Raimondo Ricci

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D.: Ci dice come si chiama, quando è nato?

R: Io sono Raimondo Ricci, sono nato nell’aprile del 1921; ho compiuto 79 anni e la mia vicenda relativa alla deportazione ha delle origini non immediate rispetto al periodo in cui sono stato deportato: sono entrato nel movimento antifascista, cioè ho preso delle posizioni antifasciste ed ho cominciato quella che allora chiamavamo la “cospirazione” quando ero studente universitario alla scuola normale superiore di Pisa, esattamente nell’anno 1939-1941, cioè da quando ho vinto il concorso nel settembre del 1939 a quando sono stato richiamato sotto le armi. Nella seconda metà del 1941 ho finito il corso di allievo ufficiale all’accademia navale di Livorno e sono stato designato, nominato ufficiale di marina. Come ufficiale di marina ho potuto scegliere la destinazione e l’ho scelta – nel frattempo mio padre, che era magistrato, era morto in Africa – nel comando di Imperia, la mia città di origine e anche già durante il periodo militare ho continuato ad avere rapporti in qualche modo anche progettuali ed organizzativi ma, in una forma ancora abbastanza informe con gli amici che avevo sia a Pisa, Genova e Imperia avevo e che appartenevano al movimento antifascista.

L’8 settembre del 1943, dopo un lungo periodo di servizio militare come ufficiale, allora ero addetto all’ufficio cifra del mio comando – io ho potuto seguire l’occupazione da parte dei tedeschi del comando marina di Genova; poi il 9 settembre ho visto i tedeschi del comando marina di Genova arrivare ad Imperia perché da Genova sono venuti dalla riviera di ponente per completare l’occupazione.

Nel frattempo da ponente, diciamo dalla Francia affluivano tutti quanti i militari sbandati dell’esercito italiano, che si era in gran parte dissolto, anche se poi c’erano stati episodi di resistenza di coloro che non avevano voluto cedere le armi, quindi anche qualche scontro a fuoco ma nella grande generalità il motto imperante era, come è noto, “tutti a casa”. Questo anche e soprattutto perché erano mancati gli ordini, era mancata l’organizzazione di una qualsiasi previsione di difesa rispetto alla ben prevedibile occupazione tedesca quando si fosse da parte italiana annunciato l’armistizio; quindi vi fu quella specie di fuga dalle proprie responsabilità del Re, di Badoglio e di tutto quanto lo staff dei militari italiani e di casa Savoia, che è ben noto e consegnato – anche in un modo abbastanza sconcertante – alla storia del nostro Paese.

Fin dai giorni immediatamente successivi al 9 settembre del 1943 io mi sono dedicato a sperimentare la possibilità – naturalmente insieme a tanti altri amici – di organizzare un movimento di resistenza armata all’occupazione tedesca. Il fascismo di Salò non era ancora sorto: cominciò a segnare la propria esistenza nel mese di novembre; il nostro nemico era sostanzialmente il tedesco occupante, il quale faceva già sfoggio dei propri metodi, che del resto i militari italiani avevano conosciuto anche quando avevano combattuto fianco a fianco con i tedeschi. Io insieme ad altri amici, in particolare ad Imperia, dove ho operato, ci siamo impossessati di armi, di qualche mezzo meccanico, l’abbiamo portato in montagna e di lì è nato il primo lavoro molto faticoso: era un lavoro che sembrava promettere una possibilità di organizzazione e poi invece magari deludeva questa prospettiva per poi rialimentare la speranza di riuscirvi, di organizzazione delle prime non ancora formazioni vere e proprie ma chiamiamole “bande” – così del resto si chiamavano nel gergo comune –“bande armate della Resistenza”.

A metà dicembre del 1943, praticamente tre mesi dopo circa l’inizio di questa attività e dopo l’armistizio io ebbi l’incarico, dato che avevo anche assunto una responsabilità di commissario in una banda partigiana, di recarmi a Genova per prendere dei contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria che, a sua volta, era via via in fase di organizzazione.

Stetti a Genova, cercai di partire in treno il più riservatamente possibile e tuttavia fui segnalato da qualcuno che riferì di questo mio spostamento – la mia presenza in montagna era ormai nota. Mi fu fatta la posta per tre giorni, tre giorni mi fermai a Genova e la sera del terzo giorno quando dalla stazione ferroviaria di Imperia e porto Maurizio, di sera inoltrata mi recavo in bicicletta, verso l’interno per ritornare in montagna, fui fermato da militari armati – chiamiamoli così – dell’UPI, cioè ufficio politico investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana, che nel frattempo si era costituita. Venni arrestato insieme a mia sorella, che mi era venuta a prendere alla stazione, mia sorella fu detenuta per tre, quattro giorni e poi lasciata libera. Io invece venni sottoposto a pressanti interrogatori perché si voleva sapere da me evidentemente l’organizzazione armata a che punto era e così via. Per fortuna – dico per fortuna per me – non c’erano ancora stati scontri particolarmente accesi e c’erano state però molte azioni d’impossessamento di armi, vettovaglie e tutto quanto serviva all’organizzazione logistica delle formazioni che andavano costituendosi; fui pestato a sangue e non torturato perché c’è una bella differenza tra l’essere picchiato e l’essere torturato e fui detenuto ad Imperia abbastanza a lungo, cioè fino al febbraio del 1944; quindi stetti ad Imperia quasi due mesi e nel frattempo il movimento partigiano, che io avevo lasciato forzatamente a seguito del mio arresto andava avanti, si organizzava.

La provincia di Imperia è stata la provincia che ha partecipato fortemente alla lotta di Resistenza: vi furono i primi morti, vi furono i primi combattimenti e nel febbraio del 1944 avemmo la notizia del combattimento di Alto, sopra Albenga, in cui fu coinvolto uno dei nostri più bravi, più valorosi e prestigiosi comandanti, Felice Cascione, che diede poi il nome ad una divisione garibaldina, la divisione Cascione. Ebbi notizia in carcere di questo combattimento con i tedeschi appoggiati da armati appartenenti alla Repubblica di Salò e dell’uccisione di Felice Cascione, un giovane medico di qualche anno più vecchio di me, ma un giovane particolarmente prestigioso, grande sportivo, grande figura anche morale nella Resistenza impierese e nazionale; motivo questo di profonda amarezza e di profondo dolore.

Proprio in quel periodo, subito dopo, i fascisti mi consegnarono alla Gestapo.

Venni trasferito nel carcere di Savona dove stetti diverso tempo e successivamente fui trasferito ancora nelle mani delle SS; attraversai un lungo periodo di detenzione nelle carceri di Imperia, esattamente nella IV sezione delle carceri di Marassi, che era quella proprio organizzata ed a disposizione delle SS dove comandava il comandante del servizio di polizia di sicurezza nazista di tutta la Liguria, che aveva sede a Genova, cioè quel tenente colonnello delle SS Siegfried Engel, che, con una sentenza abbastanza recente del 15 novembre 1999, quindi pochi mesi fa, è stato condannato all’ergastolo per le responsabilità che ha avuto in quattro grandi eccidi compiuti nei dintorni di Genova.

Venni arrestato, voglio dire trascorsi questo periodo di detenzione nel carcere di Marassi fino a quando agli inizi, nei primi giorni del giugno 1944 fui trasferito insieme ad altri detenuti, a tanti compagni, tra cui uno dei massimi dirigenti del partito d’azione, l’avvocato Eros Lanfranco, ed altri amici carissimi come il commercialista di grande cultura, Franco Antolini, mio amico fraterno anche se di qualche anno più vecchio di me. Insieme a tanti altri venimmo trasferiti in campo di smistamento di Fossoli di Carpi – il campo di Bolzano non aveva ancora cominciato a funzionare in quell’epoca – e poi successivamente, a metà giugno del 1944 venni in vagone piombato trasferito nel campo di eliminazione di Mauthausen, e di qui cominciò la mia esperienza di deportato.

D.: Le volevo chiedere, si ricorda il suo numero di Fossoli?

R.: No.

D.: Si ricorda se assieme a lei nel campo di Fossoli c’erano anche dei religiosi?

R.: Mi pare di sì. Io a Fossoli non stetti molto, meno di quindici giorni, stetti una decina di giorni. Vi incontrai degli amici di Imperia che erano stati mandati là prima di me perché erano stati in un primo momento arrestati poi liberati poi riacciuffati da parte dei fascisti e dei tedeschi. Lo so che c’erano dei religiosi sicuramente. Uno, di cui divenni poi fraternamente amico, e che condivise l’esperienza della deportazione è stato don Andrea Gaggero. Quindi don Gaggero è stato uno degli uomini che hanno più fortemente testimoniato l’esperienza della deportazione e quindi don Gaggero era con noi. I religiosi furono numerosi.

D.: Il viaggio di trasferimento da Fossoli a Mauthausen come se lo ricorda?

R.: Ma, dunque io questo viaggio di trasferimento lo ricordo come un viaggio estremamente faticoso e l’idea dominante fu quella però di vedere se riuscivamo ad organizzare e realizzare la fuga. Nello stesso vagone dove io mi trovavo vi fu l’organizzazione di un tentativo di fuga che solo in parte riuscì. L’organizzammo nel senso che uno di noi, che io non conoscevo precedentemente, piuttosto magro ma estremamente deciso progettò e poi realizzò nel corso del viaggio d’infilarsi nel piccolo finestrino che era chiuso da filo spinato, diciamo spostando, questo sbarramento di filo spinato, portarsi dalla parte esterna del vagone e poi attaccandosi alle sporgenze del vagone stesso riuscire a ribaltare la chiusura a gancio calante dall’alto che quindi poteva essere ribaltata. Riuscimmo, riuscì con questa manovra lui stesso a gettarsi fuori perché era riuscito ad uscire dal finestrino ma con grandi sforzi e con l’aiuto naturalmente di coloro che erano all’interno e poi ad aprire di un breve spiraglio la porta, appunto operando dall’esterno in modo da consentire a tre di noi di fuggire. Il tentativo di fuga degli altri, io dovevo essere il quinto a prendere il via, non fu più possibile perché il treno arrivò in una stazione; si fermò, le SS si accorsero di ciò che era avvenuto, chiusero ermeticamente il finestrino e si diedero anche alla caccia di coloro che erano fuggiti, per fortuna senza essere riusciti a riprenderli. Comunque si scatenarono anche contro di noi; non vi furono lì per lì delle esecuzioni, ma insomma cominciò quell’operazione di terrore che ha poi accompagnato tutta quanta la nostra vita nei tempi successivi.

Io posso dire che durante questo avvicinamento a Mauthausen, non sapevamo, quale sarebbe stata la nostra sorte poichè ignoravamo tutto, io almeno ignoravo tutto ed anche i miei compagni ignoravano tutto. Ci scherzavamo persino sopra: qual era nei campi il sistema di eliminazione, come i tedeschi, i nazisti l’avessero organizzato e sapevamo che andavamo in una destinazione che il fatto stesso che era ignota apriva la nostra possibilità, il nostro destino ad ogni possibile soluzione ma non eravamo assolutamente informati di ciò che sarebbe avvenuto.

Siamo arrivati a Mauthausen, come normalmente avveniva per i trasporti, di notte. Era una notte calda perché eravamo come ho detto alla metà di giugno e con le nostre povere suppellettili, le nostre valigie con quel poco che eravamo riusciti a trasportare, un po’ di effetti personali, un po’ di cibo, qualche marco tedesco in tasca, che le famiglie erano riuscite a farci avere attraverso il filo spinato di fossili, che non era del tutto impenetrabile. La mia unica sorella – i miei erano morti tutti e due – venne a trovarmi e mi diede un aiuto sia in cibo, perché io avevo ormai cominciato a soffrire la fame durante il carcere, e mi fece avere questi generi di conforto e anche un po’ di marchi tedeschi che avrebbero potuto servire.

La realtà è che arrivati a Mauthausen ci trovammo in un mondo non preventivamente immaginato. Io ho sempre considerato molto difficile raccontare l’esperienza dei campi di eliminazione e quindi anche la mia esperienza personale perché il mondo nel quale venimmo a trovarci era un mondo talmente diverso sotto mille profili da quello che potevamo immaginare o da quello che avevamo vissuto; pur nelle sue privazioni, nelle sue violenze e nelle sue sofferenze, ho sempre pensato che raccontare del campo di eliminazione fosse come raccontare l’esperienza di Marte agli abitanti della terra: siccome gli abitanti della terra non hanno mai conosciuto né potuto immaginare quale fosse l’ambiente di Marte era difficile riuscire a realizzare una comunicazione ed una comprensione reale della situazione in cui venimmo a trovarci. Posso tentare di dare qualche elemento.

Noi arrivammo di notte, fummo concentrati nella parte del lager che era destinata proprio ai trasporti in arrivo, era la prima parte della notte e progressivamente con il passare delle ore venimmo privati via via di tutto. Ci vennero portate via progressivamente le valigie, quelli di noi che le avevano, gli abiti, ci fu ordinato di toglierci gli abiti e poi via via, tutto quanto avevamo. Questa progressiva spoliazione, che veniva fatta su ordini delle SS un po’ da lontano, ma soprattutto dei kapò o di altri internati, i quali erano delegati a questa funzione, continuò fino al momento in cui si realizzò il solito rituale di accoglimento – che è diventato il solito quando lo abbiamo poi conosciuto – che era un rituale attraverso cui il sistema concentrazionario nazista dei campi di eliminazione ed anche di sterminio tendeva ad annullare completamente la personalità degli individui. Insomma l’attacco, io ho sempre pensato che il sistema era studiato scientificamente perché poi questo rituale era uguale per tutti i campi. I campi che furono installati in Germania, soprattutto nel corso della guerra, furono ben 1.200 circa, forse più perché alcuni vennero distrutti e se ne persero le tracce. Quindi un numero enorme. L’obiettivo era quello di ottenere prima l’annullamento della personalità degli individui cioè degli etfling, cioè dei prigionieri, degli internati che non erano prigionieri di guerra, che non erano detenuti – diciamo come uno normalmente detenuto per aver commesso un crimine – erano soltanto dei segregati destinati all’eliminazione. Se appartenenti poi a determinate categorie, per esempio alla razza ebraica, addirittura allo sterminio programmato. Possiamo interrompere un attimo?

Quando possiamo riprendere me lo dice.

Prego.

E questo rituale consisteva nella spoliazione completa, anche di tutti gli indumenti anche più intimi, quindi nella nudità assoluta; eravamo tutti uomini, nel transport di cui facevo parte non c’erano donne. Ma il trattamento che veniva riserbato alle donne, che venne riservato anche a Mauthausen. Mauthausen fu un campo nel quale le donne affluirono solo nella fase finale perché fu uno degli ultimi campi, se non l’ultimo campo, ad essere liberato. Il trattamento anche per le donne era lo stesso. Quindi denudati completamente e poi avviati alle docce; per noi furono effettivamente docce di acqua caldissima, di acqua bollente prima e di acqua fredda dopo e alla depilazione completa di ogni parte del corpo, quindi dei capelli, della testa, del pube e di tutto quanto il corpo. Quando uscivamo da queste docce, voi sapete bene che nell’ esperienza dei campi soprattutto, ma anche a Mauthausen c’erano le camere a gas; ma soprattutto di quelli che furono costituiti appositamente per lo sterminio degli ebrei e degli altri oppositori e quindi quelli in cui lo sterminio aveva dimensioni più massicce e di quelle che furono realizzate nei campi organizzati in una prima fase, a cui Mauthausen apparteneva.

Ma la questione non era tanto metodologica quanto quantitativa: c’erano delle grandi stanze che sembravano delle docce ed invece erano delle camere a gas, e dai tubi usciva il gas venefico anziché l’acqua come nel caso nostro. Anche a Mauthausen c’era questa situazione che però non era di normale funzionamento nei confronti dei trasporti ma perché venisse realizzato dovevano esserci determinate condizioni che poi per molti internati si verificarono anche a Mauthausen.

Dopo tutto questo noi eravamo praticamente come dei vermi. Naturalmente questo trattamento era particolarmente scioccante perché la spoliazione completa, questo trattamento di depilazione assoluta, queste docce calde e fredde, la distribuzione di indumenti che erano dei pantaloni e camicie a strisce bianche e blu verticali che venivano distribuite assolutamente in modo casuale senza alcun riferimento alle dimensioni di ciascun individuo, per cui qualche aggiustamento si poteva fare soltanto tra di noi scambiandocele quando un indumento troppo stretto era capitato ad una persona troppo alta, troppo grassa, troppo grande o viceversa e tutto questo creava una situazione di sgomento, era come un gran pugno nello stomaco dal quale non era facile riaversi. Noi abbiamo cercato, direi un po’ tutti di tenerci alto il morale l’uno con l’altro, eravamo italiani per fortuna tutti insieme almeno in quella prima fase. Però questo era la prima accoglienza alla quale si univa lo spettacolo, in particolare a Mauthausen: lo spettacolo era a sua volta molto scioccante perché Mauthausen ha l’aspetto di una grande fortezza medioevale. Occorre ricordare ma noi non lo sapevamo allora, io stesso queste cose le ho sapute dopo la liberazione; ecco perché la nostra memoria deve anche essere elaborata successivamente al momento in cui noi abbiamo vissuto determinate esperienze.

Mauthausen era sorto, sulla collina sulla quale era stato edificato a tre, quattro chilometri dal paesino di Mauthausen appunto, perché lì c’era una grande cava di pietre, di pietra particolarmente pregiata, molto dura e consistente di pietra scura che era divenuta per acquisto fatto proprio di proprietà delle SS.

Le SS erano un’organizzazione, è nota come la milizia al servizio totale e indiscutibile del Fuhrer – di Hitler – comandata dal reich Fuhrer delle SS, Himmler; fin dalla nascita legata però da un patto di morte con il Fuhrer della Germania, del popolo tedesco, cioè Adolph Hitler. Questa milizia, legata da questo patto cadaverico al suo conduttore ed al capo del popolo divenne ad un certo momento un vero Stato nello Stato, uno Stato dentro il Terzo Reich, uno Stato che aveva poteri assoluti su tutti i cittadini tedeschi, non parliamo poi sugli abitanti degli altri paesi che venivano via via invasi dalla Germania e quindi un potere di vita e di morte. Io arrivo a dire questo che non si può capire l’essenza, e le SS erano la quinta essenza del sistema nazista come sistema di potere, non si può capire se non si acquisisce questa consapevolezza: il nazismo concepiva il proprio potere come un poter assoluto e indiscutibile di cui a nessuno si sarebbe dovuto rendere conto sulla vita degli altri; il potere assoluto di vita e di morte. E le SS, gli appartenenti alle SS erano i depositari di questo potere a assoluto che discendeva loro direttamente dal loro grande capo, il Fuhrer della Germania e del popolo tedesco.

Il sistema concentrazionario al quale Mauthausen apparteneva era una delle espressioni dirette di questo sistema di potere che avrebbe dovuto essere il modello attraverso cui si esprimevano i grandi privilegi della razza superiore, la razza ariana, come ben sappiamo; e nella razza ariana il popolo tedesco come popolo destinato a dominare il mondo. Una concezione che aveva anche quella base ideologica che via via fu creata dagli ideologi del Terzo Reich perché c’era questa concezione che sapeva anche di tradizione barbarica, come è noto; e difatti confluiscono tutti questi elementi nel progetto di dominio fondato su una superiorità di razza e sul diritto di eliminazione delle razze ritenute inferiori o dannose, come gli ebrei, rispetto ai grandi destini del popolo tedesco o delle altre razze che erano destinate comunque ad essere ridotte in schiavitù o soggiogate dal potere della razza dominante. Questa era la concezione di cui i campi di eliminazione tra cui Mauthausen, erano non gli unici ma fondamentali strumenti di attuazione.

D.: Senatore, si ricorda quando è stato immatricolato lei a Mauthausen?

R: Certo, noi fummo immatricolati, io non mi ricordo nemmeno la matricola 41 mila e tanti, ma i numeri di matricola erano assegnati riassegnandoci i numeri dei morti insomma, quindi diciamo il numero di matricola in sè.. Io ho i documenti a casa con il numero di matricola però adesso in questo momento a memoria non lo ricordo. L’immatricolazione avvenne immediatamente. Ci fu assegnato un numero che dovevamo poi portare sulla nostra cosa, non ci venne a Mauthausen tatuato come in altri campi avvenne sulle braccia o sulle mani però l’immatricolazione avvenne il giorno successivo a quello del nostro arrivo, quando cioè fummo destinati al blocco di quarantena. Io fui destinato alla baracca 17; adesso nel campo di Mauthausen la baracca 17 non esiste più perché è stata demolita; sono state conservate soltanto alcune baracche esempio nel campo di Mauthausen, del così detto campo di quarantena.

Perché Mauthausen era una grande centrale di un sistema di circa 40 campi dipendenti, campi satelliti per così dire. Quindi Mauthausen, significa non il solo campo di Mauthausen, ma significa altri 40 campi. Lo stesso sistema vale per Dachau, vale per Buchenwald vale per tutti gli altri campi che vennero via via costituiti successivamente. Ecco perché la dilatazione enorme del numero dei campi alcuni dei quali avevano molti prigionieri, altri erano fatti anche da piccole unità di prigionieri.

Il sistema della quarantena, dunque anche durante la quarantena fummo destinati a lavorare. Io lavorai per giorni e giorni di seguito alla cava di pietra, un luogo terrificante di morte: era il luogo nel quale, quando si volevano eliminare un certo numero di individui, questi venivano mandati sotto le scudisciate delle SS e di kapò su per i centottantasei gradini della scala con dei carichi di pietra sulle spalle, carichi che potevamo scegliere noi quando non eravamo destinati all’eliminazione; ma se qualcuno un gruppo era destinato all’eliminazione, venivano scelti dagli aguzzini, chiamiamoli così, dai capi, i quali caricavano i prigionieri anche in rapporto alle loro forze di carichi superiori a quelli che avrebbero potuto portare sulle proprie spalle per centottantasei gradini. Allora i prigionieri naturalmente non ce la facevano, cadevano, venivano colpiti dagli aguzzini con i bastoni di gomma, con gli scudisci, venivano colpiti con i calci dei fucili delle SS che seguivano e poi venivano uccisi; e questa scala fu un luogo nel quale venne uccisa moltissima gente.

Io ricordo che nel luglio del 1944, prima di andare in trasporto in un campo dipendente, come adesso dirò tra un attimo, vidi lungo quella scala che veniva proprio percorsa dagli ex ufficiali, dagli ufficiali e sottoufficiali tedeschi che erano stati coinvolti nell’attentato a Hitler nel luglio ’44 in cui Hitler rischiò di perdere la vita ed invece gli furono bruciati solo i pantaloni, quello che avvenne nel suo bunker sul fronte orientale, vennero in gran parte inviati nel campo di Mauthausen ed erano proprio in un blocco vicino al nostro, vicino al blocco 17 dove io ero ristretto. Costoro dovevano essere destinati all’eliminazione ed io li vidi lungo quella scala caricati di quelle pietre e poi mitragliati dall’alto con fotografie che mostravano tentativi di fuga perché i tedeschi avevano anche cura di cercare di operare le messe in scena nelle quali erano maestri. Avevano già fatto la messa in scena dell’aggressione alla Polonia fingendo un attacco dei polacchi nei confronti delle loro postazioni di confine, avevano fatto la grande mistificazione dell’incendio del Terzo Reich attribuito ai dirigenti e sindacalisti socialdemocratici e comunisti nel 1933 e quindi erano maestri di mistificazioni di questo tipo.

E anche lì si tentò di rappresentare la fuga di questi poveri, diciamo valorosi militari che avevano avuto il coraggio di ribellarsi ad Hitler e di organizzare il tentativo di sbarrare la sua strada verso la distruzione del mondo e della stessa Germania. Comunque questa cava fu un luogo di tortura e badate qui c’è una contraddizione terribile alla quale io ho sempre pensato, che in qualche modo non ho risolto. Era un luogo nel quale si sono eliminate decine e decine di migliaia di persone ma in genere il campo di Mauthausen e la cava in particolare ancor più che la camera a gas, era un luogo in cui veniva tratto dalle SS un ritorno economico perché le pietre che venivano tratte da questa cava furono quelle che servirono per edificare questo campo sulla collina e dargli quell’aspetto di fortezza medioevale sulla quale campeggiava il famoso motto “Arbeit macht frei” “il lavoro rende liberi” e poi per esportare e per inviare questo materiale. Questa pietra sezionata a Berlino per essere utilizzata in quelle costruzioni, in quei progetti architettonici che erano uno dei sogni di grandezza di Hitler: Hitler si occupò sempre molto di architettura e pensò sempre ad un’architettura che tramandasse il suo grande disegno che avrebbe dovuto avere durata millenaria nel tempo consegnarlo anche i grandi edifici e le grandi realizzazioni simboliche che dovevano configurare architettonicamente la stessa faccia del Terzo Reich.

Ad un certo punto del luglio del 1944 venni inviato in un campo dipendente a Großramming vi arrivai con un gruppo che era di circa duecento, trecento e tanti italiani – con me vi erano l’avvocato Elio Lanfranco, di cui ho parlato prima, vi erano il povero Mino Steiner di Milano, vi erano altri amici della deportazione – e venimmo trasferiti in questo campo di Großramming dove fummo adibiti alla costruzione di una centrale idroelettrica. Quindi lavoro all’aperto, lavoro molto duro sotto il sole per quel primo periodo; il campo era un campo relativamente piccolo, meno di 1.500 internati. Facile era la previsione del nostro destino se fossimo rimasti a lavorare in questo campo anch’esso governato secondo gli stessi sistemi che venivano attuati in tutti i campi di eliminazione. Poco cibo, un cibo assolutamente inadeguato a contrastare la fame e la fame acuta diventava fame endemica, cioè una fame non più saziabile perché derivante da un assoluto deperimento organico e non dalla mancanza di cibo per uno o più giorni o anche da più settimane ma proprio da un decadimento dell’intero fisico; i prigionieri che via via diventavano larve, diventavano esseri che molto spesso perdevano anche il dominio dei propri istinti e questo era uno degli scopi a cui tendeva il sistema concentrazionario e quindi anche dal punto di vista lavorativo rendevano anche molto poco.

Ecco la contraddizione. Da un alto si volevano realizzare grandi progetti come quello della cava di pietra, come quello della centrale idroelettrica, come quello di tanti altri lavori attraverso lo sfruttamento del lavoro di questa massa di schiavi. E dall’altro lato si aveva nei confronti di questi schiavi che eravamo noi un trattamento tale da non consentirci neanche di conservare quelle forze che avrebbero reso il nostro lavoro più redditivo, e trattati in un modo tale per cui il nostro destino era inevitabilmente quello della morte, cioè quello della malattia, della consunzione, della morte per deperimento, la morte per i mille accidenti che possono capitare in una situazione di questo genere quando la situazione dominante è quella del terrore, dovuto alle mille insidie della nostra vita. Un terrore che a poco a poco nel tempo si affievolisce e poi la fame e il terrore, la fame e il terrore.

Noi vivevamo tra l’assillo della fame da un lato e le urla dei comandi che ci veniva gettati addosso in tedesco dall’altro lato ed i contatti che riuscivamo ad avere tra di noi, quel tanto di solidarietà che ci stringeva, che fu anche solidarietà molto intensa in alcuni momenti ma che non sempre era solidarietà, è inutile nasconderlo: le condizioni estreme nelle quali noi conservavamo la vita hanno fatto anche sì che nei campi molto spesso si verificarono anche delle situazioni non di solidarietà ma di contrasto, quando un pezzo di pane ed una gamella di zuppa potevano rappresentare un elemento di sopravvivenza. Rubare il pezzo di pane o impossessarsi della gamella diventava un qualche cosa che era direttamente connesso con la possibilità di sopravvivere.

Io non so se dire qualcosa della mia esperienza diretta, sono sopravvissuto perché a Großramming il campo è stato smantellato ed è stato smantellato per fortuna il primo di settembre del 1944; quindi tutto il comando, tutto il gruppo di prigionieri di quel campo ritornò a Mauthausen, perché nei piani economici tedeschi la costruzione di quella centrale fu ritenuto un lavoro non prioritario rispetto alle necessità dell’economia bellica.

Questa fu una fortuna per noi perché se così non fosse avvenuto, ai primi freddi sicuramente la massima parte degli italiani … io stesso sarei stato tra quelli perché molto malconcio, nonostante avessi allora ventidue anni e quindi una certa capacità di resistere, quando si è così giovani; la nostra fine sarebbe stata inevitabile. Intanto perché le nazionalità arrivate per ultime non avevano trovato il loro incasellamento e quindi in qualche modo erano le più esposte alla decimazione per così dire, e quindi saremmo sicuramente morti nella grandissima maggioranza.

Il campo fu smantellato ai primi di settembre, non era ancora arrivato l’inverno; rimpatriammo a Mauthausen ed io da allora feci tutto quello che potei, quel poco che mi era possibile per andare ancora una volta in transport perché mi resi conto che un grande campo di trenta, quarantamila internati, come era Mauthausen, c’erano maggiori possibilità di sopravvivenza.

