vennero fuori e mi chiesero subito: “Chi è questa ragazza?” Io risposi che non lo sapevo, che l’avevo trovata lì e che mi aveva detto che aveva l’appuntamento con il fidanzato. Però passavano i minuti ed il fidanzato non si vedeva, allora Giorgio, che aveva l’arma in mano con il famoso difetto che non teneva la sicurezza, lui forse credeva di non avere il colpo in canna ed in modo scherzoso ha detto: “Guarda che se sei venuta per fare la spia, fai una brutta fine”. Ma lo diceva in modo scherzoso, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte e partì un colpo. Io ho visto il fatto che era sicuramente gravissimo perché veniva fuori addirittura il cervello, e allora io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante.

D: Bacio, lui si era appoggiato la pistola alla sua fronte?

R: Sì, se l’era appoggiata.

D: Alla sua testa?

R: Alla sua testa.

D: Non alla ragazza?

R: No, alla sua testa, ecco quale fu il fatto grave. Io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante, che abitava a Muggiò. Si chiamava Merati Enrico ed io ero l’unico a conoscere l’abitazione del comandante. Arrivato a Muggiò, entrai, era ancora a tavola che pranzava, gli raccontai il fatto, si mise le mani nei capelli. Allora io ed un altro suo amico, che poi è morto nel campo di Mauthausen

D: Robecchi.

R: Ecco, io non sapevo il nome, poi ho saputo che era Robecchi. Prima di entrare nel bosco della Valera, io sono ritornato a questo bosco per sentire le novità, cosa avevano fatto in poche parole e 100 metri prima credo di arrivare al bosco della Valera, dissi a Robecchi: “Tu fermati perché non si sa mai, potrebbe essere pericoloso”. Come io misi piede dentro il bosco della Valera, sentii sparare alcuni colpi per intimarmi di fermarmi. Mi chiesero subito perché ero andato in quel bosco e chi ero e perché ero andato in quel bosco della Valera. Io dissi subito che avevo sentito delle voci che si era ferito un ragazzo, addirittura Biondi Giorgio che abitava nel mio stesso cortile, e che ero venuto per vedere. “Tu non sai niente di tutto quello che c’era qua?” “Io no, perché dovrei sapere qualcosa?”. Allora visto che loro non si decidevano a lasciarmi andare dissi: “Dovete lasciarmi andare, perché i miei genitori saranno preoccupati”. Allora lui ha ordinato a due, perché lui era il comandante, era un brigadiere, ha ordinato a due della Guardia Nazionale Repubblicana: “Portatelo in Caserma, guardate che se fa brutti scherzi o tenta di scappare, non dovete aver paura a sparare”.

D: Bacio scusa, questi erano di Nova o di Desio?

R: Era la Guardia Nazionale Repubblicana di Desio perché lì c’era la caserma.

D: E ti ricordi quando era venuto qui a Nova il Battaglione Azzurro germanico?

R: Ecco, loro in pratica, sono venuti, credo verso la fine del 1944. Perché all’inizio non c’erano, all’inizio.

D: Ma tu te li ricordi questi?

R: Io a dire la verità non li avevo mai visti perché dopo quello che era accaduto io mi allontanai da Nova e rimasi alle cascine di San Fruttuoso.

D: Beh, dopo ci arriviamo. Quindi quelli erano di Desio.

R: Sì, erano della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.

D: Ma c’erano solo italiani, non c’erano tedeschi lì al bosco della Valera?

R: No, no. C’erano solo loro.

D: Ascolta, lì eravate te, Biondi?

R: Eravamo io, Biondi, Attilio Sereni, Macciantelli Maurizio, Erba Luigi.

D: Ma quando è successo il fatto lì di Biondi, della pistola, tu sei andato a Muggiò, gli altri cosa hanno fatto?

R: Gli altri hanno telefonato alla Croce Rossa, perché pensavano, almeno, c’era un filo di speranza per cercare di salvarlo.

D: Biondi lo hanno portato in ospedale?

R: Sì, loro hanno telefonato subito alla Croce Rossa. Lo hanno portato all’ospedale di Desio, gli altri hanno fatto sparire tutto quello che avevamo, era un piccolo accampamento, non è che c’era un granché, le armi e allora dopo in pratica io ho dimostrato di essere tranquillo al massimo, anzi continuavo a dire: “Ma dopo mi lasciate andare a casa, perché io non ho fatto niente, non so niente”.

E allora arrivato sulla via Milano, che è la via della circonvallazione di Desio, uno dei due disse all’altro: “Tu portalo pure in caserma, tanto vedo che è tranquillo”. Come arrivai sulla via Garibaldi, che è quella che ti porta in centro a Desio, c’erano sì e no 200 metri ad arrivare alla caserma, ho detto: “Questo è il momento buono”. Perché io nel frattempo macinavo come fare questa fuga, perché ero deciso a tutto, perché o mi ammazzano oppure dovevo tentare in tutti i modi a scappare. Allora presa la via Garibaldi gli ho dato sicuramente 100 metri di distacco. Arrivai alla Foppa.

D: Eravate in bicicletta?

R: Ero sulla bicicletta di Macciantelli Maurizio che era una bicicletta da donna. Quando arrivai alla Foppa nel fare una curva mi saltarono tutti e due i freni, andai a sbattere contro il marciapiede, ebbi la forza di alzarmi, e in quella arrivava lui con l’arma in pugno e mi intimava ancora l’Alt e mi disse che se tentavo ancora di scappare mi sparava. Ma proprio con l’arma appoggiata.

Però nel frattempo si avvicinarono decine di persone, addirittura c’era uno in borghese, avrà avuto una trentina d’anni, e disse subito: “Ma non vedi che è un ragazzo spaventato, toglili almeno l’arma puntata”. Era un poliziotto in borghese. Pensa un po’. Allora lui disse, “Sì, ma non è necessario tenere l’arma puntata”. Allora lui ritirò l’arma, ma nel frattempo voleva portarmi in caserma. “Io in caserma non voglio venire”, ho detto, “perché io non ho fatto niente, perché devo venire in caserma?” E allora, in pochi minuti, si riempì la strada, perché era domenica, e hanno cominciato a gridare: “Lo lasci stare, non vede che è un ragazzo?”. Sentì che la popolazione era solidale con me, però ha avuto il coraggio di dire: “No, non è un ragazzino, questo qui ha commesso un reato grave”. Io allora gli dissi che non era vero. Allora lui mi rispose: “Perché allora non vuoi venire in caserma, se non hai fatto niente?” Allora io trovai un’altra scusa, e dissi: “Se io vengo in caserma, siccome mi è arrivata una cartolina che dovevo andare in Germania ed ho rifiutato, pertanto potrebbe essere grave venire in caserma, pertanto io non ci verrò mai in caserma”. La popolazione ha iniziato a gridare: “Lo lasci andare, lo lasci andare”.

Nel frattempo si era aperto un varco, io naturalmente sono partito come una freccia, si può dire. Entrai in un cortile, scavalcai un muro, adesso l’altezza precisa non la so, ma ancora oggi stento a credere come io abbia fatto a scavalcare quel muro. Scavalcando quel muro addirittura entrai in un giardino privato dove c’era il negozio della famosa Maddalena che era una merceria, sulla via Garibaldi. Lei in pratica era in strada che guardava anche lei cosa succedeva, allora io le toccai una spalla e dissi: “Adesso lei mi deve nascondere”. “No, io ho paura”. Mi ha aperto il cancello e sono arrivato a Muggiò, dove erano tutti in stato d’allarme, pensando che mi avrebbero torturato, che avrei parlato, chissà che fine avrei fatto. Come mi hanno visto, un respiro di sollievo, in pratica. Mi dissero subito che lì di posto sicuro non ce n’era, partire per la montagna diventava sicuramente più difficile. “Tu non ce l’hai un posto, non dico sicuro, ma almeno tranquillo dove andare?” Io dissi di sì. “Io vado a Borgomisto, lì ho la fidanzatina, e in pratica tenterò almeno di farmi vedere il meno possibile”.

Passarono circa 10 giorni; io avevo cambiato già diversi cascinotti, perché non volevo dare il minimo sospetto, continuavo a spostarmi. Mentre ero su un sentiero che va verso le cascine di San Fruttuoso, arrivarono due persone, che dopo ho saputo chi erano, uno era Enrico Carpani che adesso spiegherò chi era. Come mi vide, mi dice subito: “Non avere paura, siamo dei tuoi”. E allora io presi coraggio, mi dice: “Ma non ti ho mai visto, da che parte arrivi, chi sei, con chi sei…” e gli spiegai il fatto. Allora lui mi ha detto subito chi era. “Io comando un gruppo così e così, alle cascine di San Fruttuoso, della SAP”. Non più della GAP, ma erano squadre di azione partigiana. “Se vuoi venire con me, adesso ti porto dove puoi dormire e se sarà possibile magari trovarti qualche cosa da mangiare”. Allora andò a casa sua, mi prese un pezzo di pane giallo, forse un pezzetto di formaggio, mi spiegò tutto quello che dovevamo fare, e allora tutto sembrava tranquillo, perché addirittura lui aveva il collegamento con la montagna, con la divisione di Moscatelli, figurati un po’.

Il compito della SAP non era solo quello di procurare armi, o di disarmare, per portarle in montagna, ma possibilmente anche di vedere di trovare indumenti. Io sono rimasti lì 4 mesi, a San Fruttuoso. Abbiamo fatto un’azione perché avevamo bisogno assolutamente di un camion per spedire la roba in montagna, avevamo indumenti di prima necessità, diciamo. Io addirittura dovevo segnalare se era possibile fermare il camion o lasciarlo andare. Eravamo sul viale Monza, io ebbi un sospetto, perché aveva il tendone, allora io non lo segnalai. Infatti, lo sai chi c’era su quel camion? Fascisti e tedeschi che sono andati a svaligiare quel magazzino che ci aveva promesso che ci dava un po’ di roba. Allora in pratica il sospetto del proprietario del magazzino cadde sul nostro comandante. Allora noi cercavamo di trovare la verità. Infatti venne un sospetto, perché con i tedeschi ed i fascisti che erano andati a svaligiare il magazzino, sicuramente c’era qualcuno del posto. Solo io non lo sapevo, ma lui sapeva che tre di San Fruttuoso facevano servizio alla caserma dei fascisti di San Fruttuoso. Io addirittura ero andato a trovare la mia fidanzatina, loro tre si avvicinarono ma non sono riusciti a bloccarlo e a disarmarlo. È partito un colpo, in pratica due se la sono cavata bene ed uno riuscirono a prenderlo, lo hanno torturato ed ha fatto tutti i nomi.

Allora io, forse dopo qualche ora, ritornai e vidi addirittura che il cascinotto dove dormivo io, era in fiamme, che era il cascinotto di Enrico Carpani. Non c’era più nessuno, erano scappati tutti. Lui era venuto a Nova, perché aveva dei parenti a Nova, ed a Nova ha subito organizzato il primo gruppo che ha trovato a Nova, che sono stati quelli che poi hanno arrestato, e ti dico subito chi erano, in pratica si arrivò verso la fine di ottobre.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Erano 4 mesi che non andavo a casa.

D: La caserma che tu dicevi dei repubblichini, era quella di San Fruttuoso?

R: Sì, c’era proprio la caserma dei repubblichini.

D: E loro hanno tentato di fare l’assalto alla caserma?

R: No, di prendere uno di questi tre.

D: Che era lì in caserma.

R: Sì, era di sentinella, hai capito?

D: Ho capito. Quindi tu era già 4 mesi e più che non venivi a casa.

R: Sì, che non andavo a casa. Erano tutto luglio, agosto, settembre ed ottobre.

D: Di qua non sapevi niente?

R: Di qua io non ho saputo più niente, perché io mi sono aggregato con la SAP.

D: Che Biondi era morto?

R: Sì, per sentito dire. Biondi era morto dopo 2 o addirittura 3 giorni.

D: E gli hanno fatto il funerale qua?

R: Sì, hanno fatto il funerale.

D: A Nova?

R: Sì.

D: Degli altri invece tu non sapevi?

R: Non ho saputo più niente.

D: Contatti non ne avevi più?

R: No, completamente.

D: Una cosa, a casa tua non era andato nessuno a cercarti?

R: Più volte sono andati, sempre quelli della Guardia Nazionale Repubblicana. Mi cercavano e addirittura il giornale aveva anche esagerato, mi cercavano addirittura per omicidio. Quando io ho testimoniato davanti ai genitori di Biondi e avevo detto come era accaduto il fatto, cioè che si era puntato la rivoltella alla fronte ed era partito il colpo, gli altri avevano testimoniato la verità come ho fatto io, ma loro non mi hanno mai creduto, lo sai perché? Perché il dottor Oglio che era il primario dell’ospedale di Desio, ha dichiarato verbalmente che quello che avevamo detto noi non era vero, e cioè che il colpo lo aveva ricevuto alla nuca, ed era uscito dal davanti. Pertanto loro avevano il dubbio che fossi stato io. Perché lui continuava a dire: “Tu devi dire la verità, anche se ti è partito un colpo involontario.” “Ma la verità è questa”, dicevo. Il mio mandato di cattura, se c’era poi, era questo; l’imputazione era ricercato per omicidio, addirittura.

Allora loro hanno messo sul giornale di presentarsi, mi hanno dato un termine che scadeva, di presentarmi entro 48 ore, altrimenti dovevo essere catturato morto o vivo. Ma io non potevo presentarmi, vado a presentarmi per correre tutto questo rischio?

Allora la burrasca momentaneamente venne superata, diciamo così. In pratica dopo questi 4 mesi, che si era alla fine di ottobre, Benito Mussolini emanò un bando di perdono per tutti, partigiani, sbandati, renitenti, che non avevano commesso reati di sangue, se si presentavo entro 10 giorni venivano perdonati. Io approfittai per andare a casa, per salutare i miei, dopo circa mezz’ora che ero in casa, sarà stato verso le 9 credo, cioè le 21.00, vidi arrivare quelli delle Brigate Nere. Io come li vidi ho detto subito: “Sono venuto a casa per presentarmi”. “No, vieni con noi che c’è da chiarire qualcosa”. Infatti mi portano alle Brigate Nere di Cesano Maderno, e lì ebbi una grossa sorpresa, vidi addirittura Tagliabue Renato, grondante di sangue, perché lo avevano torturato a morte, come? Durante un’azione che andò male, perché si bloccò la macchina addirittura nelle vicinanze della caserma di Cesano Maderno. Lui tentò la fuga, perché erano in quattro, purtroppo rimase chiuso in una via cieca, lo arrestarono, lo torturarono e lui ha fatto tutti i nomi, anche il mio perché loro volevano soprattutto sapere chi era questo Carpani Enrico, e allora: “Chi lo conosce?” “Dov’è la sua abitazione e chi ha collaborato con lui?” Ha fatto anche il mio nome, e allora quando io sono arrivato e l’ho visto conciato così, gli ho detto subito: “Ma chi te l’ha fatto fare a te? Ma come mai hai fatto anche il mio nome?” “Perché io non capivo più niente”. Ma io avevo sempre un filo di speranza, cioè firmare che mi lasciassero, hai capito? E invece no, non fu così. Addirittura ci presero, io, Sironi Mario e Frigerio Mario, ci caricarono su un motocarro e ci portarono a Monza, alla caserma, non so se era delle SS o della Wehrmacht.

D: Alla caserma o al carcere?

R: No, no, alla caserma. Perché loro non potevano, quelli della Brigata Nera, portarmi al carcere. E mi consegnarono ai tedeschi, in una villa, che adesso io non so dov’era questa villa. Mi sembra che mi abbiano tenuto lì sì e no 5,10 minuti. Loro ci hanno consegnati, poi ci hanno caricati su un camion e ci portarono al carcere di Monza. Siamo stati lì più di un mese, sì almeno 40 giorni.

D: In cella?

R: In cella. Eravamo io, Sironi Mario e Frigerio Mario.

D: E loro perché li avevano presi?

R: Perché aveva fatto i loro nomi, prima del mio, aveva fatto i loro nomi. Loro non erano nella macchina che ha fatto l’azione, erano in casa tranquilli che dormivano. Li hanno presi, arrestati, in pratica, anche loro pensavano che forse firmando si sarebbero salvati, no, ci hanno consegnato ai tedeschi. E si salvò proprio Renato Tagliabue. In pratica, lo fecero firmare, rimase nelle Brigate Nere solo lui, solo lui.

D: Ascolta, quando tu eri giù a Monza, nelle carceri di Monza, siete mai stati interrogati, voi?

R: No, niente, il verbale lo hanno fatto le Brigate Nere.

D: E basta?

R: Sì, basta dopo.

D: I tuoi genitori sono venuti a Monza, in carcere?

R: Non potevano, non potevamo parlare né ricevere. Ricevere per esempio un pacco, oppure parlare per un colloquio qualunque e siamo rimasti lì più di 40 giorni. Molto prima di Natale, verso il 20 di dicembre, credo, ci caricarono su di un camion e ci portarono al carcere di San Vittore.

D: Solamente voi tre o c’erano degli altri?

R: C’erano degli altri che noi non conoscevamo. Arrivati al carcere di San Vittore, chiusi in una cella, dopo forse poco più di mezz’ora o un’ora, passò la guardia carceraria e io gli dissi subito: “Ho bisogno di parlare” “Cosa c’è?” “Guardi se io trovo da fare qualsiasi lavoro, non so, pulire i corridoi, distribuire il rancio, basta che ci sia da uscire da questa cella” e dopo un’ora venne e mi disse: “Guarda da domani mattina tu vai a distribuire il rancio, pulisci i corridoi, distribuisci il rancio, ti va bene?” “Sì, ho detto, va benissimo”.

D: Ti ricordi in che raggio eri?

R: Ma adesso non so se era il terzo o il quarto. Perché tu come entri a San Vittore era, tu non puoi immaginare, sì ma forse era il quarto raggio, perché il quinto era quello sopra. Nei cameroni c’erano gli ebrei, me lo ricordo perché andavo a distribuire il rancio, e allora mi hanno detto subito queste prime parole: “Guarda che c’è da distribuire il rancio anche agli ebrei, ci sono famiglie intere, ma tu non devi pronunciare una parola, devi solo dare il rancio”. “Sì” ho detto io.

Infatti quando ho distribuito il rancio uno di questi ebrei si allontanò un momento dalla guardia e mi disse subito, perché lui forse pensava che io fossi un civile, uno di servizio lì, e mi disse: “Non sai se c’è la possibilità di corrompere?” e gli ho risposto “Ma io sono come voi, corrompere cosa?” E loro si sono convinti subito che ero un carcerato come loro, che distribuivo il rancio. Si sono scusati e basta. Allora lì rimanemmo credo fino al 20 o al 21, forse il 20 o il 19 di gennaio,poi ci caricarono.

D: Gennaio di che anno?

R: Del 1945, il 19 o forse il 20, ci caricarono su due pullman, adesso non ricordo bene che pullman erano, ma poi ho saputo…

D: Dell’azienda tranviaria?

R: Ecco, dell’azienda tranviaria, l’ho saputo poi dopo, io. La partenza era sempre verso l’imbrunire, verso sera, perché c’erano i caccia che mitragliavano. Siamo arrivati alle porte di Brescia, si guastò il pullman e allora piano piano ci misero in fila e siamo andati verso il carcere di Brescia, aprirono il portone e ci hanno fatto dormire tutta la notte sul corridoio.

D: Eravate in tanti lì?

R: Sì, un pullman pieno, era.

D: Chi c’era a fare la guardia?

R: La SS. Abbiamo dormito, e alla mattina prestissimo, forse erano le cinque, partenza per Bolzano, si viaggiava su questo pullman, che nel frattempo avevano sistemato; sul pullman c’era un ufficiale delle SS che parlava un italiano perfetto, e allora mi è venuto un dubbio: “Come mai un ufficiale delle SS parla così bene?” Poi venni a sapere che Bolzano e tutto l’Alto Altesino se l’era annesso la Germania e loro si presentavano o con la Wehrmacht o con le SS. Ma poi ho saputo tutto questo.

Beh, siamo arrivati a Bolzano, era quasi mezzogiorno. La prima sorpresa fu un po’ di orzo cotto nell’acqua, neanche il sale c’era, e allora noi per assaporarlo un momentino c’era uno che aveva una scatoletta di estratto di sardine, e mi metteva mezzo cucchiaino, però il sapore non era simpatico. Era una specie di filoncino, di pane nero, sembrava quasi piombo, d’ogni modo queste erano cose normalissime. Allora venne poi la sera. Io mi ricorderò sempre, alla mattina ci svegliavano sempre prestissimo, ho fatto due mattine la conta sul cortile.

D: Ascolta, quando siete entrati a Bolzano vi hanno fatto la spoliazione, vi hanno dato qualcosa?

R: No, niente, solo rasati con la macchinetta, solo i capelli.

D: E basta?

R: Sì che poi li avevo lunghi un dito, perché appena arrivato a San Vittore mi avevano rasato

D: Un numero non te lo hanno dato?

R: No, niente numero, perché forse pensavano già che la partenza era a breve.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Come fai? Avevo fatto due notti lì, in pratica. Perché la terza notte alla sera, verso le cinque mi hanno portato…

D: E con te c’era anche Mario?

R: Sì, Mario Sironi e Frigerio Mario, adesso ti spiego, allora ci prendono, ci portano alla stazione.

D: Questo il terzo giorno.

R: Questo al terzo giorno, di sera, ci chiudono dentro i vagoni, dopo qualche minuto sai cosa ci è venuto in mente? Di cantare “O mia bella Madonnina” guarda che, questo me lo ero dimenticato, questi come ci sentono cantare, “Smettetela di cantare”. Dopo un minuto o due aprono il portellone e ci fanno scendere in due. Ho pensato “Porca miseria!” invece no, era arrivato il camion del pane, dentro i sacchi. Dovevamo svuotarlo dai sacchi e accatastarlo sulla motrice davanti. In due eravamo. Io avevo fatto il mio dovere. Come si finisce, lo sai cosa fa il tedesco? Ci guarda se avevamo il pane. Quello che era insieme a me aveva nascosto un filone di pane, glielo ha portato via e poi gli ha dato quattro calci. “Tu niente?” Il filone che aveva portato via lo ha dato a me. Io come sono arrivato sul vagone l’ho distribuito.

D: Eravate in tanti sul vagone?

R: Guarda, senza esagerare, eravamo minimo una cinquantina.

D: C’era anche gente più anziana di te?

R: C’erano addirittura due o tre, forse anche quattro che avevano sui sessant’anni. C’era un avvocato, un ingegnere, un dottore chimico ed in pratica chiusi su questo vagone, la partenza al rallentatore, poi ci siamo fermati, eravamo quasi sempre fermi tra una stazione e l’altra, non si sa il perché. Lì non potevi tentare la fuga, perché erano lì con i mitra spianati. Come si parte, si mette in moto il treno, sento che c’è un mormorio e ho scoperto che si stavano preparando per tentare la fuga. Un gruppetto, e soprattutto uno di Bovisio, l’ho saputo adesso il nome, perché non si conosceva neanche i nomi in pratica, adesso ho saputo che si chiama Bignami, stavano scassando il lucchetto, perché il lucchetto era quello dello sportello, hai capito? Non quello del portellone grande, quello dello sportello.

Allora io pensavo che forse era una lima a triangolo, non lo so, e invece lui ha detto che era una specie di piede di porco, non so dove l’aveva, che poi lui lo ha confessato qui in Comune, ha detto che lo aveva messo dentro ad una pagnotta di pane, subito dalla partenza da San Vittore, lui così raccontava. Io tutto questo non potevo saperlo. Beh, scassato questo lucchetto, aperto il catenaccio c’era anche da tagliare, ecco perché io avevo pensato ad una lima a triangolo, perché c’era da tagliare anche tutti i reticolati, perché nella parte esterna avevano messo delle file di reticolato, come hanno fatto, so solo che sono riusciti a tagliarlo, e si sono buttati giù i primi due. Questo di Bovisio ed un altro che era di Ferrara.

Poi il treno comincia a viaggiare, io ero in terza posizione, incominciano a dire, “Ma perché ti devi buttare, rischiare la vita, sei giovane, ancora tante speranze”, che poi come hanno visto che io ero deciso a buttarmi giù dal treno, piuttosto che niente hanno detto: “Possono fare la rappresaglia, visto che ne mancano tre”. E allora ho pensato: “Perché non avete proibito anche agli altri due di buttarsi?” Qualcuno ha cominciato a dire: “Se lui ha preso questa decisione, perché noi dobbiamo impedirglielo? Tra due o tre non cambia niente, è volontà sua, lo deve fare e basta”. In pratica oramai eravamo quasi al Brennero, lì ha rallentato un po’ il treno, ma in piena notte, sai com’è, vai a sbattere contro qualcosa, era la morte sicura, ma anche ferirsi era morte sicura, perché poi ti torturavamo anche a morte, anche questo devi dire, però che mi salvò sai cosa fu? Il mezzo metro di neve, e forse anche qualcosa in più. Nel buttarmi sono scivolato giù dalla scarpata, e non mi sono fatto niente, solo un po’ graffiato.

Ho camminato diverse ore. Mi sono accorto di essere in Italia quando ho visto la Fortezza, ho visto un vecchietto, una persona anziana, e ho chiesto se c’erano molti chilometri per arrivare a Bolzano. Adesso non mi ricordo più quanti chilometri saranno una quarantina forse, più o meno. Ma insomma mi aveva detto i chilometri, che adesso non ricordo più, e allora mentre sto camminando arriva un camion tedesco, e si ferma un cento metri davanti a me. Lì c’era forse un bar, un tabaccaio, non mi ricordo più adesso, magari si sono fermati a bere un bicchierino di grappa, e allora mentre loro salgono sul camion, io arrivo proprio lì, ho rallentato un momento perché mi era venuto subito l’idea di saltare, anche se non riuscivo a salire, di saltare sul camion, magari di non farmi vedere per la seconda volta, e invece quando arrivo lì mettono in motto il camion io ho visto che dove c’era la ruota di scorta c’era spazio e allora mi sono infilato sotto, e prima di arrivare alle porte di Bolzano, sai chi ho trovato? Quello di Bovisio che era saltato giù prima di me. Ma molti chilometri prima perché lui l’aveva fatta tutta a piedi.

D: Quindi tu quando eri sul camion hai visto Bignami.

R: Bignami. E allora io gli ho fatto un segno, come a dire, appena posso saltare giù, perché il camion viaggiava, che lo aspettavo in poche parole, ho fatto solo segno così e basta. Come sono arrivato alle porte di Bolzano, il camion rallenta, perché c’erano le strade ghiacciate, non mi sono fatto niente, mi sono buttato giù dal camion, era già forse poco più di mezzogiorno, perché ho visto un gruppetto di operai davanti ad una piccola fabbrica. Parlavano veneto, io mi sono avvicinato, ed ho chiesto, come inizio, se avevano qualche bollino da darmi per comperarmi il pane. Loro mi guardavano in faccia e mi hanno detto: “Ma dove lavori, chi sei?”. Io ho risposto: “Lavoro lungo la ferrovia, sotto i tedeschi, però mi danno poco da mangiare. Se avete un bollino, due, tre, quattro, quello che avete”: Allora loro hanno aperto il borsellino e mi hanno dato forse due bollini mi sembra, ma adesso non lo ricordo bene, e al primo forno del pane, sono entrato e per la prima volta lo sai cosa ho visto? Lo strudel. Allora io gli ho fatto segno, “ma per questo ci vuole?” “No, questo può prenderlo senza bollini”. Nel frattempo avevo atteso sì e no dieci minuti, però mi è venuta un’altra idea, se hanno fatto questo buon gesto, ho pensato, provo a vedere se mi danno un’informazione per vedere come posso arrivare a Milano, e con quale scusa? E allora mi è venuto in mente di dire che mia mamma non stava bene, che però i tedeschi non volevano lasciarmi nessun permesso per andare a casa a Milano, ho chiesto: “Voialtri non sapete per caso se c’è qualche minima possibilità…”

D: Ma questo a chi lo hai detto?

R: Ai ragazzi lì. Sempre ai ragazzi, che sono tornati lì.

D: Della fabbrica?

R: Sì, quella piccola fabbrica, loro erano fuori. E mi hanno detto che sapevano per sicuro che tutte le settimane arrivava un camion della Montecatini da Milano e che poi tornava con un secondo carico, ma che loro non sapevano, di provare ad andare e chiedere informazioni.

Allora nel frattempo, dopo mezz’ora circa arriva il Bignami; per prima cosa gli ho dato il pane e gli ho spiegato il fatto che tutte le settimane partiva un camion della Montecatini che andava a Milano. Ci siamo appostati, più o meno quei ragazzi mi avevano spiegato la strada. “E allora tu vai avanti che non dai sospetto”. Ha suonato un campanello, io sono rimasto in strada; suona il campanello si presenta davanti alle guardie “Ho saputo che parte un camion tutte le settimane, non possiamo avere almeno un passaggio?” “Qui passaggi non ce n’è per nessuno” ha detto. Però il camion partiva la sera dopo, e allora dovevo informarmi come arrivare là. Noi alla sera giravamo, tanto per tirare sera, e all’imbrunire abbiamo visto un tramvai fermo, e siamo saliti. Siamo arrivati ad un piccolo paese, adesso chi è che se lo ricorda, entriamo, là era quasi tutto scritto in tedesco, in una trattoria e chiediamo se avevano qualcosa da darci. “No, non c’è niente”. Allora abbiamo trovato una scusa, “Perché noi vogliamo vedere se troviamo anche un posticino dove dormire, lei qui non ce l’ha?” “No, qui camere per dormire non ce ne sono”. “Perché siamo due camionisti, ci si è guastato il camion, eravamo a Bolzano ed in pratica fino a domani mattina non può consegnarcelo”. Lì c’era uno di loro che ci fa: “Guardate, io posso aiutarvi se vi accontentate, ho una bella stalla, ho dentro un cavallo, vi porto un po’ di paglia e delle coperte, se vi accontentate”. Abbiamo risposto di sì, che bastava riposarsi. Alla mattina addirittura ci hanno portati su in casa e ci hanno dato il caffelatte, pensa un po’. Riprendiamo il tranvai, e andiamo ancora a Bolzano, là eri in mezzo ai tedeschi, perché erano SS e Wehrmacht. Ad un certo punto io ho pensato, perché il mio pallino era Montecatini, o salto su di dietro o salto su in qualche modo io devo andare a Milano, allora sai cosa ho fatto? Ho detto a questo di Bovisio, “Guarda per dare meno sospetto, sai cosa facciamo? Dividiamoci, tu vai per conto tuo, io vado per conto mio”. Mi sono incamminato e sono andato verso la Montecatini. Suono il campanello, era verso mezzogiorno, come mi vede la guardia mi dice: “Ha bisogno?” Io rispondo: “Ho saputo che stasera parte il camion per Milano, se potete darmi un passaggio”. Allora mi guarda in faccia e mi dice: “Però devi dirmi la verità”. “Sì certo.” “Sei scappato dal campo di concentramento?” Io ho detto: “Dal campo di concentramento no, ma sono saltato giù dal treno che non cambia niente. Adesso se volete salvarmi bene, altrimenti me lo dite che troverò qualche altra possibilità”. Lui mi ha detto che ne avevano salvati diversi, e che avrebbero salvato anche me.

Mi chiese se avevo fame, se avevo mangiato, è andato in mensa, mi ha portato un bel piatto di minestrone, e poi mi ha detto che il camion partiva alla sera, verso l’imbrunire, perché viaggiare di giorno era pericolosissimo, perché veniva mitragliato. Là c’erano le brandine delle guardie: “Sdraiati lì, riposati, quando è l’orario giusto, ti chiamiamo”. Verso le cinque e mezza sento alcuni passi, infatti non solo la guardia, ma addirittura cinque o sei in borghese, mi sembra che ci fosse anche una donna, adesso non ricordo bene, ma erano in 5, 6 o 7 non ricordo più. “No, non spaventarti, siamo così e così e vogliamo solo sapere”. Allora mi hanno chiesto come, perché mi avevano arrestato, il treno, e ho spiegato qualcosa. “Noi ne abbiamo già salvati tanti, siamo in contatto con CLN Alta Italia”, adesso io non ho chiesto perché, come mai, e loro mi dissero subito, “Hai qualche soldo in tasca?” “Sì”, ho risposto. Avevo una piccola miseria, hanno fatto una colletta, avevano tirato su circa 400 lire, mi sembra, a quei tempi là non era poco, e in più la guardia mi ha dato una piccola borraccia di grappa, perché diceva che viaggiando su un camion avrei sentito freddo. Perché mi avevano nascosto …

D: Nel cassone?

R: Ecco. “Sul cassone, se senti freddo ti bevi un goccio di grappa”. E allora ogni tanto, “Alt, fermati”, c’erano i controlli, i blocchi, loro guardavano i documenti, e ti lasciavano andare. Quando siamo arrivati alle porte di Usmate, prima di Monza, arrivano i caccia che mitragliavano tutto quello che vedevano in movimento, allora blocca il camion, salta giù, io sono saltato anch’io e ho salutato. “Io me ne vado per conto mio”, ho fatto tutto il giro del parco di Monza, perché passare per Monza poteva essere pericoloso, e nella Piazza di Biassono non trovo, non vedo proprio uno che lavorava insieme a me al Campovolo? Allora lo guardo, sì, è lui, e lui mi chiama e gli spiego tutto. Mi ha portato a casa sua, e alla sera con due biciclette, anzi no, una bicicletta, io in canna, mi ha portato. Come arrivo a casa, verso le sei e mezza, perché siamo partiti verso sera, mia mamma è rimasta, perché mai più lei pensava di vedermi così. Mi dice subito: “Guarda che un’ora fa sono venuti quelli della Guardia Nazionale a cercarti”. “Ma tu non gli hai detto che mi avevano arrestato e mi avevano consegnato ai tedeschi?” Loro agivano tutti in modo autonomo e questo è stato.

D: Ti ricordi quando sei arrivato qui a Nova, che giorno era, più o meno? Quando sei scappato, quando ti hanno lasciato giù dal camion?

R: Guarda, era verso il 26 o il 27 gennaio, del ’45.

D: E poi sei rimasto qui a Nova?

R: No, sono tornato subito là, perché avevo diversi amici.

D: Dove là?