Io vidi tutto a Mauthausen, subii tutto, tutto: le torture, i pestaggi, il lavoro, vidi nella parte finale della mia esperienza le fosse dei cadaveri, che venivano riempite quando i forni crematori non erano più adeguati a bruciare i morti, nel senso che le morti si succedevano con un ritmo eccessivo.

Fui in qualche modo spettatore se non testimone diretto della rivolta del blocco 20, dove gli internati che ivi avevano un trattamento particolarmente offensivo e vessatorio, tentarono la rivolta e riuscirono a fuggire in seicento morendo al 99%, se ne salvarono 5 o 6, non di più. Vidi, subii tutto. Dovetti anche trasportare i cadaveri ma ebbi anche alcuni elementi di fortuna, come appunto può accadere in un grande campo.

Conosco bene lo spagnolo, per metà del mio sangue sono di origine sudamericana, mia madre era argentina ed ho avuto modo di conoscere degli spagnoli, soprattutto due fratelli, che mi hanno aiutato a salvarmi la vita. Nel senso che gli spagnoli erano una delle prime nazionalità che prima della guerra, o perlomeno all’inizio della guerra, non prima, furono concentrati a Mauthausen perché catturati nel cerchio di Dunquerque; “Perché?: una rapida spiegazione”.

Questi spagnoli erano reduci della guerra di Spagna, espatriati dalla Catalogna quando la Repubblica spagnola venne definitivamente sconfitta in Francia, dai francesi internati in campi di concentramento che si trovavano vicino alla costa atlantica. Quella parte della costa dove fu poi accerchiato l’esercito inglese, che si trovava presente nel territorio francese. Ecco perché rimasero, furono praticamente, caddero nelle mani dei tedeschi quando i tedeschi spinsero a mare gli inglesi e la vicenda di Dunquerque è nota.

Questi ex combattenti della guerra di Spagna, combattenti per la repubblica, per la libertà della Spagna, vennero offerti da Hitler a Franco e Franco non li volle. E allora Hitler li concentrò in vari campi ed in buonissima parte nel campo di Mauthausen.

Vi arrivarono e si dedicarono alla costruzione e all’ampliamento del campo, buona parte del campo fu costruita da loro. Subirono le loro perdite poi, via via che il campo si dilatò, nelle loro mani si trovarono tutti i servizi essenziali del campo: le lavanderie, le cucine, i servizi di barberia, quelli stessi che vennero a rasarci con i rasoi, a toglierci i peli dalla testa, dal pube, dalle ascelle, dappertutto, dal petto chi li aveva, erano spagnoli. Quindi i servizi del campo erano in mano loro e naturalmente questo possesso dei servizi consentiva loro di avere delle inevitabili posizioni di privilegio.

Devo dire la verità, tra loro c’era una fortissima solidarietà e gli spagnoli non si prestarono mai anche perché erano tutti combattenti della stessa guerra e quindi un grande spirito di fraternità ed anche di comunanza ideale li univa e quindi erano, molto forti. Nessuno di loro si prestò a quelle funzioni repressive e vessatorie che furono invece le funzioni attribuite ai kapò, che erano quelli che dominavano i blocchi, cioè le baracche, quelli che conducevano i gruppi al lavoro, che nella grandissima maggioranza erano dei triangoli verdi, cioè dei criminali comuni, criminali della peggiore specie che proprio per la loro capacità criminale governavano gli altri.

Ecco quando io ho parlato di Marte rispetto all’esperienza della terra, io non dico che in una situazione normale nel mondo in cui viviamo i migliori siano sempre al vertice ma perlomeno c’è una sorta di riconoscimento di ciò che dovrebbe essere il meglio al vertice, insomma, cioè si agisce sempre in nome di fini di carattere superiore o comunque la selezione dovrebbe, ed in molti casi lo è stato, una selezione positiva. Il mondo era completamente ribaltato cioè la selezione che consentiva di porre con assoluta potestà di dominio degli uomini a governare gli altri, ad ucciderli sempre naturalmente come emissari e longa manus delle SS, quindi su mandato delle SS, erano i peggiori.

Erano i criminali, erano coloro che avevano capacità di continuare a commettere crimini. Questa specie di ribaltamento di quello che dovrebbe essere l’ordine naturale delle cose è un qualcosa che bisogna vederlo, bisogna sperimentarlo per rendersi conto di cosa significhi. Il mondo alla rovescia per così dire.

Ecco perché la realtà dei campi non è facilmente comprensibile nella sua estrinsecazione e poi nella vita di ogni giorno. Questa è l’esperienza attraverso la quale sono passato. Ho avuto anche la fortuna di qualche italiano. Ho avuto un amico fin dal periodo di Imperia, un architetto, l’architetto Alberto Todros di Torino, quasi mio coetaneo, uno o due anni più di me, con il quale fummo deportati insieme; era un giovane molto aitante, molto simpatico, conosceva un po’ il tedesco, quando fu censito ed immatricolato gli si chiese cosa faceva e lui, non so esattamente cosa disse, ma insomma un’attività di carattere pratico ed allora venne destinato a dei lavori, a delle attività – perché tutti dovevano lavorare nel campo – che in qualche modo creava qualche situazione di maggiore possibilità di sopravvivenza.

Noi che eravamo studenti, io, per esempio, studente in legge, in giurisprudenza, ero fatalmente destinato come tanti altri giovani alla pala ed al piccone, quindi ai lavori di assoluta manovalanza, che erano quelli in cui si rischiava la propria esistenza.

Questo mio giovane amico ebbe la fortuna di entrare nelle grazie di un capo tedesco esclusivamente – di un capo di un comando importante – esclusivamente perché si era dimostrato capace, su sua richiesta, di tracciare determinate linee su di un quaderno dove questo capo, essendo a capo di un grande comando, il Baukommando, doveva scrivere le statistiche del lavoro giornaliero. Tramite questo amico Alberto, io ebbi tutta una serie di facilitazioni sia pure episodiche, sia pure momento per momento, che certamente mi aiutarono ad uscire vivo da questo inferno, anche se poi però la mia vita, proprio per il fatto di essere passato attraverso esperienze di ogni tipo fu molto condizionata dal caso, molto affidata alle circostanze casuali per le quali uno può vivere e morire proprio come getta i dadi su un tavolo verde.

D.: Senatore prima parlava di due fratelli spagnoli che l’hanno aiutata. In che modo?

R.: Dandomi qualche zuppa in più. In particolare in questo modo, e facendomi avere dei piatti di zuppa aggiuntivi rispetto a quella di rape del tutto acquosa e quindi assolutamente inconsistente, in cui si trovava qualche pezzo di carne in più. Essenzialmente in questo modo.

D.: Come si ricorda la liberazione di Mauthausen?

R.: Mauthausen venne liberata in due fasi successive. La liberazione ufficiale avvenne il 5 maggio del 1945, perché questa è la data in cui arrivarono gli americani in forze con le loro autoblinde, i loro carri armati al campo. Però le SS fin dal 2 maggio se ne erano andate ed avevano lasciato il campo nelle mani della polizia di Vienna. Quindi in un regime già meno vessatorio anche se la gente moriva ancor più di prima perché la denutrizione galoppava ed il campo, essendo diventato il punto dove erano affluiti dai campi circostanti o anche lontani, molti internati; erano arrivati ed anche grossi contingenti femminili, pullulava di gente in cerca di cibo.

Quindi la fame galoppava. I morti erano tanti ed aleggiava un’aria di decomposizione e di morte sopra questi campi. Noi ad un certo momento, dopo che le SS se ne andarono, riuscimmo a liberare il campo, a disattivare cioè il circuito elettrico, ad alta tensione nel filo spinato che circondava il campo e a impossessarci delle armi che erano all’armeria delle SS e poi anche in un’altra armeria, a distribuirle a coloro che erano in grado di cooperare con il comitato di liberazione del campo.

Perché lì c’era un comitato clandestino, che aveva funzionato anche nei periodi più bui, naturalmente estremamente segreto, che tuttavia era riuscito ad avere diciamo dei momenti organizzativi. Il fratello di Gian Carlo Pajetta, Giuliano Pajettta, faceva parte di questo comitato clandestino, quindi aveva una funzione, anche perché veniva riconosciuto a livello internazionale perchè nel campo c’erano – vi ho parlato degli spagnoli, ma c’erano anche molti superstiti, reduci, della guerra di Spagna e lui era uno di quelli.

Quindi il Comitato di Liberazione armò dei gruppi, delle squadre, alcune delle quali si posero in condizione di difendere il campo, perché c’era sempre il ritorno delle SS. I nazisti avevano il progetto di distruggere tutti i campi e questo progetto lo attuarono in molti casi, alcune volte li evacuarono, altre li distrussero.

Io credo che di molti campi si siano perse le tracce perché furono completamente distrutti. Naturalmente a Mauthausen non riuscì perché per uccidere decine e decine di migliaia di persone ci vuole tempo ed organizzazione e naturalmente mancavano il tempo e mancava l’organizzazione in questa fase convulsa del finale della guerra per fare un’operazione di queste dimensioni.

C’era in più anche da parte loro, finalmente, il bisogno di cercare di salvarsi e c’era anche e quindi si realizzò una situazione di questo tipo.

Feci parte di uno di questi gruppi ed il compito che mi venne assegnato, con il fucile a tracolla, o in mano o in braccio era quello di fare la guardia, anche di notte alle cucine, perché nel campo c’era ormai una torma di persone ridotte ad una vita puramente istintiva, quella condizione alla quale avrebbero voluto condurci i nazisti, proprio come uno dei loro elementi programmatici, il cui fine era quello di trovare cibo ad ogni costo.

Quindi se le cucine non fossero state presidiate sarebbero state invase e saccheggiate e questo avrebbe provocato ulteriori guai in una situazione nella quale il problema dell’alimentazione era diventato un problema drammatico. Quindi io feci armato la guardia alle cucine del campo di Mauthausen per impedirne il saccheggio.

Questo è il mio ricordo della liberazione del campo. Furono catturati alcuni dei capi nei dintorni da questi gruppi che si erano resi responsabili. Io ne vidi linciare sulla piazza alcuni. Io mi sono sempre rifiutato; nonostante tutto quello che ho subito avevo conservato tanta coscienza di me e senso di responsabilità per riuscire a comprendere nonostante tutte le sofferenze e tutta la fame che la via della ritorsione violenta era proprio quello che dovevamo cercare di evitare. Li vidi linciare, e quindi compresi le ragioni del linciaggio; era la naturale vendetta di chi aveva subito cose inenarrabili da parte di queste persone; molti riuscirono a farsi rendere prigionieri, non so bene quale sia stata la loro sorte. Quindi questo è il mio ricordo della liberazione del campo; so che subito dopo il comitato di liberazione del campo fu sottoposto anche a me; emanò un proclama a livello internazionale; perché vedete noi oggi parliamo tanto di Europa ma questi campi erano una riproduzione di unità europea perché c’erano tutte le nazionalità dell’Europa in cui il dominio nazista si era esteso; quindi in tutta Europa, direi fino al Caucaso o fino a Mosca e alla Norvegia; tutte queste nazionalità erano presenti nel campo. Direi che questa esperienza di unità europea nella sofferenza dell’annientamento e dell’eliminazione ha una grande (importanza).

Canestrari Alessandro

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Alessandro Canestrari, sono nato a Marano Lagunare, provincia di Udine, il 10 agosto 1915.

D:  Quando sei stato arrestato e perché?

R:  Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944 perché ero il comandante del battaglione “Tregnago”, che io stesso fondai. Avevano il sospetto che io fossi l’artefice dell’atto di sabotaggio nei confronti del municipio di Tregnago, in quanto con un gruppo di altri partigiani lo avevamo bruciato per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE, di cui facevo parte, consisteva nel fatto che nei pressi c’era un gruppo di una grossa divisione tedesca: sopra Finetti stavano facendo delle fortificazioni per arrestare l’avanzata degli alleati. Allora gli inglesi chiesero, tramite la RYE, di bombardare lo stabilimento dell’Italcementi di Tregnago.

Io convocai i pochi partigiani – erano pochissimi durante la lotta, diventarono tanti al 25 aprile del 1945 …

Pur essendo giovani di età, ci opponemmo al bombardamento dello stabilimento perché gli operai sarebbero rimasti senza lavoro, ed erano 225. Inoltre il bombardamento avrebbe provocato delle vittime civili. Siccome la RYE esigeva un atto di sabotaggio a motivo della presenza dei tedeschi nel paese, approfittai della situazione e dissi: “Bruciamo l’anagrafe con i documenti ed accontentiamo il comando della RYE!” Una notte, di cui non ricordo più la data, con le corde siamo saliti nella sala consiliare; io avevo in mano una latta di benzina, la buttai nell’ufficio anagrafe, naturalmente il fuoco si propagò, per fortuna arrivarono i pompieri e l’incendio fu domato: però tutti i documenti vennero bruciati.

Allora le Brigate Nere, ma soprattutto l’UPI, l’Ufficio Politico Investigativo, la cui sede era presso l’ex caserma del Teatro Romano dove pure fui prigioniero, ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato; approfittai di un fratello missionario comboniano che per un paio di giorni mi nascose nella casa madre di Verona dei Padri Comboniani. Sennonché quando vennero a casa, le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, che era staffetta partigiana. Mia sorella aveva una gamba rigida a causa di un’operazione subita a 4 anni; quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto non vi dico il mio stato d’animo! Avevo rimorso; mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava, della faccenda della sorella. Vagai un po’, nascosto a Verona, poi una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del nostro bambino, tornai a casa.

La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono. Mia madre uscì, aveva le trecce, i capelli lunghi, uscì in camicia da notte, gridando: “Siete voi la rovina dell’Italia!”; la risposta di un certo Pollastri fu: “Queste parole le pagherà suo figlio”; infatti mi diedero una bella dose di bastonature.

Mi portarono alla sede delle Brigate Nere nella scuola Sanmicheli di Verona, ed il giorno dopo nell’altra sede del Giardino Giusti, dove c’era quel famoso criminale, il capitano Gradenigo delle Brigate Nere.  Ero al Giardino Giusti il giorno 23 dicembre del 1944; Gradenigo mi disse: “Questo è il più bel regalo di Natale” e mi diede una dose di bastonate. Non sentii alcun dolore, pur avendo la schiena striata di nero e di rosso e sanguinante. Ne chiesi il motivo ad un medico dopo la liberazione: mi disse che era la tensione nervosa. Volevano sapere i nomi dei miei partigiani; sapevo che bastava un nome perché tutti venissero arrestati. Allora accusai i partigiani morti della “Pasubio” dell’incendio del municipio. Ringraziando Dio, avevo una lingua discreta, e mi aiutò la divina provvidenza, tanto è vero che sono decorato di medaglia di bronzo al valor militare per non aver rivelato niente di importante alle Brigate Nere.

Da lì mi portarono alla sede dell’UPI, dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato, poi medaglia d’oro al valor militare. Dall’UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi per 15 giorni circa. Dal Forte San Leonardo mi richiesero le SS e finii al palazzo dell’INA. L’interrogatorio delle SS fu pesante; avvenne mi pare al quarto piano. L’interprete tedesca, trovandomi con la lingua sciolta, mi chiese un sacco di cose; dissi di essere stato ufficiale di collegamento col maresciallo Rommel in Africa. In parte era vero ed in parte non era vero, perché allora ero solo sergente maggiore; la mia divisione, la “Trento”, era in contatto con la divisione tedesca; vedevamo spesso il maresciallo Rommel che portava sempre i guanti grigi anche in Africa, rispettato da noi perché era un grosso generale. Dissi che mentre il Re tradiva e scappava, dimenticando che centinaia di migliaia di soldati erano morti al grido di “Avanti Savoia!”, io facevo il partigiano soprattutto perché quando fui promosso ufficiale in Grecia davanti alla bandiera giurai fedeltà alla Casa Savoia. Questo fu il motivo per cui io, ancora il 9 settembre del 1943, andai alla ricerca di armi e cominciai ad organizzare Tregnago, Illasi, Selva di Progno, Badia Calavena, Calmiere, cioè la mia zona. Poi diventai il presidente del CLN mandamentale.

L’interrogatorio durò sette ore; inavvertitamente, parlando misi le mani sulla scrivania, e il tenente tedesco mi diede un colpo con la stecca e mi disse: “Educationen, educationen!”

Morale della favola, mi condannarono a morte. Immaginarsi, avevo le mascelle che battevano da sole! Ero giovane, avevo una moglie di 20 anni con un bambino di otto mesi. Andai in cella, eravamo 16 / 17 persone; c’era un frate, padre Corrado Toffano, morto  nel 1996 in odore di santità, sorrideva sempre. Ricordo un episodio che lo riguarda: un mattino, quando ero in campo di concentramento, le SS furono con noi particolarmente dure. Dissi a padre Corrado: “Padre Corrado, c’è un salmo nel breviario di cui non ricordo il numero in cui si maledice il padre ed il padre del padre”.  “Date le maledizion alle SS! – rispose padre Corrado, che parlava sempre dialetto – un prete benedice sempre, non maledice mai”;  mi colpì, lo ricordo con immenso affetto.

D: Che cos’era la RYE?

R: Informazione militare, comandata da militari, formata quasi tutta da militari; il comandante a Verona era il dottor Carlo Perucci, allora capitano. Si fece paracadutare sulle linee dei partigiani. Alla Liberazione lo accusarono di aver abbandonato i suoi aderenti, di aver fatto il professore. Alcuni anche lo accusavano, ma questo io non lo so, del fatto che non arrivavano mai i lanci ai partigiani. La RYE però, più che atti di sabotaggio, era incaricata di fare spionaggio. Quindi io parecchie volte ho dato al dottor Bonamini, che faceva parte della RYE, elenchi di armi che i tedeschi avevano in Tregnago, in particolare quel tipo di mitragliatore che chiamavano “la lingua di Hitler”.

Poi nel CLN fui istruito dal dottor Gianfranco De Bosio, che rappresentava il partito della Democrazia Cristiana. Andato nel campo di concentramento, ebbi la ventura e la gioia di conoscere il professor Perotti  che sapeva parlare di politica; noi non sapevamo niente. Ci parlò per la prima volta di marxismo, alla sera quando ci chiudevano nei blocchi. Girava il libro “Il Capitale” di Carlo Marx, che io lessi proprio in campo di concentramento. Ricordo che quando mi fermai sulle parole secondo cui la religione era l’oppio dei popoli, siccome io provenivo dall’Azione Cattolica, dissi a Perotti, che il comunismo non faceva per me.

Proprio alla fine, verso i primi di aprile (1945), si formò il CLN del campo. Siccome il partito della DC era già ricoperto dal professor Baroncilli, ma era libero il posto del Partito d’Azione, io immediatamente volli rappresentarlo.

D: Ritornando ancora alla RYE, chi la sosteneva? chi dava gli ordini?

R:  Il capitano Perucci era il capo, poi c’erano dei colonnelli, tra i quali il colonnello Andreani, che finì in campo di concentramento con me, medaglia d’oro al valor militare.

D: Prima hai parlato del giardino Giusti: cosa c’era al giardino Giusti?

R: Lì fui interrogato dal capitano delle Brigate Nere Gradenigo; lì si picchiavano i partigiani. L’interrogatorio non avveniva alle scuole Sanmicheli; alle scuole Sanmicheli c’era il carcere al piano sotto, e al piano sopra c’erano le Brigate Nere, tra cui bambini di 11 / 12 anni che dallo spioncino della porta puntavano la pistola contro i prigionieri e dicevano: “Partigiano, domani sarai morto!”. Lì c’erano anche le ausiliarie e il cappellano delle Brigate Nere don Calcagno, o padre Eusebio.

Siccome era Natale, mi pare padre Eusebio chiese chi volesse confessarsi. Nessuno di noi andò a confessarsi perché sapevamo che era il cappellano delle Brigate Nere, anche se il prete ha il segreto confessionale e non c’era motivo di avere dubbi, ma nessuno di noi si confessò.

Direi che sono stato trattato con maggior dignità dai tedeschi che non dai fascisti.

Le SS in campo a Bolzano picchiavano. Seppi da amici comunisti del campo che vi entravano armi. Io ero caposquadra cavi telefonici e un giorno ci fecero la perquisizione al nostro rientro dal lavoro. Il maresciallo Haage prese il mio portafoglio, che era un regalo molto bello di mia moglie da fidanzata, ne tolse la fotografia di noi due a Venezia coi colombi in mano, sulle spalle; dietro la foto avevo scritto “due colombi fra i colombi” e la data. Eravamo andati in viaggio di nozze a Venezia nel 1942, in piena guerra; ero venuto su dalla Grecia per sposarmi. Il maresciallo mi disse “Venise, ja Venise”, ed inspiegabilmente mi arrivò un gran sacco di pane, pane biscotto, con speck, uova sode, tanto è vero che entrai nel blocco G e dissi: “Putei, se magna!”, e distribuii. Probabilmente avrà avuto un ricordo di avventure veneziane, insomma mi trattò col massimo rispetto, al punto che alla fine di aprile arrivò a Bolzano mia suocera, che era di Trento, e quando alla guardia disse che cercava il prigioniero Alessandro Canestrari, la guardia lesse gli elenchi e disse: “Grande capo”: mi ritenevano un grande capo, invece ero un capetto, cosa da poco, avevo fatto il mio dovere e basta.

D: Con cosa ti hanno portato da Verona a Bolzano per raggiungere il campo?

R: Col camion.

D: Uno solo?

R:  Un solo camion, pieno, stipatissimo. C’era anche il professor Perotti, tre SS sedute dietro e due avanti col mitra puntato verso di noi. Lì c’è stato un episodio che racconto perché sono cattolico: quando passai sotto la Madonna della Corona, guardai su e mi raccomandai alla Madonna: “Se ritorno vivo, una volta l’anno verrò a trovarti”. Difatti adesso vado alla Madonna della Corona ad adempiere al mio giuramento, perché sono ritornato e perché mi ritengo miracolato.

D: E quando siete arrivati nel campo di Bolzano cosa accadde?

R: Quando arrivammo al campo di Bolzano ci fecero denudare. Eravamo pieni di parassiti, scherzando dicevo che c’erano pidocchi di varie qualità, alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri … Ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero una tuta bianca. Non avevamo la tuta a strisce dei campi di concentramento nazisti, bensì una tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola.

Il mio numero era 9586. Penso che prima di morire ringrazierò il padreterno e poi dirò “matricola 9586”.

Perché? Perché non ti chiamavano più con il cognome ma col numero di matricola, e quando non rispondevi ti colpivano col calcio del moschetto alle reni.

Ricordo un episodio che capitò ancora a Verona al palazzo delle assicurazioni INA, presente anche l’amico Perotti, che potete leggere nel suo libro “Inferriate”. Una SS con una bottiglia vuota colpiva sulla testa un partigiano, giù nelle celle. Io gridai “Vigliacco!” alla SS: era roba dell’altro mondo! Ecco perché sono un miracolato. La guardia si fermò, era una SS italiana, disse: “Chi è stato?”; io avrei dovuto tacere ma ero un vecchio soldato e dissi: “Io”. Andai fuori, mi diede una botta in testa col calcio del fucile, andai a sbattere contro il muro. Non ero svenuto del tutto, e vidi il calcio alzato a darmi la seconda botta che mi avrebbe ucciso. Alla fine avevo sulla testa un bernoccolo talmente alto che un colpo di vento mi portò via il berretto.

Un altro episodio è narrato dal professor Perotti nel libro citato. Andando a lavorare a Gries presso Bolzano, sentii un bolzanino dire: “Centoventi divisioni sovietiche sulla Vistola”. Allora entrai nel campo e dissi: “Putei, hanno perso la guerra! 120 divisioni sulla Vistola!”

D: Sei entrato subito al blocco G?

R: Sì.

D: Nel periodo in cui siete rimasti  nel Lager di Bolzano, c’erano con voi anche dei religiosi deportati?

R: C’era frate Corrado del convento di via Baranna che è da ricordare, perché il suo arresto è avvenuto in conseguenza dell’asilo dato ad ebrei e partigiani; i frati assistevano gli antifascisti, e ne deportarono 5 / 6 con lui; ora ricordo padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona.

D: Ricordi altri religiosi?

R: C’erano dei preti nel Lager; di uno, di cui non ricordo il nome, so che era stato arrestato perché non rivelava il segreto confessionale. Mi pare che fosse di Rovereto.

D:  Donne ne avete viste nel Lager?

R: Tantissime, ce n’erano di bellissime. Credo che fossero 2/300 dietro i fili spinati.

D:  Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano, hai avuto la possibilità di scrivere a casa o di ricevere posta da casa?

R: No, mai ricevuto niente e mai scritto niente. Solo al Forte San Leonardo abbiamo dato un biglietto al cappellano del carcere; era il parroco della chiesa dei 12 Apostoli di Verona. A lui abbiamo dato un biglietto, che però non arrivò a destinazione.

D:  Nel campo, a Bolzano, hai visto se c’erano anche dei ragazzi?

R: C’erano alcuni ragazzetti ebrei, presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti con i miei occhi. Poi c’erano quelli che venivano da Fossoli.

Ad un certo momento arrivò la casa di tolleranza di Bologna, arrestarono tutti gli ultimi giorni, e c’era la curiosità di veder entrare le donne della casa di tolleranza, invece poi non le abbiamo viste.

D: In fondo al campo …

R: … c’erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati. Direi che ogni giorno abbiamo sentito gridare di dolore e di disperazione qualche amico; tra di essi c’era l’onorevole Arnaldo Coleselli, che fu deputato con me e senatore e parlamentare europeo, purtroppo ora deceduto. L’ho visto là un paio di volte quando usciva mezz’ora per cambiare aria. Nel 1958 quando andai a Roma come deputato lo incontrai nel transatlantico e gli dissi: “Tu sei stato in galera con me!”. Non sapevo come si chiamasse, me ne sono ricordato dopo anni e anni. Era l’onorevole professor Arnaldo Coleselli, deputato con me per 4 legislature, che poi passò una legislatura al Senato e divenne parlamentare europeo.

D: A proposito di nomi, il cognome  “Signorato” ti ricorda qualcosa?

R: Era proprio monsignor Signorato il parroco della chiesa dei 12 Apostoli, di cui parlavo poc’anzi.

D: Cosa avvenne durante la Pasqua del 1945 nel Lager di Bolzano?

R: Venne monsignor Piola, che celebrò la messa, e lì fummo assolti in articulo mortis e facemmo la comunione; ho portato il santino come ricordo.

D: Chi era monsignor Piola?

R: Monsignor Piola è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio (1945); ci disse che c’era l’ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici. Ma lui, almeno così disse, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri. Alla Liberazione partimmo talmente in fretta – eravamo circa 4.000 persone – da sfondare la sbarra di legno del campo.

Il primo che incontrammo fu un maresciallo dei carabinieri, allora in dialetto dissi: “Putei, gh’è un carabiniere, semo liberi, semo in Italia!”

D: Sei rimasto tutto il periodo della tua deportazione nel lager di Bolzano?

R: No, sono stato a Gries per 15 giorni. Vicino a Castelnovale dove presi la febbre tifoide perché l’acqua, dove si defecava dentro, era inquinata. Gli ultimi 3-4 giorni con l’avanzata degli alleati ci riportarono al campo di concentramento di Bolzano, dove entrai cantando Va’ Pensiero.

D: Ti ricordi, quando eri fuori dal lager di Bolzano se vedevi un castello?

R: Si, era il castello di Castelnovale e lì vicino c’erano gallerie dove andavano per fare dei proiettili.

D: Quindi nella galleria era installata una officina?

R: Sì, nella galleria c’erano le officine per fare i proiettili.

D: Hai anche lavorato agli scavi per la posa di cavi con la tua squadra?

R: Direi che tutto il periodo l’ho passato zappando per le vie di Bolzano vecchia e Bolzano nuova.

A Bolzano nuova c’erano gli italiani. Andavamo anche a collocare le rotaie dei treni, dopo i bombardamenti, con quel tenaglione famoso con cui ognuno di noi doveva alzare 50 / 60 chili.

D:  Nel campo che hai descritto c’erano delle baracche?

R: Sì

D: E quanti eravate voi più o meno?

R: Lì ricordo un maresciallo molto umano; credo che fossimo circa 150 / 200 persone.

D: C’erano anche dei civili?

R: Sì, fuori dalle baracche c’erano le case dei civili.

D:  Lavoravate assieme a dei civili?

R: No, andavamo a lavorare nella galleria.

D: Cosa ricordi della Liberazione?

R: La Liberazione ci trovò nel campo di concentramento di Bolzano, dove fui liberato il primo maggio (1945). Ricordo che nessuno voleva prendere il documento di rilascio per la fretta, ma io, che ero un vecchio funzionario dello Stato, sapevo che ci volevano i documenti, e così mi fecero il documento di uscita dal campo di concentramento.

D: Venne distribuito a tutti?

R: A chi lo voleva; quel documento ci servì perché sulla strada trovammo delle SS in fuga e così esibendolo, non subii nessuna reazione da parte loro.

D: Hai accennato a Haage.

R: Ricordo che il maresciallo Haage era sempre elegante, anzi elegantissimo.

D: E i due ucraini li ricordi?

R: Ricordo che gli ucraini avevano sempre in mano il nerbo di bue ma non ho mai avuto nessun contatto. Mentre il tenente Titho, che era il comandante del campo, direi che l’ho visto un paio di volte.

D: E la donna che chiamavano “la Tigre”?

R: La ricordo: era una SS alta, con stivaloni e con pistola al fianco; aveva il cane che aizzava contro i prigionieri, era il terrore nostro.

D: Durante la tua deportazione nel Lager di Bolzano sei stato testimone di atti di violenza?

R: No. Però calci e parolacce erano all’ordine del giorno, intendiamoci: ci avevamo fatto il callo.

Invece devo dire che quando sono tornato a casa mia moglie non mi riconobbe perché ero calato a 48 / 50 chili. Mangiavamo i famosi “cingoli”, cioè verdura secca buttata in acqua bollente senza sale. Era una cosa nauseabonda, ci si chiudevano le narici per trangugiarla. Qualcuno nel mio blocco inspiegabilmente era riuscito ad avere alcuni dadi, e quindi nell’acqua buttavamo un pezzetto di dado salato, ma era una cosa rara.

D: Dal campo uscivano delle squadre per andare a lavorare?

R: Sì, le squadre di lavoratori. Io ero capo della squadra cavi, avevo un segno rosso al braccio sinistro.

D: E la tuta bianca?

R: La tuta bianca, il numero di matricola e, il comandante, un grado come soldato scelto italiano. Perché mi avevano scelto? Perché ero un ex ufficiale, quindi meritavo, ma dovevo dare l’esempio. C’erano le guardie altoatesine, più cattive direi dei tedeschi, tutte tranne un vecchio maresciallo. Mi ricordo un episodio: questo maresciallo mangiava un bel pezzo di speck, io ero lì che picconavo e guardavo questo speck; lui si girò per vedere se lo guardavo, mi tagliò un pezzetto di speck, lo buttò per terra, io lo presi e lo misi in bocca, in due secondi lo trangugiai. Era un maresciallo altoatesino piccoletto, vecchio.

D: A proposito di cibo: è vero che nel campo avevate dei soldi?

R: Sì ma non li ho mai presi, non si potevano neanche spendere, non c’era niente da comprare.

D: Quale fu l’attività del CLN all’interno del campo?

R: Non abbiamo fatto nessuna attività perché il CLN si costituì gli ultimi giorni in caso di sollevazione del campo. Ci conoscevamo noi cinque, nessuno sapeva niente, tenevamo il segreto.

Varini Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franco Varini, sono nato a Bologna il 5 agosto del 1926. Per la verità sono sempre vissuto a Bologna. Sono entrato nella resistenza direi quasi casualmente, ritengo di essere stato di uno tra coloro che per primi sono entrati quasi per gioco nelle file della resistenza. Prima eravamo un gruppo di ragazzi e abbiamo iniziato così, in sordina, poi dopo un certo periodo di tempo siamo stati inquadrati in una formazione partigiana, che è la quinta brigata Otello Bonvicini divisione Bologna, per il quale ho militato, militato fino a quando su delazione sono stato arrestato. Questo è avvenuto esattamente l’8 di luglio del 1944. Io ero stato preavvisato che stavano puntando i riflettori su di noi, su un gruppo di ragazzi del mio rione e pertanto questo avvertimento mi è stato fatto il 7 di luglio del 44, per cui un giorno prima del mio arresto. Ho avvertito i miei compagni i quali hanno provveduto a fuggire, io non potevo perché avevo una ragione particolare, avevo una grossa storia che mi ha quasi di fatto impedito di andar via con gli altri. Ho cercato un lavoro, concessione che mi è stata fatta da degli amici che gestivano un bar. Io sono andato in questo bar l’8 luglio del 44, fingendomi un loro lavoratore.

In effetti aiutavo, ma questo l’ho fatto solo per la mattina dell’8 di luglio, perché l’8 di luglio, un sabato del 44, mentre ero giù lì al lavoro in questa cantina, la sorella di uno dei proprietari di questo bar, amico mio, che mi aveva preso appunto in forze, tra virgolette, mi chiama e mi dice “scusa Franco puoi salire”, era una cantina interna al bar, allora erano cose un po’ diverse da quelle attuali. Io sono salito e come sono spuntato con la testa da questa sorta di scaletta che portava alla cantina, ho visto che tutti gli avventori del bar erano con le braccia alzate, all’interno c’erano dei militi della brigata nera, i quali mi hanno chiesto semplicemente come mi chiamavo, ho detto “Franco” “e poi?” quelli hanno detto Franco e basta? Sono uscito, per mia fortuna hanno dato al tutto un taglio spettacolare, dirò perché per mia fortuna, cioè mi hanno portato al centro della strada che era Viale Aldini di Bologna, un viale che ancora esiste e dove ancora esiste il bar nel quale sono stato arrestato, a braccia alzate questi quattro della brigata nera mi si sono messi di lato offrendo uno spettacolo di fatto a tutti coloro che assistevano. E dicevo perché è stata la mia fortuna? Perché mi hanno portato al loro comando, che era molto vicino, in via [san Mauro] parliamo sempre di Bologna, a circa 150 metri dal posto dove sono stato arrestato, mi hanno messo in una cella, sono rimasto circa un’ora, dopo di che mi hanno fatto salire su una macchina e mi hanno portato in via Santa Chiara, sempre una strada di Bologna nei pressi di Giardini Margherita, i grandi giardini di Bologna. Qui è vicino una palazzina, che poi in seguito ho saputo era stata requisita dalle SS, sono stato portato dentro. Mi hanno portato in questa palazzina, mi hanno portato nelle cantine che erano state trasformate di fatto in celle, mi hanno messo lì, dopo un certo periodo di tempo, parlo sempre dell’8, sabato 8 luglio 1944, mi hanno fatto salire e mi hanno portato in un ufficio. In questo ufficio c’era una sorta di gigante, un maresciallo delle SS, al tavolo sedeva un uomo dai capelli bianchi, che poi era l’interprete. Mi hanno fatto consegnare tutto quello che avevo, non avevo per la verità grandi cose: una chiave che era quella di casa, e le altre cose, documenti non so se poi l’avevo, adesso non ricordo esattamente, insomma tutto quello che avevo in tasca. E lì è cominciato l’interrogatorio. Interrogatorio fatto in uno strano modo, come probabilmente ne sono stati fatti un’infinità. Io non finivo nemmeno di dare la risposta alle domande che mi rivolgeva l’interprete che questo gigante, questo maresciallo delle SS ha cominciato a percuotermi. Era effettivamente un gigante, mi picchiava talmente forte che ogni tanto vacillavo. Mi appoggiavo al tavolo della scrivania per sorreggermi e l’interprete diceva di non farlo perché lui aveva un righello in mano, di quelli che si usavano in …, e mi colpiva ripetutamente sulle mani.

Io nella confusione per la verità debbo dire che anche a certe risposte alle quali avrei potuto benissimo dare immediata risposta direi, che non avrebbe danneggiato nessuno, rispondevo direi malamente, cioè anche alle domande se conoscevo, e mi facevano dei nomi ad esempio, personaggi che appartenevano al mio gruppo, Giorgi, Ferrucci, Magri, Tiziani ecc., io dicevo di no, era gente che abitava vicino a me, per cui dico veramente davo delle risposte molto sconclusionate. E per conseguenza percosse a non finire.

Prima ho detto che è stata la mia fortuna che il momento del mio arresto è avvenuto nel modo spettacolare che ho ricordato. Perché? Perché intanto io abitavo di fatto in un rione molto vicino al luogo dove ero andato a lavorare, il vecchio rione dei Mirasoli, qualcuno ha provveduto ad avvertire mio fratello che era renitente alla leva, nascosto in una casa, che non era la casa dove abitavo ormai da solo perché mia madre era morta e mio padre non c’era, vivevo praticamente da solo, questa casa era stata trasformata di fatto in un arsenale, era piena di armi, di queste cose.

Cosa han fatto? Finito questo interrogatorio che è stato, come tutti gli interrogati che hanno subito coloro che sono stati arrestati dalle SS, sono stato portato letteralmente da dei militari della PAI, Polizia Africa italiani che erano così, che erano in servizio, prese il comando delle SS, sono stato riportato in cantina. La mattina dopo, e questa è una cosa che io ho saputo in seguito naturalmente, perché ero giù, ero già agli arresti, verso le 4, quattro e mezza, le SS han circondato il rione nel quale abitavo e tutti gli uomini che abitavano in vicolo del Falcone, una strada che esiste ancora adesso a Bologna, sono stati arrestati. Naturalmente sono andati in casa mia, e per mia fortuna, cosa che ho sempre ripetuto e che ripeterò all’infinito, durante la notte mio fratello, assieme a due partigiani, che sono Magri, Tiziano, Giorgi e Ferruccio, hanno provveduto a vuotare completamente la casa, portando parte delle munizioni al comando della Gap di Bortolan, e le altre, perché ormai non ce la facevano, addirittura le hanno scaricate nei tombini, nelle chiaviche che c’erano nello stesso vicolo del Falcone. Di fatto quando sono andati in casa mia non c’era assolutamente niente, tutto quello che hanno portato via è stato una radio, che l’interprete poi, così direi con una di quelle che non si raccontano nemmeno, dice “questa radio” io lo guardavo “è la sua, ma le è stata sequestrata perché è stata trovata sintonizzata su Radio Londra”, immaginate un po’ se io ero talmente deficiente da sintonizzarmi. Questa è stata la prima esperienza. Io per 8, 9, 10, fino al giorno 10, tre giorni sono stato ripetutamente percosso, tant’è che mio fratello, quando il giorno dopo trovando addirittura, attraverso la resistenza, la possibilità di avere una divisa militare e dei documenti, è venuto alle SS, quando io l’ho chiamato mio fratello mi ha guardato e ha stentato a riconoscermi, talmente avevo il volto rovinato dalle percosse.

Morale della favola: il giorno 9 luglio tra gli arrestati c’era Giorgio Spada, un altro membro della resistenza, naturalmente io avevo sempre negato di conoscerlo, di appartenere ecc. ecc., perché tra l’altro le imputazioni che mi erano state rivolte erano gravissime, pluriomicidio e tutte le cose che solitamente vengono addebitate, che però non mi appartenevano i reati che mi venivano contestati, per cui mi sentivo abbastanza tranquillo. Quando il giorno dopo, il 9, durante un altro interrogatorio, io sono stato obbligato a mettermi in un angolo, su una sedia girato di spalle, mentre dicevano a questo mio compagno, che poi è venuto, mi ha seguito fino a Fossoli, Giorgio Spada, dicendogli “Franco Varini già praticamente ha confessato tutto”, e quando io ho cercato, lui mi implorava, diceva “ma che cosa hai confessato che effettivamente non abbiamo fatto niente?!” io ho cercato di voltarmi, mi ero stato ordinato di non farlo, e allora uno dei colpi che mi è stato sferrato e sono andato a finire addirittura in un angolo.

Voglio ricordare comunque che era presente all’interrogatorio molto direi coinvolto, sorridente, direi quasi felice, un ufficiale delle SS che era senza un braccio. Io non sapevo che si trattava, e questo l’ho scoperto in seguito, del maggiore Walter Reder, che è l’autore della famosa strage di Marzabotto. Comunque non gli interessava molto del mio caso.

La mia fortuna è stata comunque questa: 8, 9 e 10 percosse a non finire, fino a quando è arrivato, è stato portato davanti a me un sergente delle brigate nere che frequentava il nostro locale, il quale era colui che mi aveva fatto arrestare. Quando questo tipo si è trovato davanti a me, l’SS ha detto qualcosa all’interprete, il quale in italiano mi ha detto “riconosci in quest’uomo la persona che lo ha disarmato, che avrebbe?” lui ha avuto un attimo di incertezza, dice “era sera, non mi pare di riconoscerlo molto bene”, in quel caso probabilmente la Madonna di San Luca, protettrice dei bolognesi, ha messo una parola buona perché mentre l’interprete riferiva alle SS quello che era stato detto, l’SS alzando il tono di voce, probabilmente ha detto ancora all’interprete di ripetere la domanda, e questo forse intimorito delle conseguenze che poteva, ha tornato a ripetere, ho il mio volto devastato o che so io, ha tornato a ripetere “ma io veramente era di sera e non sono in grado con certezza”, e quello in quel momento è stata la mia fortuna, lui è stato quasi brutalmente portato fuori dalla camera, dall’ufficio dove si svolgevano questi interrogatori, io sono stato riaccompagnato nella cella, naturalmente ancora una volta privo di sensi, perché io non ero un eroe, ero un ragazzo che aveva 17 anni e mezzo e che voleva continuare a vivere. Riconosco che non era un Enrico Toti, non ero certamente uno dei grandi eroi della resistenza ma un ragazzo che aveva solo paura di morire e voglia di vivere.

Quando il giorno 11 sono stato riportato nell’ufficio degli interrogatori tremavo, ho avuto invece un attimo di, direi di sensazione particolare, perché ho visto, ho intravisto perché avevo anche un occhio semichiuso ecc., che il maresciallo dell’SS che mi aveva percosso sedeva sulla poltrona e l’interprete si rivolgeva nei miei confronti direi in un modo tutto particolare. Dicendomi al termine di tante parole che non ricordo: adesso lei firmerà questi documenti e le debbo comunicare che la sua condanna a morte, della quale io non sapevo certamente niente, è stata trasformata in lavori. Io pensavo, sul momento forse ho pensato alle donne tedesche, le patate ecc., poi probabilmente senza nemmeno ringraziare sono nuovamente crollato. E poi sono stato portato nuovamente in cella.

Il giorno 11 è stato l’ultimo giorno che io ho trascorso nelle celle delle SS di Via Santa Chiara. Dopo di che il 12 di mattina ero solo nella cella, perché il giorno prima due fratelli bolognesi, due eroi della resistenza bolognese e un giovane che era stato trovato con un’arma, un’arma scarica, erano stati giustiziati, cioè uccisi, mi spiego? questo l’ho saputo in seguito naturalmente. Ero solo in questa cella quando è stata aperta la cella verso le quattro e mezza, adesso non ricordo perché l’orario non sono in grado di darvelo, non c’era il campanile che abbiamo in questa nostra bella città che mi può dare l’ora. Sono stato portato fuori, c’era un camion vuoto con 4-5 delle SS. Non ho pensato nemmeno lontanamente che mi portassero alla fucilazione. Ho guardato in alto, c’era un cielo stellato, ho invocato mia madre perché non avevo tanti protettori in alto, allora dico se mi dava una mano.

Siamo andati con questo camion, siamo arrivati, cioè mi hanno portato davanti al carcere di San Giovanni in Monte, qui hanno caricato un’altra trentina di prigionieri, e via, siamo partiti. Quando siamo passati sulla Via Emilia, questo è un fatto che voglio ricordare perché particolare, ad un certo momento il camion era scoperto, le SS sedevano sui lati del camion, uno ha detto “l’abbiamo passato”, io sul momento non l’ho nemmeno capito, stavamo facendo la Via Emilia, voleva dire “abbiamo passato via Gucchi” che era la strada dove c’era il poligono di tiro, per cui dice qui non …

Siamo arrivati nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi di Modena, il 12 luglio del 44. Una data che va ricordata, perché il 12 luglio del 44, quella stessa mattina alcune ore prima erano stati portati fuori dal campo 70, anzi 69 perché uno di loro, Teresio Olivelli riuscì a nascondersi, e altri due riuscirono a fuggire, gli altri sono stati fucilati a… Questo è un po’, e arriviamo, qui siamo a Fossoli.

Nel campo di Fossoli mi sono direi, debbo dire la verità qualcuno ha raccontato cose forse diverse da quelle che io posso oggi ridere, non è che mi sia trovato malissimo, però alcuni giorni dopo, dopo esser stato rapato ecc. ecc., dormivo comunque su un letto da solo, e direi mi pareva che tutto il mondo ormai si fosse, le acque del mondo si fossero acquietate, ho chiesto un attimo ai miei compagni come andavano, perché avevo incontrato, oltre quello che avevano arrestato, altri miei amici, Felletti, insomma altri membri della resistenza, come andavano le cose “mi pare che qui vada tutto bene” dice “senti il giorno che siete entrati voi hanno fucilato quella gente”, e in giugno Leopoldo Gasparotto è stato giustiziato con un colpo alla testa. A me dissero che l’aveva ucciso il maresciallo Hans Haage che era il vice capo-campo, comandato da Tito ecc., dico e invece poi pare che sia arrivata una macchina, ma queste sono cose che non sono in grado di raccontare perché racconto solo quello che ho vissuto e che ho visto personalmente. A Fossoli sono rimasto fino al 5 agosto, una data che non posso certamente dimenticare, perché ricorreva il mio diciottesimo compleanno. Perché sono rimasto a Fossoli? E questo è un fatto che anche questo mi debbo assolutamente ricordare, perché debbo a Odoardo Focherini, che era nel campo, il quale poi tutte le sere, un uomo eccezionale, che mi incoraggiava continuamente, “coraggio topolino”, direi il nomignolo topolino me l’ha affibbiato lui, “stai tranquillo che ce la facciamo”. Quando verso il 20 di luglio, forse lo stesso giorno dell’attentato, hanno fatto un’adunata generale nel campo di Fossoli dicendo che chi voleva andare libero lavoratore in Germania si fosse reso disponibile. Però, l’adunata era stata fatta giorni prima, scusate, di quella data, chi era malata, chi era portatore di determinate malattie non doveva assolutamente dare la propria disponibilità. E qui Odoardo Focherini mi ha detto “tu non hai avuto nessuna malattia”, parlando del più e del meno io gli ho detto “ma, sai malattie, una serie di cicatrici dovute a dei disturbi di natura direi tubercolare” “tu dì questo”, e io ho raccontato che ero di fatto ammalato di tubercolosi ossea, per cui sono stato immediatamente scartato. Il buon Odoardo pensava in questo modo che chi rimaneva nel campo poi sarebbe stato liberato. Siamo rimasti in una trentina circa, questo dicevo fino a quando, dopo che erano partiti il 22, mi pare, di luglio, questi, il 22 di agosto scusate, questi che avevano dato la propria disponibilità, noi siamo rimasti in quel campo fino al …

No scusate ho fatto confusione, il 5 agosto ci hanno fatto il trasferimento nel campo di Bolzano, Gries, un campo di concentramento. Io voglio ricordare un fatto che non è purtroppo stato ricordato da nessuno ma che io sempre voglio ripetere: nel campo di Fossoli, faccio un passo indietro, Odoardo Focherini ci aveva consigliato che in caso di allarmi aerei ecc. ecc., noi ci dovevamo portare vicino ai reticolati perché probabilmente gli alleati avrebbero spezzonato, buttato, e noi abbiamo creduto a questa che è stata poi una leggenda, dovevano arrivare i partigiani che non sono arrivati, doveva intervenire la chiesa che non è intervenuta. Io comunque una sera corro in fondo a una baracca, quando giro l’angolo della baracca, perché c’era stato, era in corso un allarme aereo vedo un uomo, capelli neri, vestito di grigio, ricordo come fosse adesso, scarpe da tennis ai piedi, io mi fermo un attimo e dico “buonasera”, non l’avevo mai visto, quello doveva essere, o era un SS vestito con abiti civili o era uno che era dentro al campo, non sapevo che si trattava di Teresio Olivelli, colui che era stato nascosto nel campo. Lui disse “buonasera”, finisce tutto, lui sparisce, io rientro in baracca e corro subito da Odoardo Focherini, ormai eravamo rimasti in pochi, Odoardo Focherini era ormai il capo carismatico di questi, e gli dico “Odoardo sa che ho visto”, io davo del lei e lui, e Odoardo per la prima volta mi disse “che cosa hai visto? ci siamo solo noi, ma tu stai sognando!”. E io insisto, e per la prima volta, ripeto, Focherini è stata abbastanza duro, mi ha detto “tu non hai visto niente, nessuno, adesso la pianti”. Se poco mangiare ti fa addirittura, adesso la finisci e basta, non hai visto nessuno. Io a questo punto ho detto “va be’ non ho visto nessuno”, sono tornato tranquillo, e qui arriviamo al momento del 5 agosto.

D: Scusa, ti hanno immatricolato a Fossoli?

R: No io, mi hanno immatricolato ma non ricordo il numero di matricola. Arriviamo il 5 agosto, veniamo trasferiti con corriere, e questa è una delle poche volte che è stato detto, i Focherini ne hanno avuto conferma dalle lettere, dai biglietti che Odoardo mandava fuori. Ci hanno trasferito a Bolzano. A Bolzano il trattamento era abbastanza, era molto diverso, ormai eravamo già non dico in un lager ma eravamo già in un campo abbastanza pesante, delle docce che venivano fatte addirittura alla mattina con dei tubi di gomma.

Alcuni giorni dopo la mia permanenza a Bolzano, siamo tutti lì nel campo, fuori dalle baracche, quando improvvisamente i cancelli si aprono, uno stridore di freni ecc., entra una mercedes nera, io sono contro le Mercedes ma non perché sia un ferrarista, perché proprio la Mercedes mi è rimasto sul gozzo, escono da questa Mercedes 3 o 4 SS e tra questi vedo l’uomo, l’uomo, aveva 36-37 anni, a me sembrava, che ero un ragazzino, l’uomo che avevo visto era Teresio Olivelli, completamente col volto tumefatto, sanguinava ecc. ecc. Quando io sono corso a cercare Focherini, gli ho detto “guarda che l’uomo che è arrivato era quello che ho visto là”, Focherini ha cominciato a piangere, mi ha preso così e mi ha detto “sì era l’uomo che noi avevamo tenuto nascosto in una baracca”, e probabilmente Focherini era uno di coloro che eroicamente, nonostante che a casa avesse 7 figli, o 6 figli, adesso non ricordo bene, aveva provveduto a mantenere. Naturalmente nel momento in cui noi ce ne siamo venuti via secondo il mio punto di vista, io non ho certezza, non ho documentazione in proposito, Focherini ha affidato all’unica persona che rimaneva nel campo, che era uno stalliere claudicante, avrà affidato l’incarico dandogli un compenso, di proteggere Teresio Olivelli, senza dubbio di dar da mangiare a Tereso, probabilmente, io non ho mai visto arrivare lo stalliere su a Bolzano, e lo stalliere probabilmente in cambio della propria libertà ha consegnato Teresio Olivelli alle SS, perché questa è la cosa che io ho sempre pensato perché non ho certezze in proposito.

A Bolzano ci rimaniamo fino al 5 di settembre del 1944. Poi la mattina del 5 settembre veniamo portati in una stazione ferrovia, quella di Bolzano naturalmente, stipati dentro a dei vagoni che vengono piombati, ormai questa è una storia che tutti conoscono e che hanno visto, e via verso destinazione ignota. Naturalmente sul fatto del comportamento della popolazione tedesca io cito un piccolo episodio, che non vuole essere naturalmente, perché non tutti i tedeschi erano nazisti, questo va ricordato, pare che circa 700 mila tedeschi siano tra coloro che sono morti nei campi; e non va dimenticato che i primi 12 mila che sono andati a Dachau e che hanno iniziato, erano tedeschi, naturalmente oppositori del regime nazista.

Volevo dire siamo arrivati in una stazione, durante questo viaggio, ci alternavamo, c’era una finestrella nei vagoni ferroviari che c’è ancora, ma allora c’aveva un particolare: c’era del filo spinato. E allora ci alternavamo a questa finestrella, ci davano un po’ il cambio per respirare un po’ e vedere qualcosa fuori. E in questa stazione, che io ho detto era Monaco di Baviera, qualcuno può dire anche un’altra stazione, ma non è importante, era affacciato uno dei fratelli De Cassani, non so era … Arduino, erano due fratelli che erano con me. Ad un certo momento vedo che si ritrae, era assieme ad altri. Io dico “cosa succede?” perché vedo che c’è un gesto direi di un certo tipo, dice “ma fuori ci sono dei civili, che probabilmente stanno chiedendo chi sono coloro che sono nei carri” alla risposta che ricevono dalle SS sputavano contro le finestrelle. Ma dico probabilmente sarà qualcuno che era fanatico, ne abbiamo avuti tanti noi.

Il 7 settembre, e qui non facciamo confusione perché le date sono effettivamente quello che io ho fissato in modo indelebile nella mia mente, andiamo a Flossenbürg. Ci fermiamo, facciamo un tratto di strada, una salitella che ci porta all’ingresso del campo, e io ricordo il mio ingresso in questo campo: al centro avevamo Bortolotti, da una parte di Bortolotti c’era Franco Varini, il sottoscritto, dall’altra Giuseppe Marrani. Bortolotti veniva sorretto da Franco Varini e da Giuseppe Marrani perché ormai era cieco. Bortolotti che era stato arrestato, al quale avevo promesso che sarei andato poi a trovare la sua famiglia perché lui aveva certezza che io ce l’avrei fatta, cosa che io invece effettivamente, purtroppo, perché bisognerebbe tornare, cioè andare avanti nel tempo, sono tornato in condizioni disastrose, va be’, non voglio giustificarmi. Siamo entrati in questo campo, io sono rimasto subito sconvolto dall’immensità del campo, ci hanno fatto denudare completamente, io non avevo molto da perdere, non avevo neanche, ve lo debbo dire, un senso di pudore particolare, un ragazzo di 18 anni, nato e vissuto in un rione a quelle cose, ma vicino a me c’erano uomini che avevano 65-70, forse lo stesso generale Armellini ne aveva forse più di 90, perché so che è morto che aveva circa 100 anni, tutti siamo stati, e poi ci hanno messo dentro a delle grandi docce. Queste docce avevano delle finestrelle attorno, avevano un gradino per scendere direi nella zona chiamiamola così della doccia vera e propria. Tutti stipati sotto, le finestrelle erano chiuse, han cominciato ad aprire l’acqua, che era caldissima, non potevi uscire perché attorno c’avevi i kapò, i famosi capò che comandavano di fatto all’interno dei campi, con i loro Gummi, con i loro bastoni ecc. ecc. gomma fuori, gomma grossa fuori e fili di acciaio, di ferro, non so bene, all’interno, ti ributtavano dentro. Finito questo primo momento di tormento incredibile, ferma l’acqua calda, diciamo “è finita”, fanno aprire le finestrelle e comincia invece il getto d’aria fredda. Niente, finito questo calvario, siamo usciti semi-nudi, siamo andati vestiti così poi alla rinfusa, e da quel momento, e questo l’ho appreso dopo, l’ho appreso addirittura quasi 50 anni dopo che mi era stato assegnato il numero, che avevo dimenticato il nome e il cognome, era il 21.778, io ero a Flossenbürg ero il numero 21.778. So solo che è stata una cosa terribile, io credo che uno dei campi peggiori, si è detto al processo di Norimberga, nel famoso processo contro i gerarchi nazisti che Flossenbürg era considerata la fabbrica della morte, in effetti io credo che fosse la fabbrica della morte. La sera riusciamo finalmente a prendere possesso, sempre tra virgolette, passatemi il termine, della baracca, dove in castelli a tre piani venivamo collocati in tre in ogni piano. Io chiedo ad un certo momento a Teresio Olivelli, che poi è diventato il nostro interprete, ed è stato l’uomo che ha salvato un’infinità di persone, un eroe veramente, gli dico “scusa Tereso”, forse gli davo del lei, non ricordo, adesso posso dire così “io dovrei andare in latrina”. Disse “tu adesso esci, vai avanti verso la torretta, quando ad un certo momento finisce il fascio di luce, ti fermi, vieni inquadrato dalle SS e tu, in tedesco, me l’aveva già detto il nome, ripeti il tuo 21.778 dopo esserti tolto il …, il cappello. Quello borbotterà qualcosa, tu sulla destra hai le latrine“. Lo spettacolo al quale ho assistito, che non mi ha provocato l’infarto, io dico probabilmente avevo un cuore d’acciaio, quando ho aperto questa cosiddetta latrina, che è immensa, una baracca immensa, al centro di questa latrina c’era un’enorme apertura, dove probabilmente davano dei solventi, una panchina correva tutto attorno, e una specie di corrimano, se avevi un certo tipo di bisogni ti sedevi sulla panchina e facevi il tutto. Solo che la cosa che mi ha colpito è che attorno tutto attorno c’erano uomini morti, scheletri tutti attorno. Quella – in seguito l’ho saputo – era la latrina obitorio, quando durante il giorno non riuscivano a portare via tutti i detenuti, li fermavano lì, dopo avergli fatto, li lavavano, le bagnavano, gli scrivevano il numero di matricola e sotto … secondo la nazionalità, dopo di che li mettevano. Io ho aperto, ho guardato un attimo, ho chiuso la baracca, i miei bisogni fisiologici sono scomparsi, sono rientrato nella baracca mia, dopo aver ripetuto la famosa sceneggiata, ho avvicinato Olivelli gli ho spiegato la cosa, ho detto “io non andrò mai”, e lui ha detto “è questione di tempo Franco, topolino ce la farai”, ormai era il mio nome. E infatti il giorno dopo o due giorni dopo io ero lì così, guardando i poveri morti, i poveri compagni morti tutti attorno ecc., a soddisfare le mie esigenze. La vita in questo campo iniziava per noi deportati alle 4 e mezza di mattina, fuori di corsa “…”, fuori di corsa dalle baracche, sveglia, fuori, adesso lo dico in italiano perché non tutti sanno il tedesco, è una lingua abbastanza dolce, soprattutto pronunciata da questi capò, tu uscivi di corsa dalle baracche, mi spiego? tanto che loro molto direi sorridenti muovevano i loro Gummi per bastonarti, io debbo dire che ne ho prese poche, ma non perché fossi più abile degli altri, perché avevo 18 anni, perché ero un giovane, un giovane che … Fuori, stavamo tutto il giorno fuori, la mattina ti davano una sorta di gamella, di contenitore di ferro che non era neanche smaltata, era tutta arrugginita ecc. ecc., con qualcosa dentro che non ho mai saputo per l’esattezza che cosa fosse, tu bevevi sta roba. Mi ricordo che i primi tempi in questa baracca il nostro convoglio ho scritto un libro nel quale dico “eravamo in 450”, ho sbagliato, perché dagli archivi storici di Washington, cioè quelli requisiti dalla terza armata di Patton, che ci ha liberati, è risultato che eravamo invece solo 448, ho sbagliato di due unità, purtroppo non ho contato bene in quanti eravamo.