R: A Borgomisto. E infatti qualcosa ho potuto almeno trovare, mi hanno dato un pezzettino di pane, dello stracchino, una cosa e l’altra. In pratica lì si tentava ancora di organizzarsi. E abbiamo fatto una piccola squadra, eravamo in 5. Però diciamo che 3 non erano proprio tranquilli, perché lì a Borgomisto dormiva un ufficiale dei Repubblichini, lui era siciliano, però lì aveva la fidanzata e allora veniva a casa, ma era uno dei nostri, per cui ho detto io: “In montagna non posso andare”, e in pratica ci ha dato le armi e due bombe a mano. Perché lui diceva che era impossibile andare in montagna, perché era arrivata una nevicata, alla fine di gennaio del ’45. “Allora adesso state lì tranquilli, e poi vedremo”, freddo faceva freddo, però verso il 15 di febbraio ho saputo che lì vicino a Cinisello si era avvicinato questo tizio, era un parente di questo mio amico, che poi era venuto anche lui in montagna, si chiamava Bellotti, questo qui aveva uno zio che abitava in una fattoria vicino a Magenta e suo figlio era su in montagna. Allora lui ha fissato un appuntamento, e siamo partiti in tre, questi qui davanti ed io e il mio amico di dietro, con le biciclette, a Rho non ci ferma una squadra di fascisti con il suo comandante? “Fermi. Dove andate?” E allora noi niente, ma proprio sinceri al massimo, ci hanno chiesto i documenti, la carta d’identità, la mia era un po’ falsata, no? Al posto della data 01.02.26 davanti al 2 il mio amico aveva messo 1, perché le carte d’identità si scrivevano tutte a mano a quei tempi. E allora: “Quando sei nato?” “Sono nato l’1 del 12” “E allora perché non ti presenti?” mi ha detto quest’ufficiale. “Perché non mi hanno ancora chiamato, adesso come mi chiamano, vado.” “Ma puoi anche presentarti prima”. “Sì ma siccome siamo in 7 fratelli, e c’è solo mio padre ed una sorella che lavorano, e uno è nell’aviazione e l’altro è nella X MAS per adesso sto a casa per aiutare un po’ la famiglia” “Va bene ha detto, ma dove state andando?” “Stiamo andando da un amico del mio socio, qui, che ha una fattoria e diverse risaie e vogliamo vedere se possiamo avere qualche chilo di riso”. Pensa un po’. Ma ti racconto proprio la verità, eh, qualche chilo di riso. “Sì”,ha detto, “andate pure” E siamo arrivati a questa fattoria, in questa fattoria dopo due giorni arrivò la staffetta a prenderci, sempre a piedi, e la prima tappa l’ho fatta a Suno, lì c’era il comandante di distaccamento, il comandante era Lupo.

E lì ci ha tenuto tre giorni, però ha detto “Io qui non posso tenervi, perché il distaccamento non può superare i 34, 35 uomini, vi devo consegnare al comando di battaglione che si trova a Cavaglio d’Agogna.” E allora alla mattina presto ci siamo incamminati e siamo arrivati al comando di battaglione, il comandante di battaglione si chiamava Scacchi. Alla seconda o terza mattina mi ha detto: “Te la senti di andare giù insieme agli altri che dovete portare su il pane?” Perché ci facevano il pane fresco, eh? Giù al forno, farina requisita ad un mulino dove c’era un presidio fascista, sai chi ti vedo? Carpani Enrico. Come mi vede, mi ha chiesto, e allora gli ho spiegato il fatto, lui andò subito dal comandante di battaglione a spiegare chi ero e chi non ero, come arrivo su mi chiama il comandante di battaglione e mi dice “Guarda è venuto il tuo ex comandante che lo hai visto giù in paese e vuole portarti con sé, io ti terrei, vorrei che tu rimanessi qui, perché ho saputo quello che hai fatto e in pratica siccome adesso ne arrivano moltissimi di nuovi, in montagna, pensiamo di fare un altro distaccamento. Se rimani qui, con la formazione di questo nuovo distaccamento tu farai il vice comandante.” All’inizio io accettai, accettai perché io non ho mai voluto grosse responsabilità, “Si” ho detto, “io rimango”. Però il comandante del distaccamento non c’era mai lì perché era il comandante della Volante che sequestrava gli ufficiali per darli in cambio ai partigiani. Allora in pratica, dopo credo neanche 15 giorni, si pensava ad un grosso rastrellamento, cioè l’allarme era quello, avevamo capito che la responsabilità era troppo grossa, perché io sì potevo rischiare per conto mio, perché con quello che avevo fatto avevo rischiato diverse volte, ma era quel peso lì, la responsabilità degli altri, io non me la sentivo, e allora ho detto “Mi avete fatto vice comandante, ma il comandante non c’è mai? Perché io devo avere tutte queste preoccupazioni e questo peso di essere responsabile anche per gli altri?” E allora mi ha detto: “Sai cosa facciamo? Dobbiamo formare la squadra dei guastatori, aggregata al comando di battaglione”. Uno addirittura, Fieramosca, era un comandante di distaccamento, e durante un’azione aveva lasciato diversi morti, e anche lui non se la sentiva più. Gli altri erano tre capi squadra e in più il Topo che lo avevano dato in cambio, sì, lo avevano fatto prigioniero e dato in cambio. “Se tu accetti di far parte di questa squadra”. “Sì”, ho detto.

E allora lì ho accettato, e sono rimasto con la squadra dei guastatori. Ma in un certo senso potevamo essere in certi casi tra i più fortunati. Adesso ti spiego perché. Quando attaccavamo i presidi, Borgomanero, Cressa, Romagnano, dovevamo noi bloccare la strada in caso di rinforzi. Lo sai come si minava la strada? Con le bombole di ossigeno, si riempivano di dinamite, soprattutto la gelatina e avevamo tritolo, gelatina, miccia detonante, miccia lenta ed i detonatori. Guarda che c’era un grosso rischio, la mettevamo da un lato della strada e con il percussore, eravamo sempre in due, uno tirava il percussore e tirava il filo di là della strada, quando arrivava il rinforzo che poteva essere un autoblindo, e se partiva era un disastro, ma dovevamo sempre scegliere un posto dove potevamo, in caso, difenderci. Hai capito? O attraverso un canale, un fosso o una casa, perché dovevamo stare lì più o meno, per curare, anche un cane poteva avrebbe potuto far saltare.

Perciò il pericolo c’era e in caso se arrivava il camion che erano magari duo o anche tre, saltava sì il primo, ma gli altri due cominciavano a sparare, e in quel caso lì bisognava non scappare ma anche difendersi e avevamo delle armi che erano abbastanza micidiali, perché lo Sten era un grosso rischio perché poteva fare bersaglio a 50 metri, non di più. Lo Sten era un’arma sicurissima perché non si inceppava mai, ma il Bren faceva bersaglio a 200 metri. Era un’arma potentissima. In ogni modo ci andò benissimo, il rischio peggiore lo abbiamo corso al presidio di Arona, quando abbiamo attaccato il Presidio di Arona, io ed un altro dei guastatori, il giorno prima, avevamo lì due prigionieri, un maresciallo ed un tenente; erano due padri di famiglia, e non sapevamo come poterli salvare, perché mandarli a casa, tenerli lì non potevamo, beh è arrivato l’ordine di portarli su al comando di divisione che era su a Bocca, sempre a piedi, allora li consegniamo e nel frattempo però ci viene consegnato il primo bazooka che lo avevano lanciato tre giorni prima.

E con quello abbiamo anche fatto l’attacco del presidio di Arona. Lì ci sono stati solo 14 morti, perché sono arrivati tutti i rinforzi da Meina, che erano più di 100 tedeschi, e quei famosi 100 tedeschi lo sai chi erano? Quelli che quando sono arrivati dopo l’8 settembre e hanno rastrellato, mi sembra più di 200 ebrei, donne, bambini e vecchi, li hanno massacrati e buttati dentro al lago. Allora è successo così, quelli erano animali in pratica, non erano esseri umani, erano animali.

Allora poi è arrivato il rinforzo della Folgore da Novara, abbiamo resistito quasi 3 ore, ma poi abbiamo dovuto ritirarci e ci abbiamo lasciato 14 morti, più 3 civili. Ad ogni modo il rischio peggiore io l’ho avuto alla fine, quando sembrava che tutto fosse finito, non so se era il 23 aprile, perché noi, in pratica al 23 aprile avevamo già in mano i carri armati della Folgore di Borgomanero. E’ riuscito un prete a convincerli alla resa, perché oramai era la fine, era inutile resistere, spargere sangue. Erano i peggiori che c’erano, basta dire che al presidio di Borgomanero tre volte abbiamo tentato e non hanno mai ceduto. L’ultima volta che pensavamo di farcela, lo sai come? D’accordo con gli americani che dovevano gettarci due o tre bombe, e invece era una giornata di vento e le bombe non hanno centrato in pieno il presidio e abbiamo dovuto ritirarci.

Avevamo addirittura i loro carri armati, mi sembra il 23 aprile o forse il 24 arriva un ordine che a Castellazzo di Novara si sono concentrati, allora si diceva, più di 2000 fascisti. C’era la Monte Rosa, la Folgore, le Brigate Nere; noi come guastatori dovevamo perlustrare prima le cascine, prima di arrivare lì. Arriviamo nella prima, non troviamo niente, senza chiedere permesso, un colpo alla porta e si sfondava. Arriviamo alla seconda, io do un colpo alla porta e mi vedo due, avevano la nostra divisa, la divisa cachi che l’avevamo messa su 15 giorni prima. Quelli del Monte Rosa avevano il color cachi come la nostra e io stavo per dire: “Ma sono i nostri” no, invece loro avevano le fiamme bianche, noi invece avevamo le stellette bordeaux, “Ma no questi sono fascisti!” Il Topo lì mi dice di disarmarli, io li disarmo e fuori c’era Mosca, “Voi altri chiedete rinforzi, tentate di accerchiarli, io rimango qua dentro”, però un minuto prima, disarmati questi, al Topo viene in mente di guardare nell’altra stanza, e stavano venendo giù diversi fascisti. Sempre quelli, e allora scarica, si può dire, una raffica di mitra, e allora diciamo ai due che erano rimasti: “Ce ne sono altri?” “Sono sopra che preparano la mitraglia per la difesa”. E quindi loro, Fieramosca, il Topo hanno costeggiato il muro e hanno portato questi due fascisti dove c’era il grosso, per avvertire che bisognava accerchiarli. Io ero in trappola, cosa faccio, cosa non faccio, di là sentivi i lamenti perché qualcuno era ferito, in poche parole, in pochissimi minuti cominci a sentire sparare a destra, a sinistra, e sai cosa è stato il miracolo, diciamo così? Che quelli che erano sopra, come hanno sentito che stavamo per accerchiarli, sono saltati giù, perché erano al piano superiore, li vedo volare dalla finestra, meno male. Lì mi sono salvato.

D: Il 25 aprile come te lo ricordi?

R: Il 25 Aprile poi era una festa, perché oramai la guerra era finita, gioia, qualche piccolo divertimento, era normalissimo.

D: Voi siete entrati a Novara, però?

R: Sì. Dopo è arrivato l’ordine, io per 2 o 3 serate ho dormito con una famiglia privata, dopo il 25 aprile. Due notti mi sembra. Poi è arrivato l’ordine, ho caricato il camion e abbiamo dormito in una caserma a Novara, al 29 mi sembra, siamo saliti su un treno e siamo venuti alla grandissima manifestazione di Milano.

Io però, ti dico la verità, quando sono arrivato in stazione al posto di stare insieme a tutti gli altri, lo sai cosa ho fatto? Mi sono preso il tranvai, la gioia è stata quella, sono venuto a casa. Quando sono sceso, arrivato in piazza, perché io abitavo in quella che chiamavano la piazzetta, quasi in centro, vedo mio padre con mezzo toscanino in bocca, e io non sapevo quello che era successo a Nova, che c’erano state le sparatorie ed i morti. Allora io nella contentezza, mi è venuto in mente di sparare 4 colpi, con lo Sten, perché mio padre era là, indifferente, che si fumava il sigaro. Allora come mi ha visto, dopo 10 minuti arriva Luigi Erba, mi ha detto, “Sì, sei arrivato, pienamente d’accordo, la gioia di essere arrivato, però non dovevi fare quello che hai fatto perché è successo così e così, la gente è ancora spaventata, abbiamo avuto 3 morti…”, o 4 mi sembra, quella del Poldelmengo e 2 civili, minimo. Ecco, ma io cosa ne sapevo? Allora diciamo così sono tornato ancora in Valsesia, mi hanno dato il mio diploma, era verso il 10 maggio, tornai a casa, e purtroppo il lavoro non c’era più. Bisognava ricostruire la Breda Campovolo, e tutti si erano dati da fare per ricostruirla con picche, pale, carriole. Io ho lavorato una quindicina di giorni, poi è arrivato il capo del personale, mi guarda e mi dice: “Tu sei così e così?” “Sì”. Mi ha detto: “Guarda vedo che non è il tuo mestiere, lo fai perché lo fanno tutti gli altri, però in attesa che venga ricostruito il nuovo capannone, se vuoi, io sono amico del comandante della piazza di Como, vai su e per un po’ rimani nella polizia partigiana. Già c’era Luigi Erba, era andato su già 4 o 5 giorni prima, allora a metà o alla fine di giugno, no a metà giugno, sono partito e sono andato là, ho presentato il diploma che mi avevano dato in Valsesia e una cosa e l’altra. “Sì, sì”, mi ha detto, “allora dimmi adesso qui ci sono due posti dove andare. Vuoi andare alla caserma dove sono tutti gli altri, ma visto chi sei, io preferirei che tu rimanessi alla caserma delle finanze, perché lì abbiamo diversi prigionieri fascisti pericolosi, che non abbiamo potuto metterli nel carcere di Sant’Antonino. E siccome tu ci dai la massima fiducia perché lì abbiamo bisogno di gente sicura”. “Sì, ho risposto, per me va bene”.

Lì ho fatto 4 mesi, nella polizia partigiana, fino alla fine di novembre. Ma dopo quando sono venuto via, io non è che ho chiesto il diploma, i documenti, li ho lasciati là e basta.

De Bastiani Argentina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

D: Nata?

R: Nata a Cesiomaggiore il 4.11.1927, provincia di Belluno.

D: Argentina, com’è stata la tua scelta di aderire alle formazioni?

R: La mia scelta è stata che l’8 settembre sono entrati i tedeschi in Feltre. Da lì i soldati che erano militari lì sono andati in montagna. Lì si sono formate le formazioni partigiane.

Mio padre che è sempre stato un antifascista ha aderito a queste cose anche perché quando c’era Pippo che buttava giù le armi, i vestiti, il latte condensato, lui aiutava le persone che erano non in montagna, in paese, a nascondere le armi.

Poi i partigiani si sono fermati in Pedavena, Monte Grappa, ma io ero su Pedavena, non sul Monte Grappa.

Un bel giorno sono passati a casa mia, dovevano andare alla Feltrina di Feltre a far saltare questo piccolo stabilimento.

Mio padre ha fatto da mangiare a questi partigiani, una quindicina di partigiani che sono passati di lì.

Io lì ho conosciuto il comandante della Brigata Gramsci che si chiamava Bruno. Il suo nome è Brunetti Davide.

Da lì ho incominciato a fare la staffetta. Andavo a Feltre a vedere il movimento dei tedeschi. Andavo in montagna a portare dei bigliettini che il Comitato di Liberazione giù…

D: Dicevi, andavi su in montagna…

R: Andavo su in montagna a portare i bigliettini e a portare anche qualche cosa da mangiare perché su non ne avevano tanta. Con me c’erano anche tante altre staffette che facevano il mio stesso lavoro.

Però il primo tempo sono stata in piano col Comitato di Liberazione, si andava a Feltre a portare gli avvisi che dovevano portarci i soldi.

Poi si andava sulla Feltre-Belluno a fermare i tedeschi e a portargli via le armi.

È sempre stato così fin quando non mi hanno arrestato.

D: Ascolta, questi spostamenti con cosa li facevi?

R: In bicicletta.

D: Quanti chilometri facevi?

R: Non so, sono andata anche a Treviso, andata e ritorno in un giorno. Robe da non essere normali. Tant’è vero che mi sono fatta anche male perché andando in bicicletta c’erano le rotaie, la bicicletta è scivolata, però io dovevo andare per forza a Treviso.

Lì c’è stato anche un bombardamento mentre sono andata. Non sapevo che via prendere. Ho messo a posto il manubrio e sono andata e tornata.

D: Il tuo nome di battaglia?

R: Zara.

D: E quando te l’hanno dato? Chi te l’ha dato?

R: Subito i partigiani quando mi sono presentata al comandante.

D: Ma l’hai scelto tu o te l’hanno dato?

R: No, me l’hanno scelto loro.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Allora avevo sedici anni.

D: Quando ti hanno arrestato?

R: Il primo novembre.

D: Del?

R: 1944, alle 2.00.

D: E dove ti hanno arrestato?

R: In casa di Sempronio che era un comandante di partigiani. Lì ero andata per prendere una carta d’identità di un comandante di un’altra brigata.

Io avevo la carta d’identità. Mentre eravamo lì, eravamo una quindicina, abbiamo sentito i tedeschi.

Allora sette sono riusciti a scappare. La Luigia, l’Amalia, la Piera, io più cinque o sei ci hanno portati via.

Tant’è vero che c’era un professore che si chiamava Pingo. Questo l’hanno legato ad un palo e lui gli ha detto di non picchiarlo che poteva essergli utile. Difatti ha fatto poi la spia.

Da lì mi hanno portato nella caserma degli alpini a Feltre.

D: C’erano sempre i tedeschi?

R: Sì, anche i fascisti, c’era dentro uno che è stato liberato dalle prigioni di Belluno, Baldenich, hanno liberato due russi e altri tre che dovevano essere fucilati.

Questo era dentro insieme a loro, era un delinquente, è andato con i partigiani e si chiamava Roccia.

Da lì poi lui s’è messo con i tedeschi e ha detto tutte le persone che conosceva. Tant’è vero che quando mi hanno chiamato per l’interrogatorio il 4 novembre c’era lui e mi ha detto: “Stai meglio adesso o quando ci hai fatto da mangiare?” subito me l’ha detto, però prima di arrivare all’interrogatorio quando mi hanno arrestato, la nipote di Sempronio che è una che è venuta poi a Bolzano con me si è messa a letto.

Io facevo finta di darle da bere. Nel frattempo ho inghiottito la carta d’identità, perché se mi prendevano con quella carta d’identità ero fucilata all’istante.

Però il comandante del gruppo di questi fascisti, tedeschi m’ha detto: “Tu piccola vai”. Invece questo Roccia ha detto: “No, lei non deve andare perché lei è una partigiana”. Capito? Allora…

D: Scusa, Zara, cosa volevano sapere da te?

R: Sapere i nomi dei partigiani, dove si trovavano, se erano armati, tutte queste cose.

D. Sotto interrogatorio.

R: Sotto interrogatorio, poi era il 4 novembre, il giorno del mio compleanno, mi hanno interrogato.

Però la sera prima è venuto in cella un tedesco, che poi era venuto anche a Bolzano con un cane così.

Si è rivolto a me e mi ha detto: “Tu sei una partigiana?” Ho detto: “No”. Tu sei una partigiana, io ho detto sempre no, lui mi ha dato quattro o cinque schiaffi e il giorno dopo mi ha portato lì.

In cella eravamo in sei con una branda sola.

D: Tutte donne?

R: No, avevano messo dentro un trentino militare per sentire cosa dicevamo noi e un altro comandante dei partigiani insieme a noi per vedere se gli parlavamo, però questo che si chiamava Cimati mi conosceva, ma non mi ha mai guardato. E io non ho guardato lui. Capito?

D: Lì fino a quando sei rimasta? Lì alle carceri.

R: A Feltre otto giorni. Il giorno 8 alle 2.00 di notte ci hanno portato via su un camion, ma non ero solo io, eravamo una ventina.

D: Oltre a te c’erano altre donne?

R: Uomini e donne. Ci hanno portato al Corpo d’Armata di Bolzano. Lì ci hanno tenuto tre giorni, poi ci hanno portato in campo.

D: Scusa, Zara, la strada che avete fatto di notte… Avete fatto la Valsugana?

R. Sì, la Valsugana.

D: E non vi siete fermati?

R: Mai.

D: Mai?

R: Mai.

D: Siete arrivati al corpo, lì ti hanno ancora interrogato?

R: No, lì no. Lì non mi hanno interrogato. Da lì poi non mi hanno più interrogato, altri sì, però io no.

D: Quindi ti hanno portato nel campo di Bolzano?

R: Di Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Mi ricordo che erano lì con i mitra appena dentro il cancello. Mi hanno portato dentro in una stanzetta. Lì mi hanno tolto i vestiti borghesi, mi hanno dato la tuta da militare con la croce dietro e il triangolino e mi hanno messo nel luogo dove c’era la Cicci.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio bianco e rosso.

D: E ti hanno dato anche il numero?

R: 5944.

D: Ti hanno tagliato i capelli?

R: No.

D: Non te li hanno tagliati?

R: No, non me li hanno tagliati.

D: La tua biancheria, hai potuto tenere qualcosa?

R: No, no, hanno portato via tutto loro. Noi avevamo su una camicia da militare, la divisa militare era, una mantella militare, gli zoccoli, però freddo da morire, perché senza maglie né niente, non c’era il riscaldamento dentro.

D: Nel blocco hai trovato altre persone, altre donne?

R: Nel blocco, non mi ricordo più quante eravamo, però ho incontrato Laura Ponti e Ada Bufalini che mi hanno fatto da mamma diciamo. Laura aveva dieci anni più di me, ne aveva ventisei, era del ’17 mi sembra Laura Corti.

Lì ho incominciato… Hanno chiamato i più giovani ad andare a lavorare. In un primo tempo sono andata in un ospedale militare a pulire patate e ad assistere i feriti tedeschi che c’erano dentro.

D: Sempre a Bolzano?

R: Sempre a Bolzano. Sarà stato un chilometro a piedi, andata e ritorno. Stavamo lì a pulire le patate. Andavamo a turno perché almeno si mangiavano le bucce.

D: Senza farvi vedere.

R: No, vedere, erano lì, dovevi buttarle via perché le buttavano ai maiali loro le bucce, ma noi eravamo peggio dei maiali.

Lì sono andata poco perché poi sono andata in un altro magazzino a mettere bottoni sulle divise militari.

Da lì sono andata poi vicino al campo dove c’era un magazzino che si spostava con attrezzi, tenaglie, martelli, cose varie, viti.

Lì sono rimasta poco. Lì abbiamo portato dentro del materiale per quel blocco che era vicino a noi, perché quando andavano via, perché non venivano più perquisiti quando partivano e noi avevamo avuto la fortuna di prendere questi attrezzi, tenaglie, martelli in modo che il primo vagone che è partito sono riusciti a scappare prima di arrivare al Brennero grazie a noi insomma.

Poi dopo non potevano più andare in Germania perché avevano bombardato la linea. Da lì poi sono andata in un altro posto dove sono andata con quello che sono scappata, col Sicilia, gli ho detto di scappare con me perché era uno delle SS.

Non mi ricordo più cosa facevamo in quel posto.

D: Sempre fuori del campo?

R: Sempre a piedi fuori del campo.

D: Ascolta, te li ricordi gli appelli nel campo?

R: No.

D: Al mattino non facevano l’appello?

R: Sempre, perché quando andavamo al Virgolo non so se cinque/sei volte facevano l’appello, perché lì in galleria potevi nasconderti benissimo, capisci?

Noi lì in galleria si lavorava dodici ore su dodici, da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno con un etto di pane e un po’ di sbobba con vermi dentro, quella roba lì.

D: Ascolta, quindi quando ti hanno chiamato per andare al Virgolo, dal campo vi portavano al Virgolo come?

R: In un primo tempo sì, andavamo a piedi. Poi dopo alcune notti si sono presentati dei partigiani che volevano liberarci. Allora hanno visto che la cosa non andava bene, ci hanno messo in una caserma vicino al Virgolo, eravamo a due passi come da qui al centro Bovisio.

D: C’erano anche gli uomini, altri deportati lì al Virgolo o solo voi donne?

R: No, quello di Limbiate era lì, c’erano di tutte le razze, eravamo in tanti a lavorare in questo stabilimento.

D: Cosa facevate?

R: Cuscinetti a sfera per una ditta di Imola, si chiamava la IMI

D: Lì al Virgolo cos’è successo? Tu sei stata tanto tempo lì al Virgolo?

R: Sì, sono stata finché sono scappata. Abbiamo fatto anche uno sciopero perché ci davano tre sigarette al giorno. Non avevi da mangiare… Una sigaretta si fumava in dieci. Lì ho cominciato a fumare.

Abbiamo fatto lo sciopero, è venuto il comandante del campo di concentramento, ci ha detto che poteva fucilarci tutti e noi gli abbiamo detto: “Siamo coscienti di quello che abbiamo fatto, però noi lavoriamo dodici ore”, sapevamo che questa ditta era l’unica che faceva cuscinetti a sfere, almeno dateci cinque sigarette al giorno, su dodici ore che lavoravi, era giusto che ci dessero questo.

Pane no, perché il pane non te lo dava nessuno, però il pane qualche cosa ce lo portavano dentro quelli di Ferrara della IMI. Sì, ci portavano dentro qualche cosa, qualche pezzettino di pane.

D: Dentro nella fabbrica, nella IMI, c’erano solo tedeschi a fare la guardia o anche i fascisti?

R: Quelli delle SS, tanto italiani che tedeschi, erano quelli delle SS che c’erano lì. Ma dentro, ce n’erano due all’entrata da una parte e due dall’altra. Passavano. Se vedevano che non lavoravi, venivano lì a farti il frustino sulle spalle. Io l’ho ricevuto tre volte.

D: Perché?

R: Perché non hai la forza di stare in piedi. Se le macchine non funzionano e dovevano funzionare, capisci? Come fai a stare in piedi?

D: Allora ti menavano?

R: sì, col frustino grosso così.

D: Ti hanno menato?

R: Tre volte. Però quella volta…Mi sono dimenticata di dire che sono andata fuori a bere dai miei genitori, c’era questo Sicilia, ritornando hanno chiesto chi era andata a bere l’aranciata al bar.

Io ho detto: “Sono stata io”, non potevo mettere a repentaglio le altre ragazze. Allora la Tigre ha incominciato a picchiarmi in faccia, anche due uomini tipo mio marito, sempre in faccia. Da lì sono andata dieci giorni in infermeria perché mi era uscito sangue dappertutto in faccia, poi avevo una faccia grossa così.

D: L’infermeria del campo?

R: Sì.

D: Quando arrivavano i tuoi genitori, cosa ti davano?

R: I miei genitori mi portavano su marmellata e latte condensato.

D: Poi?

R: La polenta una volta.

D: E lettere non te ne davano?

R: Sì. A Feltre oltre che per il rastrellamento eravamo in tanti arrestati. Nel rastrellamento sono stati 1.500. Poi tutti gli altri. C’era un camion di un industriale di Feltre che veniva su col camion, aveva un figlio anche lui lì.

Allora portavano su un po’ per tutti, si distribuiva fra di noi. Però sai quando tu sei lì non puoi dare niente a nessuno. Invece c’era gente che si nascondeva e faceva anche venire il nervoso.

Cosa ti costa dare un cucchiaio di latte condensato ad un’altra persona? Invece c’erano quelle che erano state arrestate con me che non davano niente a nessuno, tant’è vero che avevo rotto un po’ i rapporti.

D: Quindi ti davano le lettere da distribuire?

R: Distribuire, sì e quella volta che ho preso le botte, questo Sicilia con cui poi sono scappata, mi ha portato dentro lui le lettere nel blocco.

Poi volevano sapere chi era la guardia. Dovevo dirlo prima forse.

D: Non ha importanza.

R: Volevano sapere chi era la guardia che mi ha portato a bere l’aranciata. Ho detto: “Guardi, in tre sono venuti dentro, sono in tanti, non li riconosco. Può venire chiunque, ma non li riconosco. Ne ho approfittato ad andare a bere un’aranciata. Voi se foste stati al mio posto, non sareste andati? Però, dato che sono qui, non sono scappata, non ho fatto niente di male”.

Loro volevano sapere chi erano le guardie, ma non gliel’ho detto. No, tanto, oggi o domani ci avrebbero fatti fuori tutti. Si pensava che ci avrebbero uccisi in massa lì a Bolzano. C’era il forno crematorio anche lì, ultimamente hanno detto che c’era. Io non l’ho visto, però hanno detto che c’era.

D: Zara, quindi quella volta le lettere…

R: Le ha portate dentro lui in blocco.

D: Tu però le portavi anche fuori le lettere?

R: Sì, da Laura Ponti, le portavo al caporeparto della IMI, era Laura. In un foglietto così ci saranno state cento parole, però lei si fidava di noi, non ci perquisivano quando andavamo fuori, perché le lettere non sono mai state portate dentro da noi.

Quando noi eravamo in campo ci perquisivano.

D: Quando tornavate?

R: Sì, fuori no, ma dentro sì.

D: Nel tuo blocco avevate i letti a castello?

R: Sì, a quattro castelli.

D: In quanti dormivate per ogni ripiano?

R: Non so. So che c’erano quaranta prostitute.

D: Con voi?

R: Con noi, sì, venute da Genova, tutte malate. Infatti avevamo anche fatto un po’ di appello perché erano malate con noi. Noi eravamo politiche, non ne volevamo sapere di queste, perché loro non andavano a lavorare. Noi sì.

Ad esempio Laura Ponti lavorava in lavanderia. La Bufalini era in infermeria. Loro non potevano uscire perché erano pericolose.

D: Dentro nel blocco avevate i servizi igienici?

R: Sì, c’era il gabinetto e un rubinetto d’acqua per lavarsi la faccia, ma non per lavarsi sotto.

D: Le docce te le ricordi?

R: Erano fuori, andavamo dentro una trentina alla volta a fare la doccia. Lì è stata la prima volta che sono andata a fare la doccia. Vedermi lì nuda con tutte queste donne. Mi sono messa un affare addosso. Ho detto: “Qui ti fanno morire.”

Appena dopo due giorni che sono arrivata ho lavato le mie mutandine. Le ho messe sul reticolato, le ho tirate giù che erano nere di pidocchi, nere.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’era anche il blocco celle?

R: Sì, il blocco celle, poverine! Quella che ti ho detto che doveva scappare, si è confidata con la ragazza di uno delle SS e quando era il momento di scappare, sono arrivati quelli del campo e l’hanno portata via, l’hanno portata in cella e anche torturata.

D: Tu te lo ricordi quello?

R: Si sentivano le urla, perché le celle erano così, noi eravamo qui, quando ci facevano l’appello, c’erano i finestrini aperti, si sentivano le urla.

C’era una di Padova che ha buttato fuori i suoi ori tutti a pezzettini. Lì portavano dentro anche i bambini ebrei a picchiarli.

D: Il primo tentativo di fuga tuo?

R: Il primo tentativo di fuga è stato… De Luca si chiamava il comandante dei partigiani, lì aveva la moglie. Lei mi ha detto: “Vuoi scappare con me?” Ho detto: “Sì, sì”, perché io avevo sempre intenzione di scappare.

Allora mi dice: “Guarda che alle 2.00 di questa notte noi dobbiamo essere a un imbocco della galleria”.

Noi avevamo capito che era all’imbocco, all’entrata, invece era all’altro imbocco. Lì quelli della IMI ci hanno procurato mezzo litro di Vov, l’abbiamo bevuto tutto.

Alle 2.00 di notte hanno cominciato: “I banditi, i banditi. I partigiani, i partigiani”. Noi che eravamo messe con i vestiti borghesi, perché i miei genitori poi mi hanno portato su ancora dei vestiti borghesi, abbiamo appena fatto in tempo a toglierci i vestiti, a metterci la tuta.

“Banditi, banditi”. Però c’era un macchinario a quell’imbocco della galleria, c’era un prigioniero che faceva andare questo macchinario. Hanno interrogato lui. Questo marito di questa gli ha chiesto il mio nome. Emma si chiamava lei. Sono venuti subito a cercarci.

Notare che lui ha disarmato una guardia, per tre giorni, sicché qui era un sottopassaggio, noi si passava di qui, per tre giorni lui è rimasto lì sul marciapiede mentre noi passavamo.

C’era questa guardia che era un cecoslovacco, non l’ha mai fatto arrestare. Lui per tre giorni ha cercato di far sì che sua moglie potesse scappare.

Infatti, lei si è tinta i capelli, si è nascosta mentre stavano sorvegliando la galleria in un cassetto della scrivania. Ci saranno stati trecento militari fuori. Lei cosa ha fatto? È passata fuori assieme ai borghesi. Ha avuto una forza grande, grande, però sono venuti a cercare me.

Lì mi hanno picchiato un po’, mi hanno detto: “Tu devi sapere dov’è”. Io non so, non so, non mi hanno fatto niente, però ero sorvegliata giorno e notte, con chi parlavo e cosa dicevo. Per un po’ di tempo, poi mi hanno lasciata libera. Libera, nel senso che non mi sorvegliavano più.

D: Zara, quando vi hanno spostato dal Lager di Bolzano e vi hanno messo in questa caserma vicino al Virgolo, voi facevate quante ore al giorno di lavoro?

R: Dodici.

D: Al mattino e dodici di notte?

R: Sì, si partiva da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno.

D: E quando vi fermavate per mangiare?

R: Fuori, nella galleria.

D: E cosa vi davano da mangiare?

R: Ci davano un etto di pane. Al mattino ci davano un po’ di caffè sporco di orzo senza pane né niente. Il pasto maggiore era una tazza di sbobba con dentro il pane raffermo, gli avanzi del pane e dell’orzo e i vermi che galleggiavano.

D: Questo a mezzogiorno?

R: Che fosse stato mezzogiorno o mezzanotte, era il pasto maggiore questo.

D: E poi?

R: La sera un po’ di brodo e basta.

D: E basta?

R: Basta. Non si poteva stare in piedi.

D: Lì in questa caserma dove dormivate voi? Sempre sui letti a castello?

R: No, eravamo tutti nelle brande. Sì, lì si stava bene a dormire, solo che il giorno di Pasqua noi ci siamo affacciate alla finestra e loro continuavano a spararci su da basso perché non volevano che noi ci affacciassimo neanche alla finestra.

D: Il giorno di Pasqua di che anno? Del ’45?