Che cosa è successo? E’ successo che i primi tempi per i 450 non c’erano a sufficienza i contenitori per mangiare, allora mangiavamo, passavamo agli altri. I primi tempi io non è che facessi direi il sofisticato, ma cercavo, poi dopo mi ricordo che il terzo, quarto giorno ho cominciato anch’io, scusate, a leccare la mia gamella, questo avveniva la mattina, a mezzogiorno ci davano delle cose che non so bene di che cosa si trattasse, e così alla sera. Stavi fuori tutto il giorno, e continuamente venivano ripetuti gli appelli, cioè 21.778, sempre in tedesco, veniva ripetuto un’infinità di volte, l’interprete, il grande Teresio Olivelli, ripeteva lui quando non eravamo pronti, dopo in seguito ce la facevamo, ma i primi giorni ti toglievi il cappello e dovevi dire “jawohl” e questo veniva ripetuto tutto il giorno. Questo era, la cosa più tragica è che purtroppo tanti che sono stati a Flossenbürg o hanno dimenticato o non vogliono ricordare, io li capisco, avviene la domenica, la prima domenica che passiamo nel campo, dopo una settimana, 3, 4, 5 giorni trascorsi nel modo che vi ho detto, la domenica non usciamo. Siamo in baracca. Cosa avviene? Nessuno di noi sa con certezza che cosa avverrà, ci fanno uscire, sempre urlando incolonnati, ci portano sotto un immenso tendone, in piedi, tutti in piedi, in fondo c’era una sorta di palco, escono dal fondo degli zebrati, degli internati zebrati, i quali ci propinano una musica che ricordo, perché in seguito ho lavorato nel teatro per tanti anni, wagneriana, infatti ho sempre odiato Wagner, mi perdoni, proprio perché dico vi immaginate, io ho pensato, pur non essendo una cima e non essendo molto addentro alle cose, all’essere umano, alla sua anima ecc., ho pianto.

Io ho cominciato a piangere, a freddo. Mi sono reso conto forse in quel momento non tante delle percosse ricevute, ma del sadismo, della bestialità di questa gente, la quale ti trattava in quel modo, sotto l’acqua, … e poi per un paio d’ore ti dovevi sorbire in piedi la musica wagneriana. Questa è stata l’esperienza che …

Fortunatamente dopo un certo periodo di tempo, noi eravamo utilizzati nella cava che c’era vicino, che era praticamente dentro lo stesso lager di Flossenbürg, fino a quando un bel giorno ci chiamano tutti e dicono: coloro che sono degli specialisti, coloro che sono in grado di svolgere un lavoro di meccanica e di alta precisione possono alzare la mano, i quali verranno sottoposti.

Attenzione – disse Olivelli – questi stanno dicendo che se voi dite di essere degli specialisti e non lo siete, è finita, è bene che diciate la verità. Io mi ricordo in quel momento di aver frequentato l’istituto tecnico a Bologna, per cui dico “io tento”, e alzo anch’io la mano e mi metto tra gli specialisti.

Ci portano tutti in fila coloro che avevano dato la propria disponibilità come specialisti. In fila passiamo davanti a un signore che ho appreso dopo che si trattava di un ingegnere italiano di Milano, un volto che io ricordo sempre, perché è stato un volto umano, veramente io non conoscevo quest’uomo, mi han detto dopo che era un ingegnere, forse era solo un geometra, ma non ha molta importanza. Sono arrivato davanti a lui aspettando che questi mi rivolgesse domande di un certo tipo, ha alzato un calibro e mi ha detto “sai che cos’è questo?” gli ho detto “sì è un calibro”, “benissimo”, e sono diventato specialista, adatto cioè ad andare nelle fabbriche che costruivano gli apparecchi, i famosi Messerschmitt dell’Ufflans. Allora va be’ sono diventato specialista. Dopo alcuni giorni le solite cose che sapevano fare molto bene le SS, “specialisti con me” poi ci portavano in cava fino a quando viene veramente il momento in cui dicono “specialisti con me”, ed è veramente il giorno in cui ci mettono, ci caricano su dei camion e ci portano ad Augsburg, dove esisteva una delle più grandi fabbriche di aerei delle Messerschmitt. A questo punto ci portano là, veniamo trasportati, addirittura mi ricordo, perché i ricordi poi riaffiorano nel tempo, che eravamo addirittura alloggiati presso una caserma militare dell’aviazione tedesca, ci portavano la mattina via con un trenino fino in questa fabbrica, lavoravamo tutto il giorno, dentro, ecc. ecc., tutti i giorni eravamo bombardati, pre-allarme fuori i civili, allarme quando già bombardavano fuori noi con le SS di fianco, e ci portavano dentro dei bunker.

Noi andavamo lì, più stavamo nei bunker e più eravamo felici, perché tanto dicevamo lì, qui siamo tranquilli, eravamo seduti là dentro, le SS sulle porte. Che cosa succede? Che verso l’8, il 9, adesso non ricordo bene, forse il 7, ma sono date che non sono molto importanti, noi in questo bunker ci stiamo addirittura una cinquantina d’ore, perché gli aerei alleati, e questa è storia, avanti e indietro dalle loro basi, hanno distrutto completamente tutto quello che era nei campi d’aviazione, gli hangar, le officine, tutto. Tant’è che quando usciti da lì ci hanno poi portato in un altro sottocampo, io ho appreso dopo che non ero più in forza al lager di Flossenbürg ma che Augsburg era sotto il campo di Dachau, e pertanto anche nell’altro campo nel quale mi hanno portato Kottern, che era vicino a Kempten, sono i due campi ecc., ero già in forza a Dachau con il numero 117.065, ero diventato già titolato, mentre prima avevo solo 5 cifre, lì mi avevano cresciuto di grado probabilmente, da 21.778 ero diventato il 117.065. A Kottern ha continuato a lavorare, io recentemente pensate, dopo tanti anni, grazie ad un’amica francese ho cercato di rintracciare due francesi, Andree Pittau, che adesso c’ha tutta una documentazione che mi è arrivata, e Jan Legauf, che grazie a loro io sono riuscito, parlo di Kottern, a sopravvivere, perché? Perché erano coloro ai quali avevo confessato, Andree Pittau era un italo-francese, che io non ero troppo bravo a fare certe cose. Allora cosa succedeva? Che stando molto attenti alle SS Pittau faceva il pezzo che era quasi simile al mio, poi Pittau mi passava il suo e io gli davo il mio che era una schifezza, voglio dire in modo buono, e ci pensava Andree. Io recentemente ho cercato, e la moglie di … Pittau mi ha scritto dal posto dove abita dicendo che purtroppo il marito, che è stato anche insignito della legion d’onore ecc. ecc. ecc. è morto, e pertanto non sono riuscito a riprendere contatto. Mentre sto ricercando ancora Jean Legauf, che mi han detto addirittura che è stato un esponente del governo di De Gaulle, ma a parte questo che non è molto importante io cercavo questi due amici perché assieme a loro io ho vissuto tutta l’esperienza di Kottern, dall’ottobre, così dicono i documenti che ci hanno mandati gli alleati, requisiti e richiesti e ottenuti da due giovani di Flossenbürg, che significa che i tedeschi sono molto bravi, i giovani tedeschi sono molto bravi, e bisogna dirlo con forza questo, loro hanno richiesto a Washington, i quali 50 anni dopo solo gli hanno mandato la documentazione. Per cui è risultato che a Kottern io sono stato fino al 27 di aprile.

D: Lì lavoravi dove?

R: Lavoravo in una fabbrica che anche lì si produceva sempre aerei, pezzi per aerei, io credo se han montato qualcosa di mio quell’aereo non si è alzato, oppure è precipitato, io me lo auguro, credo che grazie ad Andree abbiano potuto proseguire. E sono rimasto con questi due amici, ci tengo veramente a ricordare anche questi due cari personaggi, che sono Andree Pittau e Jean Legauf, perché? Perché con loro ho vissuto tutte le fasi della liberazione, fasi che sono state veramente da sole materia per non una storia, io direi proprio per un film. Pensate che ad un certo momento il 25 di aprile, io ricordo questa data, del 45, ormai sentivamo già i cannoni, gli alleati che erano vicini ecc., non ci portano in fabbrica ma ci fermano nelle baracche. A proposito di fabbriche io forse non ho detto che in questa fabbrica ho vissuto anche l’esperienza di mangiare dell’erba, consiglio a coloro che si trovano in difficoltà finanziarie o con scarsità di viveri. Perché lo ricordo? Perché quando ci portavano dalla fabbrica, anche lì allarmi aerei ecc., noi avevamo fatto, c’era un sentiero che io ho ribattezzato “il sentiero dell’erba” perché ci tenevamo, stando molto attenti alle SS, e non seguendo i consigli dei medici che erano con noi nei campi, raccoglievamo l’erba da terra che poi nascondevamo, la mettevamo sotto agli armadietti, in fatti una volta me l’hanno rubata e ho pianto, perché alla sera con l’erba, il brodo ecc., veniva una minestra di verdura che credo di non averne mai mangiate di uguali. Allora dicevo tornando a quella, il 25 di aprile del 45, quelli non ci mandano in fabbrica, ma rimaniamo dentro alle baracche. Di sera ci incolonnano, siamo circa duemila, anche questo è storia, non lo dico io ma lo dicono gli alleati che ci hanno liberati, ci portano fuori di notte, perdiamo tutto quello, una coperta ciascuno e la gamella, la famosa gamella nella quale si mangiava, da noi il cucchiaio l’avevamo, il cucchiaio insomma, non pensate che fosse argenteria o che fosse d’oro massiccio come ho mangiato in una ambasciata, una delle nostre ambasciate, ma erano cucchiai di fortuna e ci hanno portato fuori. Noi viaggiamo tutta la notte a piedi, quando viene alle prime luci del giorno fuori, ci portano fuori della strada in mezzo a dei boschi, in quella zona era pieno, … era pieno di boschi ecc., nascosti lì. Rimaniamo lì ancora tutto un giorno, il giorno dopo, il giorno dopo, dico noi pensiamo qui adesso cosa succede? cioè noi rimaniamo lì tutto il giorno, la sera fuori ancora, fino a quando il giorno dopo non aspettano niente, ci portano fuori dal bosco ormai probabilmente gli alleati erano a pochi chilometri, ci incolonnano in mezzo alla strada. Noi abbiamo ancora attorno coloro che ci badano, che non sono più i baldi giovani delle SS, ma sono dei vecchi soldati della Wehrmacht, gente che aveva all’incirca la mia età, con dei fucili che toccavano in terra, dei nanetti, insomma così. Ad un certo momento si ferma un camion fanno fermare la colonna, poi qualcuno del camion, un ufficiale, urla “postertrep” sentinelle … Questi, è giorno, è tardo pomeriggio ma è ancora giorno pieno, salgono su questo camion, io mi ricordo che alcuni di loro avevano la bicicletta, io sono molto preciso in queste cose, sono uno storico …, dico caricarono addirittura la bicicletta. Noi rimaniamo senza girare per un minuto e mezzo, due minuti al centro di questa strada, in duemila, non si muoveva nessuno. Poi improvvisamente questa colonna si rompe, qualcuno corre avanti verso un piccolo paese, noi seguendo Andree, che anche lui era esamine, sentivamo l’incitamento invece di coloro che capivano cioè i nostri ufficiali, ufficiali nell’esercito, non più ufficiali ma deportati con noi, quelli dicevano “andate nel bosco non andate verso la città”, infatti molti dei nostri, alcuni han detto molti, non so quanti, sono stati uccisi dai franchi tiratori che li aspettavano perché la nostra divisa da zebrati faceva paura. Noi siamo entrati in questo bosco, è incominciato a imbrunire, ci siamo avviati, abbiamo incontrato alcuni francesi che lavoravano già lì, i quali avevano il classico berrettino, così Jean, Andree, baci e abbracci, i quali dicono “attenzione un po’ più avanti ci sono quelle baracche di legno che servono a coloro che lavorano, forse non so a coloro che badano agli armenti o che so io, voi state lì, domani mattina vedete che ci pensiamo noi”.

Noi andiamo dentro questa baracca, siamo io, Andree Pittau e Jean Legauf, fino a quando ad un certo momento, mi ricordo dopo 10-15 minuti sentiamo qualcuno da fuori che bussa. Quelle baracche erano fatte praticamente con degli assiti che si guardava, era un altro deportato come noi, apriamo, era un giovane. Un giovane russo, per cui immaginate un po’. Il quale viene dentro, ci fermiamo lì, stiamo lì. Intanto viene mattina, perché è interminabile quella notte. E noi sentiamo lo sferragliare, allora bisogna decidersi di andare a vedere che cosa accade. Vai tu? – dice Jean – dico “no io non me la sento sinceramente, sono arrivato fin qua, aspetto” Jan dice “io ti faccio compagnia” Andree anche. E allora cosa succede? il giovane russo dice “io io” si offre lui, vai pure, ti aspettiamo qua. E infatti lui corre fuori. Dopo circa 10 minuti lo sentiamo urlare “…” ci sono i compagni, probabilmente aveva sbagliato, la stella che c’era sui carri armati non era quella dell’armata rossa ma era di Patton. Allora corriamo giù nella strada. Ricorderò sempre, ci fermiamo contro un muretto, io questo l’ho scritto anche, ho fornito materiale anche a dei giornali italiani a livello nazionale, io Andree e Jan seduti contro un muretto, non piangevo solo io, tutti e tre piangevamo, passava intanto questi giovani dell’armata di Patton, questo lo abbiamo appreso dopo. A me faceva impressione vedere i soldati con dei foulards di seta al collo, dopo poi ho visto che c’avevano anche la pistola, perché Patton era un po’ un fanatico della rivoltella, i quali ci rivolgevano gli onori militari, dalla torretta i soldati ci salutavano. E contemporaneamente ci buttavano giù tutto quello che avevano nei carri, io mi ricordo che se non stavi attento qualche scatoletta ti poteva colpire e finivi lì. Allora io mi ricordo che dicevo “tutta questa roba la porto a casa”.

Ho saputo dopo che erano gli uomini della terza armata corazzata del generale Patton. Allora lì passati loro, io la prima cosa che chiedo a loro quando si fermano, siccome gli italiani e i russi, allora erano sovietici, avevamo un segno particolare nella testa, oltre ad essere rapati a zero aveva la Strasse. Allora io quella Strasse mi dava un po’ fastidio, allora chiedo a qualcuno di questi, lo faccio dire da Andree che quasi tutti parlavano francese, io parlavo solo in bolognese e non ci intendevamo, allora dico: senti cerca di … Infatti vanno a trovare un barbiere, poveretto lo portano giù, chissà quello credeva che lo fucilassero. E quello mi ha rapato a zero, intanto mi sono messo subito a posto con la testa, anche se ero distrutto, comunque è stato il primo passo avanti, l’ho fatto.

Poi cosa succede? Ci dicono che dobbiamo rientrare, tornare indietro, stare attenti ai franchi tiratori, si fermavano continuamente delle pattuglie dell’armata di …, quei gruppi ecc. ecc., perché volevano essere fotografati con noi, pertanto fotografie, baci, abbracci. Io ricordo un particolare, tra l’altro ad un certo momento quando ho saputo da Andree una pattuglia, una delle tante pattuglie, io avevo chissà quante fotografie mie ci saranno di Andree, ci saranno di Jan saranno in America. Dice “è italiano”, c’è uno con noi, c’è un italiano. Si presenta un tipo, per noi un giocatore di pallacanestro, sarà stato 2, 2.5, mi guarda, io gli arrivavo circa all’altezza della cintura dei pantaloni, il quale mi dice “paesà”, aveva gli occhiali ricordo, magro, alto, mi abbraccia e comincia a piangere lui, io facevo “dai”, piange lui che dovrei piangere io. Non capisco bene, allora fa dire a Andree attraverso questi amici, dicono: questa sera non mangi niente perché io subito gli do. E lui mi porta il suo rancio, che era un rancio che i nostri generali mangiavano forse. Tra l’altro mi porta anche un’arancia californiana, io invito tutti i ragazzi a non mangiare le arance californiane che sono una schifezza. Allora niente, comunque è stata una cosa bellissima, questo ragazzo, che sapeva dire solo paesà, e loro han detto questo è figlio di, forse era nipote di italiani che erano stati in America, il quale era felicissimo di aver trovato. Sono rientrato a Kottern, sono rientrato a Kottern dove tre giorni dopo la liberazione ho corso il rischio di morire per una congestione perché mangiavo continuamente, anche perché mio padre, mio nonno già mi avevano lasciato in eredità una fame che appunto era atavica, e io mangiavo continuamente nonostante che i medici e anche gli stessi americani dicessero “stai calmo” io continuavo a mangiare fino a quando una sera sono svenuto e grazie agli americani, devo dirlo, perché è giusto dirlo, sono stato salvato.

Poi cosa avviene? Io tengo la mia divisa da zebrato, la tengo, ci portano in un campo di raccolta che si chiama Fissen, o Fussen, per me è Füssen che si dice, eravamo un’infinità. C’era un capitano italo-americano che non voleva più assolutamente vedermi così. Allora scendiamo ad un compromesso, lui mi dà un pastrano, io siccome non sono tanto alto, anzi direi che sono abbastanza basso, scendiamo ad un compromesso, io su quella divisa devo tenere un pastrano, il qualche aveva le maniche che mi arrivavano qua, praticamente era come un saio, arrivava ai piedi. Comunque sono rientrato in Italia in questo modo, il 25 o il 26 maggio, adesso non ricordo esattamente, forse il 27 di maggio, ci hanno caricato su dei camion, ci hanno portato in Italia, ci hanno fermato a Verona, lì ho fatto la mia rivoluzione personale, coinvolgendo tutti perché ci avevano messo dentro una caserma che era piena di cimici, allora nonostante che i carabinieri che erano alla porta ti invitassero a non uscire, noi siamo usciti, abbiamo dormito in terra comodamente. Il giorno dopo con dei mezzi di fortuna, c’erano anche dei militari italiani che ormai erano con gli alleati. Ci hanno portati fino a Modena, lì ero con un gruppo di modenesi, baci e abbracci, ci vediamo. Mai più visti. E finalmente rimango solo, finalmente no, comunque sono solo. Devo arrivare a Bologna, e io non so bene, ricordavo forse un film con Gable, la corda che si faceva così per fermare, e io mi metto in mezzo alla strada sulla via Emilia, comincio a far così senza alzare naturalmente il pastrano, fino a quando si ferma questo grosso camion. Lo guidava un negro gigantesco, il quale ad un certo momento si ferma, mi fa salire, io gli dico Bologna, lui mi fa capire che mi porta a Bologna però devo stare nascosto perché la polizia militare non voleva che caricasse nessuno. Io stavo lì con questo ragazzone, non avevo mai visto un negro così grande, veramente non ne avevo visto neanche di più piccoli, comunque arriviamo a Borgo Panigale, lui forse ha detto, gli è sfuggito Bologna o qualcosa del genere, io ho alzato la testa e immediatamente una paletta si vede che si è alzata, era la polizia militare, m’ha fatto scendere, ci siamo salutati, ho attraversato il Reno, il fiume Reno che chi è a Bologna sanno che è il fiume che passa vicino a Bologna, allora era in secca. Io l’ho attraversato a piedi, e lì c’era un sacco di persone che aspettavano i ragazzi che erano prigionieri, mostrando foto, ma come facevi? non riuscivi. Fino a quando un signore si è attardato più degli altri con me,e mi ha accompagnato fino all’unico, uno dei pochi tram che c’era ancora rimasto. Saliamo su questo tram, addirittura incontrai un bigliettai che voleva addirittura che io pagassi il biglietto, forse era l’unico bigliettaio che era rimasto, comunque il signore mi ha pagato e mi ha portato fino nei pressi del mio rione, che era il rione dei Mirasoli. Quando sono arrivato lì ho detto “senta io la ringrazio”, queste sono parole che dico in questo momento, non so cosa gli ho detto. A questo punto se lei mi permette qui ormai sono arrivato, vorrei giungere a casa solo. Ci siamo abbracciati. Io ho fatto via Solferino, una delle strade del mio rione, sono arrivato davanti al bar dove un anno prima avevo tutti i miei amici. Davanti al bar c’era Libero …, un amico d’infanzia, dico “ciao Libero”, questo mi guarda e disse “ciao” ma probabilmente non ha capito. Allora mi ricordo che c’era la formula magica, dico “Libero sono Franco, Franco Della Mina”, braci, abbracci, c’è Franco, tutti fuori dal bar, tutti attorno. Intanto qualcuno corre nel rione a urlare “è tornare Franco”, … avevano detto che ero stato fucilato. Quando dopo alcuni minuti, forse 6-7 minuti perché non ti salvavi più, volto l’angolo di via Miramonte, questa strada che io ricordo perché qui avviene il grande fatto che conclude la mia storia, c’era tutto il rione, si era in questa strada. Al centro di questa gente c’era mio fratello Renzo, aveva 22 anni, io ne avevo 18. A Renzo avevano già comunicato che ero stato fucilato, ci abbracciamo, per la prima volta, questo lo ripeto sempre, nella mia vita ho visto mio fratello piangere, e sono stato io che gli ho detto “dai Renzo basta, non piangere, è finita”. E ho capito che quel pianto liberatore, l’ho anche scritto, segnava di fatto la rinascita dell’uomo, avevamo vinto ancora una volta, perché quell’atto umanitario era il segno della nostra riconquistata dignità. Questa è un po’ la mia storia. Una storia che si conclude in questo modo.

Salmoni Gilberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.

Sono stato arrestato dalla milizia della Repubblica di Salò alla frontiera svizzera, il 17 aprile 1944, in alta montagna. Eravamo partiti da Bormio, tutta la famiglia: papà, mamma, mio fratello, mia sorella e mio cognato, cioè suo marito.

Con due guide di Bormio, Pedrazzini e Fumagalli, abbiamo camminato tutta la notte; è piovuto in bassa quota ed ha nevicato in alta quota. Eravamo arrivati al passo, che mi hanno detto dopo chiamarsi Passo della Forcola, sui 2.770 metri di altitudine. A quel punto le guide ci hanno detto che potevamo riposarci qualche  minuto, c’era una capanna; invece siamo stati sorpresi dalla milizia. Eravamo ormai alla fine della salita, non avevamo che da scendere.

Siamo stati portati alla caserma della milizia confinaria di Cancano poi al carcere di Bormio. Alla caserma di Cancano siamo stati interrogati, ci hanno sequestrato gli orologi e i soldi, che poi abbiamo trovato, ci hanno fatto firmare, una cosa del tutto regolare. Siamo stati anche interrogati nel senso che uno aveva una specie di pugnale, ma insomma non è stata una cosa tremenda, si vedeva che voleva darsi delle arie. Poi ci hanno portato al carcere di Bormio. Il carcere di Bormio è un carcere di paese; c’era un ladro con le catene ai piedi e la palla, quella delle vignette. Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e lì siamo stati consegnati alla gendarmeria tedesca. Il giorno dopo, accompagnati dai carabinieri, sul treno e ammanettati siamo andati a Como, e lì consegnati alle SS.

A Como siamo stati 5 giorni, grossomodo; poi siamo stati portati a Milano al carcere di San Vittore.

Non so come si chiamassero le carceri di Como, so che ci siamo arrivati il 21 aprile, Natale di Roma. Dicevano che era l’unica giornata in cui davano la pastasciutta invece della minestra, ma noi l’abbiamo saltata, abbiamo avuto la sbobba.

D: Poi a Milano, San Vittore.

R:Poi San Vittore. A San Vittore c’era un’organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri.

Io non ho detto fino a questo momento che eravamo stati arrestati come ebrei, anche se a rigore la mia famiglia era mista. In realtà c’era soltanto una nonna cattolica, però poi con dei documenti saltavano fuori due non cattolici. Noi eravamo battezzati, però al momento non abbiamo tirato fuori questa cosa. A San Vittore abbiam passato un bel po’ di tempo, una decina di giorni almeno.

Tra l’altro ci han portato a scavare bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti: eravamo stati caricati su un camion, tutti incatenati, una ventina di persone, e portati là con questa consegna: “Il buchetto che vedete bisogna allargarlo fino a trovare la bomba, mi raccomando non picchiateci sopra.” Ci abbiamo picchiato sopra ma non è esplosa, perché ci davano un piccone.

Di lì siamo andati a Fossoli. A Fossoli ha giocato la documentazione che avevamo, difatti gli altri ebrei son partiti per Auschwitz, noi invece siamo rimasti a Fossoli per un periodo abbastanza lungo, cioè fino allo sgombero del campo. In realtà quelli giudicati misti erano trattenuti.

D: Con voi c’erano delle donne della tua famiglia?

R: Certo.

D: Vi hanno separati?

R:Separati, però ci si vedeva, mentre a San Vittore si era insieme, non facevano separazione. Noi eravamo all’ultimo piano del raggio, adesso non ricordo se il raggio era il 5 o il 6. Le celle erano aperte, quindi si poteva circolare nel corridoio.

A Fossoli in realtà si lavorava poco, era un campo di transito, non era organizzato per seviziare. Era organizzato per trasferire quelli che poi venivano trasferiti. Comunque nel periodo in cui siamo stati lì c’è stata la chiamata per un trasporto mi pare di 70 persone, che poi in realtà sono state fucilate al poligono di Carpi. Prima di loro sono stati chiamati quelli che hanno scavato la fossa. La cosa è risultata subito evidente perché i bagagli dei 70 erano partiti e son tornati indietro. Si capiva anche perché quelli che avevano scavato la fossa ci han detto: “Non chiedeteci niente, non possiamo parlare.”

Ho dimenticato di dire che a San Vittore abbiamo avuto un interrogatorio abbastanza duro ma non tremendo, duro per mio fratello e mio cognato: mio fratello aveva 15 anni più di me, mio cognato, che è cattolico e avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di Salò, ebbe due denti rotti perché gli tirarono una pistola in bocca. Mio fratello si è preso degli schiaffoni; io ero lì fuori a vedere, a me non hanno fatto un granché. Il nostro timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno, però non abbiamo avuto torture particolari, minacce ed urla sì, ma insomma …

Fossoli è un campo in cui c’era anche uno spaccio che completava l’alimentazione che passava l’SS; era un campo relativamente tranquillo, relativamente perché vi dico c’è stata la fucilazione. Un prigioniero politico che era riuscito a scappare è stato poi ritrovato e massacrato dalle botte, in faccia a tutti sulla piazza dell’appello, apposta, chiaramente. E poi ci è stato detto che eravamo stati abbastanza in villeggiatura e che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.

D: A Fossoli sei stato immatricolato?

R: No. 

D: Ricordi se a Fossoli c’erano dei religiosi?

R:No, non lo ricordo, so che forse don Gaggero c’era. La parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello era medico ma andava nell’infermeria dove c’era Ottorino Balduzzi. E’ risultato dopo che Balduzzi era il comandante dell’organizzazione Otto che teneva i contatti radio con gli alleati. Con mio fratello si conoscevano già, Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata. Ad ogni modo noi circolavamo nella parte ebraica del campo. C’erano invece dei prigionieri olandesi ed inglesi che avevano un trattamento migliore sicuramente e non erano chiamati a lavorare. Io invece lavoravo.

D: A Fossoli lavoravi?

R: A Fossoli lavoravo, non sistematicamente, però; facevo la cernita della spazzatura, quella che adesso chiamiamo la spazzatura differenziata: noi andavamo sul mucchio della spazzatura a separare la parte metallica dalla parte non metallica. Cioè le scatolette dal resto.

D: All’interno del campo?

R:All’interno del campo. Nei primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, non ero molto bravo; poi una volta c’è stata una visita di Buffarini Guidi, che era il ministro degli interni italiano, e ci hanno organizzato un trasporto pietre, cioè c’era un mucchio di sassi e ci facevano fare la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa: una buffonata, insomma.