R: Del ’45, sì. Io sono scappata, non mi ricordo più se il 22 o il 23 di aprile.

D: Eri dentro ancora al Virgolo?

R: Sì, sempre al Virgolo.

D: Come hai fatto a scappare quella volta? Poi non sei scappata da sola?

R: No, sono scappata con tre donne, una di Imola, la Gina, la Ester di Vercelli e sette uomini.

Al cambio di guardia ho detto al Sicilia: “Adesso dammi il mitra perché adesso è ora di andare. Guarda, se vuoi venire con me, gli ho detto io, tu sai che finita la guerra, perché la guerra finisce, tu verrai messo in prigione, se vuoi venire con me, ho detto, io ti salverò, dirò quello che hai fatto tu”.

“Io ho fiducia in te perché ho conosciuto anche i tuoi genitori, però preferisco stare a Bolzano perché ho la fidanzata qua”.

Da lì subito fuori c’erano i partigiani e ci hanno accompagnato, noi tre donne in una stanza quasi vicina al Virgolo e gli uomini li hanno portati alla Lancia.

Da lì loro sono partiti a destinazione. Invece sono venuti a prendermi dopo tre giorni. Ho lasciato lì la Gina e la Ester, non so più come sono andate a finire.

Io so che sono venuti a prendermi con una macchina nera, mi ricordo e mi hanno portato in un negozio di scarpe. Avevo già un documento falso che venivo da Innsbruck.

Sono stata lì un po’. Da lì arrivava un camion dell’alimentazione di Merano con dentro un altro prigioniero che aveva rotto le braccia, sotto il sedile dove ero seduta io c’era questo qui.

Niente, mentre stavo per salire sul camion sono passati due delle SS, gli aguzzini del campo. Non sapevo se andar su nel camion o consegnarmi.

Mi sono decisa ad andare su, mi hanno dato un pastrano nero. Loro mi avrebbero riconosciuto, sì, perché era quello che mi aveva fatto prendere le botte.

Da lì mi hanno portato a Feltre e sono andata proprio nel covo degli assassini. Uno, non mi ricordo più come si chiamava, questo era un fascista che ha fatto portar via tanti partigiani.

Tant’è vero che è stato processato, ha preso venticinque anni, dopo neanche un anno è stato liberato, è andato a finire in Argentina.

D: Tu sei andata a testimoniare?

R: Sono andata a testimoniare perché uno di santa Giustina, era un partigiano, mi ha detto: “Senti, Zara, se tu riesci a portare a casa la pelle, dì ai miei genitori che chi mi ha fatto arrestare è un tizio”. Adesso non mi ricordo più come si chiamava.

Difatti quando c’è stato il processo, c’era Meneghelli, direttore del manicomio di Feltre, che è stato portato a Mestre. Questo qui li ha portati a Mestre. Lui era un ex comandante. Quel comandante dei partigiani che era dentro in cella con me che poi è riuscito a scappare, li hanno portati a Mestre.

Arrivati a Mestre, dentro c’erano già i tedeschi e in prigione c’era lui che è andato a testimoniare, questo tizio dove io mi sono fermata a testimoniare, che lui era un partigiano, che è andato poi a morire a Mauthausen negli ultimi giorni.

D: Era con te nel campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Poi hanno fatto il Transport a Mauthausen?

R: Sì, perché il blocco che c’era vicino a noi era il blocco dove c’erano i provvisori. Dopo due o tre giorni partivano. Fin quando la ferrovia funzionava, poi c’erano i camion che li portavano avanti e indietro.

D: Del Lager ancora cosa ti ricordi? C’era il muro di cinta con il filo spinato attorno?

R: Sì, tant’è vero che uno ha tentato di scappare, sua madre l’ha visto impigliato nei fili, nel filo spinato.

D: C’erano le garitte con le guardie?

R: Sì.

D: Queste te le ricordi?

R: Sì. Mi ricordo dove c’era il comando, dove c’erano le celle, dove ci portavano a lavarci la faccia, perché non tutte potevano lavarsi la faccia dentro lì, dove facevamo il bagno in trenta/quaranta persone.

D: Sempre dentro nel campo ti ricordi se quando tu eri nel campo c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Si, infatti io dal Corpo d’Armata ad andare al campo ero assieme a un prete. Ho detto alle mie compagne di sventura, “Qui adesso ci portano a uccidere”, abbiamo pensato, perché dal Corpo d’Armata ci hanno portato, era lunga dal Corpo d’Armata ad andare dove c’era il campo, fuori per queste strade di campagna.

Abbiamo detto: “Ci portano ad uccidere”. Quando ti prendono, sei sicura che fai una brutta fine. Uno non spera più di vivere. Quando uno cerca di scappare, allora sì, ci riesce, ma sai che se va male ti fanno fuori, questo era il detto.

D: E questo sacerdote era uno di che parti?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: No, perché noi una volta che eravamo dentro, le donne da una parte e gli uomini dall’altra.

D: Ma questo sacerdote che era assieme a voi era anche lui deportato però?

R: Sì, un deportato anche lui. Ce n’erano diversi dentro.

D: Dei bambini l’hai già detto. Di donne eravate in tante?

R: Adesso non mi ricordo quante, ma un due/trecento sì. Quaranta/cinquanta erano delle prostitute. Il resto eravamo tutte di noi.

D: Questo nel tuo blocco.

R: Sì, non soltanto politiche, anche quelle di rastrellamento, eravamo tutte assieme come donne.

Ho lasciato fuori una cosa, che nel blocco vicino a noi avevano fatto una galleria a mano, mancava mezzo metro per scappare.

Il capo blocco che era un bolzanino ha avvisato e lì sono stati portati fuori. Noi siamo state la vigilia di Natale, la notte di Natale in piedi fuori del campo, perché portavano fuori questi prigionieri, ogni dieci frustati, buttavano addosso un secchio d’acqua e rinvenivano.

Avevano detto “Siamo stati noi”, invece tutti avevano fatto il lavoro e quel disgraziato di bolzanino ha fatto questa cosa.

Poi abbiamo saputo che dal campo guardando c’era un castello in alto, li portavano lì a fucilare. Quelli che hanno picchiato, li hanno fucilati, così abbiamo saputo.

Perché ci hanno lasciate fuori? Perché abbiamo tolto i mattoni per dare da mangiare a loro. Loro non ci hanno dato niente. Noi siamo state con metà mangiare per darlo a loro.

A noi per castigo ci hanno fatto star fuori del campo.

D: All’appello.

R: All’appello. Giorno e notte in piedi. Se cadevi, erano lì col frustino a dartele addosso.

D: Una bella notte di Natale!

R: Oh, sì.

D: L’albero di Natale non è stato fatto?

R: L’albero di Natale con quei poveri che erano lì appesi.

D: Zara, ti ricordi quando è venuto il vescovo di Belluno dentro nel campo a celebrare messa?

R: Sì, me lo ricordo, ho anche il santino.

D: Ma tu sei andata a sentire la messa?

R: Sì, sono andata a sentire la messa, soltanto che, ti ho detto, io sapevo tramite i partigiani che i partigiani di Belluno avrebbero dato un golfino per tutti noi bellunesi, però lui ha detto: “A chi non fa la comunione non do il golfino”.

Io ho detto: “Qui non si deve venire a fare queste cose. Tu non devi guardare chi ha un’idea diversa dalla tua. Dato che lui fa queste cose, io non faccio la comunione”.

D: E non hai preso il golfino.

R: No.

D: Faceva freddo però.

R: Faceva freddo con niente da mangiare, figurati te, altro che freddo. Avevamo una copertina grossa così e sotto avevamo il crine, questi castelli che poi hanno tutte … Quando ti alzavi la mattina eri più rotta che altro.

D: Zara, per una ragazza di sedici anni, diciassette anni, l’esperienza del campo di concentramento cosa vuol dire?

R: Vuol dire che impari tante cose, amare un po’ il prossimo che oggi non c’è più. Impari a soffrire, impari anche a soffrire per sopravvivere.

Non ti so spiegare cosa si prova con tutta sincerità. È una cosa che non so spiegarmelo, non so proprio spiegarmelo.

So che quando sono tornata e ho visto tante persone che erano contro noi, contro noi partigiani, avevano il fazzoletto rosso, mi sono messa a piangere. Io ho detto: “Forse non ne è valsa la pena del nostro sacrificio”. Lo giuro.

Fra questi c’era uno, io ho saputo, che è lui che è andato dai tedeschi a dire che la mia famiglia era rossa e che io ero partigiana.

D: E’ stato lui a fare la spia?

R: Sì, tant’è vero che mio padre finita la guerra è andato, gli ha sputato in faccia e gli ha detto: “Se moriva mia figlia, tu a quest’ora non ci saresti più stato”.

Però lui non ha reagito, no.

D: Zara, prima tu dicevi che la prima volta che hai fatto la doccia lì al campo sei rimasta un po’ scioccata perché nuda, assieme ad altre trenta donne…

R: Io avevo vergogna a vedermi in sottoveste con mio padre. Una volta era così.

D: Quel pudore, cosa voleva dire nel campo perdere il pudore?

R: Non so, io mi sarei lasciata ammazzare piuttosto che andare lì. E’ stata per me una cosa più forte di quando mi hanno picchiata.

D: Un’umiliazione più forte?

R: Sì, più forte, perché io fino a che è morto mio padre, adesso è un discorso diverso, ho ottantatré anni, gli ho sempre dato del voi.

Per me che con mio padre avevo una vergogna di parlare, di farmi vedere solo in sottoveste e trovarmi lì nuda così, con donne di tutte le età.

Ce n’era una poverina di venti anni che aveva un gran bel seno, si chiamava Piera e mi ha detto: “Mamma, a cosa devo assistere. Anche questo ci fanno fare?” Lei non voleva spogliarsi. L’hanno picchiata perché non voleva spogliarsi. Anche lei ha detto queste cose.

Io posso dire che oltre alle botte non mi hanno fatto nient’altro. Le botte sì, ma nient’altro mi hanno fatto. Hanno tentato qualche cosa? No.

C’era questo ucraino, quello che mi picchiava, forse io gli piacevo, ma io tutt’altro che star lì a fargli il sorriso. Erano cattivi, erano proprio cattivi.

D: Ti consideri fortunata?

R: Sì, di essere tornata sì, però avrei preferito morire lì.

Sì, perché quando ho visto le persone che veramente ci odiavano perché noi portavamo da mangiare ai partigiani e poi vedermeli col fazzoletto rosso, è stata una cosa brutta, brutta, brutta.

Tu devi pensare che io per tre mesi dovevo mettermi i guanti perché mi graffiavo dappertutto, perché dicevo “Adesso mi picchiano, adesso mi torturano, adesso mi ammazzano”. Per tre mesi una vita così ho fatto.

D: Questo dopo che sei scappata?

R: Sì, quando sono tornata a casa.

D: Dopo la Liberazione?

R: Sì. Ma vedere queste persone proprio… Noi abbiamo avuto anche degli inglesi, abbiamo portato da mangiare anche a degli inglesi, questi sono venuti in Italia dopo finita la guerra.

D: Questo a casa però.

R: Sì, a casa.

D: Prima di essere arrestata?

R: Sì, nel… Prima, prima di essere arrestata, sì. C’era mio fratello che era, lui ha quattro anni meno di me, aveva tredici anni, lui e un altro mio cugino andavano in montagna a portare da mangiare a questi inglesi, erano scappati a Bologna e si erano rifugiati lì.

Cinque erano insieme a noi partigiani, gli altri, questi non hanno voluto andare dai partigiani, però vivevano in paese così, senza riguardo per noi, vedevano e non interessava niente. Diciamo anche questo, che noi abbiamo rischiato la vita più di una volta per loro, perché loro si esponevano, andavano in giro e sapevano… Capito?

Mio padre è stato tre ore nella mangiatoia della mucca.

D: Nascosto?

R: Sì. Perché l’avevano cercato per portarlo via. Mia madre al muro e mio fratello e mio padre nella mangiatoia della mucca.

Il giorno in cui io sono andata a Bolzano, loro sono andati lì a fare rastrellamento a casa mia. Capito?

Tante persone anche oggi. Sai cosa avevano detto? Che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. La cattiveria delle persone. Hanno detto che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. Non sapevo neanche cosa voleva dire avere un bambino!

D: Questo passaggio. Tu dicevi che a Pasqua c’è stata la messa nel campo, però a Pasqua quando vi affacciavate dalla finestra…

R: Sparavano su.

D: Ma sempre lì nel campo questo?

R: No, lì vicino al Virgolo, nella caserma.

D: Perché non dovevate guardare fuori della finestra?

R: No, non dovevamo guardare fuori della finestra.

D: Per vedere il paesaggio.

R: Non dovevamo, anche se era Pasqua, non dovevamo guardare fuori. Poi c’era quella Tigre lì che viaggiava continuamente con un cane grosso così, oltre ad avere paura di lei avevamo paura del cane.

D: Oltre a queste tue amiche, quella di Imola, quella di Vercelli, la Laura di Milano e la Bufalini, ti ricordi altri deportati? Anche uomini?

R: No, di uomini non mi ricordo.

D: Il Tarvisio non te lo ricordi?

R: No, perché anche se lui lavorava al Virgolo, gli uomini da una parte e anche quando eravamo a fare l’appello, gli uomini davanti, noi dietro, ma non eravamo insieme. Non c’era contatto tra uomini e donne. Non ci lasciavano il contatto.

D: Questo Virgolo in sostanza in che cosa consisteva?

R: Una galleria.

D: Una galleria per fare una strada?

R: No, qui passa l’Isarco e la ferrovia che va al Brennero, qui c’è una galleria con tre crocefissi in alto e dentro lì c’era questo stabilimento.

D: Lo stabilimento dentro la galleria.

R: Sì.

Dovevano tracciare una strada, hanno fatto questa galleria e dentro lì hanno messo questa fabbrica. Adesso è la strada che si fa per andare al Brennero, passi sotto il Virgolo, passi dentro la galleria del Virgolo. È una strada. Prima invece avevano messo dentro questa fabbrica.

D: Come mai in tutti questi anni a Bovisio non c’è mai stata l’occasione per parlare ai ragazzi delle scuole?

R: Perché nessuno mi ha mai interpellato, perché nessuno a Bovisio sapeva che io sono stata in campo di concentramento.

D: Perché non l’hai detto tu?

R: No, a nessuno. Perché io venuta qui sono andata a lavorare, avevo i figli da mantenere, farli studiare, non avevo certo tempo di andare in giro. Anche perché io appena venuta qui sono andata alla Snia, avevo ventisette anni.

D: Alla Snia di Varedo?

R: Di Varedo. Sono andata tramite i sindacati, non mi ricordo più. Ero andata a Milano, all’ANPI, mi avevano fatto il certificato che ero stata partigiana e avrebbero dovuto assumermi. Mi hanno fatto la visita e tutto. Il giorno in cui dovevo presentarmi per andare a lavorare mi hanno detto che ero troppo vecchia a ventisette anni e io non ho mai avuto aiuto da nessuno, a parte che io non ho chiesto niente a nessuno, però io non ho mai avuto niente da nessuno.

D: Zara, dopo il Lager, dopo la liberazione, tu hai mai avuto paura di questa tua esperienza che avevi fatto? Di questa tua esperienza del Lager?

R: No. Io non avevo paura, ero diventata forte. Diciamo la verità, sei bambina a sedici anni, si è bambini. Vai davanti al pericolo senza renderti conto che c’è il pericolo, perché andando a fare la staffetta io non sapevo niente cosa voleva dire, però era il mio istinto di andare, non per far vedere alla gente, per il mio desiderio di poter aiutare.

Ti dirò di più, finita la guerra, quando c’è stata la ritirata dei tedeschi, sono venuti nella montagna, qui c’è il mio paese, qui una piccola montagna. Io sono andata a portare del pane ai tedeschi e c’erano due che erano a Bolzano della Wermacht e mi hanno riconosciuto.

Mi hanno detto: “Noi ti abbiamo trattata male e tu vieni a portarci questo?” “Sì, perché io so cosa vuol dire essere prigionieri”. Ho portato le lamette, sapone e del pane, due cesti di pane. Mi sono fatta aiutare da mio fratello, però loro si sono meravigliati che io avessi fatto quel gesto.

Io so cosa vuol dire essere prigionieri. Tu hai un’idea, io ne ho un’altra, però siamo sempre prigionieri.

Ma non ho avuto aiuto da nessuno.

Nulli Mariuccia e Rosetta

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: C’era una canzone che voi cantavate nel campo?

Mariuccia: Sì, c’era una canzone che era il rifacimento di una canzone di moda. Il rifacimento delle parole.

Rosetta: L’aveva fatta Funaro, lei non ha mai sentito parlare di Funaro? Era un… aveva delle orchestre.

D: Importanti?

Rosetta: Importantissime.

D: Ed era anche lui un deportato lì con voi?

Rosetta: Sì, era un ebreo.

Mariuccia: Sì, è partito in ottobre, in mutande.

Rosetta: No, in novembre, forse.

Mariuccia: Sì, insomma, una delle prime partenze, completamente in mutande.

Rosetta: E allora noi con Funaro, con grande ira delle guardie, lui Funaro si nascondeva nella nostra cella, ti ricordi? Veniva e si nascondeva in modo che lo avvisavamo quando c’era una guardia, lui si metteva dietro un castello e stava lì ad aspettare, e poi noi lì delle celle ad un certo punto ci mettevamo insieme, lui ci dirigeva e cantavamo la canzoncina.

D: E com’era questa canzone, ve la ricordate?

Rosetta: Sì, sì.

Mariuccia: Era una canzone che nella realtà diceva: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, è partito il mio amore” qualcosa di simile.

Rosetta: E invece la parodia era: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, se verrà l’armistizio, ce ne andremo di qui”. Della tuta con croce, un pacchetto farem”

D: Va avanti, però!

Mariuccia e Rosetta: Ed ai repubblichini, volentier la darem. Proveranno la sveglia, delle cinque al mattin, proveranno il buiolo, proveranno il frustin. Non ve n’è più di tedeschi, fame non avrem più, scorderemo l’appello, se torniamo laggiù. Fine.

D: Non vi hanno mai scoperte a cantare?

Mariuccia: Sì, ci picchiavano nella cella col calcio del fucile.

Rosetta: Ma guardi che questa era una roba da bambini, eh? Lei ci fa fare…

Mariuccia: Ma la cantavano tutti.

D: Non è una cosa da bambini, aveva un significato. Era molto eversivo dentro lì.

Mariuccia: Sì, però, era molto eversivo, però se lei si mette in un posto con tremila o quattromila persone che vanno in giro canticchiando così, magari in cinque o sei, poi quando arriva la guardia tedesca smettono, cosa vuol fare? Non era proibito né ridere né canticchiare. Se uno aveva la forza di farlo. E poi comunque si cantava sottovoce.

Rosetta: Aveva un profondo significato. Poi loro forse non capivano.

Mariuccia: Non è che si facessero i cori.

Rosetta: No, ma Mari, non proprio sottovoce perché cantavamo in dieci, dodici persone, e quelli che non potevano uscire dalla cella cantavano dal buco, dallo spioncino.

D: Quindi si era diffusa subito questa canzone?

Mariuccia: Sì, ma era una canzone praticamente molto in voga in Italia, allora. Io le parole della canzone reale non le ricordo, però è facile trovarle.

Rosetta: E penso che l’avesse scritta lo stesso, l’avesse composta lo stesso Funari.

Mariuccia: Funaro? Può darsi.

Rosetta: Ho detto Funari? Per l’amor di Dio, mi correggo: Funaro.

D: Ma ditemi un po’, sorelle, come mai voi siete finite in Via Resia, a Bolzano, quando, perché?

Rosetta: Siamo finite a Bolzano, perché mio marito, che era stato arrestato a Genova dalla Gestapo, faceva parte di una missione….

D: Suo marito è stato arrestato a Genova?

Rosetta: Sì, a Genova, dove stava lavorando con altri che facevano parte di questa missione alleata, e poi dopo aver passato un giorno nella casa di questo studente era stato trasportato nelle celle sotterrane della Gestapo di Verona.

D: Quindi da Genova a Verona.

Rosetta: Sì, alla Gestapo di Verona. E lì proprio per una fortuna incredibile, inspiegabile, mentre lo facevano lavorare per scaricare delle carte che i tedeschi stavano ammassando perché cominciavano a partire, Firenze non era stata occupata allora, gli alleati erano poco sopra Roma ma erano ancora abbastanza lontani. Comunque quel giorno, lui che non avrebbe dovuto assolutamente uscire dalla cella, per uno sbaglio del maresciallo che faceva servizio, è uscito e lo hanno mandato in un garage lì vicino alle celle a scaricare un camion. Lui ha aperto una porta, ha visto che c’era un finestrino, ha visto che il salto era di circa due metri e mezzo o tre metri, si è buttato ed è scappato.

D: Da Verona?

Rosetta: Sì, lui è scappato l’11 settembre.

D: Del ’44?

Rosetta: Del ’44 e la mattina del 12 settembre, alle cinque, sono venuti nella casa di campagna di mio padre, che si chiama “Il Ronco”, sono venuti, è venuto un tenente della Gestapo che mi pare, me lo hanno detto quelli della Digos, si chiamava Martin Engmann, insieme con altri soldati, quanti soldati saranno stati? Tre o quattro.

Mariuccia: Tu stai parlando del Ronco? C’era uno che si chiamava Otto, io di Martin Engmann non so niente.

Rosetta: Il tenente si chiamava Martin Engmann.

Mariuccia: Che è venuto al Ronco?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Comunque lui si è presentato, era un capitano che si chiamava Otto.

Rosetta: No, non era, ah, c’era anche un capitano?

Mariuccia: C’era un capitano che si chiamava Otto, quello me lo ricordo come fosse vero oggi, e ti spiego anche perché. Tu puoi dire di no, ma io questa volta insisto. Perché poi quando io sono ritornata alla SS di Brescia, il capitano Otto, che io credevo si chiamasse Otto, non mi ha mica fatto vedere la carta d’identità. Non si è neanche presentato. Mi ha detto, mi ha chiesto come si stava a Bolzano. E io, in presenza di lui e di quello che era seduto dietro al tavolo, che noi credevamo fosse Leo, ma non si sa chi fosse…

Rosetta: Ma dove, qui a Brescia?

Mariuccia: A Brescia, gli ho detto: “Si stava benissimo”. E loro mi hanno guardato un po’ stupiti, però quel capitano Otto, come mi ha visto entrare nel comando delle SS di Brescia mi è venuto incontro, sorridendo e quasi contento perché mi vedeva lì ancora in carne e ossa, penso. E sono sicura che si chiamava Otto, perché l’ho scritto in due o tre appunti che ho preso.

Rosetta: Di nome o di cognome?

Mariuccia: Lui si è presentato come Otto, dopo poi che si chiamasse Martin Engmann io non lo so. Era chiamato Otto, tu sai benissimo che le persone hanno dei nomi e poi hanno dei nomignoli, diciamo. Ecco, questo sono sicura. Che poi fosse Martin Engmann forse quelli della Digos lo avranno poi appurato in seguito. Lì da noi lui si è presentato come capitano Otto e le dico anche perché: perché mio padre cercava d’ammansirlo, perché inizialmente era piuttosto arrabbiato e gli offriva la colazione, gli offriva, così lui si è seduto a mangiare, ha detto che si chiamava Otto, immagino fosse il nome, il prenome, insomma ha fatto colazione, si è ammansito, poi siamo andati via, si può dire in rapporti cordiali, ecco.

Rosetta: Sì, ci hanno internato.

D: Ah, vi hanno preso subito lì al Ronco?

Mariuccia: Aveva l’espressione di uno fortemente disturbato dal compito che gli avevano dato, questa è la mia impressione, e non l’ho più dimenticata. È un’impressione.

D: Quindi sono venuti il giorno dopo, praticamente?

Rosetta: La mattina alle cinque, quattro e mezza o cinque, ho sentito dei passi pesanti, sono andata alla finestra e ho visto che giù nel prato davanti a casa e sul terrazzo c’erano, al primo momento ho pensato che fossero i soldati della Todt che lavoravano lì di fronte, poco lontano. Ma poi ho guardato, ho visto che avevano i gambali rigidi e ho detto: “No, qui è tutta un’altra categoria di soldati”. Allora ci siamo alzati, siamo scesi, loro hanno cercato subito il bambino perché io l’avevo lasciato su e lo avevo coperto. Pensando che era meglio se non lo vedevano; invece loro mi hanno chiesto se ero la signora Bonomelli, ho detto di sì. “Dov’è il bambino?” Io non ho risposto niente, e loro mi hanno fatto tornare di sopra e hanno scoperchiato, io ero in una stanza, in un lettino c’era mio figlio e nell’altro io, loro hanno scoperchiato lo hanno visto e lui che era già stato piuttosto scioccato per altre circostanze, era stato scioccato perché avevano sparato a suo nonno con lui in braccio. E lui era stato ferito di striscio, nel vedere questi in divisa è diventato un pezzo di ferro, e poi, niente, ci hanno incolonnati e a piedi da lì siamo andati in piazza a Iseo, vero? Poi siamo andati su in municipio, ti ricordi Mariuccia?

Mariuccia: Sì, sì quello mi ricordo molto bene.

D: In casa chi si trovava in quel momento?

Rosetta: In casa c’era mio padre, mia madre, mia sorella, mia suocera, mio figlio ed io.

Mariuccia: E i contadini che abitavano lì, nella stessa casa, in un settore, sa? Era una cascina praticamente di campagna. In una metà ci stavamo noi a fare le vacanze nell’altra metà abitavano i contadini.

D: E vi hanno presi tutti?

Mariuccia: Tutti.

D: L’accusa qual era? Vi hanno presi perché?

Rosetta: Ah, non ci hanno detto niente. Assolutamente. Anzi, noi eravamo molto preoccupati, perché non sapevamo assolutamente il motivo per cui ci avessero preso. E mentre camminavamo a piedi, e stavamo andando in paese, all’altezza del cimitero d’Iseo, io ho visto che dalla parte opposta della strada venivano due donne.

Mariuccia: Le Tanzi, erano.

Rosetta: Le ho guardate, e ho detto a qualcuno che stava vicino a me, non so se a te o a mio padre, “Ma quelle sono le sorelle di Tanzi.” Quell’amico di mio marito e di mio cognato che era andato con loro quando loro avevano passato il fronte. Allora è successo qualcosa. Allora ho chiesto a questo, Otto dice lei, io pensavo un tenente ma insomma, ho chiesto a questo Otto di lasciarmi salutare quelle signore perché erano le mie cugine. Lui mi ha detto: “Sì, sì”. Ha fatto fermare il drappello perché eravamo, saremmo state dieci o dodici persone.

Mariuccia: Se non lo avessimo ammansito, non faceva una cosa così.

Rosetta: “Mi lasci salutare le mie cugine”, allora sono andata da loro e ho chiesto “Ma cosa è successo?” e dicono: “Siamo arrivate tardi, è stato il treno che non è partito al momento giusto, perché noi avremmo dovuto essere qui prima delle cinque, e invece il treno è arrivato in ritardo”. “Ma cosa è successo?” “Ma, Bruno e Paride sono scappati dalla Gestapo a Verona e Paride non sa dove sia andato a finire Bruno. Perché uno dei due si è sbagliato sull’accordo che avevano preso al momento” e allora dice “È venuto subito da noi a piedi da Verona e quando lui è arrivato noi siamo partite perché lui ha detto di andare ad avvisare tutti i Nulli, mia madre, mia cognata, che si nascondano, che scappino. E invece siamo arrivate tardi”. Così abbiamo saputo perché ci avevano prese.

D: Dopodiché, da Iseo, dove vi hanno condotte?

Rosetta: Da Iseo ci hanno condotte nelle celle sotterrane della Gestapo. Abbiamo fatto una breve fermata qui dove c’era il maresciallo Leo.

Mariuccia: Prima ci hanno portate nella sede del comune d’Iseo.

Rosetta: Sì, ma prima di andare.

Mariuccia: Questo non so perché. E mi ricordo che era giorno di mercato, c’erano le macchine, le Volkswagen tedesche in piazza, e non c’era nessuno in piazza. Tutta la gente era nascosta sotto i portici, ci hanno fatto fermare lì e noi abbiamo chiesto, sempre a questo capitano, se ci permetteva di andare a prendere qualche abito, perché era settembre, faceva ancora caldo, avevamo gli zoccoletti a casa, perché mio padre ha detto: “Qui sarà una faccenda lunga, cercate di portare qualche vestito”. Io e lei siamo andate a casa, che abitavamo poco lontano, abbiamo raccolto qualche straccio da metterci e siamo tornate lì in comune. Nel frattempo una delle mie zie è venuta a chiamare mia madre ed ha chiesto il permesso d’accompagnarla a salutare sua madre che era morente. È poi morta due ore dopo. Allora in mezzo a due col fucile…

Rosetta: Anch’io sono andata con la mamma.

Mariuccia: Sei andata anche tu? Io non mi ricordo.

Rosetta: Sì, con la mamma e penso sono andata io con Ennio.

Mariuccia: A salutare questa donna che stava morendo di polmonite.

Rosetta: Comunque lì dal municipio dopo siamo andate alla casa in paese, la nostra casa, di quando eravamo ragazze.

Mariuccia: Io e lei da sole.

Rosetta: Sì, siamo andate lì.

Mariuccia: Poi siamo andate a Brescia, dove c’era questo Leo che non sanno se è Leo o un altro, o si chiamasse in un altro modo.

Rosetta: Il quale si è comportato in un modo così, veramente, assurdo. Io non lo avevo mai visto. Siamo entrate, sono entrata io e tenevo per mano il bambino, poi è entrata dietro di me mia suocera e poi loro. Lui è andato lì vicino a mia suocera e ha chiesto: “Bonomelli?” E lei si è rivolta verso di me per dire: “Perché?” e pam! Le ha dato una sberla, te la ricordi?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Una sberla, ma proprio, e io ho reagito un po’, ho detto: “Ma cosa sta facendo, ma non ha fatto niente. Ma che cosa sta facendo?” “Ssst”, ha detto, “sedetevi tutti”.

Mariuccia: E ci hanno messi in una stanzetta. Ma io voglio tornare indietro a fare una considerazione, non so quanto valore possa avere. Che noi non eravamo degli illustri sconosciuti, diciamo, gente tranquilla che non si sa se esiste, perché mio padre era già stato arrestato una volta dai fascisti per attività partigiana, perché aiutava i partigiani ed organizzava anche un po’ la Resistenza della valle. Tant’è vero che mia sorella, che forniva i partigiani d’armi, era già in prigione a Brescia, qui, agli Spalti di San Marco, nel suo piccolo faceva qualcosa anche mia madre perché preparava i viveri, glieli faceva portare e la nostra casa era un po’ un viavai di gente di questo genere. Con questi precedenti e con la conoscenza precisa che avevano delle nostre opinioni nei loro riguardi, forse hanno preso ancora di più la palla al balzo per fare imbarcare tutta la famiglia, perché penso che se fossimo stati dei contadini tranquilli, che non avevano mai fatto niente, non si sarebbero neanche scomodati.

Rosetta: Veramente, lì nel campo di concentramento dove eravamo noi, c’erano tantissimi ostaggi, gente che era stata presa esclusivamente perché i loro figli erano andati ad arruolarsi o con i partigiani o con l’Esercito Italiano passando le linee, beh, comunque loro per venire a prenderci hanno scelto quel momento.

Mariuccia: Quella è stata senz’altro la causa determinante, ma anche in paese, noi non eravamo visti con grande giubilo, perché io le dico solo un particolare, per venire a prenderci in quel posto lì ci voleva uno che spiegava molto bene dove si doveva andare, e ripeto, se noi fossimo state persone ammanicate col potere o semplicemente persone tranquille, forse anche le autorità comunali di allora sarebbero state meno sollecite a dare una mano, questa è la mia opinione.

D: Mariuccia, quanti anni avevate voi allora?

Mariuccia: Io sono del ’22, allora avevo 22 anni.

D: E voi Rosetta?

Rosetta: Io sono del ’18, allora avevo 26 anni.

Mariuccia: Comunque dopo questo episodio mia sorella Agata, che era stata arrestata dai fascisti, ed era in prigione e aveva avuto il processo e la condanna a trent’anni per attività partigiana, è stata interrogata da Priebke e passata sotto la giurisdizione anche lei delle SS.

D: Era stata processata al Tribunale Speciale?

Rosetta: No, non era stata ancora, non lo hanno mai fatto il processo di Agata.

Mariuccia: Ma perché dici così?

Rosetta: No, non l’hanno mai fatto.

Mariuccia: L’hanno condannata a trent’anni, vuoi che la chiamiamo al telefono per domandarglielo?

Rosetta: Ma se diceva, coso, come si chiama quello là? Streparara.

Mariuccia: Quello che dice Streparara lascialo perdere, Streparara era un imbecille qualsiasi. Agata è stata condannata ad anni trenta di prigione.

D: Quindi vi hanno portate a Brescia?

Mariuccia: Sì, a Brescia

D: Nel comando delle SS?

Rosetta: Sì, al comando delle SS. Siamo state lì una mezz’ora, poi ci hanno ricaricato su due macchine e siamo andate alla Gestapo a Verona, il Palazzo dell’INA, in via di Porta Nuova, c’è tuttora. Lì sotto, nelle cantine avevano ricavato delle celle dove, se si staccava la rete dalla parete e si tirava giù, non ci si poteva più neanche muovere. Io ero in cella con il mio bambino, la Mariuccia era in cella con… no? Da sola? Mia suocera? Come dici, eri in cella con mia suocera? Tu?

Mariuccia: No, eravamo in cella uno per uno. Perché forse volevano che qualcuno di noi dicesse quel che sapeva, che poi non si sapeva niente.

Rosetta: Sì, assolutamente niente, e poi fra l’altro, questi agenti dell’Intelligence Force dell’8^ Armata Britannica avevano anche delle disposizioni, ed era questo: “Se voi siete presi od arrestati, voi dite esattamente come sta la situazione, cioè da dove partite, come siete organizzati perché”, dicevano, “è inutile fare gli eroi”. Loro intanto queste cose le sanno già benissimo. Voi diteglielo esattamente, tranquillamente. Quindi è per questo che è strano che loro continuassero a fare degli interrogatori anche a me, in quei due giorni che sono stata lì mi hanno chiamato non so quante volte per dirmi: “Ma lei lo sa dov’è suo marito?” “Ma cosa vuoi che sappia io dov’è mio marito” “Ma dove potrebbe nascondersi?” “Ma non lo so”.

D: Perché lui nel frattempo era scappato e non si sapeva dov’era? Voi non lo sapevate?

Rosetta: No, io l’ho saputo soltanto dopo che è finita la guerra.

D: Dopo questi due giorni di interrogatori, lì a Verona, cosa è successo?

Rosetta: Ci hanno caricato su una corriera insieme con altri detenuti che venivano da altre carceri di Verona.

Mariuccia: Ci hanno presi e messi sulla corriera. La corriera è partita e si è fermata alla prigione Degli Scalzi. Sono saliti venti o ventidue individui, tutti uomini, non so perché, qualcuno forse era lì proveniente ancora dal campo di Fossoli, qualcuno. Però, non so. Dopo di che siamo andati a Bolzano.

D: Ecco, ma vi avevano detto che vi avrebbero portati a Bolzano?

Mariuccia: Sì, perché la mattina, quando mi sono alzata e sono andata a lavarmi al bagno, alla fontanina, questo ufficiale, Tito? Quest’ufficiale che aveva presieduto tutti gli interrogatori e che insisteva con “Nicht rappresaglia, Nicht rappresaglia”, quello me lo ricordo molto bene, mi è venuto vicino e mi ha detto: “Niente buono campo di concentramento per donne e bambini, niente buono”

Rosetta: Sì, sì, l’ho sentito anch’io.

Mariuccia: Ma mi ha quasi fatto capire che lui avrebbe continuato ad interessarsi al nostro caso. Io non capivo perché, allora veramente non si capiva quasi niente di tutta questa storia. Perché, lei lo sa, forse non lo sa meglio di me, ma lo sa come me, che avvenivano arresti in tutti i modi strani. Avvenivano esecuzioni sommarie, a piacere, come era successo a suo suocero, avvenivano deportazioni di cui uno non si rendeva conto del perché venivano fatte, quindi uno accettava quello che gli capitava sulle spalle, in una specie di fatalismo, e con la speranza che non fosse poi così drammatica la cosa come si profilava. Comunque questa frase me la ricordo, “Niente buono campo di concentramento”. E io mi ricordo di aver pensato: “Sarà sempre meglio di una cella senza finestra”, ho pensato questo. Ignara del fatto che se questo Eisenstein non ci avesse fatto mettere il cartellino di ostaggi, ma si fosse incattivito e ci avesse fatto mettere quello dei prigionieri politici, noi partivamo per la Germania. Perché quando siamo entrati negli uffici del campo, dove ci ricevevano, c’erano lì parecchi tedeschi, e io allora non sapevo neanche chi erano. Ho l’impressione che questa situazione fosse stata voluta proprio dalla Gestapo di Verona. Perché la notte ci hanno messo nei blocchi delle celle, delle donne a Bolzano, e a notte alta, saranno state le undici, si è aperta la porta, i chiavistelli, è comparso questo Hans che io ho visto per la prima volta, e ha dato ordine, ci ha chiamato per numero, “Blocco celle” ha detto. Allora noi siamo scesi dai nostri panconi, che non ricordo più neanche se erano i terzi, i quinti, i terzi o i quarti, e gli siamo andati dietro. Siamo andati dietro a questo signore, ci ha aperto la porta delle celle appena costruite, ci ha messo in una cella tutti insieme.

D: Tutta la vostra famiglia?

Mariuccia: Tutta la famiglia. E c’era un mormorio, quello me lo ricordo, “Ma poverini, vanno nelle celle”, perché giorni prima, e qui lo vedo riportato, proprio da quelle celle lì erano stati portati fuori questi ventitré italiani che erano stati fucilati. Il giorno 12 settembre. E noi siamo arrivati il giorno 14, quindi le celle erano vuote, in una era rimasto il famoso capitano Barda, alias Enzo Sereni, e il giovane Vittorio Duca, figlio di quel Duca, non so il cognome, il nome proprio, che era stato ucciso.

Rosetta: Quando siamo andate noi alle celle c’era già il capitano Barda?

Mariuccia: Perbacco! C’era il capitano Barda, e Vittorio Duca, erano loro due in quella cella lì, dopo Vittorio Duca lo hanno passato capo blocco, nel blocco E, è andato via, ma è stato lì qualche giorno. Questo è quello che ricordo, molto esattamente.

D: Possiamo fare un pezzettino di passo indietro?

Mariuccia: Sì. Come vuole.

D: Da Verona siete partite in corriera?

Rosetta: Sì, con un pullman.

Mariuccia: Lei lo chiama pullman, era un autobus tutto sgangherato, bianco, era. Pullman di gran turismo!

D: Con il pullman e siete arrivate, c’eravate su voi, e poi quegli altri prigionieri che….

Rosetta: Eravamo circa una cinquantina, non voglio proprio ostinarmi sul numero preciso, ma mi sembra di aver contato e aver detto “Siamo in quarantasette”.

Mariuccia: Lì a Verona però eravamo saliti solo noi. Non ti ricordi? Che non c’era nessuno dalle celle di Verona che era salito.

Rosetta: Siamo saliti soltanto noi.

Mariuccia: Solo noi. Il pullman, il bus, chiamalo come vuoi, quella specie di carcassa bianca, ha girato per la città e si è fermato davanti alla prigione Degli Scalzi. Io, la prigione degli Scalzi la conoscevo attraverso don Chiot, quel famoso prete che confessava i condannati a morte e li comunicava, ed insieme all’ostia gli dava la sigaretta. È un personaggio famosissimo questo don Chiot, era noto perché in questa prigione lui aveva…

D: Com’è che faceva a nascondere?

Mariuccia: Questo è un fatto vero. Nascondeva la sigaretta in mano, in modo che i condannati andavano a fare la comunione e lui gli faceva scivolare la sigaretta da fumare, adesso non so in che modo, queste informazioni più precise le può prendere lì dalla procura di Verona o da associazioni partigiane di Verona. Mi ricordo che conoscevo la prigione Degli Scalzi attraverso quello che mi dicevano, già allora, attraverso le esperienze di quelli che sapevano, insomma. Per cui mi fece molto effetto questo portone, una casa antica, un portone in pietra, dentro si è spalancato e hanno fatto salire questa gente, in abiti civili. Si capiva che era gente che era lì da parecchio tempo, niente, questo mi ricordo.

D: E poi siete partite per Bolzano.

Mariuccia: Siamo partite per Bolzano.

Rosetta: Siamo andate a Bolzano.

D: Senza nessun altra fermata?

Mariuccia: Sì, a Rovereto ci siamo fermati. Abbiamo fatto una fermata a Rovereto, ci hanno fatti scendere dal pullman. Tutti. Per motivi anche igienici e lì ho saputo che avevano progettato la cattura, diciamo, delle guardie che c’erano sulla corriera. E la liberazione di tutti attraverso un colpo di mano, insomma, che non è stato attuato perché hanno visto che, mentre loro non se lo aspettavano, che c’erano delle donne ed un bambino, e per paura che nel conflitto, che ci sarebbe stato di sicuro, a fuoco, con i sorveglianti armati di mitra, succedesse, ci fossero delle vittime, donne e bambini, così siamo andati a Bolzano, dopo ci siamo fermati un’oretta.

D: Siete arrivati a Bolzano, più o meno a che ora? Ve lo ricordate?

Mariuccia: Io mi ricordo che erano verso le cinque di sera.

Rosetta: Sì.

D: E quando siete entrate in Via Resia vi hanno dato subito l’immatricolazione?

Mariuccia: Dunque, sì è spalancato questo cancello, siamo entrati con la corriera e ci hanno fatto scendere, poi qui io ho dei ricordi un po’…, mi ricordo che gli uomini li hanno portati da una parte e li hanno fatti rapare.

D: Subito?

Mariuccia: Penso subito, perché noi siamo entrate e non ci hanno rapato. Né me, né lei, né mio padre, perché come siamo entrati io ho visto subito questa gente con le tute blu, tutte rapate e mi ha fatto un effetto impressionante, proprio un’impressione, un colpo ho avuto nell’entrare, era un mondo diverso. Un mondo completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, sia pure in mezzo alle vicende piuttosto drammatiche o complesse che si vedevano anche fuori dal Lager, se ne vedevano parecchie.

Rosetta: Ma mentre ancora eravamo nelle celle della Gestapo, lì a Verona, proprio la prima sera che siamo arrivati, io ero nella cella con Ennio, la cella si è aperta e c’erano due soldatesse tedesche ed una interprete. L’interprete mi ha detto che dovevo dare il bambino perché sarebbe stato portato in un posto più adatto, che non poteva stare lì. Allora io ho preso in braccio mio figlio e ho detto: “Ma no, sta qui, lo lasci qui.” “No, lo deve dare, deve lasciarlo andare”. Lui si era attaccato al mio collo, molto fortemente, però penso che senz’altro sarebbero riuscite a staccargli le braccia, non diceva niente e stringeva sempre di più, quella ho visto che si era veramente arrabbiata, e ha detto all’interprete di dirmi che se io non glielo davo lei me lo avrebbe strappato. In quel momento ho sentito i passi sulla scala a chiocciola ed è sceso un maresciallo che si chiamava Eisenstein.

Mariuccia: È quello che ci ha salvato, praticamente.

Rosetta: Quel maresciallo prussiano, dopo mi ha detto che era un maresciallo prussiano, ha detto a queste due di andarsene, mi ha detto: “Stare tranquilla, bambino insieme con lei”.

Mariuccia: E come, come lato umoristico le dirò che mio padre, mentre avveniva questa scena, che tutti definirebbero tragica, continuava a dire: “Te mologhe mai el gnaro”, cioè la incitava a non lasciarglielo. E forse senza questa insistenza, chi lo sa? Non sappiamo cosa sarebbe successo. Questa scena è durata, nel silenzio più totale, almeno dieci minuti.

Rosetta: Questo maresciallo mi ha detto, per la prima volta, perché poi me lo avrà ripetuto cento volte, mi ha detto: “Lei venire mio piccolo chalet Germania”, vero? “Lei e bambino, venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Si vede che sperava di portarla fuori.

Rosetta: Sì, e allora io attribuivo questo al mio, non so, a qualcosa di non so, “Si vede che forse gli piaccio”, pensavo. E invece poi sono rimasta molto delusa, perché quando ho raccontato queste cose a mio marito, finita la guerra, lui mi ha detto: “Ah, il maresciallo prussiano, ma non lo sai che lavorava con gli inglesi?”

Mariuccia: Ma questo noi lo abbiamo immaginato, perché quando stavamo salendo tutti in fila, sul predellino della corriera, lui si è avvicinato a mio padre, ed in italiano ha detto: “Io questa sera mandare mio uomo a Firenze”. Noi eravamo tutti presi da questa vicenda, che ci portavano via, no? Al momento non ci abbiamo fatto caso, poi mio padre fa: “Ma a Firenze ci sono gli alleati”.

Rosetta: No, non c’erano ancora gli alleati. A Firenze gli alleati sono arrivati due o tre giorni prima di Natale.

Mariuccia: Beh, comunque “Io mandare mio uomo a Firenze” voleva dire che aveva dei contatti con gli alleati e che da Firenze qualcuno avrebbe… e allora lì abbiamo capito che c’era una situazione, che a noi sfuggiva, ma che era molto, molto più complessa di quanto si pensasse, ecco.

Rosetta: Sì, poi quella insistenza, “Venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Questa qui “Stasera mandare mio uomo a Firenze” mio padre si è scervellato per tutto il viaggio. Comunque in settembre non erano ancora a Firenze, gli alleati.

D: Non me lo ricordo.

Rosetta: No, no, no.

Mariuccia: Nel settembre del ’44.

Rosetta: Roma è stata occupata nel giugno, il 20 giugno del 1944.

Mariuccia: Guarda che Roma è stata occupata nel ’43, Rosetta. È stato l’8 settembre.

Rosetta: Del ’44, è stata liberata nel ’44.

D: Liberata.

Rosetta: Roma è stata occupata dagli alleati il giugno 1944.

Mariuccia: Ah, sì, nel ’44.

Rosetta: L’8 settembre è stato nel ’43, allora c’erano gli italiani, e poi è stata occupata dai tedeschi.

D: Quindi l’ingresso di Via Resia, gli uomini sono stati messi, li hanno portati dall’altra parte.

Mariuccia: Non ho più guardato, confesso che non mi ricordo.

D: Il vostro gruppo, la vostra famiglia è rimasta tutta unita, diciamo.

Mariuccia: Sì.

D: L’immatricolazione ve l’hanno fatta subito?

Mariuccia: Subito, ci hanno dato il cartellino, io non mi ricordo però se mi hanno dato subito il cartellino. Questo non me lo ricordo.

Rosetta: Ma io credo che quando siamo arrivati la sera…

D: Neanche il numero?

Mariuccia: No, perché il cartellino ed il numero avevano, erano inscindibili. C’era il numero ed cartellino del colore X o Y. E probabilmente il cartellino ce l’hanno dato il giorno dopo. Perché se no non ci avrebbero messo nel blocco delle donne, se non c’era qualche cosa di…

Rosetta: Io mi ricordo che la prima notte che ho dormito a Bolzano avevo ancora il vestito che avevo quando ci hanno portati via.

Mariuccia: Sì. Il giorno dopo ci hanno dato…

Rosetta: Quindi quella sera lì loro a noi non ci hanno dato la tuta o altro, io non mi ricordo niente, mi ricordo però che sono venuti a prenderci al mattino e siamo andati al comando.

D: Il vostro babbo, è venuto anche lui con voi?

Mariuccia: Sì, quella notte lì, sì. Dopo lo hanno messo nella cella vicina, dove c’erano i cosiddetti prigionieri civili. Di nazionalità diversa, c’era lì uno di San Marino, per esempio, poi c’era un marocchino, poi c’era, ogni tanto, qualcheduno che stava lì magari due giorni, come Mike Bongiorno, che poi è andato via.

Rosetta: Io non l’ho visto.

D: A Bolzano, Mike Bongiorno?

Mariuccia: Sì, a Bolzano. E Mike Bongiorno è un illustre cafone. E adesso le spiego perché. Perché mio padre, che era un uomo molto aperto, aveva fatto amicizia con parecchie persone, tra le quali Virgilio Ferrari, alla liberazione lui, Virgilio Ferrari è diventato sindaco di Milano, e mio padre sindaco della liberazione ad Iseo.Allora lui gli ha scritto e si è congratulato, con questo dottor Virgilio Ferrari, e lui ha risposto. Come hanno fatto molti altri. Poi mio papà ha scritto anche a Mike Bongiorno, perché Mike Bongiorno aveva la dissenteria, ed i suoi compagni di cella lo aiutavano ad alzarsi e sedersi dal buiolo, ma dico, ma Mike Bongiorno non ha mai risposto, non ha detto: “Sì, mi ricordo che stavo male e mi avete aiutato”. Per dire la differenza tra le persone.

D: Poi vi hanno messo nel reparto celle, vi hanno fatto l’immatricolazione, vi hanno dato il triangolo, che era di che colore, il vostro?

Mariuccia: Verde.

D: Verde. Rosetta, il tuo numero te lo ricordi?

Rosetta: 4131.

D: Anche ad Ennio hanno dato un numero?

Rosetta: Sì, 4132.

Mariuccia: I triangoli sono questi. Quelli che sono riuscita a salvare.

Rosetta: Io avevo il 4131 ed Ennio il 4132, ecco.

D: Dove li mettevate questi?

Rosetta: Questi erano attaccati sulla tuta, sulla tuta blu con la croce di pittura ad olio dietro, così che da dietro era proprio come se si fosse in una specie di piccola corazza, perché resistesse ne avevano dato una quantità enorme.

D: Quindi vi hanno dato anche delle tute dopo, allora?

Rosetta: Sì, ci hanno dato una tuta e ci hanno portato via tutti gli abiti, abbiamo dovuto darli a loro gli abiti che avevamo, nostri, …

D: Tutto vi hanno portato via?

Rosetta: Sì, ci hanno portato via gli abiti, e…

Mariuccia: No, gli abiti non ce li hanno portati via.

Rosetta: Ma certamente Mariuccia, dopo io ti spiego.

Mariuccia: Io avevo il cappotto.

Rosetta: Dopo hanno dato qualcosa al bambino e poi hanno anche permesso che l’amico di mio padre portasse la roba che hanno mandato da Iseo al bambino perché il bambino non aveva una cosettina pesante, niente.

D: Quindi nella vostra cella c’era solamente la vostra famiglia? I componenti della vostra famiglia?

Rosetta: Sì, della nostra famiglia, eravamo in sei.

D: E tutto il giorno, cosa facevate lì a Bolzano?

Rosetta: Beh, i primi giorni, non so, non abbiamo fatto niente. Comunque io avevo chiesto alla Margherita, che era la prima moglie di Montanelli, una bella signora austriaca, che era incaricata di formare i gruppi di donne che andavano a lavorare. L’avevo pregata di mettermi negli elenchi perché lì non avrei saputo che cosa fare. E invece quando lei ha portato questo elenco al comando, il mio nome è stato cancellato. Hanno detto che io non potevo uscire a lavorare. Dovevo stare nel campo.

Mariuccia: Nessuno di noi poteva fare niente. Né io, né lei, né la signora Bonomelli, nessuno.

D: Quindi stavate nel campo tutto il giorno?

Rosetta: Sì, noi stavamo nel campo tutto il giorno, qualche volta…

D: Cioè, ma non tutto il giorno in cella?

Rosetta: No, potevamo… sì, ma non erano molto contenti se ci vedevano in giro. Noi ci andavamo, però stavamo un po’ attenti che in quei momenti non ci fossero vicino delle guardie.

Mariuccia: Guardi, nella prima cella c’era il capo campo.

Rosetta: Sì, nella prima cella c’era il capo campo.

Mariuccia: Ed il comandante Baccigaluppo della marina militare.

Rosetta: Ma dopo è andato via il comandante Baccigaluppo.

Mariuccia: È andato via dopo che sono andata via io, perché è sempre stato lì.

Rosetta: Ah, no, no, quando…

Mariuccia: Comunque era per spiegarle una cosa. Siccome lì c’era la sede del capo campo, aveva il diritto d’andare e venire a dirigere il campo, quindi il portone che dava sul cortile del Lager era sempre aperto di giorno. Veniva chiuso a chiave di notte. Come chiudevano a chiave di notte tutte le celle, ecco. Qualche volta non le chiudevano, ma per una pura negligenza, così qualche volta non la chiudevano. Ma nel novanta per cento dei casi chiudevano a chiave e si stava chiusi dentro. Fino a sera, si poteva anche parlare tra noi. Non so, c’erano dei giorni in cui chiudevano presto, degli altri in cui addirittura non chiudevano, questo non saprei dirle da che cosa…

D: Voi contatti però con gli altri deportati ne avete avuti?

Mariuccia: Moltissimi.

Rosetta: Sì, molti. Ma non con tutti insomma.

Mariuccia: Noi per esempio non potevamo mai andare, non avremmo potuto andare nei blocchi. Non ci siamo mai neanche azzardati ad andare nei blocchi degli uomini o nei blocchi delle donne. Io personalmente sapevo che era una cosa che non si poteva fare, ecco.

Rosetta: No, io sono andata due o tre volte nel blocco delle donne.

Mariuccia: Sì, ci sarai andata due o tre volte in sei, sette mesi, capirai.

Rosetta: Sì, sì, perché c’era uno lì, un nostro amico che lavorava nel reparto dell’elettricità e si era ammalato.

D: Lì a Bolzano?

Rosetta: Sì, lì a Bolzano. Ho visto, si chiamava Chiesa Federico. Era di Torino e la dottoressa Buffalini che era di Torino aveva mandato a chiamarmi e mi aveva detto: “Vai a trovare Chiesa che è ammalato, ha la febbre.” Allora io l’ho detto ad Hans, e lui mi ha permesso d’andare due minuti, mi ha detto: “Ti lascio andare due minuti, fai alla svelta”. Poi ci sono andata ancora altre volte, ma certo per pochi minuti perché non…

Mariuccia: Ecco, Pietro San, ecco un altro che mi ricordo. Me lo scrivo.

Rosetta: L’episodio bello che ricordo, non bello, insomma un episodio curioso, è la storia di mio figlio ed il fischietto. Un pomeriggio ho portato a spasso mio figlio intorno al campo.

D: Ma dentro al campo?

Rosetta: Sì, sì, dentro. Dentro. Poi quando stiamo per entrare nel corridoio delle celle, lui mi sfugge di mano e si mette a correre. “Fermati!” dico io, “Ma dove vai? Fermati! Guarda che adesso devi andare dentro, è tardi, fa freddo”. Lui invece d’ascoltarmi, continua a correre. Io sto un attimo a guardarlo e penso: “Beh, ritornerà. Farà il giro intorno all’edificio e poi verrà su dall’altro cortile dove fanno le adunate.” Nello stesso tempo sento un suono di fischietto, che era il suono classico che facevano le guardie quando c’era un’adunata. “Pfiii”, e poi dopo un momento, “Pfiii”, allora dico: “Ma Dio, quel bambino mi è scappato e adesso fischiano anche per un’adunata, bisogna che io vada a vedere che cosa è successo”.Intanto cominciavano ad uscire quelli che, non erano ancora tornati dal lavoro, ma quelli che lavoravano vicino, alcuni sono rientrati per dire: “Cosa succede? Sentiamo il fischio”. Insomma, si era fatta una bella folla di gente. Finalmente io sono riuscita ad acchiappare mio figlio, era lui che fischiava. Allora lì erano intervenute anche alcune guardie perché non capivano neppure loro che cosa stesse succedendo, allora io lo prendo e dico: “Dammi quel fischietto, ma che cosa ti viene in mente, ma hai visto che cosa hai fatto? Ma non sai adesso che cosa succederà? Vieni, andiamo nelle celle.” Allora lui si era reso conto che la cosa era veramente …, andiamo nella cella ed io dico: “Dammi il fischietto” “Non ce l’ho più” e faceva così con le mani. “Ma dove lo hai buttato?” “Non ce l’ho più”. Dopo dieci minuti è arrivato il maresciallo Haage con altri due tedeschi a volere il fischietto. Lui diceva “Non ce l’ho più. Non ce l’ho più”. Allora il maresciallo Haage è uscito ed ha ordinato di chiudere la cella. Te lo ricordi? Mio figlio si è messo ad urlare come un matto, “Scheisse, los”.

D: Era l’unico bimbo che c’era nel campo, di quell’età lì?

Rosetta: Sì, era l’unico bambino, penso che non erano molti i bambini ariani internati di quattro anni.

D: Ma quando siete arrivati voi, altri bambini non c’erano?

Rosetta: Sono passati alcuni, erano tutte bambine o bambini, quegli ebrei? Erano tre bambine.

Mariuccia: Sono state messe nella cella di fronte alla nostra con la mamma. Poi sono partite. Sono indicate anche nel libro che avete fatto voi. Le ho trovate indicate.

D: Quindi era l’unico bambino che c’era?

Rosetta: Era l’unico bambino, sì. E lì un accademico di Francia ha scritto per lui quella famosa poesia.

D: Un accademico di Francia che era deportato anche lui?

Rosetta: Sì, era un ebreo. Sì.

D: E ha dedicato questa poesia a Ennio?

Rosetta: Sì, carina, in francese logicamente.

D: Beh, certo.

Rosetta: Molto carina. Dopo la guerra siamo andate a cercarlo a Parigi.

D: E che cos’era quella riflessione lì, Mariuccia?

Mariuccia: Modestissima riflessione, dell’influenza che ha l’ambiente sulle persone, sui bambini. Mio nipote, che non aveva ancora cinque anni, s’era fatto, come modello, la figura del capo campo del Lager. Aveva voluto la fascia di capo campo ed era riuscito persino a rubare un fischietto per comandare le adunate, eccetera. Quello era il modello che lui aveva sotto gli occhi, il potere massimo che gli si presentava. Il massimo della felicità. Il capo campo oltre tutto andava fuori, faceva tutto quello che voleva ma soprattutto comandava, in quel luogo comandava.

D: Voi però dovevate comunque partecipare agli appelli?

Mariuccia: Noi non partecipavamo, a noi era proibito qualsiasi movimento che non fosse magari quello delle celle, a venti metri dalle celle. Tanto noi ci andavamo lo stesso, sa com’è? Si è anche un po’ incoscienti, e guardi, mio padre ha corso anche dei rischi, perché si affrettava sempre quando c’erano le partenze per farsi dare indirizzi, nomi, cose da scrivere alle famiglie. Si dava da fare in questo modo, tant’è vero che il maresciallo Haage lo ha picchiato per questo. Lo ha picchiato, gli ha dato due ceffoni perché aveva in mano un notes e scriveva quello che poteva, come poteva aiutare insomma, questi poveri disgraziati, lo faceva rischiando anche di suo. Rischiando la sua incolumità, perché lì non scherzavano, eh? Io sono sempre del parere che noi abbiamo evitato molti guai perché eravamo dei prigionieri speciali. La mia impressione è che noi fossimo un granellino dentro un ingranaggio bellico che era mille volte più grande di noi. Perché questo maresciallo Eisenstein che mandava il suo uomo a Firenze, forse si serviva di noi e ci proteggeva per avere in contro parte qualche cosa da parte degli alleati. Lei sa molto bene che il generale Wolff stava trattando la resa delle SS in Italia, no? All’insaputa di Hitler. Quindi si vede, nel patto tra gli alleati e le SS c’era anche quello di non fare rappresaglie e anzi di cessare le rappresaglie e magari di far vedere la buona volontà anche del corpo delle SS d’aiutare quelli che potevano essere aiutati. Questa è una cosa garantita, guardi. Ha visto poi l’articolo su Priebke? Dove c’è scritto che il tribunale aveva condannato mia sorella a trent’anni? Lo ha letto? Mi scusi. (Legge): Dopo quell’interrogatorio Agata Nulli non vide più Erich Priebke, dell’interrogatorio si parla sopra, ma il capitano delle SS si interessò ancora di lei, ed il 22 marzo 1945, poche settimane prima della liberazione, l’Hauptsturmführer scrisse dalla sede delle Gestapo di Brescia, in via Panoramica 10 al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato di Bergamo. La Nulli, diceva la missiva di Priebke scritta in tedesco, è confessa d’aver favorito i ribelli con alimenti e sigarette; inoltre ha distribuito foglietti caduti da aeroplani, il procedimento è stato trasmesso dalla Guardia Nazionale Repubblicana al Tribunale per il giudizio. Prego di comunicare, chiedeva Priebke, se la Nulli è stata processata ed a quale pena è stata condannata. Il tribunale le aveva inflitto trent’anni di carcere per favoreggiamento nei riguardi dei partigiani. A questa richiesta di Priebke il tribunale ha ufficialmente risposto che aveva avuto trent’anni di carcere per favoreggiamento dei partigiani. Quindi lei è stata processata e condannata a trent’anni, come appare da questa corrispondenza tra Priebke, che non è l’ultimo arrivato, e il tribunale di Bergamo. Quindi non mi pare una cosa da poco, però se noi fossimo state delle persone totalmente fuori dal gioco, avrebbero aspettato tre giorni a venire a prenderci, ecco. Per far dire che non eravamo totalmente fuori dal gioco, ho fatto presente che il papà era già stato arrestato dai fascisti, tu lo sai molto bene, in agosto, e l’Agata era già stata arrestata, era già a Brescia.

D: Però vostra sorella non è venuta nel campo?

Mariuccia: No, lei è sempre stata qui.

D: È sempre stata nelle carceri qui?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Loro hanno detto: “Prendiamoli tutti, così non c’è più nessuno fuori, non so”. Loro sono venuti ad arrestarci per quel fatto lì. È chiaro, poi ho anche aggiunto che siccome arrivare a quel posto lì non è tanto facile, le autorità comunali fasciste d’Iseo, hanno dato una mano. Se noi fossimo state persone qualsiasi, forse non s’interessavano neanche.

Rosetta: Probabilmente loro erano venuti per arrestare la moglie di Bonomelli ed il figlio, a prendere la moglie di Bonomelli ed il figlio di Bonomelli, siccome c’era lì dell’altra gente avranno detto: “Meglio che li portiamo via tutti, che sarà una cosa…”

Mariuccia: Sì, a me se mi lasciava a casa non mi faceva nessun dispetto.

Rosetta: Eh?

Mariuccia: Io non ci tengo ad avere titoli di martirio e d’eroismo, proprio non ci ho mai tenuto.

D: Ma dentro al campo, quando spiegavi che il babbo metteva in atto questa forma di solidarietà.

Mariuccia: Sì, poverino. Ma non ha letto le lettere di quei due ebrei sopravvissuti? Di quell’ebreo sopravvissuto? Quella è una testimonianza inequivocabile che quello che poteva fare là, lo faceva.

D: Avete trovato o conosciuto altre persone dentro nel campo?

Mariuccia: Madonna, io ne ho conosciute tantissime, di cui ho solo i nomi, ormai.

D: Tipo?

Mariuccia: Ma uno è questo Gurtler, poi l’elenco l’avevo dato alla signora, adesso l’ho lasciato a casa.

D: Ma così, a memoria?

Mariuccia: Mi ricordo Elmo Spreafico, quel Chiesa lì, Vittorio Duca, Ermando Sacchetta, tanti, guardi in questo momento mi sfuggono.

D: Con Vittorio Duca avevate stabilito un…

Mariuccia: Un vero rapporto di grande amicizia.

D: Che alla fine poi lui, che cosa ha fatto, vi ha dato?

Mariuccia: Io sono uscita prima, a lei ha dato, quando l’hanno mandata in Germania … e poi Vittorio Sereni, abbiamo conosciuto. Il capo comandante Baccigaluppo. I due fratelli Momigliano, Attilio ed Emilio Momigliano.

Rosetta: Vittorio Duca è arrivato, l’ultima partenza, perché dopo non è più partito nessuno.

Mariuccia: Altre persone di cui non ho conosciuto il nome ma che erano evidentemente persone di un’evidenza notevole, insomma persone di grande valore, professori universitari, studiosi, poi i nomi non me li ricordo più.

Rosetta: Abbiamo conosciuto don Gaggero, un prete di Bergamo, quello grande e magro.

Mariuccia: Don Vismara, don Berselli. Poi quando avevano ucciso il sig. Bonomelli, mio padre si è dato molto da fare, perché loro, i tedeschi, lo volevano seppellire nell’orto, lui è intervenuto e lo ha impedito.

D: Ma lì a Bolzano?

Mariuccia: No, qui a casa di mia sorella. Questo era antecedente.

D: Ecco Mariuccia, padre Gaggero, lui usciva dal campo?

Mariuccia: Andava a lavorare. Dopo io mi ricordo che ho scritto che non ero a conoscenza di un’attività clandestina d’aiuto ai deportati, non ero a conoscenza. Però so, da alcune vicende di don Gaggero, che lui era in contatto con qualcuno fuori che gli dava dei soldi e delle cose, per cui pigliava sempre, aveva preso un sacco di botte, era stato ridotto una palla, perché volevano fargli dire chi era che gli dava queste cose. E lui non lo ha mai detto. Io ricordo che ero molto ammirata dal suo comportamento, che passava, dopo lo hanno chiuso in cella, e lo facevano uscire e passava nel campo, io dallo spioncino lo vedevo passare con la faccia tutta livida e tutto zoppicante perché effettivamente era stato molto picchiato per quel motivo lì. Non saprei dirle altro perché non era molto opportuno andargli a parlare ad un certo punto.

D: Quindi c’erano anche sacerdoti dentro nel Lager?

Mariuccia: Eh, sì. Poi è entrato in prigione anche il parroco di Bolzano, che era quello che si diceva, si sapeva, che portava, non so se desse dei viveri o avesse dei contatti d’altro genere, o del denaro, non so. Non saprei. E io ricordo che mio papà rideva, perché diceva: “Tu vedrai, me lo diceva in dialetto, vedrai quanto tempo passerà prima che entri dentro anche quell’altro prete che gli dà i soldi”. Perché poi le cose si sapevano, in maniera trasversale, come dicono, si sapeva che don Gaggero usciva a lavorare, che c’era un prete che gli dava dei soldi da dare ai prigionieri, e si sapeva che anche quello là un bel giorno sarebbe entrato dentro, e difatti così è stato. Non so altro perché poi, ripeto con don Gaggero quando era in cella e veniva fuori a fare la passeggiata, non si poteva parlare.

Rosetta: Io don Gaggero l’ho visto dopo. A Genova. Apparteneva ad un ordine sacerdotale.

D: Erano i Filippini di Genova.

Rosetta: Erano i Filippini di Genova, ecco, io sono andata alla chiesa di San Lorenzo a Genova e l’ho incontrato.

D: Sì, ha anche subito un processo.

Mariuccia: E’ uscito dalla Chiesa, diciamo ufficiale, ed ha fondato un movimento che allora ha avuto anche molto seguito. Poi è scomparso.

D: Sì, sì, era stato a Praga, eh, ma è stato per due anni poi a Roma perché il Sant’Uffizio lo aveva processato.

Mariuccia: Sì, sì, ma era un tipo molto originale, non era un uomo comune.

D: Mi sembra che era anche vivace.

Mariuccia: Io lo avevo notato come una personalità spiccatissima e diversa da tutte. Forse era la personalità che mi ha colpito di più di tutti gli uomini che ho conosciuto nel campo.

D: Rosetta? Ah, no, sta prendendo un appunto. Se no si dimentica.

Rosetta: No, no. Mi dica.

D: Quindi avete conosciuto queste persone qui, contatti quindi all’interno del campo però, all’interno del Lager di Via Resia, c’era un movimento diciamo così, resistenziale? C’erano delle persone che si davano da fare, che aiutavano gli altri?

Mariuccia: Ah, questo sì.

Rosetta: Ma aiutavano in che senso?

D: In tutti i modi, magari anche conforto, perché stare in un Lager non penso che sia la cosa più bella di questo mondo. Cioè essere privati della propria personalità, per esempio, il fatto di non essere più una persona ma di essere un numero.

Rosetta: Io le dico sinceramente che ho assistito a certe scene di litigi proprio per delle cose, delle cattiverie.

Mariuccia: Beh, questo sì.

Rosetta: Di cose veramente, che mi sembrava che il senso della solidarietà non fosse per niente diffuso, ecco.

D: Ah, no?

Rosetta: No, no.