D: Poi hanno organizzato il vostro trasporto per l’altro campo.

R:Siamo stati portati a Verona. Allora si passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti, quindi una corriera arrivava fino ad una riva e un’altra corriera sull’altra riva ci portava a Verona.

D: Durante il tuo periodo di Fossoli hai potuto comunicare con l’esterno del campo, scrivere o ricevere?

R:Io avevo un amico di Modena, o lì vicino, non so come gli ho scritto che ero lì, se poteva mandarci qualche genere alimentare e ci ha mandato un pacco con pane e uova, adesso non ricordo esattamente. Erano i conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, bravissime persone che abitavano a Genova, e poi erano arrivati a Bogliasco dove eravamo sfollati per i bombardamenti, quindi li conoscevo bene. Eravamo molto amici con uno che aveva un anno o due più di me. Ho scritto e molto gentilmente loro l’hanno mandato. A differenza della Germania dove noi potevamo scrivere al massimo tra un campo e l’altro, ma nessuno sapeva dove fossimo.

D: Quindi vi hanno trasportato a Verona …

R:A Verona ci hanno fatto salire su un treno a Porta Vescovo, su dei vagoni, separandoci.

La separazione era già stata stabilita a Fossoli, con determinati criteri loro che poi ho cercato di ricostruire. Quindi mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due guide invece erano già state mandate a Mauthausen, però una scappò durante il viaggio e andò coi partigiani della zona di Bormio. Io e mio fratello siamo stati fatti scendere a Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto che sul vagone dove c’erano i miei c’era scritto “Auschwitz”.

Già si sapeva che non c’era da aspettarsi niente di buono. Invece sul nostro abbiamo visto scritto “Buchenwald”, che per noi era un nome sconosciuto.

D:Dici di aver visto le scritte all’esterno o nel vagone?

R:Dove mettevano le spedizioni, credo che fosse quello. Era scritto molto chiaramente “Auschwitz”, e già sapevamo bene. E’ un’informazione che non so come e quando ci sia arrivata, però io so che quando siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, dicevamo: “Vediamo se esce il gas”, quindi … erano già informazioni acquisite.

D: Da Innsbruck poi il convoglio procede.

R:Da Innsbruck i vagoni sono stati separati; noi abbiamo continuato per circa 4 / 500 chilometri più a nord, non li ho misurati. Si passa da Monaco, da Norimberga, da Weimar, e sei subito vicino a Buchenwald. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald, ci han fatto scendere dal vagone con il nostro vicecapocampo Haage, che risulta ancora  vivo ed ha circa 90 anni – su di lui c’è una pratica pendente, mi hanno chiamato in agosto i carabinieri a fare una deposizione 3 anni fa poi non se ne è più saputo niente. Ci han svegliato, probabilmente era primo mattino, ci hanno rinchiuso in una baracca buia, già pieno di gente e non si respirava, non avevamo il coraggio di aprire porte, era una situazione già di dramma. Alla mattina invece siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo. Quindi: spoliazione, doccia, depilazione, venivano buttati a caso i generi di abbigliamento che consistevano – allora era agosto – in una camicia, una giacca, un paio di calzoni, si infilava un paio di zoccoli, poi veniva dato il numero, che in qualche modo abbiamo cucito, e si veniva mandati al blocco di quarantena.

D: Ricordi il tuo numero?

R:44.573. Quello di mio fratello era 44.529. Erano numeri sparsi, e quindi per noi era un mistero fino a quando dopo la liberazione siamo andati a vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva riciclato. Quindi si tappavano dei buchi, in un certo senso, contabili.

Erano accurati, ci chiedevano quante lingue sapevamo, qual era la nostra professione, qualcuno diceva che faceva il cuoco sperando di essere mandato in cucina, ma sono assolutamente certo che l’unica ripartizione che potevano fare era per operaio specializzato.

Pochi giorni dopo che eravamo nel blocco di quarantena c’è stato un bombardamento molto forte di 5 squadriglie da 12 fortezze volanti. Avevamo una paura da matti perché sembrava che le bombe arrivassero sempre più vicine, si vedeva legname e cose varie che volavano per aria.

In quel momento mio fratello, che appunto era medico, dice: “Usciamo a vedere cosa è successo, tanto c’è  confusione, io dico che sono medico e che tu sei infermiere e vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che certamente ci saranno.” Infatti i feriti c’erano perché le baracche in cui si dormiva erano rimaste intatte, ma i deportati durante il giorno, abbiam visto dopo quando siamo entrati, erano tutti  a lavorare fuori del campo, all’interno di un secondo recinto dove c’erano fabbriche, caserme, garages di camion, macchine, motociclette, un territorio molto vasto. C’erano feriti dappertutto, feriti che si lamentavano, però non abbiamo trovato nessun responsabile identificato cui dire questa qualifica ipotetica, per mio fratello no per me sì. Allora non si poteva stare troppo fuori, rischiavamo troppo ad essere usciti dalla baracca, a rigore avremmo dovuto stare all’interno della baracca, quindi siamo rientrati.

Finita la quarantena prima del tempo, ci hanno assegnato a una baracca dove poi ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c’era lo sgombero delle macerie, e come secondo lavoro la ricostruzione.

D: Quando siete arrivati, il treno dove vi ha portato rispetto al campo di  Buchenwald?

R: Ci ha portato ad un binario morto, e avremo fatto circa 200 metri a piedi per entrare dalla porta principale, che era il comando. C’era una specie di vignetta, un quadretto con un prigioniero col vestito a righe, altri con altri vestiti, io allora ho letto “Caracoveg”, che poi era Karachoweg, perché in russo Karacho vuol dire “”grazie” e quindi era una sfottitura per i deportati che arrivavano.

D: Quando ti hanno completato la vestizione?

R:La vestizione è stata completata, si fa per dire, d’inverno. Con l’avvicinarsi dell’inverno ci hanno dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano. Poi non so come siamo riusciti a recuperare qualche cosa del nostro bagaglio. Mio fratello ad un certo momento ha iniziato a far parte dell’organizzazione clandestina del campo di Buchenwald, che evidentemente aveva del potere; le SS se ne fregavano, purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro. Quindi qualcuno poteva essere spostato, poteva avere accesso a certi posti e qualcun altro no; può essere che mio fratello, entrando a far parte del comitato, abbia avuto qualche privilegio.

D:Il tuo numero del blocco dopo la quarantena te lo ricordi?

R:Mi pare che siamo stati al blocco 43 o 48 o forse in tutti e due; erano dei blocchi a 2 piani, di mattoni o di cemento armato non lo so. Lì abbiamo passato la maggior parte del tempo e siam passati poi al blocco 14, con un certo vantaggio: nell’altro blocco c’erano in polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, i polacchi non so come mai risultavano antipatici a molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata però capita di farla, ed effettivamente con alcuni che abbiamo incontrato non ci si stava bene.

Non c’era una lingua, si parlava in tedesco, credo che una volta uno abbia provato a parlarmi in latino. Invece il blocco 14 era il blocco di francesi e belgi. Allora io il francese lo sapevo bene e mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera di Genova; quando non ho potuto andare nelle scuole statali sono andato alla scuola svizzera e lì la lingua ufficiale era il francese, ho dovuto impararlo per forza. Coi francesi ci si trovava molto bene: c’era una solidarietà fortissima, loro ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, e molto di rado, il proprietario del pacco prendeva il sapone e le sigarette e divideva in 6 parti ogni genere di alimentazione. Questa era una cosa che mi aveva veramente molto sorpreso. A me è capitato per pochi giorni di far parte di una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS e di solito lavoravo all’aperto. Quella volta mi hanno chiamato a levare le pietruzze dalle lenticchie, e ho diviso, mi è sembrato giusto dividere: le ho rubate a rischio. Immaginatevi che quando siamo arrivati c’erano credo 4 impiccati sulla piazza dell’appello per furto di patate, però siccome eravamo convinti di essere morti, cioè di non sopravvivere, non ci si faceva proprio caso, era una cosa a cui non si pensava nemmeno.

D: Quale è statoil tuo primo lavoro?

R:Il mio primo lavoro  è stato sgombrare le macerie, trasferire le travi di legno che ci dicevano di ammucchiare da una parte, i mattoni da un’altra parte, poi recuperarli, cioè levare la calce che era dei mattoni, batterli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta un deportato ha preso il numero a uno dei due, a me o a mio fratello, e l’altro ha detto: “Prendi anche il mio”. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione di Weimar a levare i binari e a sostituirli; era un lavoro tremendo.

La regola per noi, e l’avevamo capito, era cercare di lavorare il meno possibile. Siccome le SS erano abbastanza poche, limitatamente al territorio che dovevano coprire, noi si cercava di fermarci e poi si veniva avvertiti in qualche modo quando  arrivavano e ci si metteva subito a trafficare; non andava mai bene lo stesso ma insomma facevamo qualcosa. Invece lavorare nella stazione di Weimar significava essere guardati a vista da un cordone di SS sempre lì con i cani lupi, non ci mollavano un attimo. Se non smetteva questo lavoro, non so se abbiamo finito di sostituire i binari che erano usurati, o ci hanno spostato di lavoro, sarebbe stata una fine rapida, per quel poco mangiare che ci davano.

D: Con cosa andavate dal campo?

R: In treno, sul vagone, ma son pochi minuti.

D:Ricordi se a Buchenwald hai visto baracche per donne?

R:A Buchenwald c’era il postribolo, questo si sapeva, era una cosa che mi poneva tanti interrogativi; chi era in condizioni di andare al postribolo? Posso immaginare che gli anziani del campo che avevano oramai preso posti di comando potessero usufruirne, comunque donne non ne ho mai visto circolare, ho visto forse qualche moglie di SS.

D: Bambini o ragazzi?

R:Bambini no, il più bambino ero io, grossomodo il meno adulto. C’è stato quel caso che ho letto, non so se avete visto il film di Benigni: un ebreo americano è uscito dal silenzio, ha detto che era riuscito a portare in campo suo figlio. Insomma alle volte proprio ci si sorprende perché non è che si possa capire tutta la realtà del campo, ma la nostra era la prassi: doccia, lasci tutti gli indumenti ecc. ecc.;. Evidentemente è arrivato da una marcia della morte, di quelle degli ultimi tempi, quando cominciava ad esserci un po’ di calo nell’organizzazione.

D:E il lavoro alla stazione?

R:Adesso non ricordo bene se sono rientrato come aiuto muratore; abbiamo fatto un periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni, io poi andavo a prendere con la carriola la calce, facevamo la malta per i muratori veri e propri, che erano persone che sapevano mettere i mattoni; costruivano le fabbriche che erano state bombardate. 

D: Che tipo di fabbriche erano, te le ricordi?

R:Erano fabbriche di armi, questo si è saputo, non è che si vedessero le armi. Io poi ci sono stato perché un capannone era ancora in piedi e c’erano delle macchine che lavoravano; non so come ma sono andato a vederle. Si è saputo che erano fabbriche di armi perché i deportati durante il bombardamento sono riusciti a portare armi all’interno del campo. Quindi c’è stata una storia che è venuta fuori soltanto all’ultimo e che io ignoravo. Ci sono stati appunto degli interrogativi, anch’io con mio fratello non è che si parlasse volentieri di queste cose, in famiglia ci dicevano di stare zitti e di lasciar perdere.

Io non ho mai chiesto per esempio a mio fratello come mai lui dal lavoro esterno fosse rientrato prima di me; mio fratello è andato in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? mettere le pezze. Infatti una minoranza di noi aveva il vestito a righe, standard; per lo più si trattava di vestiti nostri che venivano tagliati, fatta una finestrella sui calzoni e sulla giacca e sulla finestrella cucita dell’altra stoffa; poi venivano  fatte due righe di vernice rossa pesante.

Lo stesso tipo di precauzione c’era per la capigliatura, inesistente, cioè con delle rotaie oppure con la cresta: soltanto la prima volta eri pelato, poi, come ti crescevano, ti lasciavano la crestina o ti facevano la rotaia la volta dopo. Questo immagino per evitare fughe che tra l’altro credo non si pensavano possibili: era possibile fuggire ma non era possibile resistere, ti facevano la spiata subito.

Successivamente sono andato al lavoro interno, ma questa è un’altra storia perché tutte le sere succedeva che chiamassero dei numeri per il trasporto nei campi satellite. Io sono stato chiamato a un trasporto, mio fratello era già in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? essere all’interno del campo, non dover uscire con la squadra e quindi un po’ più di libertà di azione. Io dovevo presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, mio fratello è venuto con me e con le poche parole in tedesco che sapeva si è rivolto al medico dicendo: “Sono un medico di Genova, vorrei partire assieme a mio fratello, vogliamo restare assieme”. Invece di dargli una scarica di botte, questo ha  preso nota del mio numero e del suo, e io sono stato trasferito in cucina. Quindi la cosa ha funzionato, era una di quelle cose per cui o ti ammazzano o funzionano, è stata una botta di fortuna.

Tra l’altro questo medico conosceva un professore di Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni, uno dice: “Conosci mica il professor Caterina?” “Sì, ho operato a Villa Albertani – che era una clinica privata – ho aiutato, davo i ferri”.

In cucina effettivamente sei al coperto, però era un lavoro massacrante, avrei dovuto pelare 20 cassette di patate in un giorno. Al secondo giorno avevo un polso così, e quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Era un’altra cosa: uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca, con la buccia e tutto. Ho dimenticato di dire che io ho avuto lo scorbuto, incominciavano a sanguinare le gengive, mio fratello mi ha detto: “Questo qui è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che tu trovi della vitamina C”.  Lui conosceva un medico cecoslovacco, e nonostante gradualmente le cose andassero peggio dal punto di vista della posta, i cecoslovacchi ricevevano dei pacchi; questo medico aveva della vitamina C, me l’ha data, per fortuna; io sono stato due settimane grossomodo in una situazione quasi impossibile, mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Cercavo di fare dei mucchi, ma con la roba brodosa era difficile fare dei mucchi, metterla sulla lingua e buttarla in fondo per riuscire ad ingurgitare qualche cosa. Con la vitamina C è andato tutto a posto, non ho più sofferto; ecco quanto giocò mio fratello che aveva 15 anni più di me, aveva fatto l’alpino, e continuava a dire che il motto degli alpini è “arrangiarsi”, quindi si è arrangiato.

Questa è stata un po’ la nostra storia, che ha avuto i momenti più acuti negli ultimi giorni, quando vedevamo arrivare colonne di persone dai campi satelliti o da Auschwitz. Qualcuno era arrivato da Auschwitz, e ci dicevano che erano marce tremende, che chi cadeva per terra veniva finito; noi pigliavamo atto di questa cosa. La convinzione circolante era che il campo fosse minato, che ci avrebbero fatto saltare per aria, però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per portarci in qualche altro campo, perché noi eravamo al centro della Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte. Ad un certo momento abbiamo sentito  le cannonate, abbiamo visto gli aerei che volavano più basso, quindi si è capito che dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata Weimar, e per quello che abbiamo capito il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassimo la popolazione colpita dai bombardamenti offrendo non so bene che cosa: nella pazzia non c’è limite!

Poco dopo il comitato  di liberazione internazionale che si era formato uscì allo scoperto, pur non dicendolo chiaramente; c’erano però degli incaricati che davano indirizzi del tipo: “Andate al magazzino delle scarpe e cercate di prendere le scarpe”, perché negli ultimi giorni il controllo era molto sballato. Credo che 4 o 5 giorni prima della liberazione non si uscisse più a lavorare, non funzionava più il crematorio, per cui ammazzavano i deportati e facevano le cataste di cadaveri. Le scarpe servivano in caso di marce, bisognava essere in condizione di camminare non con gli zoccoli ma con una calzatura. E poi il comitato chiamava una baracca a fare resistenza passiva, e quindi a non presentarsi in piazza d’appello.

Questa è stato la parola d’ordine, e in questo modo circa la metà del campo è stata sgombrata; hanno portato via circa 20 mila persone e circa 20 mila persone sono rimaste dentro il campo, ritardando la partenza, opponendosi non violentemente ma non presentandosi.

Allora sì si sentivano delle scariche; lo dico nel senso che noi eravamo abituati all’idea che ci facessero fuori, per prima cosa; per seconda cosa, effettivamente c’erano stati dei punti di cedimento delle SS: io avevo visto una SS che ad un prigioniero russo ha offerto sigarette, e il prigioniero russo con molta dignità gli ha risposto di non capire. Era una cosa che ti faceva svenire, dicevi: “Ma cosa sta succedendo? incomincia ad avere paura questa gente?”  E allora che cosa è successo? E’ successo che ad un certo momento abbiamo visto dei deportati, i Lagerschützer, cioè la polizia del campo costituita da deportati, con i fucili. Allora abbiam pensato di essere liberi, veramente. In effetti SS non se ne vedevano più, e questo è capitato non potrei dire quante ore prima che vedessi la prima jeep e il primo soldato americano che mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. E quindi questa è stata la liberazione del campo, in 2 fasi, ogni zona del campo era una zona a sé.

Torno indietro, perché mi avevi chiesto se avevo visto donne nel campo. Qualche deportato aveva visto Mafalda di Savoia prima del bombardamento, era in una specie di villetta esterna al recinto dove vivevamo noi dopo il lavoro, interna invece al secondo recinto dove si andava a lavorare. D’altra parte quasi interne al secondo recinto c’erano anche le villette degli ufficiali SS e le caserme.

La liberazione è stata in due fasi, in due momenti, certo è stato un momento di gioia, quasi a toccarci se eravamo vivi.

Tra l’altro 2 o 3 giorni dopo che erano arrivati gli americani, c’è stata una, non la posso chiamare incursione aerea perché non c’è stato niente, però le mitragliere americane hanno sparato per un bel po’ di tempo. Quindi non c’era neanche da stare proprio tranquilli.

D: Le date di queste liberazioni?

R: Io ho la data dell’11 aprile mentalmente, poi può essere l’11 o il 12. Gli americani erano molto ben organizzati, ci hanno dato molto rapidamente un documento di identità con l’impronta digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo. Poi si sono scoperte cose che neppure noi sapevamo, e cioè che sotto il crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio, ricordo, un mucchio di ganci, con le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato in quel modo. Poi le cose per picchiare, per torturare.

Io mi ero chiesto, come mai in un Lager ci fosse anche la prigione, di fianco c’era la prigione.  Una volta sono stato chiamato da una SS che non so che cosa volesse farmi trasportare, mi sono presentato, non mi sono levato il berretto – ecco l’indumento che mi son dimenticato di nominare – allora mi ha tirato uno schiaffone e mi ha segnato il numero. Io sono stato per un paio di giorni a vedere. E invece non ha fatto niente, o l’ha perso. Quindi questi episodi c’erano, si sapeva che qualcuno ad un certo momento spariva.

Tra l’altro abbiamo avuto nella baracca la simpatica compagnia di due fratelli inglesi, che erano dei servizi segreti, e che sono stati dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in perfetto italiano: il marchese di Roccapelosa e l’altro non lo ricordo. Ci hanno raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano deciso di arruolarsi, erano stati paracadutati in Francia, e ci raccontavano qualcosa dell’addestramento: sapevano le parole francesi in dialetto, i giochi a carte che si facevano nei posti in cui li avrebbero paracadutati, e quando hanno saputo che eravamo di Genova ci han detto “belin”. Un paio di notti prima della liberazione sono spariti, e a ragion veduta, perché anche un aviatore americano che era stato paracadutato fu impiccato un paio di giorni prima della Liberazione; anch’egli era dei servizi segreti.

Poi abbiam saputo che era stato ucciso anche il capo del partito comunista tedesco: era stato ammazzato pochi giorni prima della Liberazione. E penso altri come lui.

Dopo la Liberazione abbiamo visto una realtà del campo di cui avevamo sospetto perché il piccolo campo era un posto temuto, però non pensavamo che fosse un ammasso tale di cadaveri con gente praticamente viva, non erano ammucchiati ma stavano nello stesso letto, non si alzavano più e cercavano di prendere ancora la razione del morto. Non si muovevano più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, li abbiamo aiutati a portarli fuori, il comando americano li aveva destinati a un ospedale, ma non credo che ne siano sopravvissuti tanti.

D: Gilberto, quando tu e tuo fratello eravate a Buchenwald avete potuto scrivere qualche biglietto, qualche lettera?

R:No, noi abbiamo scritto a un altro campo, sperando che mia madre e  mia sorella fossero andate a Ravensbrück. Correvano delle voci: magari da Auschwitz le hanno trasportate a Ravensbrück. Allora abbiamo  provato a  scrivere in tedesco, non si poteva scrivere in un’altra lingua.

D:Buchenwald è stato uno dei pochissimi esempi in cui l’esercito liberatore ha portato la popolazione nel campo; tu eri presente?

R: Sì, abbiamo visto venire la colonna della popolazione.

D:  Allo stesso tempo dicevi che hai scoperto molte realtà del campo.

R:Certo. Ho scoperto in particolare il piccolo campo. Poi era venuta fuori una cosa che io lì per lì ho detto: “E’ una storia esagerata, ne han combinate abbastanza, inutile aggiungerne”, mi riferisco alle lampade con la pelle tatuata. Poi invece si è rivelata vera, come poi è venuta fuori la documentazione dell’esecuzione dei prigionieri russi.

D:Il ritorno quando è avvenuto?

R: Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere la leader della disorganizzazione; gli inglesi non se ne parla neanche, 2 giorni dopo la Liberazione son venuti a prendersi i loro connazionali. Anche i francesi, i cecoslovacchi. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano che ha preso il dottor Pecorari, che poi è stato vicepresidente della Costituente, democristiano, e arrivederci e grazie, noi neanche ci han guardati in faccia!

La cosa è andata così: mio fratello aveva un amico deportato tedesco, socialdemocratico. Era di Monaco di Baviera, e in qualche modo era riuscito a mettere insieme una Mercedes e a farsi dare dagli americani dei buoni benzina. Aveva 4 posti, quindi ci ha chiesto se volevamo andare  a Monaco. Noi, figurati! contenti e felici di andarcene, e con l’elenco di tutti i prigionieri italiani di Buchenwald sopravvissuti battuto a macchina, un foglio che ho ancora, e che poi abbiamo consegnato agli americani. E’ stato un viaggio tormentato perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva guidare. Mio fratello che sapeva guidare era veramente terrorizzato, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo diceva: “No, il documento è intestato a me, devo guidare io”. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche se siamo scesi per l’attraversamento del Danubio, che abbiamo preferito fare a piedi sul ponte di barche. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo elenco al comando americano, ma c’era un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo fatto il giro del palazzo e siamo entrati da un finestra nel retro, siamo andati al comando, abbiam dato il nostro elenco, e pochi giorni dopo mi è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava che stavo rientrando in Italia.

A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito dalla interprete che c’era a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la prima selezione, subito appena arrivati. Poi ci siamo arrangiati a cercare di rientrare in Italia, siamo andati alla stazione, abbiamo preso un treno fino a Rosenheim; era il primo treno che partiva e faceva quei pochi chilometri verso l’Austria; abbiamo avuto delle difficoltà con un americano, che ha sgridato un contadino tedesco perché non voleva caricarci sul carro e farci fare un po’ di strada verso il confine.

Finalmente siamo arrivati a Bolzano dove c’era un campo di accoglienza abbastanza organizzato.

A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio compleanno; io compio gli anni il 15 giugno, siamo arrivati forse il 10, 12 giugno (1945). Quindi 2 mesi dopo la Liberazione.

A quelli che sono rimasti là gli americani han detto di trovarsi un camion, perché quella sarebbe diventata zona russa e gli americani l’avrebbero abbandonata. Allora qualcuno è andato a Erfurt, è riuscito a fare una trattativa per avere un prestito di più camion per rientrare.

D: Una volta rientrati a Genova avete ritrovato la vostra casa?

R: Sì, la casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. La casa era abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi, e sono sparite abbastanza rapidamente. Avevano comunque lasciato subito una stanza, era una casa piuttosto grande perché eravamo una famiglia numerosa, e abbiamo dormito in camera nostra.

Paganini Bianca

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.

De Maria Vanes

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Io mi chiamo De Maria Vanes, abito a Casalecchio di Reno in Via Garibaldi 9.

D: Quando sei nato?

R: Sono nato il 7.9.1921.

D: Dove sei nato?

R: A Casalecchio di Reno. Ho vissuto sempre a Casalecchio di Reno. Dopo sono stato chiamato alle armi e sono andato al sesto genio di Banne, marconisti. Sono diventato un marconista.
Poi un bel giorno ci hanno mandato in Jugoslavia a combattere contro i partigiani. Dopo, verso la liberazione, fummo disarmati dai partigiani a Carlopago, perché non ce l’aspettavamo, stava già per finire la guerra.
Io avevo già ricevuto dal comando, siccome ero collegato con la stazione radio del comando a Fiume, mi dissero in forma amichevole che loro stavano chiudendo, cioè noi non eravamo più collegati con nessuno.
Mi sono premurato di andare dal comandante del campo, un certo capitano di Roma, non mi ricordo più il nome.
Gli ho detto che non eravamo più collegati con nessuno, perciò se doveva prendere dei provvedimenti era meglio che li prendesse perché non potevo più trasmettere, non potevo più ricevere. Non fece niente, sa cosa vuol dire niente?
Così di notte non mise neanche le guardie sufficienti, le solite cose, il solito tran tran. La notte vennero i partigiani, neanche uno sparo, niente. Ci disarmarono, ci spogliarono e ci misero in una scuola in attesa.

D: Questo quando accade più o meno?

R: Questo accadde prima che finisse la guerra in Jugoslavia, nel 43.

D: Cos’era, nel settembre del 43?

R: Un po’ prima, perché io nel settembre del 43 sono stato portato a Dachau, un po’ prima. In giugno mi sembra che fosse. Poi ci dissero: “Se volete andare, potete andare”.
Cominciarono a chiedere, ci avevano dato delle scarpine di pecora, ci avevano preso i nostri scarponi e ci avevano dato le scarpine di pecora. Dissero: “Voi non è che siete liberi, se volete andare in Italia andate a piedi per Fiume, quella è la strada”.
Cominciammo a marciare, dico con quelle strade che erano tutte di sassi arrivare vicino a Bolzano alla frontiera è stata una tragedia.

D: Scusa, Vanes. Tu eri in Jugoslavia?

R: Ero in Jugoslavia.

D: Vi hanno fatto marciare?

R: Verso Fiume.

D: Verso Fiume?

R: Perché era possibile andare…

D: Sì, ma arrivare vicino a Fiume?

R: Sì, vicino a Fiume, non a Fiume.

D: Hai detto a Bolzano prima.

R: Ho detto Bolzano? Chiedo scusa.

D: No, niente.

R: A Fiume siamo arrivati nel punto dove si poteva attraversare la ferrovia e si era già in Italia praticamente. Ma lì c’era il guaio, c’erano mitraglie da una parte e dall’altra di tedeschi che aspettavano il nostro passaggio.
Allora c’erano tentativi, di notte qualcheduno ci riusciva. Io ho provato una volta, ma sono arrivato a metà, poi dico: “No”, si cominciarono a sentire i colpi di mitraglia, sono tornato indietro.
Allora dico: “Cosa faccio?”, di là non si può andare. Chiesi di andare per mare a Punta Silo, all’isola di Veglia con i partigiani. “Guardate”, dico, “io vengo con voi, mi allego al vostro gruppo, però io voglio andare a combattere in Italia. Se dall’isola di Veglia è possibile dopo con un piroscafo andare ad Ancona…”.
Detto fatto, mi portarono lì a Cerquiriz, che era dove eravamo proprio prima noi, e da lì c’era il passaggio per andare, un battello, una barca dei partigiani. Nel mare c’erano già i sottomarini tedeschi.
Riuscii ad andare all’isola di Veglia, ero con la stazione radio, sono stato là parecchi mesi. Avevo anche la fidanzata là, detto fra noi, una fidanzata per modo di dire, perché se ve la racconto… Non so se lo posso dire, è una cosa un po’…

D: Personale?