D: Cioè?

Rosetta: Sì, se uno aveva un pezzettino di pane e vedeva un altro in parte che stava crepando di fame, sarebbe stato molto difficile, perché comunque noi abbiamo vissuto un po’ fuori da quei giorni lì.

Mariuccia: Però le dirò anche che gli spazzini per esempio, che ad un certo punto erano quasi sempre ebrei, e ad un certo punto i capo cessi che erano i due fratelli Momigliano, desideravano ardentemente tutti di venire a fare gli spazzini nel nostro corridoio perché lì beccavano qualche cosa, gli si dava qualche cosa di quello che avanzava a noi o un goccio di caffè, poi se avevano bisogno d’aggiustare le mutande o qualche cosa di simile, la mia mamma, la signora Lina, si faceva quello che si poteva, insomma.

Rosetta: Anche la sottoscritta.

Mariuccia: Noi facevano quello che potevamo, potevamo fare molto poco, ma…

D: Lì c’era una donna?

Rosetta: Una iena, la chiamavamo la iena.

Mariuccia: E la Marge, dov’era la Marge? Io ho segnato nei miei appunti una certa Marge.

D: La iena? C’era la iena, la Tigre lì, no? E poi c’era anche un’italiana, piccolina, che era un capo baracca.

Rosetta: La capo blocco? Beh, ma la capo blocco era un’internata italiana.

Mariuccia: Io non me la ricordo.

D: No?

Rosetta: Anch’io non me la ricordo molto, io ricordo molto la Montanelli, perché ci s’incontrava.

Mariuccia: Sì, quella piccolina, ha ragione.

Rosetta: Quella piccolina.

Mariuccia: Mi farò venire dalla nebbia della memoria qualche …

D: Cicci, si chiamava.

Mariuccia e Rosetta: Ah, la Cicci, la Cicci.

Rosetta: Ma c’è ancora? Vive ancora?

D: Ed ha sposato il capo campo maschile.

Mariuccia: E chi era, Maltagliati?

D: No, Gigi Novello.

Rosetta: Ah, il Gigi Novello.

Mariuccia: Anche quel Novello lì me lo ricordo, io.

Rosetta: Gigi Novello, ah, è un amore che è sorto nel Lager?

D: A San Vittore, prima del Lager.

Mariuccia: Eh, ma Gigi Novello ha fatto il capo campo per pochissimo, io non l’ho mai visto capo campo, il Gigi.

Rosetta: Comunque, ma lei sa che da lì, dal Polizei Durchgangslager di Bozen, alla metà di marzo, sono state portate via diciannove donne perché erano incinta di quattro mesi?

Mariuccia: Robe da pazzi.

D: No, questa cosa non…

Rosetta: Questo mi ricordo, dunque li troverò, perché quel coso di appunti…

Mariuccia: Che fine abbiano fatto non si sa.

Rosetta: Hanno detto che le portavano in un ospedale a Merano.

D: Più o meno, il periodo quand’era, Rosetta? Quando è avvenuto, questo?

Rosetta: Questo deve essere avvenuto, era ancora marzo, deve essere stato, non so, poco prima o poco dopo la metà di marzo. A me hanno detto che erano in diciannove, facciamo anche fossero nove, però questo è veramente successo, io ne conoscevo tre o quattro di donne incinte ed una era la figlia di quella di Vicenza, ti ricordi quella signora anziana di Vicenza che era dentro con la figlia, anche loro come ostaggi?

Mariuccia: No. E quella di Piacenza, come si chiamava quella di Piacenza zoppa?

Rosetta: Ah, quella di Piacenza zoppa.

Mariuccia: Era un personaggio, che poi ha fatto carriera nel Partito Comunista.

Rosetta: Ma non avevate mai sentito questo, che c’erano le donne incinte?

D: No.

Rosetta: No, no, guardi, glielo assicuro proprio.

D: Non si sa che fine abbiano fatto?

Rosetta: Io so che queste donne sono uscite, hanno detto che sarebbero andate all’ospedale, ecco. E poi un giorno sono state portate all’ospedale, mi sembra perfino ai primi di marzo? Perché insomma faceva ancora freddo, qualcuna non stava bene, e così, dopo, di due sono sicura, perché me lo hanno detto loro che erano incinte e sono andate, una era questa, mi verrà in mente il nome del paese, lì delle vicinanze…

D: Voi vi ricordate un trasporto che dal campo sono partiti con un camion?

Mariuccia: Beh, ma partivano sempre con il camion.

D: Ah, sempre con il camion?

Mariuccia: Io li ho sempre visti con i camion.

Rosetta: Perché li portavano alla stazione poi quelli che partivano, no?

D: Ecco, lì invece dovevano partire con il trasporto della stazione, poi invece Pippo aveva bombardato, e allora lì non hanno fatto più il treno, e c’è questo camion con su delle persone, portate ammanettate e non si sa più che fine abbia fatto questo camion. E c’era anche un sacerdote su questo camion, che era anche lui claudicante, aveva una malformazione ad una…

Mariuccia: Un sacerdote?

D: Un sacerdote di Padova era.

Mariuccia: Non si ricorda il nome?

D: Sì, me lo ricordo sì.

Mariuccia: Il nome?

D: Don Placido, si chiamava.

Rosetta: Io non mi ricordo.

Mariuccia: E si ricorda in che data?

D: Lui è stato preso a Padova.

Mariuccia: In che data è stato questo camion? Perché noi vedevamo i camion partire, poi dopo non si sapeva se partivano o non partivano per la Germania.

D: Don Gian Antonio Cortese, si chiamava.

Mariuccia: Si sapeva solo che non erano partiti quando era interrotta la linea ferroviaria, dopo dove andassero i camion, perché tornavano indietro, … nel campo.

Rosetta: Questo senz’altro lo saprete anche voi, che poi lì in quel campo lì, verso la metà di marzo, non era più partito nessuno, eravamo dentro in 3.250, perché neppure con i camion potevano partire.

Mariuccia: Non potevano più partire.

Rosetta: La linea ferroviaria era interrotta, ed andare in giro con i camion così con su i prigionieri era pericoloso, eh?

Mariuccia: C’era un sacerdote zoppo, quello me lo ricordo io. Piccolo di statura.

D: Mariuccia, cos’è un Lager?

Mariuccia: Ah, santo cielo, mi fa una domanda molto difficile, perché il Lager comunemente è un posto dove uno va, chiuso dentro in mezzo al … non è più una persona, è un oggetto a disposizione di qualche d’uno d’altro, però soprattutto per me un Lager è una prigione psicologica, è l’annullamento della personalità, la privazione dei propri diritti, non dico i diritti del vivere, del mangiare, del dormire, ma dei diritti di essere se stessi. E di vedere gli altri essere persone.

D: Per una donna un Lager cos’è? Cos’è stato per una donna un Lager?

Mariuccia: Per me il Lager è la negazione della vita, siccome io la vita l’intendo non solo in senso materiale, prima di tutto è la negazione della vita in senso materiale e poi la negazione della vita in senso spirituale, totale proprio, e questa è la cosa secondo me più terribile, è quella dalla quale dobbiamo guardarci molto di più che da tutte le privazioni di tipo materiale. Sa poi, involontariamente si fa della retorica quando si parla di queste cose, perché sono argomenti pesanti, se uno non usa parole pesanti forse non viene neanche capito. E poi per me il Lager è anche una forma d’interiorità deviata. Mancanza d’amore della verità, mancanza d’amore della libertà, mancanza di consapevolezza, tutte queste cose, che ci possono non essere prima e succedere dopo, cioè venire dopo. Comunque il Lager è una cosa orrenda, diciamo. È proprio l’ombra del buio, come avete scritto voi nel vostro libro.

D: Vi ricordate in aprile la celebrazione della messa per la Pasqua, nel Lager?

Mariuccia: Io mi ricordo la celebrazione della messa, che si faceva sotto le ultime celle in fondo, nella vostra piantina sono ben indicate.

Rosetta: Sì, qualche volta hanno celebrato la messa.

Mariuccia: E mi ricordo, me lo ricordo perché ho scritto una lettera, nella quale descrivo questa celebrazione della messa, che è avvenuta così, noi eravamo andate là e c’era parecchia gente, perché la celebrazione della messa anche per uno che non è credente, in un Lager acquista un significato, un significato come dire di contatto umano fuori dalla prigione, fuori dall’imposizione, fuori dalla consuetudine negativa che ti comporta l’essere nel Lager. Eravamo in tanti, avevamo deciso di cantare, di cantare la messa. E invece nessuno è riuscito a cantare la messa perché si è visto come una specie d’emozione inibitrice che ha impedito alla gente, era poi la prima che si faceva, di cantata, poi le altre messe non le abbiamo cantate perché in quelle celle mettevano i prigionieri che poi venivano picchiati o torturati e molto spesso c’erano dei lamenti e delle urla che non facevano sentire neanche la celebrazione.

D: Come si chiamava il prete celebrante?

Mariuccia: Io non mi ricordo, me lo aveva detto lei, veniva da fuori, mi pare. Si chiamava Piola.

Rosetta: Lei ha chiesto della messa che hanno celebrato in aprile?

D: A Pasqua del ’45, c’è stata una funzione religiosa, sulla piazza dell’appello.

Mariuccia: La Pasqua, l’aprile del ’45? Io non c’ero.

Rosetta: Sì.

D: Vi ricordate?

Rosetta: Sì, me la ricordo. Sì, avevano fatto un altare che voltava, il celebrante voltava le spalle alle celle.

Mariuccia: Allora il rito era così.

Rosetta: Poi i particolari, ricordo vagamente.

D: Come facevate a sapere le informazioni dall’esterno, voi eravate al corrente d’informazioni dall’esterno?

Mariuccia e Rosetta: Sì, le chiedevamo a quelli che uscivano a lavorare.

D: E poi c’era, non so, una stampa clandestina dentro?

Mariuccia e Rosetta: Io non l’ho mai vista.

Mariuccia: Guardi, secondo me il motivo è che quello non era un Lager dove la gente si fermava, cioè era impossibile organizzare qualche cosa di consolidato, perché andavano e venivano, c’erano le partenze, e quando ormai non c’erano le partenze c’era una tale confusione di persone, ed anche un numero così eccessivo di persone che era impossibile insomma, secondo me, organizzare una cosa d’informazioni. Noi avevamo i nostri informatori privati, per esempio i falegnami, sapevamo quando c’era qualche morto perché venivano da mio papà e dicevano: signor Nulli, oggi abbiamo fatto cinque casse.

Rosetta: Palmiro, un falegname milanese, si chiamava Palmiro.

Mariuccia: Palmiro?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E veniva da mio padre e diceva “Signor Nulli, oggi cinque casse”. “Oggi tre casse”. Per questo che sappiamo che c’erano state o delle esecuzioni o delle morti naturali.

D: Ah, ecco, morti naturali, no, però?

Rosetta: No, ce ne sono state.

D: Anche morti naturali?

Mariuccia: Anche morti naturali, però.

Rosetta: Le due ebree delle celle che sono state fatte morire.

Mariuccia: Beh, ma quella non era una morte naturale, quella è stata un’esecuzione.

Rosetta: No, sono morte di broncopolmonite.

Mariuccia: Sì, va beh. Però ci sono state anche delle morti naturali, secondo me, gente vecchia, io non lo so, penso che ci fossero state, però le notizie delle casse si riferivano sempre a qualche prigioniero scomodo o che aveva dato dei problemi o che era lì per essere eliminato. C’erano perché mio padre, un giorno sì e un giorno no, riceveva la notizia dai falegnami che avevano fatto le casse. Sono sicurissima.

Rosetta: Ma questo d’un giorno sì e un giorno no, mi sembra un po’ esagerato.

Mariuccia: Loro venivano a dare le notizie, dopo fosse un giorno sì e uno no, o una settimana, non mi ricordo, so che venivano lì perché avevano confidenza.

Rosetta: E si vedevano anche le casse che uscivano fuori dalle celle, erano delle casse fatte di legno, una specie d’assi, ma non una parete completa, erano delle listarelle larghe, alte quattordici centimetri, e si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

Mariuccia: Allora i falegnami le fabbricavano, dopo io non so dove andavano a seppellire queste gente.

Rosetta: E si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

D: Dicevo questo perché, ad esempio in alcuni Lager abbiamo sentito che avevano organizzato per esempio Radio Scarpa no? Riuscivano a mettersi in contatto con la radio, avevano fatto una radio a galena, eccetera, a Bolzano questo non era successo?

Mariuccia: Io dico che il motivo è semplicemente questo, ed è anche più serio per il fatto che lì c’erano personalità della Resistenza che non rivelavano la loro vera identità, ed è giusto, quindi non si sarebbero di sicuro compromessi ad organizzare una Resistenza in un Lager; una Resistenza, diciamo un servizio di formazione, la chiami come vuole, gente che era già in bilico, che non voleva essere riconosciuta.

Rosetta: E poi al mattino quando uscivano queste squadre di lavoro guardi che il Lager si svuotava completamente, eh?

Mariuccia: Andavano tutti a lavorare.

Rosetta: Andavano fuori a lavorare nelle gallerie per fabbricare le bombe degli aerei, oppure le …

Mariuccia: Non so cosa facessero, facevano le traversine delle ferrovie.

Rosetta: Ed anche bombe, c’erano delle gallerie dove si facevano delle munizioni di vario genere, bombe a mano, questo lo dicevano quelli che andavano a lavorare, e quindi dalla mattina, perché poi a questi, a mezzogiorno, il rancio glielo portavano sui posti di lavoro. Alcune volte, in casi eccezionali, ma forse se c’era, non so, ogni tanto facevano un’adunata per qualche comunicazione, ma deve essere successo pochissime volte, comunque questa gente partiva alla mattina alle sei e mezza, sette e dopo ritornava alle quattro e mezza.

Mariuccia: Quello che non ricordo è se andavano a lavorare anche nei giorni in cui c’erano le partenze per la Germania. Quello non me lo ricordo.

Rosetta: No, nei giorni in cui c’erano le partenza per la Germania, non usciva nessuno.

D: Con che frequenza venivano fatte queste partenze per la Germania?

Mariuccia: Ah, io dico ogni quindici giorni, inizialmente.

Rosetta: Dieci, quindici giorni.

D: Cosa succedeva? Chiamavano i numeri?

Rosetta: Adunavano tutti e poi chiamavano.

Mariuccia: E poi al controllo, io non so come facevo ad essere lì, io ho visto come facevano ad organizzare la partenza. Loro facevano, schieravano tutti i prigionieri nel recinto, davanti al blocco delle donne, quello più vicino al cancello. C’era un tavolino, fuori dai reticolati, liberi così, c’era un tavolino come questo, qui c’era seduto uno con una penna, io adesso non ricordo se era un qualsiasi esecutore materiale, scribacchino. E qui c’era il maresciallo Haage. La persona seduta chiamava il numero, il numero chiamato usciva, si presentava davanti al tavolino con il suo fagotto, il maresciallo Haage gli dava due sberle e poi lo mandava dall’altra parte.

Rosetta: Venivano chiusi tutti, questi che partivano, in un blocco che veniva vuotato.

Mariuccia: Ma prima di partire li mettevano lì, li schieravano, li ho visti io.

D: Quindi uomini e donne.

Mariuccia: È chiaro che prima, per farli andare sul camion li dovevano pur far uscire dal blocco. E facevano questo appello, io non so che significato avesse, e mi ricordo che mi faceva un’impressione spaventosa la forza di quest’uomo che stava lì a dare duecento, centocinquanta, centosessanta sberle alla gente, ma deve avere una forza da leone, perché l’ho visto. Non è che l’ho visto tutte le volte, l’ho visto un paio di volte.

D: Uscivano a piedi dal campo?

Mariuccia: No, no, venivano caricati sui camion. Ed un altro particolare che le dico io, che ho visto con i miei occhi, le poche cose che ricordo, non sono per niente eroiche, le pedate nel sedere che davano agli ebrei per farli salire. Io pensavo, penso fossero ebrei, perché uno di quelli presi a calci nel culo si chiamava Levi. E suppongo che anche gli altri, che come lui venivano fatti salire sui camion a pedate, fossero ebrei, perché alcuni sapevo che erano ebrei, perché come dico, delle volte venivano lì nel nostro corridoio a dire il loro nome, mio papà prendeva il nome, a dire la loro famiglia, e così via dicendo. E questo Levi, uno piccolino così, aveva detto d’essere l’unico sopravvissuto, che i suoi familiari erano già stati deportati e non sapeva più dov’erano. E quello lì lo hanno fatto salire proprio a calci nel culo, sul camion, questo l’ho visto con i miei occhi.

D: Dentro nel campo poi c’erano delle officine, no? Si lavorava all’interno del campo.

Mariuccia: Sì, c’era la lavanderia, c’era la falegnameria, c’era il magazzino, non so se ci fosse l’officina meccanica, quello non me lo ricordo.

Rosetta: C’era tutto quello che si riferiva all’elettricità, dove si aggiustava, si facevano dei lavori per quelli della Gestapo, aggiustavano le loro radio, tutte le apparecchiature.

Mariuccia: Gli elettricisti. Credo ci fosse anche una specie di sartoria, o guardaroba, dove aggiustavano la roba.

Rosetta: Sì, c’era la sartoria, sì. Ho lavorato anch’io una settimana.

D: In sartoria?

Rosetta: Sì, dopo mi hanno proibito di farlo.

Mariuccia: Per fare qualche cosa, perché era micidiale non fare niente.

D: Certo.

Mariuccia: Adesso che hanno riaperto il processo Priebke sono venuti a cercare informazioni di tutti i tipi.

D: Da voi?

Mariuccia: Sì, perché pare che tutte queste vicende fossero in parte anche connesse con il caso Priebke.

D: Ho capito.

Mariuccia: Perché questo Priebke, secondo me, anche lui era un agente segreto alla fine. Erano tutti, diciamo, sospetti di connivenza con gli alleati, a loro premeva di salvare la pelle, di salvare il loro corpo dalle SS. Quindi bisogna orientarsi su questa mentalità.

D: Dicevo, Mariuccia, la liberazione quando è arrivata?

Mariuccia: Ma io sono stata scarcerata, mi hanno chiamata al comando, 4134, è venuto Haage in cella e mi ha detto: “Nulli Maria, nacht Verona”. Io ho detto “Cosa mi portano a Verona”, perché erano i primi di marzo, “cosa vado a fare a Verona?” Niente, mi hanno messa su un camion, questa è la mia, dopo la sua la racconterà lei, alle due del pomeriggio. Alle quattro di mattina siamo arrivate a Verona, ma io avevo capito, su quel tragitto lì, perché ci siamo fermati non so dove, in mezzo a due soldati, che c’era già un’aria di sfacelo. Si vede che loro avevano paura dei partigiani, non so, andavano, siamo arrivati alle quattro di mattina a Verona, ma non siamo entrati in città. Siamo stati molto lontano. Mi hanno fatto portare una cassetta di munizioni, e mi hanno fatto andare, io non ce la facevo, avevo la febbre, mi hanno fatto entrare in una specie d’ufficio, dove c’era un nanerottolo così, quelli dell’ultima ora, un giovincello, che ha cominciato a dirmi: “Partisan, partisan”. Io ho detto di no, “No partigiano, sono un ostaggio”. Ed ha cominciato a sfottermi perché io studiavo filosofia e mi diceva: “Solo Germania grande filosofia”. Mi ha fatto un effettaccio, poi niente, mi hanno mandata giù nelle celle e mi hanno lasciata lì. Non so, tre, quattro giorni, non diceva niente nessuno. Io chiedevo di questo Eisenstein e nessuno mi diceva niente, poi ad un certo punto hanno aperto la porta, io sono andata con una, il biglietto non ce l’ho più, con una scritta nella quale c’era che io dovevo presentarmi tutte le mattine alla SS di Brescia, dove c’era questo Leo, una cosa che per me era totalmente insensata, e cosa che io facevo tutti i giorni, perché mi premeva di stare tranquilla. Ecco, questa è stata la mia liberazione.

D: Mentre invece la vostra, Rosetta?

Rosetta: La nostra è avvenuta…

D: Quindi Mariuccia è partita.

Mariuccia: Io sono partita, ho qui due lettere che ho scritto a loro, ma che non sono mai arrivate.

D: Mariuccia è partita e voi vi siete trovati soli in cella?

Rosetta: Soli per modo di dire, perché eravamo ancora in cinque.

D:Della famiglia?

Rosetta: Sì, della famiglia.

D: Cioè non vi hanno dato motivazioni del perché Mariuccia era stata mandata a Verona?

Rosetta: No, no, mai. Niente.

Mariuccia: Che poi a me avevano detto che poi avrebbero liberato anche loro, presto, entro un mese, avrebbero liberato anche loro, mi dicevano così. Però mi chiedevano di collaborare, di dire se sapevo dove erano i Bonomelli, di andare nelle Ausiliarie, insomma mi facevano delle cose che non avevano senso, perché dopo un mese e mezzo è finita la guerra. Si preparavano il terreno per non farsi ammazzare, secondo me.

Rosetta: Dopo il 20 di aprile abbiamo visto che sul camminatoio intorno piazzavano delle mitragliette in più, chiedevamo a quelli che uscivano che cosa succedeva, “Ah, niente”, dicevano, “niente, noi vediamo sempre i tedeschi e qui ci sono sempre i tedeschi”. “Ma cosa dicono sui giornali?” “Ma”, dice, “dove andiamo a lavorare noi ci sono dei giornali tedeschi, ma non si sa niente. Dicono che resistono.” Verso il 23 o il 24 aprile non è più uscito nessuno a lavorare, più nessuno. Si faceva però sempre la solita adunata della mattina, la prima sirena, la seconda sirena, eccetera, però bisognava stare molto, ma molto chiusi, si poteva uscire solo un paio di volte, anch’io con il bambino non potevo andare in giro come facevo prima. Ci aprivano poco la porta in fondo alle celle, si poteva stare lì nel corridoio. Il 29 aprile era domenica, perché l’ho proprio scritto. Verso le quattro sentiamo che si apre la porta in fondo, passi un po’ pesanti, e si spalanca la porta della cella e c’è il maresciallo Haage e dietro due soldati, me lo ricordo benissimo perché uno aveva in mano sulle due braccia i vestiti, e l’altro aveva un secchiello dove c’erano dentro le nostre scarpe. Allora ci dicono di vestirci,l’interprete dice: “Vestitevi che andate al comando”. Lì nella cella di fronte alla nostra, non mi ricordo più chi c’era dentro, qualcuno che ha assistito dallo spioncino alla scena e ci diceva: “Non muovetevi, ma dove andate? Ma non sapete che vi fanno fuori? Non andate, non dovete uscire.” Comunque i soldati hanno aspettato, quando noi ci siamo rivestiti con le nostre cose, hanno preso le tute e ci hanno accompagnati al comando, e siamo andati su al comando, c’era il maresciallo Thito, siamo andati dentro ed ha fatto una carezza a mio figlio sulla guancia, lui tutto, è stato molto contento, e poi ci ha dato il foglio di scarcerazione a ciascuno di noi e ci hanno messo fuori dalla porta. Allora noi, insomma anche sollevati da un lato, perché dicevamo: “Va beh, ci hanno lasciato così, senza neanche una lira in tasca, senza sapere neanche dove siamo esattamente comunque adesso vedremo”. Noi eravamo convinti che andando per esempio a Bolzano avremmo trovato non so, i liberatori dell’Italia, ed invece ci siamo accorti che lì c’erano tutti tedeschi, tutti, tutto era ancora occupato.

Mariuccia: È per quello che vi hanno dato il foglio di scarcerazione.

Rosetta: Eh beh certo, però avevamo anche paura di far vedere quel foglio di scarcerazione nei quattro giorni che abbiamo impiegato per arrivare a casa, e caspita…

D: Con cosa siete arrivati a casa?

Rosetta: Con i mezzi un po’ di fortuna, mezzi di fortuna e parecchia strada a piedi, ti faccio vedere dov’è Mori?

Mariuccia: Sì, l’ho visto, ho guardato sulla cartina.

Rosetta: È a 12 chilometri da Riva.

D: Tra Rovereto e Riva del Garda, Mori.

Rosetta: Sì, tra Rovereto e Riva del Garda ma più vicino a Riva del Garda che a Rovereto.

Mariuccia: Ma non passa la ferrovia, da Mori, però.

D: Sì, passa.

Rosetta: Sì, passa.

Mariuccia: La ferrovia Verona – Brennero passa da Mori?

Rosetta: Anche la strada passa, andando in macchina vedi che c’è scritto Mori. Sì, anche sull’autostrada c’è l’uscita.

D: Quindi avete fatto tutto il viaggio…

Rosetta: Prima siamo andati all’Aprica, con l’idea di dire che forse là all’Aprica, alla Mendola, oh, mi scusi, alla Mendola, con l’idea che alla Mendola, pensavamo che dopo, allontanandoci dalla Mendola avremmo trovato il sistema per andare a casa. Invece lì alla Mendola abbiamo visto che non c’era niente da fare. A parte il fatto che mio padre non voleva neanche che io fermassi i camion con i tedeschi, perché diceva “No, non li devi fermare, non devi farti prendere su, non devi fare niente.”

Mariuccia: Eh, sì, aveva ragione.

Rosetta: Poi dalla Mendola siamo tornati a Bolzano, a Bolzano ci siamo incamminati verso Trento, appena uscita da Bolzano un camion tedesco era fermo e lì c’era un tedesco che parlava italiano, sì insomma parlava, allora io ho detto: “Non potrebbe portarci un pochino in giù che siamo qui”, eccetera, però mio padre mi diceva: “Non fargli vedere il foglio di scarcerazione, eh?” Allora lui ci ha caricati e ci ha portati ad una decina di chilometri da Trento. Poi siamo arrivati, intanto era venuta sera, lì ci siamo internati dentro e abbiamo dormito in un cascinale, ci hanno lasciati dormire in una specie di veranda semi vuota, ma un freddo dell’accidente, perché non avevamo neanche niente per coprirci. La mattina ci siamo alzati presto, e sempre all’interno, siamo andati verso Rovereto. È stato a quel punto che abbiamo visto che c’era, tutto il territorio intorno, dove non c’erano più soldati. I tedeschi non c’erano più. Abbiamo incontrato soltanto una pattuglia di tre persone ed era la cosiddetta terra di nessuno. Attraversato questo abbiamo dormito lì vicino a Rovereto in un monopolio, in una specie di fabbricato dove c’erano i monopoli, c’erano le sigarette, che non c’erano più, sale e quella roba lì. Lì c’era parecchia gente che dormiva, anzi qualcuno ci ha anche dato una copertina per coprire mio figlio e la mattina del giorno dopo da lì abbiamo camminato e siamo arrivati a Mori, e quindi eravamo al 3 di maggio. A Mori il prete ci ha permesso di dormire in una sacrestia, ma è stata una nottata terribile, perché si sentivano delle cannonate ininterrotte e poi verso le tre o le quattro di notte come uno scalpiccio continuo di piedi, perché questa chiesa è quella che si vede passando; c’è un campanile, lì a Mori, provi a guardare, lei vede una chiesa che adesso è stata ritinteggiata di bianco, e vicino c’è un piccolo fabbricato che era la sacrestia, allora mi sono alzata e ho visto che lì passavano i tedeschi, proprio come si vede nei film, con le giacche aperte, disarmati, e si stavano ritirando. Sono andati avanti, per parecchie ore, saranno state le tre, le quattro del mattino, poi verso le sei e mezza o le sette, ci siamo incamminati, abbiamo detto “Andiamo a Riva”, arrivati dopo un paio di chilometri da Mori invece non si poteva più passare, cioè si poteva passare ma bisognava andare a fare un giro, siamo rimasti lì. Ad un certo punto, dalla parte opposta di questo cratere che oramai era un cratere enorme, abbiamo visto due camionette americane. Allora questi hanno fatto, una è venuta giù perché era un cingolato, e l’altra invece ha fatto il giro e ho detto: “Basta, adesso non andiamo più a piedi”. Infatti sono venuti lì, e allora abbiamo tirato fuori i nostri fogli di scarcerazione, ma quei due bei ragazzi lì americani, hanno preso, sulla camionetta, mia madre, mia suocera e mio figlio, ed io e mio padre ci hanno lasciati lì e ci hanno dato il nome della caserma dove potevamo andare a rintracciare mia suocera, mia madre e mio figlio e se ne sono andati. Noi siamo arrivati a Riva verso l’una o le due del pomeriggio, a piedi, insieme a tutta l’altra gente.

D: Quando vi siete ritrovati, poi?

Rosetta: Al 4 maggio ad Iseo.

D: Ad Iseo?

Mariuccia: Eravamo io e mia sorella che era uscita al 25, mi pare.

D: Dalla prigione?

Mariuccia: Dalla prigione, eravamo andate su in campagna dove eravamo poi in quel posto là perché c’era un casotto ad Iseo e ci hanno detto di venire a casa che erano arrivati.

D: Invece tuo marito?

Rosetta: Mio marito lo hanno lasciato andare quando hanno firmato il trattato di pace.

D: Perché lo avevano riarrestato?

Rosetta: No, no, no, mio marito aveva passato le linee e si era ripresentato un’altra volta al suo comando.

D: Ah. Lui sapeva che eravate a Bolzano?

Rosetta: Sì, lo sapeva perché quando lui è andato nelle montagne, a Piacenza, si è rivolto ad un sacerdote che si chiamava Bonomelli. Questo sacerdote gli ha detto: “Vai in questa località, con questo biglietto, vedrai lì c’è una formazione partigiana e loro potranno metterti in contatto con il tuo comando”. Lui è andato lì, si sono messi in contatto con il comando ma il comando ha dato subito ordine di tenerlo chiuso. Perché, caspita…

Mariuccia: Poteva anche essere una spia. Ma è successo anche a me, sa? Ah, ecco, questa è una cosa che mi ero dimenticata.

D: Cioè?

Mariuccia: Io sono andata dalla Magda, quando sono uscita, treni non ce n’erano, sono stata lì una notte o due a dormire. Lei aveva un amico che era un socialista, e mi ha detto: “Come mai tu sei uscita? Fammi un favore, fammi una relazione.” Io ho fatto una relazione, e quello tergiversava. Insomma pensavano che io fossi uscita prima perché avevo aderito a qualche …

Rosetta: Ah, sì, certo.

Mariuccia: Un altro particolare che mi viene in mente, quando il maresciallo Haage è venuto a dire “Nacht Verona”, il capo campo, era Alfi, è venuto lì con dei bigliettini, ti ricordi?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E me li aveva fatti cucire nella cintura, perché la paura che avevano loro era che alla liberazione del campo li mitragliassero tutti. Allora lui mi detto: “Tu fai così, qui non si può avere contatti con nessuno, allora vai a Venezia, vai dal tale”, un tizio che si chiamava Battistella, “il quale ti indirizzerà”, non so poi perché avrei dovuto andare fino a Trieste, “dal direttore del manicomio di Trieste che è in contatto con …” Non so. Io diligentemente sono sfuggita ai controlli delle SS che poi dopo mi hanno mandata a chiamare, perché dicevo “Devo andare a fare un esame a Milano”, facevo finta di andare a Milano e con mezzi di fortuna sono andata a Venezia, con questi biglietti che dovevano essere recapitati a chi veniva poi a difendere qui, penso io, il campo. Tutte robe che si fanno da giovani perché non si pensa alla stupidità delle cose che si fanno, comunque io ho rischiato di mio perché sono saltata sui camion, ho preso i bombardamenti, sono andata a Venezia, lì mi sono trovata sola, senza soldi anch’io, non sapevo cosa fare, sono andata da questo Battistella il quale non ha voluto assolutamente saperne di ricevermi. E dopo, non so come, da Iseo, attraverso mia cognata Magda e mio cognato che lavoravano a Verona, nell’Ufficio Tecnico Erariale, mi hanno detto di tornare immediatamente perché quelli delle SS mi avevano cercata. E qui finisce la mia storia. Perché le persone a cui io a Trieste avrei dovuto consegnare quello che mi avevano messo dentro nella cintura erano state uccise tutte. Dopo io non ho più pensato d’andare a sentire com’era questa storia, ma mi sarebbe piaciuto sapere che fine avevano fatto questi personaggi.

Rosetta: E quel Battistella?

Mariuccia: E quel Battistella lì, antipatico, io non sono più andata a cercarlo. Perché se fossi andata a cercarlo gli avrei detto: “Ma lei è un imbecille, è un cretino.” Forse aveva paura. Dopo sempre lui, Alfi, mi ha dato un indirizzo di una certa signorina Boato, che mi avrebbe ospitato, io sono andata da questa Boato e ho detto: “Senta, mi manda il tal dei tali” “Ah no, no ma io…”. “Senta, io in strada non ci sto, io vengo a dormire a casa sua”. Sono andata lì e ho dormito due notti, e poi sono tornata a casa.

D: Questo a Verona?

Mariuccia: A Venezia, in questa casa, e poi io non potevo stare via tanto, perché mi cercavano, va beh, se non fossi più tornata non mi facevano niente, per carità, però loro erano là dentro, cosa ne so io? Che si mettono a fare i pazzi. E questa tizia aveva nascosto in casa suo fratello, mi verrebbe il gusto di sapere se quel Marco Boato che è un personaggio del parlamento, non so di che corrente, è imparentato con questa tizia qui, Marco Boato, si chiama.

D: Sì, sì, Boato.

Rosetta: Però è giovane, non può essere lui.

D: No, non è lui, lui è giovane.

Mariuccia: Sarà di quella famiglia lì?

D: Ah, può darsi.

Mariuccia: Guardi, adesso le faccio fare una risata. Abitavano a Venezia al Ponte delle Tette. Che io, ero una ragazzina, lì sperduta, e mi vergognavo a chiedere dov’era il Ponte delle Tette, adesso non si vergognerebbe più nessuno, ma allora ai miei tempi era così. E tutti, quando chiedevo il Ponte delle Tette, si spatasciavano dal ridere. E la situazione non era ridicola.

D: Certo.

Mariuccia: Non c’era niente da mangiare, non c’era niente da dormire. Non si sapeva come fare a campare. Questo Gian Antonio era di Milano?

D: Era un trentino, della Val di Non che però era al convento dei frati cappuccini di Milano, in che via, questo non me lo ricordo, ce l’ho scritto, però eh. Sant’Ambrogio, mi pare.