R: Sì, è personale, ma le dico. Non è successo niente, quello che posso dire. Ero fidanzato, ma niente, in casa nella sua camera per dei mesi con permesso dei genitori niente, non è successo niente. Basta.
Avevo una grande amica in quel punto, difatti quando arrivai di là mi accolse, mi diede tante cose da mangiare, però non potei stare lì perché i partigiani mi portarono al Carlopago, dove c’era il comando. Lì facevamo un po’ di tran tran, un po’ di guardia, perché era un porto, un porticciolo.
Poi un bel giorno dissero: “Stanno per arrivare i tedeschi”, i tedeschi hanno già i sottomarini, stanno arrivando i tedeschi. “Bisogna che noi ce ne andiamo”. Dove andiamo? Ci portarono all’isola di Lussino, che era un’isola dove c’era una montagna e da quella montagna mare, mare, mare, mare.
Arrivammo lassù e fortunatamente niente, non ci capitò niente, perché c’erano già parecchi tedeschi che giravano e hanno cominciato a mitragliare. Allora noi in quelle stradine con tutti i sassi giravamo e ci siamo difesi. Non ci è successo niente.
Siamo arrivati in cima. In cima c’era un negozio nel quale ci hanno dato un po’ di formaggio, perché eravamo sprovvisti. Poi il comandante dice: “Dobbiamo andare nel bosco e poi resistere”. Siamo andati nel bosco, poi abbiamo cominciato a ragionare.
Che resistenza facciamo? Guardiamo di qua, c’erano già le barche coi tedeschi che stavano sbarcando. Guardiamo di là, stessa cosa, in tutti i punti era così. Cosa stiamo a fare? Stiamo facendo la morte del topo qui.
Dice: “Comunque noi stiamo qui, ognuno faccia il suo dovere”. Va bene. Allora mi misero di guardia in un punto, io e uno jugoslavo e in tanti altri punti. Durante la notte il mio compagno si addormentò secco, proprio secco. Io lì: “Cosa faccio qui?”. Dico: “L’unica cosa è andare giù e vedere come stanno le cose, andare giù dove c’è la strada, perché qui è proprio la morte del topo”.
Difatti io andai giù, trovai la strada, passai lungo la strada e c’era una casina, bussai a questa casina. Venne una signora, dico: “Signora, non ha mica niente da darmi?”, perché qui non si mangiava. Dice: “Guardi, stanno passando i tedeschi. Cerco di prepararle qualcosa, ma mi raccomando, vada via subito”.
Arrivò poco dopo con un pezzo di polenta e un bicchiere di latte. Non so dirle quanto erano buoni quella polenta e quel latte, me lo ricordo ancora. Poi da lì ci portarono a Pola.
Arrivò un camion dove c’erano un tedesco e un ufficiale italiano, uno di quei camion con la tenda. Io ero lì che giravo, mi ero messo a sedere su un pilastrino. Feci il cenno di fermarsi, non credevo. Da lontano poi non si vedeva il carro con anche un tedesco, pensavo fosse italiano.
Invece era un tedesco. Il tedesco disse: “Tu partigiano?”, “Non partigiano, no. Io sono un militare italiano, i partigiani mi hanno disarmato e vorrei andare in Italia. Mi hanno preso tutto, ho i documenti”. E’ arrivato l’ufficiale italiano, cominciò ad aiutarmi.
Però l’ufficiale tedesco non ne volle sapere, “Tu sei partigiano”, mi voleva mandare nel bosco per spararmi. L’ufficiale ha insistito tanto, non è riuscito, ce l’ho fatta. Mi hanno fatto caricare sul camion. Sul camion c’erano almeno il cinquanta per cento di quelli che erano lassù.
Da lì ci hanno portato a Pola. A Pola ci hanno messo in una camera dove hanno incominciato a prendere tutti i dati. A un certo momento vengono dentro quelli della SS, tutti in riga per dieci. Arrivarono fino a dieci, “Weg, andiamo, andate fuori”. Io ero nella tredicesima fila.
Abbiamo saputo il giorno dopo che sono stati tutti fucilati perché i partigiani avevano ammazzato due tedeschi. A me è andata bene. Passano due giorni e poi ci caricano nel carro bestiame e ci portano a Dachau, in Germania.

D: Scusa, Vanes. Vi caricano, lì a Pola questo?

R: A Pola, sì.

D: Alla stazione. Oltre a te chi altri hanno caricato?

R: Tutti quelli che c’erano dentro a questo. Non eravamo soltanto noi di lassù, ce n’erano altri.

D: C’erano anche gli jugoslavi con te?

R: Sì, c’era qualche partigiano jugoslavo. Qualcheduno c’era.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche delle donne?

R: Solo uomini, nessuna donna. Non c’erano donne. Da lì col carro bestiame siamo arrivati a Dachau.

D: Durante il viaggio avete fatto delle soste?

R: Soste per modo di dire, alla stazione c’era il segnale di fermarsi. Non soste per darci un attimino da bere, niente, non abbiamo visto niente. Anche i bisogni si doveva farli…
Siamo arrivati finalmente a Dachau e smontati dalla stazione a piedi ci hanno portato dentro al Lager, al Lager di Dachau. L’impressione che è stata fatta era una cosa che ci ha lasciato un po’ perplessi. “Dove siamo venuti?”, perché non sapevamo ancora com’era la faccenda.
Ci hanno portato in un salone dove c’erano tante docce, poi abbiamo saputo che era il mattatoio degli ebrei. Li avevano chiusi lì dentro e invece di aprire il coso per fare la doccia hanno aperto il gas.

D: Tu sei arrivato a Dachau quando più o meno?

R: Io sono arrivato a Dachau a novembre 1943.

D: 43?

R: 43, 1943. A novembre. Il mese di novembre, la data non ricordo.

D: Lì ti hanno spogliato?

R: Lì hanno spogliato. Non solo spogliato, ma disinfettato con il pennello nei punti più delicati. Ci hanno spogliato da fare dei salti alti così. Poi dovevamo vestirci con i vestiti di quella carta pressata.
Arrivammo all’ultimo gruppo, io ero in mezzo a questo gruppo, e non c’erano più vestiti. Dovevamo andarli a prendere in un magazzino, il quale era di là di una gran piazza. C’era un freddo cane, eravamo nudi.
Da lì di corsa dovevamo andare in quel magazzino. Non so che velocità avessi, non ho preso neanche il raffreddore. Poi abbiamo preso i vestiti, ci hanno vestiti. Poi ci hanno messi in un Lager, in una baracca, la venticinquesima baracca.
Lì ci siamo stati trenta giorni. Poi arrivò il giorno…

D: Scusa, Vanes. Ti hanno immatricolato anche?

R: Certo, non era segnato ma ci hanno dato un numero di matricola. Nel vestito c’era il numero di matricola.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero era 25…58343.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No. Lo davano solo agli ebrei quel triangolo. Io, siccome ero stato preso come partigiano jugoslavo, pur essendo italiano io ero jugoslavo. Gli italiani li hanno tosati qui con una macchinetta, gli avevano fatto una riga che quando crescevano i capelli, questo se scappava crescevano i capelli, ma chiunque tedesco per strada lo poteva riconoscere perché vedeva questo.
A me questo non l’hanno fatto perché ero jugoslavo. Difatti nel coso qui avevo J, non I di italiano.

D: Quindi qui tu avevi il numero..

R: Il numero.

D: E la J e basta?

R: Basta.

D: Non avevi nessun triangolo?

R: Nessun triangolo. Il triangolo era ebreo, da quello che ricordo. Io non avevo il triangolo.

D: Dopo il periodo di quarantena nel blocco…

R: E’ chiamata quarantena, non sono quaranta giorni. Ci riunirono in questo famoso bagno per il lavoro. C’erano tutti i mestieri, tutti gli internati. C’erano le commissioni, i vari banchetti dove c’erano industriali tedeschi…

D: Scusa un secondo.

R: In questa sala c’erano imprenditori tedeschi, guardie da tutte le parti e a ogni banchetto che c’era interrogavano. Dicevano: chi è un falegname alzi la mano. Chi era muratore, poi ci era meccanico. Quando arrivò il mio turno mi chiamarono, alzai la mano. Mi interrogarono.
Mi chiesero cosa facevo. Dico: “Io facevo il disegnatore meccanico, ero disegnatore meccanico progettista. Lavoravo alla Fiat”. Ho detto la Fiat ma era una fabbrica qui di Bologna, facevamo le macchine utensili.
Sentendo Fiat faceva un certo effetto. Allora mi diedero un alberino, non so a cosa servisse. Oltre al disegnatore io ho fatto il tornitore, ho fatto altre cose. Però prima di fare il disegnatore ho fatto il tornitore.
Allora mi diedero questo alberino e mi chiesero: “Quanto tempo ci metti per fare questo lavoro al tornio?”. Io avevo lavorato al tornio a scuola, quando ho preso la laurea di disegnatore, meccanico, all’Aldini qui di Bologna.
Chiesi un pezzo di carta e una matita, poi cominciai a schizzare quali potevano essere le operazioni che facevo in questo alberino. Stavo disegnando, ero un disegnatore, facevo vedere anche qualcosa. Allora sentivo sempre un industriale che diceva: Gut, gut, gut.
Poi alla fine disse: Ja, gut. Mi misero in un angolo, solo. Poi vennero tutti gli altri, ne vennero altri due nell’angolo con me. Dico: come mai gli altri andavano tutti da un’altra parte? Si vede che a noi tre ci avevano scelto perché le risposte che avevamo dato secondo l’industriale andavano bene.
Ci caricò nella sua macchina con le guardie, con due guardie e ci portarono a Kempten. Durante il viaggio disse: “Andiamo a lavorare alla fabbrica”. Quando arrivammo a Kempten la fabbrica non c’era. Ci scaricarono e ci misero non in una baracca, ma sopra in un ambiente c’era una gran sala dove c’erano tutti i lettini.
Era il nostro domicilio dove ci davano da mangiare, pochissimo, qualche cucchiaiata di minestra, e una fetta di pane nero. Quello è stato il nostro coso. Però non durò molto, perché dopo pochi giorni sapendo che la fabbrica non era ancora pronta dovemmo andare fuori e fare i muratori per tirare su i muri.
Tre mesi ho fatto il muratore, pioveva. Però lavoravamo. Se volevamo scaldarci un pochettino bisognava lavorare. Finì questa tragedia, finalmente arrivarono le macchine per la fabbrica. Un bel giorno cominciarono a entrare prima i civili, perché c’erano anche dei civili, poi entrammo anche noi a lavorare.
“Adesso voglio vedere se mi mettono a fare quell’alberino che ho disegnato”. Mi trovai già in difficoltà, invece no. Fui fortunato perché mi misero a una retifica. Questa retifica era una cosa facilissima, basta che lasci avanti e indietro.
Però da lontano vidi una vetrata dove c’erano dei disegni e dove c’erano dei tracciatori, perché i pezzi che arrivavano a noi delle macchine erano soltanto segnati, noi dovevamo fare su quelle righe.
Allora io vedendo quell’affare, lì si stava male, invece là dentro era più intimo. Poi ho visto che c’era anche un italiano là dentro, in borghese. Allora io dissi col mio comandante, i nostri comandanti erano i criminali tedeschi presi fuori dalla prigione per comandare noi, guardare noi.
Gli dissi: “Guarda che io so lavorare bene come tracciatore”, veramente era il mio mestiere che facevo qui a Bologna. Parlò, si vede, con qualcuno e un bel giorno mi trasferirono là. Io il disegno lo conoscevo molto bene, il lavoro era quello che facevo io a casa.
Cominciarono ad arrivare disegni, vidi cosa dovevamo fare in realtà e cominciai a lavorare.

D: Cos’è che producevate lì?

R: Progettavamo degli stampi per tranciare i supporti delle ali degli Stukes, gli Stukes avevano la robustezza dell’ala, ogni tanto c’era qualche cosa. Noi facevamo gli stampi per tranciare quelle cose.
Venivano giù dei disegni disegnati da tedeschi e io conoscevo molto bene, mi trovavo bene. Ho imparato anche un mestiere, gli stampi che facevamo là dove lavoravo io in Italia, dove ho lavorato dopo, quando sono venuto a casa finita la Germania, sono andato a lavorare alla Ducati e quegli stampi che facevamo là qui certi pezzi li facevano in tre stampi.
Là era uno solo, perciò io ho avuto un’esperienza enorme in quel senso. Mi ha aiutato dopo, quando sono venuto a casa. Però Le dico, finiti gli orari andare su era una cosa… Poi specialmente al sabato e alla domenica, si volevano divertire e se la prendevano con noi.
Ci facevano fare delle cose che… Se non le facevamo bene erano frustate, culo scoperto, sopra a un cavalletto fatto così, frustate. E chi dava le frustate era il tuo collega, era un italiano.
Poi finalmente passa il tempo e cominciano ad arrivare i bombardamenti. Speravamo che arrivasse qualche bomba. Noi eravamo vicino alla Svizzera, c’erano dieci chilometri circa per arrivare alla frontiera svizzera.
Speravamo sempre che qualche bomba capitasse lì. Lì hanno bombardato la cittadina, Kempten, e noi niente. Poi finalmente un bel giorno la bomba venne, cacciarono giù la fabbrica. I tedeschi ci portarono…
Cambiarono anche il Lager, il campo dove eravamo prima era sopra, le bombe l’avevano cacciato giù. Loro poco distante avevano fatto già un campo, già tutto recintato, con le baracche come era Dachau. Lì invece prima era già un’altra cosa.
Ci portarono in questo nuovo campo, dopo pochi giorni c’era già la voce che gli americani stavano arrivando. Difatti tutte le mattine ci prendevano in fila, ci davano pala e piccone e ci portavano alla stazione per portarci in trincea per fare le trincee.
Non siamo mai partiti da quel treno, su quel treno non siamo mai partiti perché i bombardieri erano continuamente sopra di noi. Ci riportavano al campo. In quei giorni non c’era niente da mangiare, niente.
Per la strada raccoglievamo l’erba per mangiarla. Finito questo finalmente decisero, perché gli americani erano già a pochi chilometri, decisero di farci partire per Innsbruck.
Io, che cominciavo già a sentire qualche parola di tedesco, ho capito che restavano lì solo gli ammalati. Come faccio? Incominciai a correre per il campo come un matto, proprio correre, ero diventato rosso.
Le dico, la temperatura era salita parecchio. Poi mi presentai in questa infermeria, “Io sono malato”. Loro erano talmente indaffarati per la partenza che mi dissero: “Vai in quel letto là”. Mi misi nel letto, poi stetti in attesa.
C’era già un’altra decina. Mentre stavano facendo questo lavoro, dopo arrivò uno con gli stivaloni e parlò con gli ufficiali che erano lì dentro. Voleva fare la visita di quelli che dovevano ritornare, cominciò dal primo, ecc.
Siamo rimasti?

D: Dicevi che eravate stati portati alla stazione per fare le trincee.

R: La trincea, niente.

D: Non siete mai partiti.

R: Non siamo mai partiti, poi ci hanno portato nuovamente nel coso, ci hanno portato nel nuovo Lager che avevano costruito loro con tutti i recinti. Lì andai in infermeria perché sapevo che rimanevano lì solo i malati.
A un certo momento mi capitò come a Pola, cominciò a contare: uno, due, tre, quattro, cinque. Anzi, visitò, non contare, visitò il primo, il secondo, poi il terzo. Era là già vicino al mio. Dico: “Porca miseria”.
Aveva dato un termometro e levato il termometro mette su il termometro, l’aveva messo quasi a trent’otto e mezzo, trentanove. Dico: “Troppo”. Lavorava in quel senso lì, dico: “Se arriva, cosa succede?”
Non fui visitato, perché erano talmente presi dalla fuga che io rimasi lì con tutti gli altri, loro scapparono, vuotarono il campo e andarono verso Innsbruck.
Lì rimase una guardia, anche lui si spogliò come noi, ci diede da mangiare, ce n’era lì un pochettino. Poi stemmo lì ad aspettare, sapevamo già che gli americani erano molto vicini.
Siccome gli americani sparavano, i tedeschi sparavano, noi eravamo nel punto giusto per prenderle tutte. Allora anche lì dico: “Qui bisogna che prendiamo una decisione, bisogna che cerchiamo di andare verso Kempten, verso il paese. Se troviamo qualcheduno, qualche civile, qualche militare dentro una casa che ci spara, cosa facciamo?”
Andammo via una mattina, erano le quattro e mezza, le cinque, anche un po’ prima, a gattoni nei fossi arrivammo nei pressi del paese. Qui non possiamo più andare avanti, il fosso non c’era più. Qui bisogna andare in strada.
Siamo andati in strada con una paura da matti, pensavamo che nelle case dove passavamo da una finestra, da una porta, da qualche cosa ci fosse qualcheduno che sparava. Nessuno, nessuno sparava.
Finalmente in lontananza vedemmo un carro armato che avanzava, americano. La nostra felicità era… Arrivato vicino al camion, si apre e viene fuori un negraccio che me lo ricordo ancora, era più nero che il carbone.
Buttò cioccolatini e caramelle, neanche una sigaretta. Caramelle e cioccolatini. Andavano verso Kempten, verso Kempten c’erano già gli altri, la truppa. Noi praticamente eravamo liberi, liberi di fare tutto quello che volevamo.
Poi sono arrivati anche tanti altri, non solo noi tre ma tanti altri che non so da che buco siano entrati. C’erano russi, specialmente russi. Hanno svaligiato tutte le botteghe che potevano esserci, oreficerie. Hanno fatto manbassa di tutte le cose.
Dopo gli americani ci hanno tutti chiesto le cose, fatto i documenti, tutto quanto, ci hanno consegnato i posti dove potevamo andare a dormire. Noi avevamo una villettina dove c’era il comando tedesco, eravamo in dieci o dodici.
Eravamo liberi, proprio liberi. Il problema era quello di andare a cercare, lo sapevamo, però con tutti i bombardamenti i magazzini tedeschi erano pieni di viveri ed erano stati bombardati.
Quando andavamo in cerca di mangiare si vedevano proprio le gran pozze, perché aveva piovuto, come dei laghi dove affluivano le scatolette, c’era di tutto, Le dico, di tutto. C’erano delle scatolette con della carne di primissima qualità, in una quantità enorme proprio.

D: Allora, c’era questo ben di Dio che veniva fuori.

R: Noi ci siamo riforniti, non solo in quei magazzini che c’erano lì fuori, anche dentro. Dentro potevamo andare da tutte le parti. Anche alla stazione c’erano dei carri pieni di roba, dei treni fermi pieni di roba. Roba che veniva dalla Svizzera.
Abbiamo trovato di tutto, trovato delle forme di emmenthal intere. C’erano degli strumenti meccanici, dei calibri, degli strumenti meccanici. Difatti io trovai un calibro che ho ancora.
Portammo via quei formaggi, dovevamo soltanto trovare un mezzo per poter caricare la roba e portarla in questa villetta. Con tutto quello che avevamo potevamo star là altri due anni che avevamo da mangiare.

D: Scusa, Vanes. Quando tu dici la stazione…

R: La stazione, la stazione di Kempten. Gli americani erano lì, noi eravamo lì, il nostro ambiente era Kempten.

D: Due anni non siete rimasti lì?

R: No. Pochi mesi. Tutti c’eravamo riforniti di sci, di tutte le cose. Però noi non siamo mai andati a rubare nei negozi come hanno fatto russi, ecc. Si sono vendicati con la moglie del capo ingegnere della fabbrica.
Ci sono state parecchie cose, io non ho fatto niente. L’unica cosa che mi sono un po’ divertito era che un giorno ero dentro a un magazzino per prendere qualcosa di quelle scatolette, abbiamo visto che c’era un tedesco là, un civile che stava insaccando della farina in un sacchetto.
Andammo là vicino, abbiamo visto proprio che era un tedesco, era un tedesco civile di lì. L’abbiamo preso, l’abbiamo messo con la testa dentro la farina, tanto per… Poi siamo venuti via, non abbiamo fatto niente. L’unica cosa.

D: Scusa, Vanes. A proposito dei civili, nella fabbrica…

R: Sì, c’erano anche dei civili.

D: Voi eravate a contatto con quei civili?

R: In quell’ambiente dove io lavoravo c’erano due civili, uno francese e uno italiano che era proprio mio amico. E’ diventato un mio amico, l’ho conosciuto lì.
Veniva dall’Italia a lavorare ed era pagato, andava fuori ed era libero. Era venuto lì per lavorare. Chi ci comandava era un civile di Kempten. Eravamo mescolati, noi abbiamo integrato il lavoro della fabbrica con quello che facevano i civili.
Noi eravamo in certe zone, in certe macchine solo e in certi ambienti non eravamo proprio… C’era un mio amico che faceva l’elettricista, lui andava dappertutto e andava anche dalla parte civile perché riparava i motori, per esempio, delle macchine.
Io sono stato lì e me la sono cavata un pochettino meglio. Il capo che ci comandava lì dentro… Alle dieci c’era il bruzai, era chiamato, davano una birra e una fetta di pane a loro, a noi niente. Noi non ci fermavamo neanche un momentino da loro.
Però un giorno ad un certo momento vedevi questo civile che lasciava un po’ di birra e un pezzettino di pane, poi faceva segno, facendo anche presente di non fare vedere perché c’erano le guardie che giravano.
Arrivavano fino lì e guardavano dentro. Tra quello, un pochettino lì, un po’ qualche vitamina che mi portava quell’italiano da fuori e così me la sono passata.
Poi un bel giorno mi sono ammalato, ma di brutto, con un male da tutto il corpo, i reumatismi totali, la febbre che era più di quaranta. Urlavo come un ossesso perché non sopportavo il male. Mi portarono su in branda e ci sono stato dieci giorni buoni.
Non ho visto né un dottore né un medicinale, niente. Urlare, urlare, urlare, urlare. C’era un italiano lì vicino, era con me, che mi incoraggiava, mi massaggiava, mi faceva qualcosa, ma non c’era niente da fare.
Il dolore era talmente forte, poi la febbre sempre che straparlavo anche. Poi visto così un bel giorno si vede che il comando decise e mi mandarono all’ospedale non di Kempten, di Dachau. Mi portarono all’ospedale di Dachau.
Lì come sono arrivato mi diedero un letto, poi venne uno con degli stivaloni alti fin qui a passare la visita. Viste le mie condizioni disse: “Liberare il letto”, in tedesco, dopo me l’hanno detto. “Liberare il letto e portare al crematorio”, perché avevo la febbre che era a più di quaranta, urlavo come un ossesso, disturbavo tutto quanto.
“Liberare il letto, qui ci deve essere un letto per uno che può lavorare dopo”. Fui fortunato che alla sera in quel giro lì di medici c’era un olandese coatto, che lavorava coatto. Lo vidi arrivare dopo al mio capezzale una notte, era verso le nove e mezza, le dieci.
Mi disse: “Tu italiano?”, sentiva che io parlavo qualche cosa, dicevo in italiano. Siccome aveva lavorato a Bologna, conosceva bene l’Italia, conosceva bene i nostri, mi prese a ben volere. Sparì un momento, tornò dopo con delle medicine.
Mi cominciò a fare delle punture endovenose, è stato lì fino alle due di notte circa, dico degli orari per dire perché non avevo l’orologio per poterli vedere.
Alla mattina quando passarono con la visita io ero sempre in quel letto, c’era lo stesso comandante. Appena arrivò lì disse: “Perché è ancora qui questo?”. Allora il dottorino saltò fuori da dietro, gli fece vedere che attaccata al letto c’era la cartella con tutto il grafico.
Era stato modificato il grafico, perché la mia febbre era andata a trent’otto, un pochino meno di trent’otto. Allora lui rimase lì un po’ buio, “Ja, gut” e rimasi. Invece di andare al crematorio rimasi lì settantacinque giorni.
Non so che cure mi abbiano fatto, mi passò piano piano il dolore, non lo so, non mi ricordo niente.

D: Vanes, magari non te lo ricordi, ma il Revier di Dachau era in una baracca?

R: Il?

D: Il Revier, l’ospedale di Dachau.

R: Sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: Ma era una baracca?

R: Era una baracca.

D: Non ti ricordi se era una baracca delle prime, visto che tu sei stato alla venticinque, o era una delle baracche…

R: No, era una cosa apposta. Al di fuori della mia baracca, la mia baracca l’avevo lasciata.

D: Ma era una delle prime baracche lungo la Lagerstrasse?

R: No, era in mezzo forse. Mi ricordo che quando cominciai a stare meglio, convalescente, avevo la possibilità di andare a fare una passeggiatina lungo la passeggiata del campo.
So che da una parte e dall’altra c’erano le baracche, perciò non era in principio o alla fine, credo fosse in mezzo. Anzi, fui fortunato, fortunato per modo di dire, perché una volta siccome c’era l’ordine che quando incontravamo un ufficiale tedesco dovevamo toglierci il cappellino un metro prima, io ero in compagnia con un altro e non me ne sono accorto.
Passammo, il mio amico, siccome io parlavo con lui, lui l’ha fatto, io parlando ero voltato, non me n’accorsi. Andò avanti qualche metro, poi disse: “Tu”, mi chiamò, “Komm”, mi chiamò. Mi portò con lui, mi portò alla mensa ufficiali.
Dico: “Finalmente si mangia”. No. C’era un piccolo giardinetto con un piccolo sentierino dove c’era ghiaia, ma ghiaia come? C’erano dei mattoni, dei sassi col martellino e c’era rimasto un mucchiettino lì da finire.
Mi diedero il martellino, io ho dovuto rompere i sassi, finire tutta la faccenda. Poi finite le cose era il momento che avevano finito di mangiare, venivano fuori gli ufficiali a fumare una sigarettina e guardandomi lì che stavo finendo il lavoro venne uno.
Dovevo fare tutto il giro dei sassi, sai, quando si rompe un sasso ha delle punte. Ho dovuto farlo coi gomiti e in ginocchio, ho dovuto fare tutta la strada in quella maniera.
Quando arrivai ero tutto insanguinato. Finita la cosa mi portarono finalmente a mangiare. Se io avessi mangiato quello che mi avevano dato sarei crepato. Per fortuna che durante la prigionia in quel Lager 25 c’era anche un dottore di Amsterdam che c’insegnava.
“Guardate che quando saremo liberati troveremo questo e quell’altro. Non dobbiamo mangiare molto perché il nostro fisico…”. Ci aveva dato già una linea, ci ha fatto molto bene perché già cominciavo da quel momento ad applicarmi.
Finito quel lavoro mi diedero un po’ da mangiare, poi mi portarono nuovamente al Lager. Io mangiai poco, presi qualche cosa in tasca con me, però mi andò bene. Mi venne un po’ di mal di pancia, qualche cosa mi venne.

D: Scusa, Vanes. Dopo i 75 giorni che tu sei stato lì al Revier a Dachau sei ritornato ancora a Kempten?

R: Ci sono ritornato perché durante la passeggiata un bel giorno incontrai un militare che era venuto da Kempten per prendere materiale e portarlo a Kempten. Ci siamo incontrati, mi riconobbe e disse: “Tu De Mario!”, perché mi chiamavano De Mario, non De Maria, De Mario.
“Sì, sono De Mario”. Io lo conoscevo, di vista mi sembrava di averlo visto prima. “Ma tu nicht kaput?”, “No”, dico, “nicht kaput”, là pensavano che io ero già morto. “No, io nicht kaput”. “Ja, Ja, gut…”.
Si vede che quando è tornato al campo l’ha detto al capofabbrica, all’ingegnere che mi conosceva, quest’ingegnere fece domanda al campo di Dachau di farmi tornare là. Questa è stata la mia fortuna, perché tornando là io sono tornato in quell’ambiente dove stavo molto meglio degli altri.
Era il mio toccasana quello. A parte qualche frustata che prendevo quando andavo su, ma avevamo già fatto l’abitudine. Si poteva tirare avanti, l’importante è che un po’ di mangiare in più di quella brodaglia che ti davano io potevo averlo.
Inoltre ho avuto anche l’intelligenza di chiedere a questo mio amico che riparava i motori che mi portasse due carboncini e un po’ di plexiglas e vetri, qualche materiale, delle viti, perché io potessi fare una cosa.
Là c’erano molti che avevano le patate, andavano a rubare le patate, prigionieri, e non sapevano come fare a cuocerle. Allora dico: “Aspetta, aiuto loro, se riesco a fare questa cosa”.
Difatti riuscì questo a portarmi tutto questo materiale, due carboncini, due pezzettini di coso già forati con due viti, i suoi dadi con del filo elettrico. Io ho messo i carboncini a una certa distanza, li ho messi nell’acqua, c’era un pentolone lì con un coperchio, riuscivo a bollire in dieci minuti.
Io ho cotto tante di quelle patate, un po’ a noi, un po’ a loro, era già un qualche cosa. Non tanto, ma un qualche cosa che riusciva ad avere il modo per poter respirare un po’ meglio.

D: Riprendiamo dalla liberazione.

R: Venne la liberazione.

D: Le scatolette che tu hai trovato, ecc.

R: Venne il giorno che dissero, credo che fossero due mesi che erano stati là, un po’ meno, venne il giorno che dissero: “Ragazzi, qui si va in Italia, però o voi o la roba che avete con voi”, perché tutti eravamo carichi.
Io avevo tanta altra roba che avevo immagazzinato, tutti avevamo un mucchietto. Lasciammo là, perché erano tutti alimentari. Prendemmo le uniche cose, il nostro zainetto, chiuso.

D: Il calibro.

R: Il calibro, sì. E non solo, là trovai due scatole di medicinali che non sapevo cos’erano. Erano due scatole di medicinali, c’erano dei medicinali e da questi medicinali io presi due scatole di quelle punture e le portai con me. Quelle le ho portate in Italia.
Quando arrivai in Italia mi vennero dei bugni da tutte le parti, il mio dottore mi fece le punture con quelle e guarii in un momento. Non lo so, non lo so dire, non so neanche che medicina mi hanno dato per passare settantacinque giorni e riuscire a non crepare. Non lo so.
Non so se hanno fatto degli esperimenti, non posso dirlo perché ero…

D: Vanes, ti ricordi più o meno quando sei rientrato in Italia?