Mariuccia: All’interno, avevo disegnato il maresciallo Haage che faceva l’appello, perché mia sorella non si ricorda, forse perché lei stava nella cella, ma io con la curiosità di fare i disegni mi ero nascosta dietro gli angoli delle baracche, siccome godevo di una certa autonomia, essendo un prigioniero speciale come lei, non mi dicevano niente, però non mi avevano visto disegnare. Poi ho disegnato la punizione che hanno fatto ad un tizio che aveva rubato, al quale hanno legato le braccia dietro e gliele hanno rotte a legnate. Insomma avevo, guardi, saranno stati una ventina di schizzi di questo genere. E c’era una signorina inglese, che era l’istitutrice di casa Besana, quello dei panettoni, che mi insegnava un po’ l’inglese, veniva lì nella nostra cella.

D: Ma lì nel campo era?

Mariuccia: Sì, nel campo, era come prigioniera civile, inglese. Era ammiratissima di questi fogli, mi diceva di non perderli. Perché erano molto belli, poi ho fatto altri ritratti, alle persone alle quali poi li ho dati, una era questa Luciana Menici di cui non riesco a trovare l’indirizzo e uno era un certo Bianco.

D: Com’è la storia del sabbiolino, allora?

Mariuccia: Certo, siccome mio nipote piangeva sempre, quando chiudevano la cella ed andava avanti un’ora a dire “Aprimi, aprimi, aprimi” e poi si metteva a cantare, bisognava cantare. Allora io, anche perché di giorno non si sapeva cosa fare con questo bambino, facevo sempre i disegni delle fiabe. L’unico che mi era rimasto era questo disegno del nano sabbiolino, c’era un gran castello, ma era piccolissimo, grande come questo foglio, favoloso con tutte le stradine rotonde un ponte, e su questo ponte passava il nano sabbiolino, con il suo berretto a punta e la lanterna in mano, e il sacchetto della sabbia, lui guardando questo disegno, si divertiva e si quietava. Poi avevo fatto altri disegni che sono andati persi, sempre per il mio nipotino li facevo. Ma quelli che mi dispiace di più sono i disegni delle adunate, delle partenze, perché quelli erano veramente. Mi ricordo che ne ho fatto uno una volta, con il maresciallo Haage con il frustino dietro, gli stivali e avevo fatto il sedere quadratissimo, proprio sembrava un quadro cubista, con questo culo grosso, tutto dritto, quello me lo ricordo ancora. Li facevo con la matita o con la penna, ma purtroppo io non li ho più. Mi è rimasto questo.

D: Che cos’è quello?

Mariuccia: Questa era la cella dove eravamo, fatta là. Dopo, siccome vedevo che si stava cancellando, perché la matita è molto delicata, c’era una mostra intitolata “Il convivio”, aveva come tema il convivio. Ho detto, pensa, ti faccio vedere io il convivio. Allora ho fatto, un paio d’anni fa, ho preso questo disegno e da questo ho tratto quell’incisione che è lì, e l’ho intitolato: “Natale nel Lager”, più bel convivio di quello.

D: Prima, Mariuccia, raccontavi un episodio molto importante di don Berselli, che veniva nella vostra cella.

Rosetta: A grattarsi il formaggio sulla zuppa.

Mariuccia: Se la mangiava solo, solo, non ha mai dato un cucchiaio neanche al ragazzino.

D: Neanche?

Mariuccia: Mi ero fatto un’idea negativa di questo don Berselli, però adesso che sono più vecchia, diciamo che sono vecchia, capisco che l’essere umano è così prevalentemente, e se uno vuole sopravvivere deve essere così.

D: Ti ricordi anche di don Vismara?

Mariuccia: Di don Vismara mi ricordo poco, perché era uno che parlava poco, era una persona sempre depressa, non aveva niente da dire. A mia impressione non comunicava insomma, mentre don Berselli era un uomo intelligente che comunicava, don Gaggero lo stesso, don Vismara era proprio un prete, non so come dire, può darsi che fosse anche intelligente, nel senso che in quei posti lì è meglio parlare poco, delle volte una parola detta in più.

D: Mariuccia, che cos’è che ti ha aiutato a sopravvivere all’interno del Lager?

Mariuccia: Ma sa, da giovani si hanno delle risorse spirituali e psicologiche pazzesche, che mi ha aiutato a sopravvivere era la convinzione che tutte le cose finiscono, e che se avessi avuto pazienza sarebbe finita anche quella lì. Poi mi ha aiutato a sopravvivere il sentirmi, guardi che questo è un concetto che può sembrare, come dire, romantico. Il sentirmi parte di un tutto che era coinvolto in una grande tragedia, e quasi quasi stavo meglio lì, di quando sono uscita. Perché quando sono uscita mi sono trovata così sbandata, sola, con questi fascisti che mi correvano dietro a tutte le ore, avevo sempre due fascisti davanti alla casa che mi sorvegliavano. Volevo dire che avevo perso il mio essere ingranaggio, il mio essere piccola rotella in un ingranaggio, che faceva, che macinava un qualche cosa e di cui io facevo parte. E di cui avevo anche una parte non puramente passiva, perché fa questa faccia?

D: Perché occorre essere molto saldi nelle proprie convinzioni.

Mariuccia: Le dirò che per me il Lager è stata una sofferenza morale pesantissima, perché io di notte avevo delle forme d’angoscia che non dipendevano dal fatto che io avevo paura o avevo fame, ma dall’incapacità che avevo di rendermi conto del perché succedessero queste cose, del perché una persona venisse presa, portata in Germania, presa a calci mentre saliva su un camion, usciva proprio fuori da una mia capacità di comprensione umana quello che vedevo.

D: Cioè non c’era nessuna spiegazione logica, razionale.

Mariuccia: No. E non c’è neanche adesso. Non l’ho mai trovata.

D: Infatti.

Mariuccia: E poi l’angoscia, perché io avevo anche un ragazzo, col quale ero molto affezionata, che sua madre lo aveva obbligato ad arruolarsi nella Monte Rosa, e lui si era fatto mandare in Piemonte, sulle vette, se lei conoscerà mio marito vedrà che uomo è, ha capito? E lui era disperato perché ha capito che io ero nel Lager e cercava di fare di tutto per farmi uscire, ha capito? Beh, questa è un’altra cosa, poi dopo io non sapevo niente di dove era lui, cioè sapevo che era là, che non faceva per carità i rastrellamenti, era stato mandato a costruire, alla guerra contro i francesi, mi dica lei il senso. Quindi c’era anche questa assoluta mancanza d’un senso nelle cose che vedevo fare, perché, mi dica la verità? Ha senso prendere la gente, caricarla sui camion, mandarla in Germania, ha un senso impiegare energie pazzesche per tenere tutta questa gente nei Lager? Anche da un punto di vista pratico non ha senso. Se loro non avessero sprecato tutte le loro energie in questa costruzione abnorme, impiegato uomini, armi, forse forse riuscivano a fare meglio la guerra, penso io. Addirittura da un punto di vista pratico, secondo me era una cosa cretina.

D: Beh, ma lì dovevano eliminarli tutti, eh? E l’unico modo per eliminarli era …

Mariuccia: Ma è questo che non ha senso.

D: Lo so che non ha senso. Però il loro progetto, la loro ideologia era quella lì.

Mariuccia: Sì, l’ho letta, ho letto la storia del Terzo Reich e l’Ordine Nuovo di Hitler. Dopo, quello che non capisco, è che ci fossero, anche nel comunismo ci fosse questa, guardi, io le dico subito che non sono una comunista, non lo sono e non lo sarò mai perché purtroppo il mio spirito è più anarcoide. Io mi definisco liberale ma forse sono più anarcoide che liberale, poi una mia convinzione di tipo più profondo m’impedisce d’accettare qualsiasi ideologia che minacci la libertà, anche di pensiero. Preferisco il disordine, la confusione, la difficoltà del vivere, l’errore a qualsiasi cornice che mi obbliga a vedere la verità che mi vogliono far vedere gli altri. Questo è il mio modo di pensare.

D: Ritornando un attimo ai disegni del Lager, la documentazione che voi siete riuscite a portare via, portare fuori è, oltre a quell’originale lì, il testo…

Mariuccia: Alcune lettere che ho scritto al mio moroso e che lui ha conservato, e che sono anche abbastanza interessanti perché parlano di queste cose di cui ho parlato io adesso. Naturalmente non si poteva scrivere quello che si vedeva, però s’intravede l’atmosfera di questo campo, si intravede molto bene. E poi questi disegni, il rigaudon, poi ho questa lettera che hanno scritto gli ebrei a mio padre.

D: Gli ebrei hanno scritto questa lettera al babbo?

Mariuccia: Questo tizio era un ebreo di Genova, perché finita la guerra, dopo mio padre si è dato da fare per rintracciare quelli che aveva conosciuto. Questa lettera, scritta da questo ebreo di Genova, lei legga. Qui parla di molti che sono partiti da Bolzano. Dice: “Non so se la presente la raggiungerà, ma l’invio ugualmente per dare loro mie nuove. Dopo la mia partenza avvenuta, come loro si ricorderanno, il 14 dicembre ’44, credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei, tutti gli altri, da quanto ho potuto sapere, sono periti a Flossenbürg ed altrove. Io ho percorso un ben duro calvario a Flossenbürg, Hersbruck e Dachau portando in spalla macigni e tronchi d’albero, facendo una fame nera. Sono tornato il 4 luglio in Italia dove ho ritrovato la famiglia al completo, ossia la mamma ed il mio maggior fratello con moglie e figli che poterono nascondersi e non ebbero noie. Athos Polacco, a Bolzano nella squadra dei gabinetti, è perito a Hersbruck di tifo e diarrea sanguinosa. Mentre gli altri li lasciai tutti a Flossenbürg dove furono visti ancora in vita il 23 gennaio. Pare che anche la mamma di Athos e sua sorella Iride siano perite. Altri dicono che sono illesi, altri ancora a Fürstenberg, vicino a Berlino, ma notizie precise non ce ne sono. Quanto a me ho avuto parecchie fortune, soprattutto quella di stare a lungo nell’infermeria a causa del congelamento dei piedi. Non solo, ma di esserci potuto entrare ed esserci stato molto lungo ed intanto è avvenuta la liberazione. […] Non mi dilungo in altri particolari perché sono tutti orribili, a raccontarli tutti ci vorrebbe un romanzo. Ora sono di nuovo con la mamma e ieri sera essa ha voluto festeggiare con speciale rassegna di vivande la data anniversario della mia partenza per la Germania. Chissà che cosa saprà fare ancora il 4 luglio del ’46, data del mio arrivo. Vi saluto e sto bene, come condizioni generali, ma il piede sinistro mi dà ancora parecchie noie, il medico dice che sono cose lunghe ma alla fine guarirà. Il piede destro invece, che pure era congelato, mi ci hanno amputato il terzo dito, in quell’infermeria che non capivo bene se fosse una stalla o un bordello. Sarò ben lieto se vorranno darmi loro notizie, ho saputo che qualcuno che era a Bolzano con loro è stato liberato a Natale insieme con quel musicista tedesco alto come una cattedrale e grosso in relazione […]”.

D: Mariuccia, questa lettera qui, questo Paolo, l’ha scritta al vostro babbo per l’aiuto?

Mariuccia: Per l’aiuto che aveva dato …. Anche in questa lettera ci sono delle cose pazzesche. “Ho ricevuto la di lei graditissima lettera del 7 corrente e la ringrazio, con vivo piacere ho appreso che loro tutti sono in ottima condizione di salute e hanno ripreso la solita vita. Ho letto con interesse tutto ciò che ella mi scrisse, ma quando avrà tempo e volontà la prego pure d’informarmi delle circostanze nelle quali fu liberato il campo di Bolzano. Che ne fu di Hans e di Werner? Dove sono andati a finire quei figli di cani d’ucraini? È vero che il maresciallo Haage è stato impiccato dagli internati? E dove finì quella sua famosa moglie, quella grassa impiegata del comando? Intanto posso dirle che si è salvato Stefano Vela, il calzolaio napoletano che lavorava a Bolzano nella calzoleria e che fu inviato in Germania in seguito, pare ai dissidi col capo calzolaio. Fu a Flossenbürg e vi arrivò pochi giorni dopo la mia partenza e vi conobbe Fontanella e tutta la compagnia. E’ tornato a Genova, molto malandato in salute e ora si è assai rimesso. Però ci ha rimesso i denti, buttatigli giù a pugni dalle SS del campo. Quel tal giudice piemontese di cui lei accenna, Emilio Sacerdote, che si spacciava per Emilio Dote, l’ho lasciato a Flossenbürg e altro non so. Quasi tutti i parenti di quei disgraziati mi hanno scritto chiedendo notizie dei loro cari, ma non certo quelli del predetto sacerdote. Per quanto riguarda Danilo Panciatici, temo forte che sia perito. La vigilia di Natale del ’44 eravamo tutti quanti, gli ebrei italiani, i più validi, in un punto del cortile del campo ed eravamo occupati a impilare baracche smontate agli ordini dell’ingegner Lowenthal che funzionava in certo senso da Vorarbeiter. Mentre io ero da una parte del cortile vennero delle SS, prelevarono Dante e Italo Momigliano, l’ingegner Italia, l’ingegner Schoenberg, Viro Endrec, Curiel, Sauro Ascoli, Danilo Panciatici e li portarono via. Ho saputo che l’ingegner Italia ed i due Momigliano risultano deceduti dagli archivi di Flossenbürg, ma degli altri non so nulla. Io mi salvai da quella spedizione perché non mi videro. Ciò che mi meraviglia è che manchino pure notizie di Lowenthal, in quanto a Flossenbürg era riuscito a farsi aiutare dai capi del blocco e gli avevano levato il nastro giallo da ebreo e lo avevano mandato niente meno che a controllare la locale fabbrica di aeroplani Messerschmitt. Quanto a me, Iocas, a Flossenbürg ero riuscito a lavorare in sartoria, lavoro assai ambito perché retribuito con viveri supplementari. Quando arrivai a Milano seppi di sicuro che allora, il 5 luglio, ancora non vi erano nuove. Jovel Liss e quell’altro turco poco simpatico e bigotto erano riusciti a far entrare dei pezzetti d’oro nel campo e a Flossenbürg con quel sistema si era procurato un incarico, non so quale, al famigerato blocco dei morti dove venivano inviati gli incurabili, i vecchi, i minorati ai quali veniva fatta fare una cura intensiva di calci nel petto e altrove, nonché a sei ore giornaliere di gelo bavarese fuori baracca. Il capo blocco era il più ricco di tutti, potendo contare su venticinque, trenta morti giornalieri aveva a disposizione venticinque, trenta minestre in più al giorno, venticinque, trenta pezzi di pane e margarina in più al giorno che commerciati con gli altri blocchi gli davano un benessere particolare. La ringrazio tanto per le sue frasi cortesi ma non fui io ad afferrare la fortuna, fu lei stessa che si sbracciò ad afferrare me con una serie di casi e coincidenze una meglio combinata dell’altra”. Dopo dice che sarebbe venuto a trovarci, invece non è venuto, e poi fa un’offerta commerciale. Mio padre faceva il conciapelli, e dice che vende, “Vendiamo un fottio d’olio di pesce in alcune concerie, ne avremo dell’altro, se l’offerta le interessa mi avverta, possiamo disporre anche di altri prodotti chimici. Lascio di scrivere per non farla tanto lunga, che ci sarebbe materia per un romanzo intero, ricorda fra i genovesi Emilio Terreni, quello così grande e grosso ed il commendatore Roberto Lepetit, sono periti tutti e due in Germania. Tanti cordialissimi saluti a lei e famiglia”. Paolo Weisser.

D: È sempre lui, è sempre Paolo?

Mariuccia: Sempre lo stesso. Perché mio padre poi ha risposto, ha chiesto, e purtroppo di queste lettere ce n’erano tante, sono andate perse quando è morto mio padre, perché io non ho avuto l’accortezza di fare subito lo spoglio di tutto quello che c’era in casa. Ho fatto lo spoglio ma molte cose, ero sola, ho impiegato tre mesi a mettere a posto le carte. Molte cose mi sono sfuggite. Comunque sono interessanti, vero?

D: Parecchio interessanti. Sono documenti importantissimi.

D: Quelli sono documenti, non sono fantasie. Questi Momigliano…

Mariuccia: Erano i cugini del famoso Momigliano.

D: Ma loro sono originari di dove?

Mariuccia: Io credo di Torino.

D: Perché Arnaldo Momigliano è di Caraglio, provincia di Cuneo, lo storico.

Mariuccia: Erano cugini diritti dello storico Momigliano.

D: Allora sono piemontesi, insomma.

Mariuccia: Io li ho conosciuti perché erano capo cessi, e siccome si avvicinavano spesso alle nostre celle, perché gli si dava qualcosa, poi scambiando le parole, scambiando discorso, ci si conosceva, si capiva che erano persone con le quali era possibile avere un contatto un po’ umano, diciamo, ci si erano affezionati molto.

D: Poi avete recuperato la poesia del francese dedicata a Ennio?

Mariuccia: Sì, che mi dispiace non avere più il testo della canzone dei prigionieri che aveva scritto Gurtler. E l’aveva scritta, mi aveva promesso che me l’avrebbe data, io non ricordo guardi, penso che non ci fosse perché se no l’avrei conservata come ho conservato questa.

D: Poi c’è il diario.

Mariuccia: Il diario di Vittorio Duca. Vittorio Duca, quando io sono uscita, mi ha accompagnato sulla porta della cella e mi ha detto: “Ti raccomando Mariuccia, vai a casa e datti da fare per la Resistenza, guarda che bisogna fare qualcosa.” E infatti io così ho fatto, e ho cercato poi di fare quello che potevo fare, rifornivo i partigiani di cartucce, perché oramai mia sorella era in prigione, andavo a prenderle al poligono di tiro, e dopo, si chiamava Boccacci, Leone Boccacci, il 25 aprile nei pressi del poligono transitava una camionetta di tedeschi, con su due tedeschi. Hanno alzato le mani perché hanno visto della gente armata, facendo segno che si arrendevano. Uno di quegli imbecilli, mai sufficientemente classificati come tali, del 25 aprile con i fazzoletti della liberazione, hanno sparato ad uno e lo hanno ucciso, l’altro ha preso la camionetta e l’ha girata ed è andato via. Dopo un’ora sono arrivati lì in un drappello e hanno facilitato tutti quelli che c’erano nel poligono, sedici persone, c’era anche un ragazzo di quattordici anni, una ragazza di quattordici anni che era mia amica, perché si andava lì a fare gli allenamenti, si andava lì a sparare. Per dire le cose che succedevano. E questo tizio che durante tutta la Resistenza aveva procurato cartucce sottobanco, che si andavano a prendere là in bicicletta e si mettevano nello zaino e si portavano fuori ad Iseo, che poi venivano a prenderle dal monte, lì alla nostra casa, ecco perché dicevo che eravamo già noti come rompiscatole diciamo. Io non ho fatto niente per carità, zero, però c’era questa situazione.

D: Mariuccia, dopo il Lager, in questi anni dopo il Lager, cosa è rimasto dentro di voi di quell’esperienza? Cioè vi è costata, durante la vita, nel ristabilire i rapporti, per esempio con gli amici a Iseo, con i conoscenti, con altri?

Mariuccia: Guardi, c’è stato un periodo in cui avevo un certo fastidio a parlare con gente che sapevo che era d’idee piuttosto di destra, diciamo, fasciste. Perché io ho constatato che la mentalità fascista, non è perché uno sia fascista, ma è proprio la rotella del cervello che fa essere fascista uno anche se è comunista o se repubblicano. Perché è una specie di volontà di sopraffazione, di mancanza di senso critico, di atteggiamento autoritario. Questa è la mentalità fascista, il non voler ascoltare le ragioni altrui, d’aver in mano la verità, io la penso così. Poi la prima cosa che ci ha afferrato è il ritmo del vivere che dovevamo riprendere e che avevamo tralasciato. Io per esempio avevo fatto cinque o sei esami in tutto all’università; la mia preoccupazione è stata quella, in due anni ho finito dodici, tredici esami d’università di filosofia, quindi avevo sempre la testa sui libri e non mi sono neanche…, e poi ci si interessava un po’ della vita politica. Mio padre era un vecchio liberale, era stato ai tempi di Giolitti, un giolittiano anti, come si dice? Contro l’entrata in guerra insomma, neutralista, sa che allora c’erano. Poi ci siamo messi a fare anche lo sport e credo che uno psicologo direbbe che c’era la volontà di rimuovere quest’esperienza che in fondo poi è stata un’esperienza breve, profonda fin che vuole, però era stata un’esperienza breve non ci aveva costretti, eravamo sopravvissuti. Prima cosa che io ho detto, noi siamo degli esseri fortunati, questo ho pensato. Abbiamo avuto questa esperienza ma siamo persone felici, perché siamo venuti a casa integri, non ci hanno picchiato, non ci hanno ammazzato, ci hanno privato d’un paio d’anni di vita, ma adesso noi ce la riprendiamo. Questo era il discorso che si faceva. Poi c’era un certo ottimismo verso la costruzione di una nuova società, che era quella che ci aveva un po’ sostenuto, perché nella mia famiglia noi abbiamo sempre ricevuto un’educazione di tipo liberale. Noi la dittatura da ragazzi la guardavamo con simpatia perché eravamo un po’ scemi, mettevamo la camicetta, andavamo a fare l’adunata, ma in casa ci davano degli imbecilli. “Voi non sapete che cosa vuol dire vivere in un regime di libertà. Questa è dittatura”. Mio padre quelle cose lì ce le aveva spiegate. Poi dopo invece un po’ alla volta ho capito che erano imbecilli i fascisti ma erano imbecilli anche gli antifascisti. Cioè che la stupidità si divideva in parti uguali nell’umanità. Anche se si tenta di costruire una società democratica e libera ci sono sempre delle cose che io non capisco e che perlomeno non rispondono a quello che io pensavo fosse una società democratica e libera. E come dico dopo c’è stato anche un periodo, non vorrei dire una stupidaggine, in cui quasi la gente non voleva sentir parlare di queste cose. E la gente non ne vuole sentir parlare neanche adesso. La gente non vuole essere disturbata, vuole mangiare, bere, dormire e fare il week-end, possibilmente rimanere ignorante perché se uno non è ignorante affina anche la sensibilità e quindi è esposto di più ai colpi di fortuna come diceva Dante. Quello che ho notato io è che eravamo come degli estranei. Non entravamo, io non sono mai entrata nella società a pieno ritmo, mi sono sempre sentito un po’ diversa, mi scusi, sarà una forma di presunzione.

D: Ma oltre a sentirsi diversa…

Mariuccia: Sarà anche per il mio carattere, intendiamoci, non perché sia stata nel Lager, perché forse sarei stata la stessa cosa. Io per esempio certe forme d’insensibilità verso le cose che si vedono non riesco a capirle, mi danno fastidio. Una cosa che mi emoziona e agli altri non dice niente, ce ne sono moltissime di cose, io m’interesso, mi emoziono, mi agito per questo o per quello, benché sia già una vecchia, voglio dire, non ho perso la capacità d’indignarmi, la capacità di ammirare … Appena usciti, a casa abbiamo ripreso a vivere come tutti, no? Non siamo andati a cercare, non so, a dire “Noi siamo gli eroi, noi siamo i martiri”, perché non è neanche vero tra l’altro, perché quando uno salva la sua pelle viene fuori un po’ intero, che eroismo è? Però quello che, forse è una cosa curiosa quella che le racconto, che è emblematica. Io ho fatto l’esame di latino con un professore severissimo, era un luminare della lingua, il professor Castiglioni, nientemeno che autore. Vado dentro, tutti avevano una paura matta perché bocciava di brutto, io avevo questa specie di sicurezza che mi veniva un po’ dal fatto che avevo fatto lo sport, e avevo il senso sportivo anche della sconfitta, e un po’ dal fatto che avevo sulle spalle delle esperienze, di fronte alle quali l’esame di latino, sì, era una cosa preoccupante, ma non drammatica. Allora vado dentro, ho fatto bene tutto il mio esame, e lui mi fa leggere un brano di Seneca. Io l’ho letto e tradotto correttamente, mi guarda e mi fa: “Signorina, la potenza del latino lei non sa neanche dove sta di casa”. Io ho fatto un pensiero, non so se si può dire, internamente un turpiloquio, ho detto: “Va a farti friggere te e la tua potenza del latino, perché a me in questo momento non me ne frega niente”. Ero uscita dal Lager da sei o sette mesi. Ed un’altra volta, durante una lezione di filosofia teoretica, era sorta una discussione, e io non riuscivo più a capirla la filosofia teoretica, una discussione tra il professore ed il suo assistente, il quale si domandava se, adesso io non ricordo se si trattasse di Leibniz o dell’Idealismo, se in quel caso, di quell’espressione che lui aveva appena illustrato, l’io si ipostatizzava. Questa frase mi ha fatto male, “Ma come”, dico, “questi qui stanno a pensare se l’io si ipostatizza e ci sono milioni di cadaveri sepolti sotto terra. E io ho visto Armando Sacchetta senza gamba, Vittorio Duca che è morto a Buchenwald, mio fratello che è precipitato in mare, è morto in mare, sei milioni di ebrei gassati, tutta l’Europa per aria, dicevo, le mamme con i bambini che non sapevano come fare ad entrare nella camera a gas…”, ho fatto tutto una carrellata. Che l’io si ipostatizzasse come dicevano loro, per me è stato un motivo d’aprire uno scenario spaventoso e di farmi rifiutare l’io che si ipostatizza. Poi ho fatto lo stesso i miei esami, benissimo, ho preso un bellissimo voto. Ecco, che lei mi ha chiesto cos’è stato il dopo Lager. Sono stati tutti questi episodi.

D: Ecco, ma gli amici, pesava molto il fatto di essere stata nel Lager?

Mariuccia: Ma no, guardi che noi abbiamo avuto degli amici, io ho visto anche la strage dei miei amici che sono andati in guerra, ne abbiamo persi molti. E’ quello che le ho già detto prima, ho avuto la sensazione di una frattura, di un mondo che prima era così e poi non poteva più essere così. Perché noi poi ci siamo sempre portati in mente anche il dolore per queste persone scomparse, questa gente che era giovane come noi e che è morta mentre noi eravamo vivi, ecco, c’è poco da dire. Certo che il mondo non è più stato come prima, non perché siamo stati nel Lager, ma per quello che è successo. Non poteva più essere uguale.

D: Dopo il Lager, non può più essere uguale?

Mariuccia: No, non si poteva più pensare, fare poesia, fare pittura, fare musica, fare filosofia allo stesso modo.

D: Questo è un pezzo che dice Adorno, eh?

Mariuccia: Può darsi che sia anche detto da Adorno. Salvo poi recuperare i vecchi valori in una maniera diversa, inserirli in una maniera diversa nella società, non so come spiegarmi, non più come pura e semplice cultura ma come supporto per la fondazione di un mondo un po’ meno circondato da filo spinato, io non sono mai stata capace d’odiare. Non ho odiato mai nessuno. Una cosa che mi ha insegnato ad odiare è stato il Lager, io posso dire che ho imparato a odiare nel Lager. Io ho imparato a odiare i tedeschi, ho imparato a odiare i torturatori, gli ucraini, i violenti. Ho imparato a odiare lì, perché non sopportavo la crudeltà che vedevo esercitare. Questa è una cosa che nasceva dal mio carattere. L’odio verso la crudeltà, il senso di compassione che forse è anche una cosa che mi sminuisce come persona, mi impoverisce. Io credo che non sia vero, però. Però io nel Lager ho imparato a odiare. Non sono più stata capace di non odiare le cose che secondo me non erano giuste. E quindi quando anche adesso vedo un atto di violenza gratuita, anche un atto di violenza verso un animale, un comportamento disumano verso qualcuno, verso qualche cosa, io mi emoziono, mi imbestialisco, e intervengo. Tanto che mio marito mi dice, “Ma stai calma, ma cosa fai? Ma no, ma stai zitta”. “Ma come devo stare zitta? Non sai che il mondo va male perché tutti stanno zitti? Se tutti parlassero e dicessero quando è il momento giusto”. Mi è venuta in mente una riflessione molto profonda che fa il Manzoni nel suo romanzo, quando parla dell’uomo perseguitato e dice che il persecutore è doppiamente colpevole, perché perseguita un altro e suscita nel perseguitato dei sentimenti di odio.

Longhi don Daniele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.

Messina Francesco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Francesco Messina nato a Pistoia il 24 gennaio 1926, sono stato arrestato il 9 giugno 1944 a Montemurlo, un paese vicino a Pistoia, dalle SS italiane.

Ci hanno portati al Comando SS di Firenze in via Bolognese dove siamo rimasti per tutto quel giorno, di lì alle Carceri di Firenze, le Murate, dove siamo rimasti tre o quattro giorni, di lì a Fossoli di Carpi, Modena.

D: Scusa, Franco: vi hanno arrestati a Montemurlo, perché?

R: C’era stata la scoperta di una radio clandestina, Radio Cora in piazza D’Azeglio a Firenze, vi era stata una delazione per cui avevano arrestato tutti quelli che erano lì, qualcuno (inutile fare i nomi) parlò e portò le SS dove eravamo noi a Montemurlo.

D: Tu facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, andavo e venivo.

D: A Montemurlo avevate il vostro ….

R: Sì, c’era il Comando.

D: Vi ha arrestato la SS tedesca, in quanti vi hanno arrestato?

R: Cinque, due erano soldati italiani del sud, radiotelegrafisti e furono fucilati a metà giugno, i nomi che sapevo io erano Gallo e Panerai, ma non credo fossero i nomi veri.

D: Non sei mai stato interrogato?

R: Sì, sì!

D: Dove?

R: Al Comando SS.

D: A Firenze?

R: A Firenze in via Bolognese ma un interrogatorio abbastanza buono, sapevano già tutto.

D: Dopo quanti giorni ti hanno portato a Fossoli?

R: Tre o quattro giorni.

D: Sempre voi cinque o anche altri?

R: I due li fucilarono quasi subito.

D: A Fossoli in quanti vi hanno portato?

R: In tre.

D: Con cosa vi hanno portato?

R: In pullman.

D: Sei arrivato a Fossoli quando, se ti ricordi?

R: Direi a metà giugno del 1944. A Fossoli sono rimasto abbastanza a lungo fino al 21 luglio del 1944, di lì a Bolzano.

D: Restiamo un attimo a Fossoli, ti hanno immatricolato? Ricordi il tuo numero?

R: Sì, 1695!

D: Ricordi in che baracca eri?

R: Ero al 21°

D: Cosa facevate a Fossoli, lavoravate?

R: Poco, pochissimo, c’era da fare qualche lavoretto, spianare il campo ma si stava bene ….

D: Ricordi se nel campo di Fossoli hai incontrato dei religiosi anche loro deportati?

R: Sì, don Camillo che era di Bormio o di Livigno, poi don Angeli di Livorno, poi vi era uno grosso grosso che era il parroco di Correggio in Emilia. Ero a Fossoli quando ci fu la fucilazione dei 70 (si dice poi che erano 68) …

D: Come è avvenuta quella selezione, te la ricordi?

R: Benissimo! Una sera all’appello chiamano una lista di nomi, soprattutto immaginavamo noi che andavano in un altro campo, cosa che era logica.

Alla mattina si seppe che li avevano fucilati, si seppe in una maniera fortuita e fortunosa perché le donne del campo videro che una donna del campo aveva non so se un foulard che sapevano bene apparteneva a uno di loro, siccome questa donna era l’amica, l’amante, l’interprete spia di un tedesco italiano, parlava francese, tedesco, la bacchettarono bene bene e seppero tutto quello che dovevano sapere. Il comandante del campo disse che erano stati fucilati al Poligono di Carpi dove già correva voce nel campo che gli ebrei delle baracche, ebrei misti, non sapevano se considerarli ebrei o no, erano stati, qualcuno diceva, a scavare una fossa al Poligono di Carpi il che faceva capire il resto.

Conoscevo uno di questi ebrei, mi disse “Siamo andati a scaricare dei mobili”, non poteva fare diversamente, in ogni caso si seppe, mi pare avvenne il 12 luglio.

D: Quando eri deportato a Fossoli potevi comunicare con l’esterno del campo con i tuoi genitori, ricevevi pacchi o lettere?

R: Sì, una lettera la potevi scrivere ma non ci fu nemmeno il tempo.

Dopo nove giorni, il 21, la sera rileggono un altro elenco di nomi e questa volta vi ero anch’io per andare in un altro campo, non si sapeva se era vero o se era un campo come l’altro.

Si partì, questa volta su dei camion, ci portarono fino al Po dove si aspettò un barcone che venne dall’altra parte e si arrivò verso Mantova, lì con altri camion ci portarono a Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bolzano?

R: Piccolo, brutto, mentre Fossoli era bellino nel suo genere di campo di concentramento, lì c’erano queste due baraccone, non c’erano nemmeno i pagliericci, proprio il primo trasporto che arrivò a Bolzano, dentro vi erano dei militi fascisti prigionieri, non ho mai saputo il perché, non abbiamo mai avuto contatti salvo che il capo baracca ci fu assegnato tra questi signori, dicevano che fossero dei fascisti dissidenti, ricordo che avevano un contegno molto militaresco, divise da milizia, marcavano a passo e bersaglieresco, un po’ il militarismo straccione che usava a quei tempi.

D: Ricordi il blocco che numero era?

R: No, perché non avevano ancora i numeri!

D: Il tuo numero di matricola lo ricordi?

R: Rimase quello lì perché ancora non era organizzato Bolzano, fu dopo che fu trasferito il comando del campo di Fossoli, ripeto, fummo il primo trasporto che arrivò e che partì.

D: Vi erano anche delle donne?

R: Quando c’ero io no, dopo so che ci sono state, eravamo un centinaio da Fossoli più i fascisti che abbiamo citato prima.

D: Questo capo baracca chi era?

R: Un fascista.

D: Non ricordi il nome?

R: Assolutamente no, non stava nemmeno con noi, noi non stavamo con lui data la sua origine, non era proprio il tipo adatto, mentre a Fossoli il capo baracca era eletto da noi.

D: Dei tuoi amici di Fossoli in quanti sono venuti in trasporto con te a Bolzano?

R: Un centinaio.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Sì! Luperini, Malagodi, tutti morti! Ve ne erano molti, venivamo tutti dallo stesso campo.

D: Lì siete rimasti quanto tempo?

R: Dieci, quindici giorni!

D: Eravate impiegati a fare che cosa?

R: Portare i pezzi di baracche per costruire il campo per gli altri, so che Bolzano divenne un campo abbastanza importante.

D: Non hai potuto più comunicare con casa?

R: No, no.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno messo su dei vagoni e ci hanno portato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno messo su dei vagoni dove?

R: Credo alla stazione di Gries, non ricordo che fosse una stazione vera con dei passeggeri, probabilmente, era una specie di scalo merci.

D: Nel trasporto in quanti eravate?

R: Eravamo in 120, 130, è passato molto tempo!

D: Più o meno quanto è durato il viaggio?

R: Siamo partiti nel pomeriggio e siamo arrivati la sera a Mauthausen dove si entrava sempre di notte, se arrivavi di mattina rimanevi ad aspettare che fosse notte perché così non vi era gente per le strade, alle 9 o alle 10 aprirono e cominciarono i guai perché fino ad allora non dico fosse una villeggiatura ma quasi e la lunga marcia fino al campo, l’ingresso nel campo e la sosta fino alla mattina al muro del pianto, dove c’erano le docce, quelle vere, non quelle simulate a camera a gas. Era estate, peggio per quelli che ci capitavano d’inverno dove la gente moriva di freddo, doccia, vestiti non con le divise regolamentari a strisce ma con stracci, alcuni erano abiti borghesi, altri divise militare, io avevo un paio di pantaloni rossi militari, forse francesi del tempo di Napoleone, e lì si entrò nei blocchi di quarantena che non era una quarantena sanitaria ma attitudinale, per insegnarci come dovevamo comportarci e lì ci rimasi un mesetto tra una baracca e l’altra.

D: Ricordi le baracche quali erano?

R: Mi sembra che la prima fu la 16. Era la prima che si trovava entrando perché vi era un altro campo della quarantena, poi la 17 e poi per pochi giorni alla 18 che era quella dalla quale poi partimmo vestiti con la divisa, il numero, il mio era 82437. Il triangolo rosso, IT, (si diceva che avevamo la targa), il numero sul petto a sinistra, il numero sulla gamba destra e una cosina di latta attaccata al polso, non lo tatuavano come avveniva nei campi, se si scappava già vi era la pettinatura strana con la striscia rasa, bastava questo per essere ….

D: Cosa ricordi di questo mese di Mauthausen?

R: Abbastanza male, i giorni erano brutti e le notti brutte come i giorni. I giorni erano brutti perché si lavorava generalmente alla cava, 186 scalini senza scarpe, in mutande oppure con questi strani vestiti che avevamo ma niente zoccoli, con le pietre sulle spalle, su e giù, su con la pietra giù senza pietra.

Di notte si dormiva in quattro, vi erano i pagliericci stesi a terra, in quattro per ogni pagliericcio messi piede contro bocca, bocca contro piede, ma eravamo tutti sporchi per cui non aveva importanza.

D: Poi è venuto un altro trasporto con una selezione?

R: No, hanno chiamato un certo numero di persone, ricordo che gli italiani erano solo 7, 8, gli altri ebrei, polacchi, russi, francesi, jugoslavi, greci, e in treno, vagoni non carri bestiame, da Mauthausen a Linz c’è poca distanza. Più che Linz era un sobborgo industriale di Linz e arrivammo al campo che era un po’ meglio di Mauthausen nel senso che dormivamo in due per letto, poi per lungo tempo rimasi solo, avevo il letto, la cuccetta tutta per me e lì rimasi fino al 5 maggio.

D: Questo era Linz III?

R: Linz III, il campo di Linz I era stato distrutto da un bombardamento poco tempo prima che arrivammo noi a Linz III con molti morti e molti compagni miei venivano da Linz I.

D: A Linz III eri impiegato a fare che cosa?

R: Ero impiegato a fare lavori prima di essere assegnato a un lavoro fisso che era a una fabbrica di carri armati che si chiamava ……… per essere esatti la mia fabbrica era ………. Poi ve ne erano altre.

Quando i bombardamenti si intensificarono molte volte non si lavorava in fabbrica e si andava a trovare le bombe, a scavare le buche dove vi erano le bombe inesplose ma non sapevamo se non scoppiavano più o se erano a scoppio ritardato in modo da rendere accessibile, naturalmente, venivano poi gli artificieri tedeschi che pensavano a disinnescare.

D: Il campo Linz III era molto grande, vi erano molte baracche?

R: Saranno state 20 baracche dove si abitava, poi vi erano le altre, cucina ecc. ma dove c’era l’acqua ci si lavava, poi l’acqua non ci fu più per cui non ci lavammo più, siccome i bagni erano una cosa … bisognava spogliarsi in baracca, andare nudi al bagno che era abbastanza lontano nella neve con il freddo, poi un pochino di acqua calda, acqua ghiacciata poi senza asciugarsi tornare in baracca bagnati e rivestirsi, per cui meglio sporco che lavato in quel modo.

Dove abitavamo noi una ventina di baracche, ogni baracca era composta da due Stube, camerate, con in mezzo l’appartamento del capo baracca, vice capo baracca, capo Stube ecc.

D: Eravate in tanti come deportati?

R: Circa seimila!

D: Italiani?

R: Forse trecento.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Ricordo quello che ho detto prima Piccoli, Mugnaini, Cerchiai, penso che siano morti a parte il primo che se non è morto proprio ora, speriamo di no, ma gli altri penso per età, non so se sono ancora vivi. Poi vi era Otto Popper, austriaco di Vienna ma era stato preso in Italia a Milano, quindi, era targato IT, italiano, ebbe ancora fortuna ma poi sfortuna. Non so se interessa ma Popper era una bravissima persona, un caro amico, era quello con cui dividevamo il letto, i primi giorni quando andammo all’appello disse “A me sembra che insieme al vice capo campo ho giocato a poker a Vienna”. Quando ci fu il comando per lasciare il piazzale dell’appello si avvicinò a lui e disse il suo nome non andando direttamente da lui; l’altro si voltò si riconobbero e diventò il segretario del blocco, quello che segnava tanti morti, tanti arrivati, tanti presenti all’appello, dopo poco si ammalò, non so di che cosa e morì. Per essere lì fece la morte migliore che poteva fare, probabilmente, se fosse stato curato meglio se la sarebbe cavata, era giovane, una quarantina d’anni.

D: I posti lavoro rispetto al campo erano molto distanti?

R: Il mio era abbastanza vicino, andando piano dieci minuti un quarto d’ora ci si arrivava.

D: Vi erano anche dei civili?

R: Sì, vi erano i Meister che erano civili, il mio era lussemburghese volontario e poi vi erano molti IMI, non sapendo che nome dare ai prigionieri italiani militari, prigionieri di guerra non erano, civili non erano per cui avevano sulla divisa IMI, Internato Militare Italiano, in tedesco si scrive lo stesso.

Ricordo uno con il quale ci si parlava in tedesco perché era al CRAN, era un paranco che scorre su dei binari e quando doveva caricare dei pezzi ci si parlava in tedesco urlando, un giorno lo vidi scendere dalla scaletta in divisa e gli dissi, era la vigilia di Natale, “Buon Natale paese” e ci si riconobbe e fu quello che venne, dopo che eravamo stati liberati, al campo a cercarmi e mi disse se volevo andare al campo suo che mi avrebbe ospitato con altri italiani, c’era da mangiare, perché lì dove ero io non c’era più niente da mangiare, eravamo liberi ma non sapevamo che cosa fare, viveri non ve ne erano, aspettavamo che gli americani ci portassero qualche cosa ma non ci portarono nulla perché erano occupati a fare la guerra. Il nostro comando del campo che era formato da spagnoli, russi, fra l’altro lo spagnolo era un mio amico, andammo con questo italiano che si chiamava Rosito di Foggia, e chiesi se mi faceva uscire. Rispose: “Per ora non facciamo uscire perché vogliamo responsabilmente che qualcuno si prenda cura di voi, di noi, se poi non si vede nessuno vi si lascia andare via tutti”, così avvenne, nessuno venne, andammo via per i fatti nostri e finì lì.

D: Scusa, Franco, quante ore lavoravate?

R: Dodici ore, la nostra giornata era dalle 6 alle 6, turno di giorno e turno di notte. Naturalmente alle 6 dovevamo essere già sul posto di lavoro, quindi, credo che fosse alle 4,30 perché fra appelli, andarci, alla sera finiva alle 6 con l’intervallo per il lunch a mezzogiorno o a mezzanotte per cui erano 12 ore di presenza perché anche il lunch avveniva in piedi, era quasi lavoro anche quello.

D: Voi eravate addetti alla produzione bellica?

R: Carri armati Tigre.

D: Tu eri addetto in particolare a che cosa?

R: Con una squadra, di italiano vi ero solo io, Emile che era francese, Ivan russo, tre polacchi, e un ebreo polacco. Il lavoro era revisione cioè contare i buchi, non era un lavoro pesante ma vi era molto freddo, era più che altro la presenza. Quando vi furono i bombardamenti diventò molto più pesante perché c’era da sgomberare le macerie e andare ad isolare le bombe cadute.

D: Nella fabbrica vi erano anche delle donne?

R: No, non nella mia, eravamo in massima parte deportati, poi una quindicina di IMI e i Meister che erano tedeschi, il signore di cui parlavo prima era lussemburghese, quindi, equiparato ai tedeschi.

D: Il momento della liberazione te lo ricordi?

R: Lo ricordo male perché stavo molto male. In un primo momento avevano detto che dovevano trasferire il campo a Ebensee che essendo tra le montagne sarebbe stato occupato dopo, anche questa è una mania dei tedeschi: da Auschwitz li portavano a Mauthausen, in quel momento mi ero fatto male ad un dito lavorando ed ero nella baracca 14 che era quella di quelli momentanei invalidi. Dovendo fare questo sgombero fecero una selezione che consisteva nel fatto che sfilavano davanti ad un caporale della sanità e lui ci chiedeva “Puoi marciare?”, ovviamente risposi di sì, mi rimisero in blocco nella mia baracca per marciare su Ebensee, cosa che non è mai avvenuta.

Questo trasporto sarebbe stato a piedi e non fu fatto, non so per quale motivo, tanto che tornai alla baracca 14 con il mio ditone rotto.

Fanno un’altra selezione con la domanda “Puoi marciare?” … va detto che a parte il dito rotto ero in una condizione da non reggermi in piedi. Rispondo di sì e lui fu di parere diverso per cui mi rimise nel blocco 14. Devo dire che nella prima selezione quelli che non potevano marciare li fecero morire di fame nella baracca 14, senza ammazzarli, quindi, quando tornai nella baracca 14 la sgomberammo da tutti i cadaveri che c’erano e li abbiamo portati in una camera dove il camion li portava a Mauthausen, lì non c’era né camera a gas né crematorio, era un piccolo campo. Venne poi un contrordine, il governatore di Linz voleva strade sgombre per via del traffico militare e dei profughi, non ci credo perché eravamo seimila ma per buona fortuna cambiarono idea, ci misero tutti in fila, malati e sani, per muoverci e non sapevamo dove. Ci portarono nelle vicinanze di Linz, un paio d’ore di marcia, a una grande caverna sulla montagna vicino a Linz non più scortati dalle SS, ma scortati da vecchi, sdentati, ricordo che siccome erano senza denti la crosta del pane non la potevano mangiare e ricordo uno, figlio di cane, che aveva visto che stavo aspettando che la buttasse via e allora pestò bene bene questa crosta perché non la mangiassi io.

I russi che erano i più forti, i più numerosi con gli spagnoli che erano pochi ma organizzati molto bene si rifiutarono di entrare nelle baracche pensando che fossero minate.

Non capivo più nulla, ero in uno stato pre-comatoso, dopo qualche ora ci riportarono al campo, in fila scortati da questi vecchi territoriali. Ricordo che quando fummo nelle vicinanze del campo, spagnoli e russi, il piccolo comando che si erano preparati prima, presero i fucili a questi signori che non chiedevano di meglio che tornarsene a casa propria perché era gente di lì e tornammo al campo da liberi, tornammo al campo perché non avevamo altri posti dove andare e ricordo che andai nella mia cuccetta e che sentii sparare a lungo.

D: Questo quando avvenne?

R: La sera del 5 maggio, alla mattina andammo in questa strada alla caverna, qualche ora lì e poi era già scuro.

D: Gli alleati quando sono arrivati?

R: Gli alleati non li ho mai visti, ma non gliene faccio una colpa, evidentemente, erano occupati in altre cose perché come dicevo prima questo comando aveva chiuso il campo per consegnarci in maniera organizzata e responsabile e poi ci sparpagliammo, ognuno andò per conto suo e io andai in questo campo di ex militari italiani che era lì vicino, il campo 34, dove stetti per qualche giorno, ma stavo molto male e mi dissero di andare nelle vicinanze di Linz in un paese dove c’era un ospedale militare e il comandante era un ufficiale italiano, era un campo americano per cui noi italiani avremmo potuto sperare in un trattamento migliore. Mi ci portarono in macchina, una macchina rubata sul posto, e rimasi lì, eravamo rimasti solo italiani e jugoslavi, prigionieri di guerra, della breve guerra del 1941 perché gli americani l’hanno fatta a casa, gli inglesi e i francesi anche, i russi anche se non erano molto contenti di andarci perché so che poi, siccome erano vivi e questo puzzava di collaborazionismo, si erano battuti come potevano, la zona russa era vicinissima a dove eravamo noi, li avevano restituiti per cui si stava benissimo, eravamo in pochi. Fui curato e poi tornai a casa, a Bolzano.

A Bolzano andai all’ospedale civile, di lì venne una commissione svizzera che avevano organizzato a Malles, in Val Venosta vicinissimo al confine svizzero, un ospedale svizzero con personale svizzero, medicinali svizzeri, il cibo arrivava dalla Svizzera tutto a carico loro e stetti lì per una quindicina di giorni.

Di lì di nuovo a Bolzano all’ospedale civile e da Bolzano a Milano, da Milano a Torino e continuavo a stare male, sempre all’ospedale, per farla breve tornai a casa nell’agosto del 1946, avevo bisogno di cure.

D: Un anno dopo la liberazione!

R: Sì, un anno dopo!

Scala Remo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono SCALA REMO sono nato a Verona il 24 ottobre 1924 e alla bella età di 18 anni sono stato chiamato presso il Regio esercito perché eravamo in guerra ovviamente contro la Grecia, contro l’Albania, contro la Russia,  i paesi balcanici poi in definitiva.  Eravamo già alleati del terzo Reich. Essendo stato chiamato alle armi nell’agosto del ’43, ho dovuto presentarmi alla caserma di Belluno presso il Genio marconisti. Sennonché essendomi presentato il 23 di agosto, mi sembra che questa fosse la data, erano momenti in cui la situazione politico-militare italiana era piuttosto nebulosa; era una situazione che non seguivamo ma di cui ne subivamo le conseguenze. Presso la caserma del Genio di Belluno sono rimasto per una decina di giorni, 23 agosto, 31 agosto sono otto giorni, direi 10,12,14 giorni in questo lasso di tempo avrebbero voluto istruirmi per adoperarmi poi in Grecia come marconista. Infatti il primo scaglione della mia classe, mentre io andavo alla Caserma del genio, partiva per la Grecia, avremmo dovuto poi sostituirli successivamente oppure in altri campi comunque.  L’8 settembre i fatti naturalmente hanno sconvolto tutte le tradizioni militari e ognuno di noi ha scelto la libertà, ovviamente come è stato possibile, essendo Belluno discretamente vicino ai luoghi in cui io abitavo, prima degli eventi bellici, ho potuto rientrare in casa perché i miei abitavano a Lozzo, in una frazione di Lozzo Atestino della provincia di Padova.  A quel punto si presentava il dilemma di quale era la scelta da fare e per la verità non eravamo manco educati a fare una scelta, perché a 18 anni io che provenivo dalle scuole, non avevo esperienze politiche, abitavo in un paese di 3/4 mila abitanti,  prevalentemente agricolo e pertanto senza formazioni culturali specifiche, avrei potuto fare una scelta che era quella di nascondere la testa nella sabbia, tanto è vero che molti dei miei compagni di giochi di allora erano propensi a nascondersi nelle campagne.  Ho avuto la fortuna che mia sorella che abitava allora a Torino ed era in contatto ovviamente con l’élite di Torino, quella che ha potuto poi creare le premesse per il seguito delle scelte di una parte del popolo italiano, è venuta a trovarmi e mi ha consigliato e io ho  aderito ben volentieri mi ha consigliato di seguirla qui nel Piemonte. Nel Piemonte si erano formati già degli aggregati. Perché, essendosi sciolta la IV Armata di stanza in Francia, comandata dal generale Vercellino, molti dei nostri soldati alpini, a piedi o con altri mezzi avevano valicato le Alpi e si erano attestati nel cuneese. Perché molti avevano origini venete, altri avevano origini siciliane, del meridione, per cui non potevano ovviamente portarsi immediatamente nelle loro case e attestandosi lì con armi e bagagli hanno creato dei nuclei, nuclei che sono stati – per nostra fortuna – raccolti da eminenti persone politiche con origini di giustizia e di libertà, provenienti anche da formazioni politiche comuniste o comunque di altre estrazioni. Nel caso mio il Duccio Galimberti che allora era avvocato a Cuneo, aveva ovviamente si era buttato allo sbaraglio, tanto è vero che sulla piazza di Cuneo, lui aveva arringato la folla invitandola ovviamente alla ribellione; comunque lui e altri hanno organizzato in un modo embrionale le prime formazioni. Io al primo ottobre sono andato a formare una formazione, guidata dal capitano Cosa – deceduto di recente -, dal tenente Bertoldo di Vicenza, da un sergente dell’esercito, no ho saltato il quinto, poi c’era addirittura un marinaio con noi e poi c’ero io.  Ero la mascotte, perché ero il più giovane di tutti, per cui diciamo che ero guardato con un occhio privilegiato se vogliamo, se non altro perché tutti mi erano superiori, superiori di esperienza oltretutto. Per cui siamo stati i primi cinque a formare questo aggregato, però noi cinque siamo quelli che abbiamo preso le armi che la IV armata abbandonava via via che si allontanava dalle Alpi e creare dei depositi. Abbiamo cominciato a ricevere a ingrossarci tanto che siamo arrivati ad una formazione di inizialmente di 70 / 80 persone, avevamo tre camion con i quali andavamo nei consorzi a rifornirci di mezzi che poi dovevamo dare alla stessa popolazione che in quel momento non poteva essere rifornita direttamente, perché queste formazioni che erano nate in Val Beggio, a Boves, a …, nel moretanese in genere, ovviamente erano condizionate dalle forze nazifasciste che erano di stanza a Cuneo. Infatti quando noi volevamo fare determinate azioni rompevano il posto di blocco che c’era a Furio, facevamo gli affari nostri e tornavamo a casa, questo era possibile agli albori perché l’entusiasmo nostro e c’era anche l’apatia della parte avversa, non certo dei tedeschi, perché i tedeschi arrivavano quando naturalmente noi disturbavamo i loro interessi. Infatti una delle prime azioni è stata quella all’aeroporto di Mondovì, quando abbiamo portato via 80 fusti di benzina, abbiamo distrutto quattro apparecchi di poco conto, penso apparecchi di avvistamento, era qualcosa che andava bene in quelle località.  Indubbiamente Boves,  Pedraglio, Certosa di Pesio, cominciavano ad assumere delle formazioni militari piuttosto preoccupanti perché certe azioni le facevamo unendoci bande con bande, infatti i nomi che ricorrono del cuneese sono il tenente Aceto, il tenente Dunchi, quello che è stato impiccato in Corso Vinzaglio a cui è stato intitolato l’organizzazione a cui ho aderito io, adesso, da sempre; l’hanno impiccato lì, comunque mi sfugge il nome, è la mia memoria che è piuttosto labile nel tempo, è ovvio che naturalmente questo si verifica più facilmente.  Comunque arriviamo alla Pasqua del ’44 ci hanno attaccato due divisioni tedesche con carri armati cannoncini 88, con l’aviazione per l’avvistamento e ci hanno squassato. Io sono scappato, io comandavo un distaccamento, abbiamo sparato fino a che abbiamo avuto munizioni, poi ci siamo ritirati.

D: Dove è avvenuto questo Remo?

R: Nella Val Pesio, in alta Val Pesio. Infatti io che comandavo un distaccamento che non doveva essere attaccato, perché nel mio distaccamento c’ero io e c’era Piero Bertoldo, ed eravamo lui del 22 faceva parte della IV armata con Vercellino, io invece ero nuovo di zecca e mi ero fatto le ossa nelle varie azioni che avevamo intrapreso e subìto per la verità, anche. Siccome il …era uno spazio di traffico tra la Val Pesio e la Val Ellero, perché noi avevamo il dominio della Val Pesio, della Val Ellero, della Val Corsaglia, della Val Casotto, fino a lì. E il mio distaccamento presidiava la Val Ellero e la Val Pesio, invece cosa è successo? Che gli ucraini che erano, quando c’è stato l’attacco di Pasqua da parte dei tedeschi, i tedeschi avevano come elementi di rottura gli ucraini o i russi, almeno così dall’aspetto così era interpretato da noi; la Val Pesio è la continuazione, la Val Pesio è un fondovalle inizia una strada un ex strada militare che non so per quale ragione era stata costruita a suo tempo, probabilmente perché in alto c’erano dei campi di addestramento per alpini per artiglieria alpina, e comunque mentre… Giasmadona…che era appendice di Vallata che partiva dalla Val Pesio si protendeva verso la Val Ellero che era parallela alla Val Pesio, tanto per creare figuratamente le condizioni, lo spartitraffico in cui ero io quando ero stato mandato lì, mi avevano detto “devi andare lì” e mi hanno dato tutto quello che era possibile avere, troverai una malga che usano i malgari d’estate. Siamo arrivati lì e non c’era nessuna malga, non c’era perché era coperta di neve, allora abbiamo fatto un buco lì di due metri di profondità e siamo entrati, lì poi tagliando dei rami di pino abbiamo creato delle posizioni sopraelevate perché sul pavimento scorreva l’acqua naturalmente prodotta dalla neve che si scioglieva. A lato di Giasmadona che era ad angolo retto con la… c’è il Vallone Cavallo. I tedeschi si erano attestati alla Certosa del Pesio, che era una vecchia, una bella costruzione per la verità, e avevano i … avevano salito, erano risaliti il Vallone cavallo, e sono arrivati dove ci trovavamo noi e sono arrivati, presumo verso la mezzanotte. Noi ci siamo accorti e avevamo in postazione un mitragliatore, avevamo una mitragliatrice con un raffreddamento ad acqua, avevamo anche un… e comunque abbiamo sparato, ma si fa presto a consumare le poche munizioni di cui eravamo in possesso. Premetto che noi avevamo con noi sei ragazzi che erano infermi per congelamento, per dolori reumatici, erano per la verità, almeno quattro erano siciliani, per cui non abituati a quelle temperature, allora siccome al di sotto del Giasmadona c’era un altro distaccamento, comandato da un maresciallo, allora avevo fatto allontanare sei dei miei, e li avevo fati fluire presso l’altro distaccamento, perché avevano più possibilità quelli. Siamo arrivati in quattro abbiamo sparacchiato  quanto ci è stato possibile, e poi ho fatto allontanare siamo rimasti in postazione io e Piero Bertoldo, si sono allontanati poco prima gli altri due, l’ultimo colpo che ci hanno sparato ce l’hanno sparato con la pistola. Abbiamo intravisto delle ombre, noi siamo scesi verso l’altro distaccamento, perché poi di lì potevamo congiungerci con il comando, sennonché avevamo almeno due metri di neve, si infilava una gamba e con le mani si tirava fuori la gamba per portare l’altra più avanti, comunque siamo arrivati all’altro distaccamento che era già stato abbandonato perché era in piena offensiva, e siamo arrivati io e Piero Bertoldo in mezzo ai boschi, i pini erano tutti forati dalle pallottole erano. Mi ricordo che eravamo nel cuore della notte, eravamo fermi ed è passata una pattuglia dei tedeschi a cento metri da noi, loro chiacchieravano tranquillamente, siccome avevano già conquistato il comando, il comando si era ritirato verso la Bisalta, che era la montagna più alta lì, erano padroni della zona.  Comunque il mattino dopo noi siamo arrivati a livello della Val Pesio, abbiamo, c’era un carro armato che transitava avanti e indietro, che faceva naturalmente da pattuglia, abbiamo aspettato che ci avesse superato, abbiamo attraversato il Desio, il fiume Desio e siamo passati dall’altra parte, l’altra parte era stata conquistata e controllata precedentemente perché era una collina abbastanza dolce per cui… … … comunque siamo riusciti a uscire dal cerchio, ci siamo poi incamminati verso Alba, perché ad Alba c’era una grossa formazione e per arrivare lì ad Alba abbiamo dovuto ovviamente trovarci con altri piccoli gruppi che comunque erano alle dipendenze di questa grossa formazione, le quali ci hanno ospitato ci hanno rifornito di denaro e di mezzi. E io e Bertoldo siamo andati a casa nostra. Siamo arrivati a casa nostra qualche giorno, poi è arrivata mia sorella, mi ha riportato a Torino, sono stato aggregato alle formazioni del comando regionale, e in questa formazione cittadina ho fatto alcune azioni con alcuni che però via via queste formazioni si sono assottigliate perché il comandante del mio gruppo è stato arrestato ad esempio; successivamente io che abitavo in una certa via di Torino dove aveva accesso anche a volte Duccio Galimberti, però ci spostavamo per mangiare o per dormire in altre abitazioni, io in uno di questi spostamenti sono capitato in Via Pizzecchi 36, mi hanno preso e sono andato a finire alle Nuove. 

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la Questura. Faccio un passo indietro ma molto breve. La mia dotazione era: documenti falsi, avevo un bilingue tedesco che mi dava l’accesso a servirmi di tutti i mezzi mobili, treno, aereo, qualsiasi mezzo, nell’esercizio delle mie funzioni; appartenevo alla questura di Brescia e avevo un tesserino regolamentare a tutti gli effetti; avevo altri documenti, ero armato perché ero un questurino ovviamente in missione a Torino e nel contempo avevo anche una lettera che il Comitato di Liberazione mi aveva affidato che avrei dovuto consegnare mi sembra di ricordare nel pomeriggio. E quella è stata personalmente quella che mi ha messo in difficoltà. Perché evidentemente sono stato seguito o sono stato denunciato, faccio tutte delle ipotesi Sono stato arrestato da dei poliziotti, dalla Questura.

D: Quando questo?

R: Se ricordo bene o il 7 o il 17 luglio del ’44.

D: Ti hanno portato alle carceri Nuove?

R: No, immediatamente mi hanno portato nel Commissariato che stava dietro, dove in quel momento io avevo stabilito il mio domicilio, non ufficiale ovviamente, dove andavo a mangiare e a dormire, per la verità non c’ero ancora andato una volta perché era il primo giorno che mi portavo lì, perché avevamo un appuntamento lì.  Sennonché quando mi hanno portato al Commissariato, la prima cosa è quella che mi hanno preso la pistola, mi hanno preso i  documenti e mi hanno preso la lettera, ovviamente mi hanno messo subito in una cella e mi hanno lasciato lì. I telefoni avranno cominciato a ronzare perché nel tardo pomeriggio mi hanno preso e mi hanno portato alla Questura in Corso Vinzaglio. Lì ho subìto un primo interrogatorio. Dopo questo primi interrogatorio, non ricordo se è stato lo stesso giorno nella notte o il giorno immediatamente successivo, sono stato portato alle Carceri le Nuove che si trovano a Torino in corso Vittorio Emanuele 127.  E lì sono stato aggregato al primo braccio tedesco. Perché c’erano, tutti i carceri hanno dei bracci, sembra che sia l’architettura con cui sono stati ideati a suo tempo.  E lì mi sono fermato, mi sembra, un paio di mesi. Quasi giornalmente venivo preso e portato all’Albergo Nazionale in Piazza San Carlo, e lì a volte a schiaffoni a volte con belle maniere, perché i due sistemi si, insomma evidentemente fanno parte di una casistica……

D: Scusa, lì all’albergo che dici te, cosa c’era, era sede di che cosa?

R: La sede delle SS tedesca.  Infatti tutte le inquisizioni sono state fatte lì, perché invece le brigate nere avevano sede in tutt’altra zona della città che era in Via Asti… io non sono mai stato lì.  Nei primi tempi miei io ho detto sono stato aggregato al braccio tedesco, non è vero il primo tempo ero…, al… molto probabilmente in forza non tanto della Questura, quanto probabilmente delle brigate. Cioè non sapevano bene se io dovevo essere utilizzato dalle brigate nere o dalle SS e sono stato messo nelle cantine che non hanno la luce del giorno, tanto è vero che le lampadine erano accese giorno e notte, però il trattamento era… però per portarmi all’albergo Nazionale comunque mi prelevavano di lì. Evidentemente dopodiché ho assunto una identità specifica e allora sono stato mandato alla cella mi sembra 50/52 del primo braccio tedesco. La cella aveva le dimensioni di tre metri per due, inizialmente ero solo, successivamente hanno, hanno messo con me un partigiano della Valsesia, successivamente hanno aggiunto un terzo membro in questo albergo mio, che era uno di Bardonecchia. E in ultimo hanno messo il dottor Veroi che era il direttore del Banco di Roma, il quale abitava allora all’albergo che c’è in Via Carlo Alberto, che c’è tutt’ora, un albergo di seconda categoria comunque, avevano fatto una retata preso tutti quanti e li avevano…  A questo punto hanno aggiunto un ragazzo tedesco di 16/17 anni, che abitava ad Ivrea con la madre. Siccome in quel momento, in quell’epoca doveva essere stato emanato un editto in Germania che tutti i tedeschi civili dovevano rientrare in patria, nel timore che questo ragazzo non rientrasse l’hanno preso e l’hanno messo in cella con me. Parlava perfettamente l’italiano, era un piacere per me conversare con lui, perché io 18 anni e lui 17, 16/17, eravamo coetanei, comunque mi ha insegnato molte cose, mi ha dato i primi rudimenti di tedesco, mi ha detto cosa vuol dire …… oppure altre cose. Poi, probabilmente constatato, che ero più utile in Germania che rimanere in prigione lì, nonostante tutti i giorni facessero gli appelli per andare a prelevare degli ostaggi da utilizzare a memento per la popolazione, ovviamente, sono partito di lì unitamente a due pullman e siamo andati a Milano; abbiamo prelevato delle altre persone, e siamo andati a Bolzano.

D: Questo quando?

R: Direi i primi giorni di settembre, perché se io sono stato arrestato il 7 luglio, ho trascorso …alle Nuove, luglio agosto due mesi, i primi giorni di settembre.

D: Nel campo di Bolzano quindi ti hanno messo dove?

R: Nel campo di Bolzano mi hanno messo insieme a tutti gli altri, nel capannone, ovviamente, però io a Bolzano mi sono fermato quattro o cinque giorni, direi una settimana sola. Perché probabilmente c’era un trasporto che avrebbe, cioè giornalmente c’erano in atto dei trasporti. Faccio solo una breve pausa. Quando ero su in montagna nella Val Pesio, con noi avevamo un capitano inglese che lui si faceva chiamare Ciro Cavallino, ed era uno del controspionaggio inglese ed era stato paracadutato con la radio per farci avere i lanci.  Quando io ero alle Nuove, un giorno siccome tutte le sere ci affacciavamo alle sbarre e da cella a cella si chiacchierava, ho sentito la voce di un tizio che per me era nota. E l’ho chiamato e gli ho detto “mio Ciro” perché lui diceva che era genovese, allora anziché dire “Ciro Cavallino”, mio Ciro alla genovese, e lui mi ha detto “e tu chi sei?” e io ho detto “io sono il piccolo alpino, quello che tu hai definito piccolo alpino. Ci siamo comunque ritrovati, lui era stato arrestato con la radio a Mondovì, io ero stato, avevo avuto altre vicende, e comunque ci siamo ritrovati a Bolzano. Dovevamo scappare da Bolzano, però scappare da Bolzano era discretamente facile, ma la Valtellina era nominata perché tutti i contadini che riuscivano a prendere uno di noi avrebbe beneficiato di una certa … Lui è partito per Auschwitz e non è più tornato. Io successivamente sono partito per Dachau. Avremmo potuto scappare, perché bastava togliere le assi dei vagoni bestiame ed era forse fattibile, però c’avevano ammonito che per ognuno che scappava sette ne avrebbero ammazzati, e direi che nessuno ha tentato di scappare. Comunque sono arrivato a Dachau.

D: Erano i primi di ottobre, se ti ricordi?

R: No direi ancora settembre, settembre perché io a Bolzano sono rimasto una settimana, non di più. In una settimana a me mi hanno portato due volte a Gargazzone, e mi sembra che ci sia un paese con quel nome, a raccogliere le mele. Per cui sono stato una settimana, un paio di volte a raccogliere mele e un paio di volte a caricarmi dei fasci di legno da portare da un posto all’altro, solo per tenerci occupati ovviamente. E’ un sistema valido in tutti i campi di concentramento. Naturalmente anche in quelli inglesi comunque, almeno il cinema ce ne dà …

D: Ti ricordi se col tuo trasporto c’erano anche dei religiosi con te?

R: Con me da Torino noi siamo partiti, sono partito con padre Girotti e un domenicano, che era un continuatore di una critica, più che di una critica di un qualcosa sulla Bibbia, ed era un uomo molto illuminato, era stato molto in Palestina, molto nell’estremo oriente, doveva conoscere molto bene le lingue, e con me c’era poi anche Padre Girotti. C’era un sacerdote leggermente più vecchio di me, ma che comunque era un uomo veramente dedito alle cure delle sue anime, al di là di qual era la confessione e la colorazione politica.

D: Scusa hai detto Padre Girotti e quell’altro? erano due o uno i sacerdoti?

R. No, due.

D: Don Angelo?

R: Sì, ma il cognome?

D: Dalmasso. E sono partiti con te anche da Bolzano?