R: Dal camion sono salito su con quello che avevo, scoperto, un viaggio un po’ difficoltoso. Però si veniva a casa, tutto andava bene. Arrivammo a Bolzano e lì ci mandarono al Car di Bolzano. Al Car di Bolzano cominciarono a interrogarci, nome e cognome, dove stavi, da dove vieni.
C’era anche la visita. La visita consisteva in questo: cosa hai avuto te? Hai avuto qualche malattia? “Io sono stato male, ho avuto malattie”. Scriva, qui c’è la carta che loro mi hanno dato a Bolzano.
Io ce l’ho da morto, perché se mi visitavano sentivano cosa avevo avuto, non solo i reumatismi. Qui, calibro ottavo, reumatismi. E’ l’unica carta di rimpatrio che avevo. Se mi visitavano sentivano che avevo avuto la pleurite da tutte e due le parti.
Quando l’ho scoperto, l’ho scoperto non so quanti anni dopo, avevo sempre bronchite continuamente, forse il male era passato. Un bel giorno ho deciso di farmi, avevo male, non mi andava via la febbre, farmi una lastra.
Da quella lastra scoprii dove l’ho avuto, non potevo averlo che da quel punto. Da lì cos’è venuto? E’ venuto che ho cercato di avere il certificato per avere… Perché un bel giorno un carabiniere mi disse: “Ma tu che sei stato lì, sei stato malato, perché non fai domanda della pensione di guerra?”.
Allora cominciai a fare tutti i documenti dopo anni.

D: Ma quando sei arrivato in Italia? Che mese era te lo ricordi?

R: Maggio.

D: A maggio?

R: Sì. Era maggio. Era già la buona stagione.

D: Ho capito. L’importante era avere una indicazione di data. Era maggio?

R: Sì, era maggio.

Tedeschi Natalia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno 1922.

Sono di famiglia ebrea. Una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti a Torino. I miei fratelli quando è il momento delle leggi razziali erano tutti e tre all’università e io nel 1938 – avevo 16 anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi con tutte le varie vicissitudini della guerra siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte.

Lì abitava una sorella di mia nonna e allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli e anche di evitare i bombardamenti sulla città.

Dei miei fratelli uno era andato con i partigiani al momento delle leggi razziali, uno era nascosto a Torino e l’altro era andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna, convinte però di essere abbastanza in una botte di ferro in quanto mio fratello che era nei partigiani, e che era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci, aveva detto: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa dovesse capitare, noi veniamo a prendervi!” Non è potuta succedere e non è successa.

E un giorno che eravamo a Saluzzo in albergo io sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo e sono arrivate due SS italiane. Sento che dicono: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente a avvisare mia mamma e mia nonna, e ancora adesso penso che forse, sapendo che eravamo lì, penso ma con molto ottimismo solo adesso, che forse han voluto darci tempo di metterci in salvo: forse, perché essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scala e ci avrebbero preso. In questo albergo proprio minuscolo c’era una seconda uscita che dava sulle scale: abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo salite fin su al quarto piano occupato dalla gente del posto che ci aveva dato ospitalità, però solo per certe ore, non potevano darci ospitalità per sempre. Allora si sono poi convinti, compreso l’albergatore che era venuto in aiuto, a chiamarci un taxi e a farci accompagnare a Sampeyre, in Valle Varaita, sempre in Piemonte. Solo che, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi dopo, ci hanno messo un po’ nella trappola dei topi, perché essendo in valle si poteva eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.

D: Quando è successo?

R: Questo è successo nel febbraio del 1944. Noi siamo stati a Sampeyre con mia mamma e mia nonna – anche lì in un piccolo alberghetto – per un periodo di tempo, poi sono arrivati i partigiani e noi più che mai ci sentivamo tranquilli, perché ce n’erano anche tanti ben armati e ben attrezzati; eravamo tranquillissimi. Solo che purtroppo invece da valle sono arrivati i tedeschi e hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, ma lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di finanza, che ci aveva visti a Saluzzo e ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di lire 5.000, ci ha denunciati ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi non avevamo mica niente da nascondere noi; siamo stati un po’ presi anche alla sprovvista perché appena arrivato il comando tedesco, ha detto: “Tenetevi a disposizione ché all’una di questa notte veniamo a prendervi.”

Allora sono venuti a prenderci; eravamo a Casteldelfino, sopra, vicino al confine, e avevano anche detto che io facevo parte dei partigiani. Allora sarebbe stato ancora più grave per me, perché forse mi avrebbero potuto passare alle armi subito. Lì ci hanno caricati e portati sotto a valle a Venasca dove siamo stati per 3 o 4 giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca; di notte dormivamo sui tavolacci.

Abbiamo dormito sui tavolacci delle celle di sicurezza, in promiscuità con tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Poi una mattina ci hanno caricati in treno e ci hanno portati all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo – ben poco – e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino.

D: L’Albergo Nazionale era sede di qualcosa?

R: Era sede del comando delle SS. Lì ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c’era poco da chiedere: eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, eravamo ebree e non sapevamo, per fortuna forse, cosa il destino ci avrebbe ancora procurato. Siamo poi passate alle Carceri Nuove di Torino, dove siamo state per 20 giorni; io ero in cella con mia mamma e mia nonna – io sottoscritta e due altre persone – in quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in carcere stretto e con solo la compagnia delle cimici: ce n’erano a profusione, specialmente di notte. Avevamo un’ora di aria, e io, tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me la messa non è che interessasse molto, era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle carceri c’erano piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, con piccole finestrelle ovali dove tu potevi stare unicamente inginocchiata su un’asse di legno. Così sono passati 20 giorni sino a quando un mattino ci hanno caricato su un pullman, non era un pullman era un camion, ci hanno portate a Porta Nuova, a Porta Nuova su un treno e siamo scesi a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.

D: Questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto, io penso, ai primissimi di marzo (1944). A Fossoli siano stati 20 giorni, senza naturalmente sapere assolutamente – con un’incoscienza unica – cosa sarebbe stato di noi, senza avere notizie dei miei fratelli, assolutamente non sapevo niente. Non sapevamo niente. Vivevamo proprio in una specie di torpore, di incoscienza, ma non solo noi tre, la mia mamma e la mia nonna, ma tutti, senza sapere cosa ci aspettava domani, così: non dico neanche con filosofia ma proprio con incoscienza.

D: A Fossoli vi hanno messo nel reparto delle baracche o nel reparto tende?

R: No no, nelle baracche, eravamo nelle baracche.

D: Vi hanno immatricolato a Fossoli?

R: No no, nessuna immatricolazione. So che c’erano campi dei politici, noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo stati lì 20 giorni. Se si pensa adesso, a distanza di tempo, naturalmente era non dico proprio un paradiso ma, in confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere non so, una pensione, una buona pensioncina. Siamo stati lì altri 25 giorni, con un certo trattamento; non si lavorava, da mangiare ce n’era a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose; una mattina ci hanno caricati sui carri bestiame, partenza con destinazione ignota: non si sapeva assolutamente. Però da quel poco che avevamo saputo si pensava di andare in Germania in un campo di lavoro, perché tutti dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.

D: Dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: Io penso di sì, perché lì non c’erano mica le rotaie, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna. Mia nonna da sposata faceva Sacerdote, noi invece Tedeschi: è salita nel vagone prima e non l’ho più vista, io ero con la mia mamma.

D: Cioè, venivate divise?

R: Per ordine alfabetico. Ci chiamavano per ordine alfabetico.

D: E questo “Transport” quando è avvenuto?

R: Il 16 maggio (1944), ed è stato il “Transport” più lungo che c’è stato: io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, è stato il più lungo di tutti, non so per quale motivo. Ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben 8 notti e 7 giorni.

D: In quanti eravate sul tuo vagone, se ti ricordi?

R: Più o meno saremmo stati una ottantina, tutti stipati.

D: Tutte donne?

R: Io penso di sì, di quello ho un ricordo un po’ vago. Quello che rimpiango molto è che tutte queste cose, se avessimo potuto dirle appena tornate, con la memoria più fresca, e con tutti i ricordi più freschi, sarebbero state diverse. Io rimpiango moltissimo che questo interessamento per noi sia arrivato quando noi siamo proprio ormai al lumicino. Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi che noi non sappiamo. Anche per il viaggio che ho fatto ad Auschwitz, le carissime insegnanti di Moncalieri ed i loro allievi han dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente niente; sono stati bravissimi perché hanno fatto delle dispense, cose eccezionali, ma a loro volta non sapevano niente, perché a scuola finiva tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda guerra mondiale assolutamente niente.

D: Allora il tuo “Transport” dopo 8 giorni.

R: 8 notti e 7 giorni; sono arrivata a Birkenau di notte.

D: Il vagone è entrato dentro?

R: Io direi che è entrato dentro, sulla banchina, e siamo arrivati di notte. Siamo stati nei vagoni fino al mattino dopo, quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame. Siamo scesi, tutti questi ordini in tedesco che non si capivano, abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì abbiamo creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, quelli che potevano entrare in campo o meno. Io sono sotto braccio a mia mamma, la mia mamma che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è proprio stata strappata dal braccio: è una sensazione che ho ancora adesso, sento il suo braccio che trema. Mi è stata staccata e io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto … ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A 5404, e siamo entrati in campo.

Io appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo mia cugina Giuliana Tedeschi. Era stata deportata con mio fratello Vittorio; mio fratello era nei partigiani ed era stato denunciato da un amico suo che era nei partigiani con lui: e l’ha denunciato come ebreo. Poi il destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione, a Mauthausen e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.

Ad ogni modo, entrando in campo vedo mia cugina che era venuta a Birkenau col marito e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, mio fratello che oltretutto aveva anche un braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando mi dice: “Ma sei sola?” io ho detto: “No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono andate in un altro campo”. E lei mi ha detto subito: “Toglitelo dalla testa perché di altri campi non ce ne sono”. Allora sono entrata in campo.

D: Quando tu dici che sei entrata nel campo, era il campo femminile?

R: Il campo femminile di Birkenau.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: Io penso che sia la baracca numero 10, che c’è tuttora. Però tu capisci che a distanza di tanti anni, di tanti anni, tante immagini si sovrappongono, e poi dei ricordi che ti sembrano nitidissimi, per me qualcuno lo è senz’altro, invece non lo sono. Appunto perché sono passati troppi anni.

D: Natalia, l’immatricolazione: ti ricordi come ti hanno tatuato il numero?

R: Sì, me lo ricordo benissimo. C’era una addetta a questo lavoro che aveva una piccola penna in mano con un pennino che finiva con uno spillo, e questo spillo era intinto in un inchiostro speciale; veniva tatuato il braccio in quel modo.

D: Lo facevate in piedi o sedute?

R: In piedi, non c’erano mica sedie, eravamo messe così su questa specie di scrivania, di tavolo che c’era, figurati se sedute! Le sedie in campo non sapevamo cosa fossero.

D: E veniva registrato il vostro numero?

R: Io penso di sì, però non ne sono sicurissima. Penso che se la Croce Rossa di Arolsen riporta il numero del tatuaggio è perché ha trovato dei registri, qualcosa con segnalate e registrate queste numerazioni.

D: Quando ti hanno tatuato c’era qualcuno che aveva in mano un elenco? vi chiamavano per nome? te lo ricordi?

R: Non ricordo; io credo che entrassimo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro li hanno dimenticati completamente. No, io credo che siccome eravamo tutti incolonnati, man mano che si passava davanti a questa che faceva i tatuaggi poi si andava alle docce.

D: E dopo, la vestizione?

R: La vestizione è stata una cosa tragica per i vestiti stracci; noi non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo che sono stata a Birkenau ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. Poi dirò dopo. Poi degli stracci addosso, proprio stracci; siccome ci veniva tolta tutta la roba che arrivava con noi, veniva tutta mandata in Germania, proprio gli stracci, quelli che erano inservibili, servivano per coprire noi. Io mi ricordo una mia amica – si finiva persino a ridere in quella tragedia – che, poveretta era del mio trasporto mi pare, no no l’ho trovata lì, aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.

I capelli li han poi tagliati dopo, perché come sono entrata in campo mi aveva detto tutte: ricordati di morire in campo se devi morire ma non passare al Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io disgraziatamente ho avuto un’infezione alla gamba, e non camminavo più, ho dovuto andare al Revier per forza, perché dico: “Tanto, per morire qui vado a morire nel Revier.” Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia e nel giro di 24 ore è diventata una cosa enorme, la gamba è diventata enorme, avevo un’infezione terribile, dico: “Camminare non posso camminare, vado in Revier“. Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio lontano su un altro mucchio, poi viceversa. Ad ogni modo io entrata in Revier ho detto: “Se è la mia ora …”. A parte il fatto che l’idea della morte non c’era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello, ho detto: “Sì, per morire vado a morire in Revier“. Non è che avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier, sono stata seduta su una specie di sedia, io con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto, e mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi tutte e due nude per 10 giorni, nude completamente, con questa che aveva il tifo che naturalmente si sporcava in continuazione, e con un’unica coperta. Quando ho chiesto, mi son fatta capire, di poter cambiare questa medicazione – chiamiamola pomposamente medicazione – era venerdì quando sono entrata in Revier, mi han detto: “Fino a martedì non si cambia”. Puoi immaginare quella carta cosa era diventata; se l’infezione c’era prima, dopo pensa cosa poteva capitare. E tu pensa che sono stata in Revier immobile per 40 giorni, e per 40 giorni tutte le mattine è entrato Mengele, tutte le mattine. Sai chi era Mengele? era l’angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo, elegantissimo col frustino in mano che segnava così nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Non penso se dietro qualche segnalazione dei più gravi, però andavano, le selezioni avvenivano così. Poi tu sai benissimo che chi doveva andare alla selezione, che doveva morire, era messo in un blocco particolare per 3 giorni, e per 3 giorni aveva un supplemento di viveri. Uno dice, perché? In campo c’erano tanti perché ma non c’era nessuna risposta a questi perché.

Quando sono uscita dopo 40 giorni miracolosamente dal Revier naturalmente non riuscivo a camminare, per via dei 40 giorni di immobilità; sono uscita ancora con una cicatrice lunga 5-6 centimetri, una ferita aperta, e mi hanno messo in un blocco di francesi dove c’erano anche delle italiane. C’era un’italiana di Venezia, Enrichetta Polacco, non so se l’avete sentita, solo che poverina adesso non può più testimoniare; era un tipo in gambissima, con una grinta, era arrivata già 2 mesi prima, sapeva come si svolgeva la vita in campo. Io mi era lasciata andare perché, uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra e quando mi alzavo tutte le ossa scricchiolavano come se fossero state senza lubrificazione. E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca che lavorava alle cucine, l’ha impietosita, era una deportata, e le ha detto: “Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me”, così mi ha lasciato andare. Lei da buona veneta mi diceva: “Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti devi far questo, muoviti, lavati”. Le devo molto perché proprio mi ha dato una scossa. Dopo entrata in campo ho saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino; quando l’ho saputo ero in Revier, non l’ho saputo subito: ho pianto un giorno e una notte consecutiva. Da allora non so più piangere, assolutamente. Mi posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più.

E allora sono andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro era un lavoro anche abbastanza fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa quelle lamiere per infilare i bastoni dentro. Portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna perché poi oltretutto non è che fosse un lavoro continuativo, si portava nelle ore dei pasti. Qualche volta, ma molto molto raramente, ci restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo.

Andando in Revier, una delle cose, un ricordo molto terribile, è che c’erano le donne che avevano partorito la notte e che c’erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di – neanche davanzale, come si può dire? – un ripiano, erano tutti lì che si muovevano, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato dopo o era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini lì davanti al Revier, diciamo.

Io sono stata lì facendo quel lavoro fino a quando un mattino c’è stato un appello particolare.

D: Un attimo Natalia, tu prima dicevi: “andare alla selezione”. Esattamente cosa vuol dire “andare alla selezione”?

R: Andare alla selezione vuol dire che tu eri segnata, eri predestinata ad andare ai forni crematori. Cioè ti mettevano in un blocco particolare, come ti ho detto ti davano il supplemento di vitto, e poi dopo c’era un … particolarmente di notte; sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire. Di Torino c’era stata una certa Vanda Maestro, non so se l’avete sentita nominare, che era ebrea e credo fosse anche partigiana, e che è morta in quel modo. La cosa tremenda è che tu sai quando sei in quel blocco per 3 giorni che devi andare ai forni crematori.

C’era questo Block… particolare, non potevi uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c’erano i contenitori e guai a te se arrivavi come ultima: dovevi prendertela e andarla poi a svuotare nel Waschraum.

D: Dicevi di quell’appello …

R: Questo appello, questa cosa particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima, ma tu capisci che lì né si aveva radio, né si aveva l’orario, un orologio che fosse un orologio non c’era, non ricevevi posta da nessuno, non avevi notizie, c’era solo una simpaticissima ungherese che era Pagni Margaret, la zia Margaret la chiamavamo, l’avete conosciuta questa Pagni Margaret ungherese? Veniva sempre a raccontarci, diceva: “Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio. Fra una settimana tutto è finito, state tranquille.” Inventava tutto tanto per tirarci su il morale, ma ci ha aiutato molto. Ad ogni modo quella mattina erano i primissimi di novembre, i Santi, e dal 23 maggio ero in campo a Birkenau.

D: Nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, oltre al numero ti hanno dato …

R: Sì, il numero da mettere sul vestito.

D: E il triangolo, ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sai che non me lo ricordo il triangolo, io ricordo il numero.

D: O la stella.

R: No, né la stella né il triangolo, però non prenderlo come oro colato perché son cose che a distanza di mezzo secolo si possono anche dimenticare.

D: Nel blocco, nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, con te c’erano solo le razziali?

R: Razziali; le capoblocco erano tutte polacche terribili, terribili le capoblocco, erano tutte razziali, c’erano francesi, c’erano italiane; sono andata dove si dormiva con le francesi, ho imparato il francese anche, e combinazione, la mia vicina posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me, era nata lo stesso giorno e lo stesso anno mio, era la mia gemella; era una certa Susanne, pensa che combinazione, avevamo la stessa età, precisa identica. Ad ogni modo sono stata lì e poi mi pare che mi abbiano cambiato di blocco: dopo eravamo – non so neanche come si dice in italiano – nelle koje, castelli dove si dormiva in 12 con un’unica coperta, dove si stava naturalmente di fianco perché non potevi star di schiena di sicuro; poi a metà notte ci si girava tutte. Con quella mia amica di Venezia di cui ti ho parlato prima eravamo sempre state vicine, sempre assieme; io le dicevo: “Guarda, ti ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come mia figlia!” perché eravamo tutte naturalmente con le ginocchia piegate infilate una dentro all’altra, poi a metà notte ci si girava; con quei pochi stracci che avevamo la sera quando si andava a letto, ci facevamo un fagottino e lo mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno rubato, una notte; la mia disperazione era terribile, dico: “Come faccio domattina, non posso mica presentarmi nuda all’appello!” Non so in quale modo l’ho recuperato, qualcuno poi me l’ha ridato.

D: Visto che stavi accennando ancora agli abiti, biancheria intima ne avevate?

R: Ah figurati! Pensa che – tanto fa parte della storia, lo posso dire – mi avevano rubato le mutande, e sono stata credo per 3 mesi senza mutande. Avevamo tutte una specie di camiciola sotto e un vestito, e basta, e queste scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero in Revier mi sono caricata di pidocchi, ma proprio da togliere a manciate, pidocchi da tutte le parti, tra le braccia, sulla testa: allora mi hanno rapata a zero. Non quando sono entrata ma dopo, perché ero piena di pidocchi.

D: Scusa Natalia, il ciclo mestruale?

R: Niente, quando ti dicevo che mi è venuta quell’infezione alla gamba, io do una versione un po’ semplicistica ma può darsi che fosse così. Quando sono entrata in campo t’ho detto era il 23 maggio, avrei dovuto avere il ciclo il 24: cessato completamente di colpo! Può darsi che questa infezione che mi è venuta alla gamba fosse, come si può dire? conseguenza di quello.

D: Anche per lo shock, probabilmente …

R: Io penso più che altro per quello, perché han cessato di colpo, io penso che sia stata una conseguenza.

D: Arriviamo a novembre.

R: Arriviamo a novembre: c’è stato un appello particolare. Naturalmente al mattino eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca, che ora fosse non so perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po’ più tardi, dunque non so, non ho idea di che ora potesse essere; fatto sta che siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non solo, ma io avevo la febbre, un febbrone, non ti so dire quanto ma avevo la febbre. Poi quando ci hanno avviate e ci han detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo, perché noi in campo si parlava sempre di un eventuale trasporto come di un miraggio, dato che non era mai avvenuto, miraggio, il miraggio è quel trasporto. E’ arrivato quel momento, però non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un carro bestiame, io mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho potuto muovermi di lì perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, 3 giorni e 4 notti, e ci hanno portato a Bergen Belsen.

A Bergen Belsen siamo arrivati, mi ricordo, che pioveva; non c’era la baracca per noi, e ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma a Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen. Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. Io sono passata davanti a questa Aufseherin, mi hanno scartata perché ero troppo magra, e sempre quella mia amica veneziana – la Aufseherin forse aveva un momento di, chi lo sa, non dico di bontà o di tenerezza, forse di comprensione non so – le ha detto: “Lascia venire mia sorella con me”. Allora mi han tolto dal gruppo e sono andata con loro. Dovete pensare che da Auschwitz-Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via, e si parlava solo e sempre di questo miraggio, di questi trasporti che non sarebbero mai avvenuti, perché noi non si sapeva.

Siamo arrivati a Bergen Belsen. A Bergen Belsen anche lì eravamo sistemati in baracche, soliti castelli, solite cose, poi ci hanno scelto per andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, bulloni, e si lavorava in 25, c’erano dei gruppi di 25. 25 di giorno e 25 di notte, dalle 6 del mattino alle 6 di sera o viceversa. Però lì non c’erano i forni crematori, se non altro. Pensate che noi andavamo a lavorare con 5 SS e i cani lupi. Immaginate in quelle condizioni cosa potevamo fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente!

D: Scusami Natalia, a Bergen Belsen ti hanno immatricolata ancora o no?

R: Niente.

D: E neanche in questo sottocampo di Buchenwald?

R: No niente, almeno, se loro avevano dei registri quello non lo so ma io ho solo avuto un’immatricolazione.

D: Un’altra cosa: il campo di concentramento era vicino o distante dalla fabbrica?

R: No, non era lontano, noi andavamo inquadrati 5 per 5, eravamo in 25; potevamo camminare 10 minuti, un quarto d’ora a piedi; era piuttosto vicino.

D: Tutte donne eravate?

R: Tutte donne sì sì, e lì ti dico si stava già leggermente meglio, appunto perché c’era poca gente e non c’erano i forni crematori. Pensa che noi si lavorava 24 ore su 24 con un intervallo di 10 minuti ogni 6 ore, no lavoravamo 12 ore non 24, 12 ore con questi turni, una settimana dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e l’altra dalle 6 di sera alle 6 del mattino. … tutto e per tutto, ci portavano da mangiare, avevamo, quando andava bene, 5 patatine, ma grosse così, e se no 4, e quello era tutto. Tu pensa che quando c’erano questi intervalli eravamo talmente sfinite che avevamo vicino a noi delle cassettine, che non so a cosa servissero, forse per del materiale, ma ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando non suonava il campanello: erano 10 minuti, 10 minuti solo.

D: Scusa Natalia, parlaci di questo campo. Era solamente un campo femminile?

R: C’erano pochissime baracche, saranno state 5, era una cosa molto piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen Belsen o Auschwitz-Birkenau, era più piccolo, non era così esteso. Il trattamento era leggermente più umano benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare; avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello. Però ti dico una cosa: la fame è terribile e chi non ha provato qualsiasi cosa non può rendersene conto, è inutile che uno dica. Ma la sete è peggio. La sete ti fa impazzire. La fame è terribile; noi sempre e solo a raccontarci e scambiarci le ricette di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Io l’ho già raccontato in varie occasioni: una mia carissima compagna di sventura, che era Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze, ha lasciato a Firenze, quando l’hanno arrestata col marito, 4 bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni, non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i 3 bambini più grandi in Israele, lei è stata deportata col marito, il marito poi non è più tornato, lui era oculista ed anche rabbino di Firenze, naturalmente una delazione anche lì. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa preferisci: un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?” Disse: “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che colmo! Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto questo, non riguarda me ma è una cosa tragica: Anna è poi riuscita ad andare in Israele, allora era ancora Palestina credo, e ha ritrovato i suoi bambini. Lavorava nell’ospedale ad Hassa, un attentato arabo nel pullman ed è saltata per aria. Pensi, portare a casa la pelle dopo quel popo’ di tragedia che c’è stata ed è morta così, poverina!

Ad ogni modo di Dessau dirò una cosa: i pezzi che facevo credo che sono serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a capire ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo del campo l’unico aiuto che ho avuto è stato uno di questo piccolo reparto che mi ha messo dentro a una specie di casco, come quelli che hanno le pettinatrici, un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice. E’ l’unica cosa che ho avuto; no, anche un’altra cosa, che poi vi dirò. Ad ogni modo lì una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già il cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz ci hanno spostati, perché c’era già l’avanzata russa. Si sentiva da lontano il cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos’era. A me è venuto sul fianco un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente quel camicino che avevo sotto il vestito era tutto appiccicato, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato, uscendo dalla fabbrica, su un camion, e anche lì abbiamo detto: “Dove andremo a finire?” Ci hanno caricato e il foruncolo, dopo un po’ che eravamo tutti in piedi su questo camion, è scoppiato: sono rimasta con quel popo’ di roba attaccata alle carni e non mi è venuta l’infezione. Ci hanno portato a Terezin, a Theresienstadt, dove sono stata liberata.

D: Quando c’è stato questo trasferimento?

R: Dunque: io sono stata liberata il 6 maggio (1945), poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale. Poteva essere aprile, metà aprile, perché non abbiamo lavorato tanto in fabbrica, praticamente 15 giorni; proprio le date adesso precise non le so, solo approssimativamente. E’ per quello che rimpiango adesso che ci facciate tutti questi interrogatori. Quando sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare – sei stato tu a Terezin? E’ una fortezza che hanno mantenuto così – ma nei miei ricordi era tutto diverso.

D: Parlaci di Terezin.

R: Posso dirvi poco di Terezin perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo di trovare. Ma su questo insisto perché Terezin è rimasto così com’era; indubbiamente, siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale e mi è successo di tutto, i ricordi si sono sovrapposti, si sono accavallati. Tu pensa che ho avuto il tifo petecchiale e un ricordo terribile di quella febbre che ho avuto: sono arrivata proprio al delirio, nel mio piccolo castello non c’ero solo io ma c’era un’altra, e quell’altra ero sempre io, uno sdoppiamento c’è stato. Io parlavo con quell’altra, l’altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Dunque puoi immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so perché lì era proprio delirio. E poi diceva, io questo non lo ricordo, chi era stato con me, che quando pregavo che mi portassero al Waschraum perché avevo bisogno di buttarmi dell’acqua addosso, han detto che ero cieca. Io questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei giorni è una cosa che non ricordo, non ricordo assolutamente. E poi lì al 6 di maggio è avvenuta la liberazione.

Io ho detto: “Ce l’ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta quando stavo leggermente meglio di fare 2 passi tutti i giorni, il terzo giorno farne 3, farne 4 … sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto: “Ci sono i russi, siamo liberi, ci sono i russi e siamo liberi.” Poi quando eravamo lì nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i belgi, ma gli italiani niente.

Allora appena stavo un pochino meglio in 4 siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andati alla Casa d’Italia. Alla Casa d’Italia a Praga dove ci hanno accolte, dove ci han dato anche credo qualche soldo – abbiamo girato un po’ per Praga – è venuta fuori tutta la nostra femminilità perché con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Puoi immaginare in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto! Guardi, l’ho raccontato alle ragazze di Moncalieri: nelle cose tragiche c’è persino una nota comica, perché è comica sì in quelle condizioni.

Poi anche di lì abbiamo lanciato degli appelli tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Un giorno abbiamo detto: “Cosa facciamo? andiamo via. Ci siamo – ho detto – andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia.” Allora siamo arrivati fino a Vienna, anche lì con mezzi di fortuna, a piedi, tutto quello che capitava, abbiamo preso un treno che andava al Brennero, solo che arrivati a Wiener Neustadt ci hanno fatti scendere dicendoci che non potevamo rientrare così alla spicciolata. Altri 40 giorni lì siamo stati, sistemate in case che erano state devastate; mangiavamo quelli che chiamavamo i “ceci imbottiti”, tutti pieni di vermi, però allora andava tutto bene. Pensi che – era estate, era maggio – cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura mica buttavo la mosca, no! continuavo a mangiare. Adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto, allora niente, tutto così. A Wiener Neustadt, anche lì, nessuno veniva a prenderci; c’erano i russi, allora noi eravamo anche molto giovani, e i russi volevano farci andare a lavorare di notte. A noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe finita. Allora abbiamo deciso: una mattina abbiamo preso la strada e ce ne siamo andate. Siamo arrivate a piedi fino a Sopron, che è in Ungheria. Ho avuto un lasciapassare che non serviva a niente, c’era solo scritto che eravamo andate a … con nome e cognome; però a quell’epoca il lasciapassare non serviva a molto.