R: Sì tutti e due, tutti e due sono partiti con me e siamo arrivati a Dachau. E a Dachau ovviamente siamo arrivati in questo megacomplesso Dachau e un altro nel 1933, Dachau che è il primo campo di concentramento tedesco nato unicamente perché per i sommovimenti socialistoidi, oltre credo che quelli degli ebrei, diciamo, siano stati successivi perché il mio capo campo del mio blocco era dentro, era 11 anni che era dentro, era dentro nel 33, ed era un tedesco. Era un tedesco, ed era dentro perché, a detta sua, perché era un socialista. A Dachau inizialmente siamo stati messi nei blocchi chiusi perché era molto organizzato Dachau. Dachau immaginatevi un campo immenso nel quale conviveva un campo da football, convivevano le docce, e poi c’era tutto un reparto che diviso da viali fiancheggiati da alberati, da cipressi. A destra e a sinistra c’erano blocchi chiusi e blocchi aperti, blocchi dei ciechi e blocchi dei sacerdoti, c’erano i blocchi, c’erano i … dei blocchi particolari che in questo momento non mi sovviene qual è la definizione che potrei dare. Io ero in un blocco chiuso, blocco chiuso perché avrei dovuto, nelle teorie, stare lì 40 giorni, dopo di che visto che non ero contagioso avrei dovuto essere immesso nei lavori comuni. Invece non è vero. Padre Girotti e Don Dalmasso invece sono andati a finire ad alimentare il blocco dei sacerdoti. Dietro il mio blocco chiuso c’era il blocco dei ciechi. A Dachau io sono stato prelevato, assieme a molti altri, venivamo prelevati alle tre di notte perché c’era la solita conta che durava da un’ora a due ore, venivo portato a Dachau, a Monaco di Baviera, per mettere a posto i pilari evidentemente, perché avevano subito dei bombardamenti o altro genere di infortuni.

D: Il tuo numero di immatricolazione di Dachau te lo ricordi?

R: Ce l’ho a casa.

D: Però ti hanno immatricolato?

R: Certo, certo, io ce li ho tutti e due i numeri, uno più alto e uno più basso, perché ovviamente il secondo probabilmente quello chiuso, comunque te lo posso comunicare per telefono quello, eventualmente se lo puoi inserire. E’ un numero di 6 cifre comunque quello di Dachau. Però … che comunque non sono mai stato uno sprovveduto, ho sempre cercato di proclamare, per quanto è possibile, la mia vita, Dachau comunque era una prospettiva che era quantomai dolorosa e difficile, e non mi consentiva delle possibilità. A Dachau si poteva scappare, ma molti di quelli che erano scappati erano rientrati e portavano sulla schiena un grosso cerchio rosso per cui evidentemente non era una strada da seguire. Nel frattempo evidentemente si era creata la necessità da parte delle formazioni tedesche, dell’intelligenza tedesca, di attivare delle fabbriche per alimentare la guerra. Per cui cercavano degli operai specializzati per appunto popolare queste fabbriche. Cercavano un po’ di tutto. Io siccome eravamo alle soglie dell’inverno, ovviamente l’inverno nelle condizioni che avevo, gli indumenti che era una giacca di canapa, una camicia che doveva essere, provenire dall’Ungheria perché era tutta istoriata, era splendida, ma era trasparente, pantaloni e una specie di paletot, il paletot era la stessa giacca leggermente più lunga. Le prospettive comunque, l’alimentazione era quella che … Diciamo che in quelle condizioni io potevo sopravvivere ancora per qualche mese perché provenivo già da un ambiente che mi aveva alimentato, mi aveva riempito fisicamente, mi aveva consentito di sopportare anche disagi. Comunque io … Mi sono messo in lista per andare ad unirmi a questo gruppo. Mi hanno chiesto qual era la mia specializzazione, io avevo detto che ero un collaudatore della Fiat, che conoscevo il …, il dico metro, … conoscevo un po’ tutte le strumentazioni, il che non è vero, le ho scoperte dopo … E loro, per carità, sapendo che provenivo dalla Fiat era vangelo il mio. E assieme con me è partito un altro col quale sono sempre, c’era un mulatto che è sempre stato assieme con me, Dino Miniti si chiama. Comunque il trasporto era diretto a Buchenwald, però le necessità, tutti i grossi campi di concentramento, Auschwitz, Buchenwald, Dachau, e non lo so quanti altri, Ravensbrück, avevano dei sottocampi che venivano utilizzati nei modi più svariati, vuoi perché c’era una sovrappopolazione, e allora per esempio a Dachau correvo il rischio di andare ad Allach, ad Allach era morto il tenente Franco, che era il comandante della … Per cui diciamo che andando in fabbrica è vero che avrei reso più difficoltoso la fine di questa guerra, però diciamo che tutto sommato, io una parte l’avevo fatta, la seconda parte me la sarei gestita per conto mio, per cui avrei potuto collaborare o tentare anche qualcosa d’altro.

Comunque siamo stati portati a Bad Gandersheim, che è un sottocampo di Buchenwald. A Bad Gandersheim c’era una fabbrica che probabilmente era stata abbandonata per la semplice fatto che la popolazione attiva era stata mandata in Russia.

D: Scusa, quindi a Buchenwald non ti hanno portato in quel trasporto lì? E ti hanno immatricolato nel sottocampo?

R: Certo. Arrivati a Bad Gandersheim ci hanno ricoverati nella chiesa sconsacrata, perché il campo non c’era. Allora abbiamo creato il campo, le baracche, abbiamo creato, l’abbiamo circondato col filo spinato, con l’alta tensione, coi vari trespoli dove le guardie ci controllavano giorno e notte, e nell’ambito del campo era inserita anche la fabbrica.  Niente, io ho preso posto al collaudo dei pezzi, la fabbrica produceva aeroplani, i caccia. Nel tempo che sono rimasto lì ne abbiamo costruito uno, non ne è uscito nessuno. Nel frattempo, anche perché la Russia avanzava, infatti dietro al mio banco di lavoro c’erano dei carsuoli che avevano delle dimensioni di 3 metri per 2, ed erano le masserizie dei tedeschi, dei tecnici tedeschi che erano in Polonia o oltre Polonia, e che arretrando rimandavano alle loro origini le loro cose. Tanto è vero che io ho tolto un’asse da questo e ho trovato delle carte geografiche che ho potuto dare a un cecoslovacco il quale è scappato. Lui conosceva la lingua tedesca abbastanza bene.

D: Il trasporto da Dachau a questo sottocampo di Buchenwald, ti ricordi quando più o meno è avvenuto? Prima dell’inverno? Prima di Natale o dopo Natale?

R: prima di Natale, direi che è avvenuto nei primi giorni, nella prima decade o quindicina di ottobre.

D: Quindi appena arrivato tu a Dachau in sostanza

R: A Dachau io ci sono stato 15-20 giorni, forse anche 20 giorni, sono andato cinque o sei volte a Monaco di Baviera a lavorare, e poi basta.

D: Ti ricordi invece ritornando in questo sottocampo di Buchenwald, dicevi costruivate degli apparecchi voi, degli aeroplani, ti ricordi per che ditta?

R: Io ho sempre detto che è la Messerschmitt, però una dottoressa di Berlino che è venuta ad intervistarmi, e che io ho …., mi ha detto che non era la Messerschmitt, non era neanche la Yunker, era un altro nome molto probabilmente il governo tedesco, come il governo italiano, dava mandato alla Fiat la quale Fiat poi passava, diciamo, certe competenze ad altre. Comunque il nome è diverso.

D: E tu sei rimasto lì sempre in questo sottocampo di Buchenwald?

R: Sempre nel sottocampo di Buchenwald, inizialmente abbiamo fatto questi aeroplani,  in un secondo tempo abbiamo creato ……, era un imbuto alto direi cinque-sei metri, ma proprio ad imbuto, ed è rimasto tale. Il terzo aggiornamento di produzione sono state zappe, vanghe, tridenti e cose del genere. Comunque il tutto è rimasto dentro perché le ferrovie tedesche non avevano possibilità di spostamenti, perché i bombardamenti erano tali infatti a volte io ho osservato che c’erano delle incursioni che duravano per delle ore, oscuravano il sole, c’era una grossa ombra sul terreno. Per cui, ecco perché la fabbrica ha prodotto senza essere d’aiuto.

D: Remo eravate in tanti in questo sottocampo qui di deportati?

R: In questo sottocampo faccio un calcolo a memoria, c’era un blocco italiano, un blocco di russi, un blocco di francesi, un blocco di polacchi, un blocco eterogeneo, e direi che per ogni blocco potevano esserci, sei blocchi diciamo e non cinque, sei blocchi un 500 persone. Forse anche di più.

D: E lì sei rimasto, in questo sottocampo sei rimasto fino a quando?

R: Siamo rimasti fino all’incirca alle soglie della Pasqua del ‘45, che non so in che mese sia caduta. Premetto che gli ultimi giorni ci è stata fatta una ricca offerta da parte del comandante del campo, ha detto chi di noi vuol vestire la divisa tedesca avremmo potuto avere gioie, denaro e oltretutto, ma invece qual era la voce di sottofondo? che ci avrebbero incatenato alle mitragliatrici perché eravamo tutti militari validi, eravamo.  Faccio una premessa che nel campo avevamo un Revier, cioè un ospedale, un’infermeria. Io sono stato ammalato, sono svenuto in fabbrica, febbre a 40, mi portano in infermeria e il medico dell’infermeria era uno spagnolo, il quale aveva fatto la guerra contro Franco. Poi ha vinto Franco e lui è passato in Francia. E’ stato preso dai tedeschi quando hanno conquistato la Francia e l’hanno portato lì. Gli ultimi tre giorni del campo c’è stata fatta prima l’offerta di vestire la divisa, successivamente il comandante del campo ha detto che ci avrebbe spostato perché stavano avanzando inglesi, francesi e americani. E noi ci trovavamo in un cul de sac, come si dice. Pertanto chi era in condizioni di camminare sarebbe stato, avrebbe fatto parte della colonna, chi non era in condizioni di camminare sarebbe stato aiutato, caricato su dei carri. Molti hanno aderito, alcuni hanno aderito a questa seconda offerta, possibilità, e mentre noi ci siamo rivolti eravamo in un buon rapporto col medico, andiamo dal medico gli diciamo “cosa dobbiamo scegliere?” e lui ci ha risposto “marchez, marchez, marchez”, tre volte ce lo ha detto. Noi ce ne siamo andati via, il mattino dopo verso l’alba, verso le 4 del mattino, mi sono andato per andare a quella specie di toilette che era poi una fossa con una specie di panca da una parte e dall’altra, ci si accomodava come si poteva lì, e nel frattempo hanno raggruppato quello che avevano aderito ad essere … Dietro il campo c’era un boschetto un po’ più in alto, li hanno portati lì, avevano piazzato le mitragliatrici, non se ne è salvato uno. E lì ce ne saranno rimasti poco poco una cinquantina. Poi ci hanno intruppato, siamo partiti. Prima di partire hanno impiccato un prigioniero, perché doveva aver commesso qualcosa che non era gradito ai tedeschi. Probabilmente era un ammonimento, perché quello era palese, invece l’assassinio nel bosco era qualcosa di occulto, e pertanto non otteneva lo stesso effetto. Ci hanno portato via, ci siamo incamminati, non lo so in quale direzione ovviamente, doveva esserci un’apertura ovviamente ad un certo, e il primo giorno, la prima sera, ovviamente siamo partiti, non ci hanno dato né alimenti né nulla, ognuno di noi ha portato tutti i propri bagagli. Ci hanno fatto accomodare in una chiesa, cristiana, cattolica, apostolica. Infatti le pie donne ci hanno aperto la porta, siamo entrati, hanno chiuso a chiave. Faccio la premessa che abbiamo, siamo andati, prima di partire siamo andati nelle cucine e nei magazzini, e tutto ciò che abbiamo potuto arraffare lo abbiamo arraffato. E molti di noi, io compreso, abbiamo preso delle patate, ma delle patate di quelle che mangiano i ragazzi, mi sfugge il nome comunque. Le abbiamo mangiate, non avremmo dovuto. Comunque entrati in questa chiesa con noi c’era un gruppo di polacchi, i quali si sono avvicinati … e hanno suonato l’Ave Maria. Le lacrime, sembrava il Mississipi sembrava. Dopo di che ovviamente tutti avevamo la dissenteria, non potevamo, non c’era una toilette, ci siamo accomodati per quanto, il mattino dopo, dopo questo oltraggio da parte nostra ovviamente le pie donne che hanno inveito, con ragione sotto un certo aspetto perché abbiamo sconsacrato qualcosa che era un mito da guardare col massimo del rispetto, ma nel contempo avrebbero dovuto provvedere in qualche modo. Comunque la punizione per quello che avevamo commesso, ne hanno scelto un certo numero e chi li sceglieva il comandante. Faccio un passo indietro: il comandante del campo non ha scortato la colonna, la colonna era guidata da un sergente polacco delle SS, una vera figura del militare classico per tradizione, il quale aveva il compito di scegliere chi di noi era sacrificabile. Dopo di che c’erano i soliti due russi dietro alla colonna, i quali avevano unicamente il compito naturalmente di non far soffrire per quanto era possibile, e poi la mentina era quella che mascherava e annullava in parte, perché non poteva annullare tutto quanto. Tutto questo si è verificato per nove giorni, e per nove giorni la colonna che è partita, perché abbiamo formato varie colonne, la mia colonna che eravamo 1.500 in partenza, ho detto 1.500 mentre prima parlavo di un cinquecento, probabilmente non so quale dei due sia il valore esatto, ma comunque ammettendo che fossimo anche un cinquecento, io ero ad un certo momento, dopo che sono scappato tre volte, l’ultima volta ero il 35° vivo.

D: E di questi quanti italiani Remo?

R: C’era uno di Roma, direi che eravamo equidistanti, forse eravamo 5-6 italiani, 5-6 francesi, qualche polacco, c’erano degli ungheresi, c’erano dei cecoslovacchi, c’era tutta l’Europa.

D: Remo tu sei scappato dove più o meno, ti ricordi?

R: Sono scappato, oso dire, la prima volta sono scappato forse al terzo giorno di marcia, sono scappato perché io non avevo futuro perché i vestimenti, i pantaloni e la giacca di canapa nel camminare strusciavano sulla pelle e mi avevano scoperto le ossa delle ginocchia. Nel contempo, siccome io ero partito con gli zoccoli olandesi, erano zoccoli non adatti al mio piede cosa succedeva.. che  un po’ strusciavo in avanti e un po’ invece  a seconda del terreno. E mi sono rovinato totalmente i piedi. Un mio compagno di Milano mi ha prestato le sue scarpe, disgraziatamente nel tallone c’era un chiodo che si è infilato nel mio tallone. Comunque il medico spagnolo mi ha medicato, mi ha messo le garze di carta, che sono durate lo spazio non di una notte lo spazio di un paio d’ore, perché l’umore del liquido che usciva dalle ginocchia e dai piedi ovviamente … Comunque al terzo giorno ho detto “tanto per andare oltre”, si era creata l’opportunità, mi era sembrato che eravamo già diminuiti di numero, mi sembra che ci fosse una certa forma di lassismo da parte delle SS tedesche che erano tutti molto anziani per la verità, perché i giovani erano sui fronti, sui vari fronti. E io e Minetti di Torino ci siamo allontanati in una sosta. Avremo fatto 300 metri, un ragazzino che poteva avere 8-11 anni non di più, con un fucile, un … che era più lungo di lui, ci ha fermato, ci ha portato in paese perché evidentemente c’era stata la segnalazione, e i tedeschi avevano ovviamente schierato dei vigilanti.

D: Scusa Remo, tu quindi la tua Liberazione tu sei scappato per liberarti?

R: Mi sono liberato.

Varini Valter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Varini Walter, nato a La Spezia il 4.12.1926, residente a La Spezia.

Il 21 novembre 1944 è stata rastrellata Migliarina dalle Brigate Nere, portato alla Caserma XXI a La Spezia, stetti un giorno alla Caserma e all’indomani ci hanno portato con i camion a San Bartolomeo dove ci hanno imbarcati sulle motozattere e via mare siamo arrivati a Varazze, siamo arrivati il 22 notte.

Ci hanno messo nelle celle cubicole in attesa del processo. Dopo quindici giorni ci hanno chiamati al processo in ordine alfabetico, mi dicono questa è la condanna, ventuno, “Lei deve dire la verità, altrimenti, la portiamo su un quattro”. Io sapevo tutto, essendo nei cubicoli avevo spaccato il cancelletto ed ero andato giù a parlare con i rastrellati del 21 novembre 1944 e mi avevano detto: “Le accuse sono così e così, non devi dire sempre sì o no, un po’ sì e un po’ no, altrimenti, vi ammazzano di botte”, infatti, loro erano tutti rovinati.

Quando sono andato su l’ho detto e anche Borrelli ha sentito. Vado all’interrogatorio e vi era il Brigadiere Morelli e mi chiede “Come ti chiami?”, rispondo “Varini Valter”. Mi dice “Saresti quel partigiano che era in Garfagnana?”, chiedo “Come fate a saperlo?”, risponde “Abbiamo catturato i nomi del Comitato”. Ero giovane e potevo anche sfottere; ho risposto “Siete stati in gamba, come avete fatto?”, mi ha risposto “Non ci pensare!”

In quel mentre entra Batisti, un altro Capitano delle Brigate Nere. Aveva un braccio al collo e all’attaccapanni vi era una pistola fuori ordinanza e chiede “Cosa c’è Morelli che non vuole parlare?” “Non vuole dire chi lo ha iscritto al Comitato Liberazione“. “Lo faccio parlare io!”, ha preso la pistola e gli ho detto “Mi ammazzi pure”. “No, no, troppo onore ammazzarti, devi dire chi ti ha iscritto al Comitato di Liberazione”. “Ho tirato fuori dei nomi … Non quelli che mi hanno portato ai monti”

“Le accuse sono 21 e le leggiamo: ha partecipato all’attacco in Val Durasca contro le Brigate Nere e i tedeschi e ha ammazzato questo …” Rispondevo “No” …”Ha ammazzato questo …” Rispondevo “Sì” , non era vero. “Ero armato con un boschetto” “Chi te lo ha dato?”

Vi era gente catturata e seviziata, accusatori e ho risposto “Me l’ha dato il Tizio” “Guarda che lo vado a chiamare” “Vada pure, se lo dico è la verità”.

Lo va a chiamare e chiede “Ivano conosci questo?” “No, non, non lo conosco!” “Ma come non mi conosci, tuo padre lavorava con il mio, come fai a non conoscermi?”

“Questo dice che tu gli hai dato il moschetto, ha fatto l’attacco in Val Durasca” “Non lo conosco!”

Allora mi chiede ancora dove l’ho preso, non rispondo e ordina “Picchialo”. Questo mi ha messo contro il muro e mi ha conciato ai fianchi a pugni.

Ho risposto “L’ho preso l’8 settembre” “Dove lo nascondi?” “In cantina”, dove l’avevo davvero, a casa ero armato.

Finito quello viene fuori chi mi ha iscritto al Comitato Liberazione che era il prete, don Streti, e ho risposto “E’ stato don Streti” “Sei sicuro, guarda che vado a chiamarlo, che non succeda come prima”

Va a chiamare don Streti e chiede “Lo conosci questo” “No” “Come don Streti, non mi conosce” “Dice che lo hai iscritto tu al Comitato Liberazione” “Non lo conosco, non ricordo, dove ti ho iscritto al Comitato Liberazione?” “Da Ilinari, il forno” “Sei un bugiardo, non è vero perché io iscrivevo al Comitato Liberazione in cantina sotto al Cavallo Bianco, il bar”.

A questo punto Batisti ha messo il suo piede sopra il mio e mi ha dato quattro ceffoni sulla bocca.

Le accuse erano quelle, ho ammazzato un altro maresciallo sopra La Spezia, tutte cose che non erano vere … li avessi ammazzate davvero!

Me la sono cavata con quattro pugni e quattro schiaffi.

Non ci hanno portati, finito l’interrogatorio, nei cubicoli ma ci hanno portati in seconda sezione dove siamo stati un giorno.

All’indomani ci hanno chiamati e ci hanno preso in una sessantina e ci portano in quarta sezione dove abbiamo fatto un mese, pronti per andare alla morte.

Un giorno viene l’ufficiale tedesco con l’interprete che era un ebreo e il brigadiere delle prigioni. “Ieri sera fuori dalle mura del carcere hanno ammazzato un camerata, eravamo in sei, e ci siamo guardati senza muovere gli occhi”, dicono “il Comando tedesco ordina a questa rete 48 ore senza mangiare”. Ci siamo ripresi, si mangiava un panino a mezzogiorno e una minestra alla sera.

Siamo stati in sei in quella cella, avevano messo uno di Arma di Taggia e uno di Imperia ed erano due spie, uno aveva ancora la divisa di Brigata Nera, i miei sapevano che ero un partigiano … ho scelto al mia strada …

Abbiamo fatto un mese, il 2 febbraio ci chiamano per partire per andare a Bolzano, ci ammanettano insieme e ci imbarcano sui pullman, Genova-Imperia-Milano, un giorno a San Vittore sempre ammanettati. All’indomani siamo partiti, si camminava di notte, alla mattina alle 3 siamo arrivati a Bolzano, appena scesi dal pullman con le scarpe senza lacci, senza cintola, e ci mandano poi agli uffici dove vi erano due donne tedesche che parlavano italiano.

Nella via dove abitavo a Migliarina eravamo diversi, Sarzana, tutti ragazzi che non sono più tornati.

Hanno detto “In quella via siete tutti dei delinquenti” “Con questo?”. Ho risposto perché ormai la nostra sorte era quella. Ci danno il numero, il mio era 9053, e il triangolo rosso e ci portavano nel blocco E in attesa.

E’ stato un bel giorno che i tedeschi erano in ritirata, il fronte era a Verona, i russi avanzavano e cercavano di prendere la gente per mandarli a lavorare, prendere le macerie e altro.

Come oggi hanno fatto il bombardamento a Bolzano; all’indomani ci hanno chiesto di andare a levare le bombe!

Morte per morte era per mangiare un pezzo di pane in più, volontari, quando siamo stati in mezzo ai binari suona l’allarme e i tedeschi sono spaccati prima di noi. Ci siamo buttati, c’era il fiume, di là la galleria, gli operai, il triangolo rosa, noi avevamo la gavetta con il cucchiaio di legno, ci davano da mangiare, nella gavetta un cucchiaio a me e uno a te e alla fine abbiamo bevuto l’acqua. Alla sera siamo rientrati …

D: Valter, come ti ricordi il campo di Bolzano?

R: L’ingresso me lo ricordo benissimo, c’era l’entrata con il cartellone in lamiera che poi hanno spostato di là … Sapete come è il campo? Vi era l’insegna in lamiera sopra i due pilastri nel campo ma l’hanno spostato vicino all’officina, appena entrati vi era un ufficio, una baracca, poi il capannone, in fondo le donne, noi blocco E e andava fino in fondo all’alfabeto A-B-C. In centro vi era la mensa dei tedeschi, la cambusa dei tedeschi che spalancavano, pane, mortadella … avevamo una fame …

D: I tuoi vestiti te li hanno tolti?

R: Mi hanno dato una tuta intera con il contrassegno, una striscia di traverso e una nella gamba e poi la testa pelata, hanno rasato fino a qua e poi hanno fatto i disegni in testa, a loro faceva piacere!

Hanno fatto l’assemblea come a dire che il fronte era a Verona, “Come sapete il comando tedesco vi lascerà andare perché il fronte è a Verona, i russi avanzano, noi vi lasciamo andare pochi alla volta ma i primi che vanno fuori li teniamo come ostaggi, voi siete come ostaggi”

D: Scusa, Valter, prima di arrivare alla liberazione, quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Sono rimasto da febbraio fino al 1 maggio.

D: Come lavoro sei andato a raccogliere macerie e bombe?

R: Sono andato solo a togliere le bombe, poi ho lavorato …. Siccome gli americani erano a Verona, vi era da fare il trasloco a un avvocato bolzanino, abitava in una bella villa sottoposta alle bombe, i tedeschi hanno detto “Vai là” e abbiamo fatto il trasloco, sua moglie ci ha dato un panino con burro e marmellata, una tazzina di latte e caffè e anche dei soldi, 250 lire.

D: Quando uscivi dal campo trovavi dei civili, avevi contatto con la popolazione civile?

R: L’ho avuta ma i tedeschi non volevano, ci volevano dare delle mele poi alla fine ho fatto attaccato al muro del campo un basamento per una parata militare, comandava un maggiore dell’esercito, un carrista che era prigioniero, italiano, vi era la strada che arrivava dove c’era il monumento, la strada convogliava verso Verona e verso le officine Lancia e a tutti quelli che passavano gli si cedeva del pane. E’ passata una donna “Signora ha del pane?”, sul muro vi erano le garitte e i russi, questa donna non risponde e l’abbiamo chiesto in tedesco …

E’ passato poi un vigile del fuoco e avevamo chiesto del fumo, ci ha risposto che sarebbe andato a prenderlo, è partito in biciclette ed è andato a prendere delle sigarette che ci ha lanciato ma a noi non sono arrivate, sono rimaste in mezzo, tra la strada e noi e vi erano lì gli ucraini, ma abbiamo fatto una volata e siamo andati a prenderle e ce le siamo divise.

Hanno poi lanciato i panini ed è successa la stessa cosa.

D: A proposito del campo ti ricordi del blocco celle?

R: Il blocco celle era in fondo, qua vi era l’ospedale con la mensa dei tedeschi, dietro l’altro capannone dove vi erano gli uomini ebrei, i prigionieri di guerra, i piloti inglesi e in fondo la cucina. Al blocco celle la famosa tigre che picchiava. Vi era anche una donna che aveva preso delle patate, l’hanno picchiata e le hanno buttato secchi d’acqua fredda addosso.

Tornando indietro a quando mi hanno preso, a Genova quando è venuta mia sorella a portare i vestiti e qualche soldo ha detto “Dammi i soldi che li faccio avere”, invece non me li ha fatti avere, è arrivato a Bolzano anche lui, non l’hanno messo con noi ma subito dalla parte dove vi erano gli uomini ebrei e hanno fatto una farsa alla notte. Si sono passati la voce di notte, hanno preso un paio di scarponi di uno e l’hanno messo alla sua testa, questo si è alzato dicendo che gli avevano portato via le scarpe.

Gira gira sono andati a finire all’asta del capitano e lì botte!

Il capo blocco ha parlato poi con i tedeschi e l’hanno messo in cella di punizione, prendeva un’ora d’aria al giorno, mi vedeva e diceva “Quando passiamo da Milano ti do i soldi … prima non me li hai rubati, adesso me li hai rubati” … Non potevo farci niente.

Arriva la liberazione l’hanno lasciato andare il 28 aprile e a me il 1 maggio, alla mattina alle 9,15 ero con altri miei amici, Ferrato, Costa, Rossetti Gino che non è venuto qua, abbiamo fatto la strada insieme e ci siamo fermati a Trento e ho detto “Ragazzi, se il Capitani è a Trento o lo faccio fuori, anche se ci sono i tedeschi, in qualche modo lo faccio fuori”, ero deciso!

Vi era Montefiori a Trento, vi era il posto di ristoro dal prete, davano … vi è anche una canzone “Quattro fagioli nel pugnatino, brodoleo, brodoleo” e ci ha dato 250 lire.

Vi era anche il dottor Campodonico che è stato picchiato forte a Genova e dico “Dove è il Capitani?” “Non farti vedere che ha paura di te!”. “Paura o no lo voglio far fuori” “Lascialo stare lo portiamo a casa”

Mi ha convinto e ho chiesto a Montefiori, “Lo porti a casa te? Lo mettiamo a Migliarina davanti alla Chiesa dentro una gabbia e la festa la devono fare le madri o le spose dei detenuti” “Sì, sì, io qua non rimango, voglio passare il fronte, tedesco o non tedesco voglio passare”.

Passo il fronte, abbiamo trovato tedeschi e non hanno detto niente, una brigata di fascisti ci ha chiesto i documenti, in quel mentre è passato un aereo inglese e questi scappano.

Dopo un po’ capitiamo in un rastrellamento tedesco, avevano sentito sparare e abbiamo detto: “Adesso come facciamo?”

Andare indietro non si può, andare avanti non si sa ….. andiamo avanti!

Non ci dicono niente e montano sul monte per il rastrellamento.

Dopo un po’ troviamo un battaglione di Brigate Nere, italiani.

D: Quando eri nel campo di Bolzano ricordi se deportati con voi vi erano anche sacerdoti?

R: Sì, c’erano!

D: Ricordi anche i loro nomi?

R: Non li ricordo, anche a Bolzano ho fatto la Comunione per Pasqua, da ragazzo andavo in chiesa a servire la Messa e da quella volta ho detto non ci vado più, mi hanno insegnato di essere a digiuno a fare la Comunione, fare la Comunione senza essere a digiuno, poi ho avuto episodi ai monti… per la fame chiedere al sacerdote, al prete qualche cosa da mangiare, siamo in 12 e siamo senza soldi, dove andiamo a mangiare?

Chiama la sorella, tira fuori una formaggetta di pecora e una pagnotta.

“Dammi il coltello” dice la sorella, prende il coltello, taglia una fetta di pane e due fettine di formaggio … non ci ho più visto, avevo le mani sulle bombe, ho detto “Siamo in 12, come facciamo?” Siamo tornati indietro e glielo ho buttata in faccia, “Grazie lo stesso”, se volevo con le armi potevo prendere quello che volevo invece non l’ho fatto.

D: Ricordi se vi erano bambini nel campo di Bolzano?

R: I piccoli non li ho visti, avevamo un’ora d’aria al giorno, al mattino vi era la conta poi mandavano fuori a lavorare e gli altri erano fuori a prendere l’aria e noi avevamo un’ora d’aria al giorno.

D: Ricordi se hai visto azioni di violenza nel campo di Bolzano?

R: Ho visto la tigre che snervava bene, picchiava!

D: E’ successo un episodio, quello pugnalato, dove è successo?

R: A Bolzano vi è quel castello in alto che si vede, lo avevano anche fatto saltare, era un deposito di munizioni e i partigiani l’hanno fatto saltare, credo che sia stato su quelle montagne, questo preparava la legna con il tedesco di guardia, dai oggi dai domani, con la confidenza, lo ha disarmato, il tedesco è andato …è stato pugnalato, l’hanno portato dentro al campo di concentramento con un telo da tenda, hanno fatto l’assemblea, tutti quanti a vedere, ha spiegato che questo andava a tagliare la legna, con la confidenza con il tedesco ha avuto la meglio e lo ha pugnalato.

“Dovete stare attenti, a chi va fuori succede qualche cosa, la stessa cosa succede a voi, come questo!” Noi non potevamo nemmeno scappare perché avevamo una taglia di 500 lire.

D: Quando è successo questo, te lo ricordi?

R: A marzo o aprile.

D: Parlavi prima della Pasqua, che cosa è successo?

R: Non ho preso la Comunione, sono stato dentro con questo Opicini, eravamo liberi, si poteva camminare, vi era un frate di Belluno, sono andato dalla parte delle donne e ci hanno dato quattro pagnottine e abbiamo detto “Bruno, questa è una bella Comunione, non quella là” …

D: Valter, ricordi quando eri nel campo di Bolzano se potevate scrivere o ricevere posta o pacchi?

R: Io no non ho saputo niente.

D: Ricordi se era entrata la Croce Rossa nel campo di Bolzano prima della liberazione?

R: Vi era un prete che faceva parte del Comitato di Liberazione e mandava dei pacchi, anche le donne, la Cicci, la Marta riceveva i pacchi da casa e i pacchi che ci dava la Croce Rossa li passava a me.

D: Chi era questa Marta, una deportata?

R: Una deportata, suo padre era uno del Comitato di Liberazione, un partigiano, lei mi ha detto che era di Merano e poi ho chiesto alle donne “Di che parti era Marta, di Merano?” “No, verso Belluno!”

D: Hai nominato prima la Cicci, chi era?

R: La Cicci faceva la Kapò nel campo delle donne, era milanese, alla mattina era sempre fuori a fare ginnastica.

D: Ti ricordi degli ucraini?

R: Erano due che facevano sempre la guardia sulle garitte, erano fetenti perché chi comandava lì dentro era Colonia che era di Verona, delle SS, Lanz di Trento, era una SS alpina, aveva il cappello con tutte le stelle alpine, non era cattivo. Colonia era cattivo.

D: Non hai mai avuto bisogno di andare in infermeria?

R: Sono andato perché c’era uno, quando davano il rancio, che era stato nelle Brigate Nere, nella Repubblica di Salò, quello lo avevo come fumo negli occhi, questo mi passa avanti e ci siamo presi, lui si è girato con la gavetta di ferro e me l’ha data in testa e sono andato in infermeria. Lì ho trovato l’avvocato Duci, mi hanno messo la benda, non il cerotto, per quello che quella donna ebrea voleva la marmellata, mi davano da mangiare per quello.

D: Quando parlavi di Trento, la liberazione, siete arrivati a Trento, siete andati da un sacerdote, ricordi chi era questo prete?

R: Non chiedermelo, alla sera il problema era andare nella case bombardate, dove andiamo, in galleria, abbiamo visto un vigile del fuoco, un ragazzo, e ho detto “Domandiamo dove è la caserma dei pompieri”. Infatti ci ha detto di andare dal comandante e ci hanno ospitato lì, ha detto: “Non abbiamo letti ma vi do delle coperte e dormite sul pavimento di legno”. Alla sera ci hanno dato da mangiare e siamo stati abbastanza bene. Vi era il problema di fare la scorta per il viaggio, facciamo la conta ed è toccato a me e ad un altro. “Ora c’è la tessera, chi va a prendere la roba?” Andiamo ai forni e chiediamo da mangiare, qualche soldo lo avevamo, 250 lire, allora erano qualche cosa, chiediamo del pane, e diciamo che veniamo dal campo di concentramento e le donne quando sentivano così pagavano e ci davano i bollini e abbiamo fatto la scorta per la strada.

D: Ricordi dove era il posto di ristoro a Trento?

R: Me lo ricordo …

D: Quasi vicino alla stazione?

R: Quasi vicino alla stazione, vi è un anfiteatro, un portico, dietro vi era la stazione, era lì vicino.

D: Non era un frate …

R: No, no, era un prete, tanti sono ritornati due volte a prendere la razione e anche i soldi, da buoni italiani.

D: L’ultima cosa del campo di Bolzano. Ricordi quando eri nel campo di Bolzano se vi era un Comitato di Liberazione interna?

R: C’era, tanti hanno avuto lo scontrino che non erano partigiani, io che lo ero non l’avevo.

D: Valter, grazie!

R: Prego!