Di lì siamo arrivati poi con un treno dei partigiani fino al confine con la Jugoslavia; arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi abbiamo chiesto perché: avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a pranzo con chi li aveva invitati! Il treno era fermo, noi sul treno, allora abbiamo detto: “E noi?” “Venite anche voi!” E siamo andate anche noi lì, però quelli poi tornavano indietro. Sempre con mezzi di fortuna che non le so dire, con camion, a piedi, siamo arrivati a, mi aiuti a dire la capitale della Jugoslavia, a Tirana, a Lubiana siamo arrivati. A Lubiana siamo andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare, c’erano dei campi di accoglienza, che allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì c’era effettivamente un altro campo di raccolta e non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati, allora abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione, siamo arrivate a Trieste. Su quel treno di Trieste un capotreno mica ci ha chiesto i biglietti, no, ci ha regalato un pomodoro! Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto.

Io mi ricordo che avevamo trovato una patata, piccolissima, e l’abbiamo mangiata così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: “Che meraviglia!” I bignè non sono mai stati buoni così. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste e siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte, ci hanno messo a disposizione delle brande: noi non eravamo più abituate a dormire sulle brande. Allora abbiamo dormito per terra.

Abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla comunità. E poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ho impiegato 8 giorni e sono arrivata a Torino. 8 giorni. E quando sono arrivata fino a Milano, allora mio fratello era fidanzato con una ragazza di Milano e mi ricordavo l’indirizzo, mi ricordavo il nome, sono andata a presentarmi. Noti che mio fratello si era sposato nel frattempo in Svizzera a Bellinzona ed erano a Torino. Io da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino dicendo che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto! Mi hanno preso per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente riconosciuto.

Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta militare che partiva da Milano alle 10, sono arrivata a Torino a mezzogiorno. I militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata deportata!” “Per carità, hai più diritto tu di un altro”. E poi è arrivata Porta Susa, qui alla stazione di Torino, ho preso un tram, non chiedetemi con quali soldi, non lo so, non mi ricordo, e sono scesa proprio alla fermata sotto casa. Qualcuno che mi ha visto in quelle condizioni mi ha detto: “Ma lei arriva da lontano!”, si vede che qualche notizia era già giunta nel frattempo. Dico: “Ma io arrivo dalla Polonia! Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri, e poi sono arrivata alla porta della mia casa senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio fratello che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, mia cognata era incinta di 3 mesi e aspettava un bambino, e mio fratello Cesare, che era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo lì che mio fratello Vittorio era mancato il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. Poi è nato il bambino che abbiamo chiamato col nome di mio fratello, e la vita ha ripreso, per forza.

D: Il sottocampo di Buchenwald, Dessau, era un campo solo per razziali quello o no?

R: Io me lo ricordo come un campo piccolino, c’erano poche baracche, io non so se dall’altra parte ce ne fossero delle altre; forni crematori lì non ne ho visti, però sono sempre stata con i miei compagni razziali, tutti ebrei: francesi, italiani o cosa ma sempre ebrei.

Quando poi sono venuta a Torino non abbiamo mai parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: “Basta con queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta!”. Ho trovato una persona che mi dice: “Ma cosa hai fatto? perché ti sei scritta il numero del telefono sul braccio?” E poi tutti in generale: “Ma basta, queste cose sono finite, sono passate, non parliamone più!” E quella è stata proprio una cosa che ha … completamente. Perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo assoluto. Proprio per queste frasi che ci venivano dette, che ci ferivano da morire.

D: Questo è durato fino a quando?

R: Sempre. Fino a pochi anni fa quando dal CDEC mi han proprio presa alle strette, mi han detto: “Devi fare queste interviste” “No” “Tu le devi fare”. E allora, come succede sempre, fatta la prima poi le altre mi son venute leggermente più leggere.

Anche se ripeto queste cose, sono convinta che nessuno potrà mai capire fino in fondo questa tragedia cosa è stata, se non quando se ne parla con i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua, e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che, con tutta la buona volontà che ci mettono per capirti, non arriveranno mai sul fondo.

D: E’ difficile testimoniare la fame, il freddo, la sete, le violenze, non solamente quelle fisiche ma anche quelle psicologiche?

R: Certo, perché hai sempre l’impressione di non essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice: “No, noi capiamo queste cose, noi ci immedesimiamo” non è possibile se uno non le ha vissute. Questa della deportazione è una cosa terribile, però qualsiasi cosa della vita se non l’hai vissuta tu gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì ma altrimenti no.

Per esempio c’è stata anche un’altra persona, quando sono tornata – sono tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono – che m’ha detto: “Sai, anche noi in fondo abbiamo patito tanto; mia mamma quando ha aperto un armadio, mancavano 2 lenzuola”.

Io arrivata a quel punto lì, ecco, io dico: “Sì, lei avrà sofferto perché le sono mancate 2 lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono mancati, 3 componenti della famiglia, la nonna la mamma e un fratello, mio fratello non aveva ancora 30 anni quando è mancato, qual è stato il nostro destino, solo perché siamo nati ebrei, tutto lì?!”

Palman Itala Tea

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Palman Tea, sono nata il 16 Aprile del 22 a Trichiana.

D: Che è in Provincia di?

R: Belluno. Perché è una Provincia Belluno.
Sono stata arrestata a casa mia l’11 Novembre del 44. 11 novembre del 44 sono stata arrestata. Chi mi ha arrestato è stata la Banda Carità di Padova, il famoso Tenente Castaldelli, mi sembra che si chiamasse.
Il mio era un recapito, allora sono entrati, io ero nel bar con tutti i clienti e c’era mio fratello Aldo, che era anche lui un organizzatore della resistenza, perché si può dire che la resistenza di Trichiana è nata a casa mia. È nata.
Vedo lui che salta, ha il cannocchiale e sta spiando in piazza perché aspettava una macchina dei partigiani di Belluno. Il Comandante aspettavano perché avevano una riunione. Salta dalla finestra ed io non so cosa succede e vedo due persone che entrano. Si avvicinano a me, ordinano qualcosa. Non so, io non so chi sono, non mi sbilancio, cerco di non parlare. Sento un colpo di pistola fuori. Sento un colpo fuori.
Mio fratello era saltato dalla finestra, era andato a vedere dal buco del portone se c’era ancora qualcuno in macchina, di fatti c’era un altro signore fuori, che sarebbe stato il terzo. Era senza… non aveva armi in mano, era là appoggiato alla macchina. Mio fratello ha fatto finta di avere la pistola, ha messo la mano sotto la giacca ed è andato a mani in alto. Questo qua si è messo con le mani in alto.
In quel preciso istante torna, arriva la macchina di Belluno che erano i Comandanti di Belluno. Ma mio fratello non li conosceva e questo neanche, allora si sono mossi tutti e due per andare a questa macchina per vedere chi fosse.
Quando mio fratello ha chiesto: chi siete, o l’altro ha chiesto: chi siete, non so quale dei due, questo si è voltato, è andato alla macchina, ha tirato fuori la pistola e si è messo a sparare. Mio fratello è riuscito a scappare, è ritornato dentro dal portone, poi è saltato dalla griglia ed è andato per i campi. È scappato.
I due che erano all’interno che hanno sentito il colpo fuori si sono lentamente avvicinati alla porta per vedere chi sparava fuori. Se era il loro amico, o se era qualcun altro. Quando si sono accorti che era il loro amico hanno sparato un colpo per aria, contro il muro dentro in sala, dentro nel bar, ed hanno detto: mani in alto tutti, non si muova nessuno, portate via la ragazza.
C’erano due ragazzi, due ragazzi che volevano entrare nelle file partigiane ed hanno portato via anche questi. Purtroppo uno era armato e li hanno uccisi subito. Li hanno uccisi. Mi hanno detto che sono stati uccisi poco dopo insomma.
Mi hanno portato subito al Distretto a Belluno. Mi hanno consegnato ai tedeschi, al maresciallo Palua, che è di Colle Santa Lucia, che parlava molto bene l’italiano perché era un italiano, di Colle Santa Lucia. Mi hanno messo nelle loro mani.
Lui ha incominciato subito l’interrogatorio, immediatamente. Ha incominciato l’interrogatorio: lei conosce Gianni. Gianni sarebbe stato l’intendente di zona, quello al quale io dovevo consegnare le lettere e dovevo riferire tutto. Lei conosce Gianni. Io faccio la tonta. Non so, perché nei momenti peggiori io riesco, riuscivo ad avere una calma tremenda, proprio, non mi scomponevo per niente. Io ho fatto la tonta ed ho detto: Gianni? Io non ho mai sentito parlare di questo Gianni, non so chi sia. Insistono: sì che lei lo conosce.
Avevo visto io che avevano aperto la porta e poi l’avevano richiusa, la porta era sulla mia destra, così. Cosa avevano fatto? Avevano aperto la porta, avevano messo la staffetta che avevano preso a Padova, e le hanno chiesto se ero io e lei ha detto di sì. Allora loro erano sicuri che ero io la responsabile.
Sì la conosce, non la conosce, ad un certo punto mi fa: vuole che le faccio vedere io chi conosce Gianni e chi conosce, e quante volte è stata a Trichiana e quante lettere le ha portato, e quante lettere sono state portate?
Me lo faccia vedere.
Mi mandano dentro questa ragazza, che è una staffetta che hanno preso a Padova. Io la guardo, non la conosco, non l’ho mai vista, può darsi che sia venuta nel bar, non dico niente perché nel bar viene tanta gente. Ma come faccio io a ricordare tutti? Non è possibile che io ricordi tutti. Sarà anche venuta, ma avrà portato delle lettere, ma chi è venuto a prendere le lettere proprio non lo so.
Così ho insistito su questa storia e mi hanno, hanno creduto per il momento, hanno creduto, poi mi hanno mandato su nelle carceri di Tabasso, e vicino c’era anche lei.
Io ho detto: ma che stupida che sei stata! Cosa ti sei sognata di andare a dire che venivi a casa mia? Non potevi trovare un posto qualsiasi? O in chiesa o dietro al cimitero? O un posto dove non succedeva niente? Ma proprio il mio nome?
Allora mi hanno…, io tutta la notte ho continuato a ripetere quello che avevo detto, per ricordarmelo bene il giorno dopo. Di fatti il giorno dopo quando mi hanno interrogata di nuovo ho ripetuto esattamente quello che avevo detto il primo giorno.
Così dopo mi hanno portato al Quinto Artiglieria. Al Quinto Artiglieria c’era una prigione dei pericolosi.

D: Ma sempre a Belluno?

R: Sempre a Belluno. Sempre a Belluno.
Era la prigione dei pericolosi. Prima di essere portata là c’era un questurino, un certo Sacchet, che pian pianino mi ha detto: attenta al n. 2. Solo così, due parole, ed io ho capito subito che era una spia. Di fatti mi mandavano al Quinto Artiglieria perché lei faceva la spia. Le carceri erano fatte con la porta di ferro, in maniera che lei poteva…, lei era quasi sempre libera, e passava per le celle.
Quando sono arrivata io ho capito subito come andava. Allora cercavo…, di giorno lasciavano aperta anche me e di notte mi chiudevano.
Ma io di giorno non potevo far controspionaggio, lo potevo fare di notte. Allora ho lavorato sulla serratura, non mi ricordo se con una forcina o con qualcosa, in maniera che non scattasse immediatamente, perché il tedesco tante volte quando passava alla sera dava il colpo alla porta e la serratura scattava. Io invece avvicinavo forte – forte, come se fosse scattata, ma non era scattata.
Quando la Paola, non potrei dire il nome della spia comunque ormai l’ho detto, quando la spia usciva, uscivo anche io e se lei andava giù da una parte io andavo dall’altra, e cercavo sempre di non vederla. Avvertivo i prigionieri, quelli che hanno portato dentro dopo di me e dicevo loro: state attente, cercate di non parlare con nessuno, solo questo io dicevo, non parlate con nessuno.
Una sera hanno portato dentro una gran retata di persone che veniva dal Mas, da quelle parti là, e c’erano tre ragazze. Erano quattro fratelli, no, due sorelle ed un fratello. Il fratello l’hanno messo nell’ultima cella in fondo nella parte, nell’altra parte di là, e sento che la Paola parla, parla… Questo qua parla, sento chiacchierare. Io ero uscita ed ero andata fino in fondo all’angolo delle celle, lei era sull’angolo per di qua e sentivo tutto quello che diceva. Sentivo parlare però non riuscivo a capire bene quello che dicevano.
Le due sorelle, io avevo avvertito tutti quelli che erano dentro, attenti, non parlate con nessuno, acqua in bocca, state zitti perché non ci si può fidare di nessuno.
Ad una delle sorelle, la più vecchia, le ho detto: non parlare con nessuno, hai capito? Stai zitta, tieni per te quello che sai e non parlare.
Non è andata a dirlo alla Paola? Quando l’ha detto alla Paola naturalmente lei il giorno dopo ha fatto la scena madre, io sono stufa di stare qua, si è messa a piangere, grida, due tedeschi l’hanno presa e l’hanno portata via. L’hanno portata giù al Comando a riferire tutto quanto, a riferire. Poi laggiù lei era di casa perché queste scene succedevano spesso insomma. Le hanno raccontato tutto quello che…
Poi c’era anche una cosa che devo dire, hanno portato dentro in cella Montagna, che era… un medico, che a forza di torturarlo aveva una cancrena alla gamba. L’hanno messo proprio alle spalle della mia cella. Avevamo la testa che si toccava, avevamo un muro ma avevamo la testa… Io sentivo tutto.
Sentivo tutto però un giorno sono passata di là, mi sono… visto che non c’era nessuno mi sono fermata e lui era steso con un fazzoletto sugli occhi, però vedeva sotto. Io gli ho fatto: che non parlavo, lui ha appena fatto la mossa con la testa.

D: Scusa, te ne sei andata?

R: Me ne sono andata.

D: Ecco, quando tu dici Montagna era il nome di battaglia?

R: Nome di battaglia Montagna, perché si chiama Mario…

D: Mario Pasi era?

R: Mario Pasi. Mario Pasi, si chiamava Mario Pasi proprio. Io l’ho conosciuto, l’ho assistito anche dentro. Per il momento io non sono andata tra i piedi, ho lasciato che la Paola si sfogasse, lei andava dentro e le faceva questo, le faceva quello, cercando sempre di… Perché lui non ha mai parlato, si è lasciato torturare ma non ha mai parlato.
Allora un giorno viene da me: guarda che io sono stanca di andare sempre da quello là, sono stanca di andare da Montagna, cerca di andare tu un pochino, perché io non ce la faccio più.
Va bene ho detto io, non è che ne abbia tanta voglia, ma va bene. Però l’ho lasciato stare ancora un giorno, ho fatto finta di niente, ed il giorno dopo sono andata da lui.
Lei non si è più interessata, visto che non è riuscita a cavare fuori niente ha lasciato che andassi tranquillamente io. Di fatti l’ho sempre curato, l’ho sempre assistito, gli davo da mangiare.
Quel biglietto che ha mandato fuori scritto con il sangue sono stata io a mandarlo fuori. Sono stata io a mandarlo fuori. Perché c’era un tedesco, uno della Wermacht, che entrava tutte le sere al Quinto Artiglieria, tutte le sere entrava in prigione. Faceva il giro di tutti i prigionieri, dava una sigaretta ad uno, una sigaretta all’altro, chiedeva se avevano fame, portava dentro del pane. Con me si è fermato tante volte a parlare questo ragazzo, non era tanto un ragazzo, sarà stato un uomo sui quarant’anni.
Mi ha detto appunto che io avevo il foglietto di scarcerazione pronto per Natale. Che sarei andata a casa a Natale.
Io gli ho detto… Poi dopo mi ha chiesto, perché ormai sentivano che la guerra andava male, e lui aveva paura. Allora mi ha chiesto, dice negli ultimi momenti, quando le cose andranno proprio male dice: lei può nascondermi? Lei può nascondermi?
Io sì la posso nascondere, però lei in cambio mi deve fare un piacere. Basta che non sia qualcosa contro la mia patria, contro i miei. No, io chiedo solo che mi porti dentro da mangiare, vestire ecc…
Allora io le davo le lettere che lui portava alla cassiera, ogni tanto la vedo ancora, la cassiera comunale del cinema, al comunale, le portava là, là c’era un’altra staffetta che andava a prenderle e le consegnava. Queste arrivavano a Trichiana, ed a Trichiana c’era mio fratello piccolo che aveva 13 anni che prendeva le lettere e le portava all’altro mio fratello che era in montagna.
È andata avanti così con questo qua. Attraverso questo qua io ho mandato fuori questo biglietto, perché non c’era modo di comunicare con l’esterno nella maniera più assoluta. Ero io che avevo il modo perché avevo… Perché questo qua sperava che io andassi a casa a Natale e che riuscissi a salvarlo. Che riuscissi a salvarlo.
Tornando a Montagna, poveretto, sono riuscita a mandare fuori questo biglietto attraverso…
Ricordo un altro particolare, c’era un certo Gazzetta di Cortina D’Ampezzo dentro, Gazzetta, ed una sera si è messo a dire il rosario, e tutti quanti hanno incominciato a voce alta, tutti quanti dicevano il rosario, era diventato un bum bum, proprio una voce. È arrivato Palua, non so era Palua che è arrivato in quel momento, è andato a far smettere subito. Hanno preso paura, c’è una rivolta, non avevano capito che era il rosario. …

D: Scusa Tea, il Distretto, quello che dicevi te, qui a Belluno, dove si trovava?

R: Qui in piazza, una facciata…, Piazza… adesso non mi ricordo il nome della piazza, mi sfuggono ogni tanto i nomi. È proprio qua, è vicino a qua, è proprio sulla piazza.

D: Lì c’era il Quinto Artiglieria?

R: No, il Quinto Artiglieria era su dove ci sono le caserme, dove sono le caserme lassù verso Mir, da quelle parti là, ci sono le caserme, il Settimo… Io ero nel Quinto Artiglieria, avevano costruito delle celle. Io penso che fosse la zona dove avevano i cavalli, dove avevano le stalle. Non so. So che là hanno costruito queste celle, e per entrare in quelle celle, prima di entrare in queste celle c’è un lungo corridoio fuori nel cortile tutto di filo spinato. Tutto un gran corridoio di filo spinato.

D: Ecco, Tea, però a Natale non ti hanno liberata?

R: No. Quando quella ragazza ha detto alla Paola che io… No, quando ho detto che stesse zitta allora lei ha capito che io dovevo sapere molte cose. Quel giorno che si è fatta portare giù al Distretto ha detto, perché ho avuto la conferma da Palua quando è stato arrestato, lei ha semplicemente detto che io dovevo sapere molte cose. Con queste tre parole sono finita in campo di concentramento.
Quando lei è tornata, dopo tre giorni, alle quattro del mattino hanno svegliato tutti, hanno chiamato tutti i nomi ed hanno fatto l’ultima partenza, sì, hanno fatto la partenza per il campo di concentramento.
Allora lei si è chiusa la porta, quella volta, l’unica volta che ha chiuso proprio la porta.

D: Quando era questo, te lo ricordi?

R: Questo non me lo ricordo quando doveva essere stato. So che Natale e Capodanno l’ho passato là al Quinto Artiglieria, l’ho passato in prigione là. Che poi quella notte, la notte dell’ultimo dell’anno erano in tre o quattro soldati tedeschi che passavano con le bottiglie, davano da bere e cantavano, ed io ho chiuso la cella, mi sono messa sotto, ho coperto la testa e non volevo neanche vederli. Non volevo. Come quando una volta ho sentito passare, ho sentito il passo di Palua, io ero seduta sul letto con i piedi contro perché lo spazio dalla schiena al muro ed i piedi contro il muro dall’altra parte, ero là e sentivo, ero dritta, ferma, e lui passa e si ferma davanti alla mia porta. Si ferma e mi fa: si vede negli occhi quanto odia i tedeschi, mi fa. Io lentamente giro la testa, guardo i suoi stivali, poi ritorno alla testa al mio posto. Ero tremenda, perché proprio… Si vede negli occhi quanto odia i tedeschi.

D: Ascolta Tea, allora l’ultimo carico quindi a gennaio probabilmente del 45?

R: Io penso a gennaio del 45, mi hanno portato al campo di concentramento.

D: Da sola o…

R: No, era un camion pieno. Da sola, la donna ero sola, unica donna, ma poi c’erano tanti uomini. Non è stato l’ultimo carico perché dopo ce ne sono stati altri.

D: Ascolta, ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno che è stato portato con te nel campo di Bolzano?

R: No. Che è stato portato con me nel campo di Bolzano non mi viene in mente il nome. Non mi vengono in mente i nomi, e neanche i volti, che strano. Perché dirò che io avevo la colite, avevo una forte colite, non stavo bene, di fatti quel giorno che mi hanno arrestata stavo parlando con il dottore. Con il freddo, perché mi hanno buttata sul camion, dietro, di notte era un sereno che si poteva infilare un ago, e di giorno nevicava tutto il giorno, tutto il giorno, con un camion a carbonella che ogni cento metri i tedeschi dovevano scendere a fare strada. Si può immaginare io che avevo mandato a casa già tutta la roba perché mi aveva detto che a Natale andavo a casa, ero con un cappottino nero, ero in lutto perché era appena morta la mamma, un cappottino nero senza guanti, senza niente, un freddo da morire.
Naturalmente mi torcevo dai dolori che avevo al ventre.
Allora un soldato ha fatto fermare il camion, ha chiesto ai Comandanti che erano in cabina se potevo andare in cabina. Gli hanno detto di no, e sono rimasta là.
Mi ricordo una cosa, abbiamo fatto Primolano, le curve di Primolano, una curva che è proprio ad esse, non si incaglia il camion proprio su quella curva là? Era di notte. Noi altri guardavamo le montagne limpide, belle, tutta questa neve in giro, e pensavamo se venissero a liberarci. Ma purtroppo il camion è ripartito.
Siamo arrivati a Bolzano. Non so se ci abbiamo messo due giorni, non mi ricordo quanto abbiamo messo, ma tanto, perché abbiamo fatto due notti in camion così.
Siamo arrivati a Bolzano che io ero proprio gelata. Poi una sete, una sete. Ci hanno fatto scendere, ci hanno allineati tutti sotto, sul muro del Comando, e dal tetto scendevano i candeloni lunghi così di ghiaccio. Io avevo una sete e guardavo questi candeloni di ghiaccio… pensi il freddo che c’era.
Poi dopo ci hanno aperto le porte, si vede che hanno preso i nomi, hanno aperto le porte di blocchi e sono entrata nel blocco.
Sono entrata nel blocco, mamma mia che impressione che ho avuto, vedere tutti questi castelli, tutte queste teste che uscivano dal castello, era tutta una testa che usciva dal castello. Questo corridoio con due file di castelli a tre piani. Insomma, io ero proprio…
Mi è venuta incontro la Maria Da Gios, la sorella di Checo Da Gios, quello che è stato impiccato con l’uncino, quello che è stato impiccato con l’uncino a Sedico, da quelle parti là.
Mi è venuta incontro lei poverina, poi là c’erano le quattro sorelle Rocco, tre sono morte, ce n’è ancora una. Mi hanno fatto posto in cima sul loro castello. Allora in cima sul castello con loro e la Maria Da Gios che faceva la spola dalla stufa, che non era nel nostro corridoio ma era nella parte di là dove c’era la Cicci, la capo blocco, la stufa.
Allora lei mi scaldava i mattoni e me li portava, e sono riuscite a scongelarmi un po’ le mani ed i piedi perché ero in condizioni… Mi hanno buttato su coperte, fatto bere un caffè.
Sì, poi sono arrivati quelli del caffè, perché io sono arrivata prima che passasse il caffè, allora ho bevuto questo caffè che era un po’ di acqua nera, sporca, così.
Dopo un po’ di tempo mi sono adattata, adattata ai gabinetti, adattata alle toilette, che era una cosa proprio esasperante.
Dopo andavo a lavorare alla galleria il Virgolo.

D: Quando ti hanno immatricolata, Tea? Hanno dato un numero a te?

R: Sì, subito. Subito, appena arrivati.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Oddio…

D: Non te lo ricordi adesso?

R: No. Ce l’ho.

D: Dopo ce lo dici. I tuoi vestiti te li hanno lasciati o te li hanno tolti?

R: No, mi hanno dato la camicia piena di pidocchi e la tuta bianca. No, mi hanno dato tutti i vestiti del campo di concentramento, mi hanno dato. Sì, per un po’ di tempo sono stata là in campo senza… Poi mi hanno detto: se vuoi vieni a lavorare, andiamo a lavorare fuori che ci danno un pezzo di pane in più.
Una mattina sento: chiusi i blocchi, chiusi i blocchi, una mattina presto, chiusi i blocchi. Ho detto: chiusi i blocchi, perché chiusi i blocchi? Ci sono gli arrivi, c’è un arrivo si vede, ho detto.
Allora io scendo, non ero andata in galleria, non ero andata a lavorare quella mattina. Quella mattina non avevo voglia di andare a lavorare e sono rimasta a dormire. Chiusi i blocchi. Io scendo, il blocco l’avevano chiuso con le catene, però la porta non chiudeva bene ed in fondo io riuscivo a guardare fuori.
Guardo fuori e vedo il primo, uno di Trichiana. Guardo il secondo, è un altro di Trichiana. Guardo il terzo ed è anche quello di Trichiana. Insomma sono quattro, tutti e quattro di Trichiana.
Faccio in modo che mi vedano, allora si sono accorti di me e con le labbra ho fatto: Aldo… mio fratello? E loro hanno fatto no.
Li stavano rapando completamente a zero. Li stavano… Era Ugo Somacal, uno si chiamava Brancher, Bertino ed Arturo Bonetta. Poi Arturo Bonetto è morto, si è preso la tisi ed è morto poverino, sì.
Pensi che questi qua sono stati chiusi, sono stati messi sui vagoni che dovevano andare in Germania, e Pippo invece aveva rovinato strade, aveva rovinato ferrovie, aveva rovinato tutto, e dopo quattro giorni li hanno riportati.
Questi ragazzi che sono tornati in campo prima di partire avevano lasciato l’acqua là, avevano lavato dei panni. Quando sono tornati hanno vuotato bevendo tutta l’acqua sporca che hanno lasciato là dalla sete che avevano. Leccavano i muri dove c’erano delle goccioline d’acqua, dell’umidità, dalla sete che avevano.

D: Tea, quando ti hanno selezionata per mandarti al Virgolo a lavorare?

R: L’ho deciso, mi sembra di averlo deciso io. Ho deciso io, sono uscita ed andata al Virgolo con tutta… Sono entrata nella fila con tutti quelli che andavano a lavorare. Non so se l’ho detto alla Cicci che andavo a lavorare, può darsi che l’avessi detto alla Cicci, che era la capo blocco.

D: E dal campo al Virgolo andavate a piedi o vi portavano?

R: In principio siamo sempre andati a piedi, in principio. Poi dopo ci portavano con i camion, ma in principio attraversavamo tutta la città di Bolzano a piedi, attraversavamo. Tutta la città di Bolzano a piedi.

D: E lì nel Virgolo cosa facevate? Cosa facevi tu?

R: Io facevo, lavoravo ai cuscinetti a sfera. Allora facevo il sabotaggio, perché quando dovevo lucidarli esternamente li lucidavo poco, in maniera che tornavano indietro, e quando dovevo lucidarli dentro li tenevo sotto la macchina tanto in maniera che poi le palline dentro le dovevano scartare per forza.
Il capo, che era uno di Ferrara, perché era una fabbrica di Ferrara, era stata portata là al Virgolo, una fabbrica di Ferrara, mi diceva il capo là: attenta Tea, stai attenta perché se ti prendono ti fucilano.
Poi al Virgolo è successo un bombardamento. Non so come mai due ebree sono riuscite, non so da chi, hanno avuto due triangolini rossi ed hanno tirato via il loro giallo, perché loro non potevano andare a lavorare, gli ebrei non potevano uscire, però non so come hanno fatto, questo, hanno messo su i triangolini rossi e sono venute fuori.
Quel giorno c’è stato un gran bombardamento su tutte e due le porte, su tutte e due. Non so se prima hanno bombardato davanti e poi hanno bombardato dietro. I tedeschi hanno una paura delle bombe tremenda.
In quel bombardamento davanti uno dei capi ha perso un braccio, che è quello del frustino, che frustava sempre tutti, e dietro sono sparite le due ebree. Erano d’accordo, si vede che il bombardamento era stato organizzato, era stato organizzato tutto, perché dopo due giorni abbiamo avuto notizie che erano già in Svizzera. Sicché loro si vede che sono andate verso la porta dietro, dietro c’era qualcuno che le aspettava, mentre bombardavano davanti, perché prima hanno bombardato dietro e poi hanno bombardato davanti, allora loro sono andate verso il dietro e sono scappate.
Quando ci hanno messe in fila si sono accorti che sono sparite due ebree, mamma mia, mamma mia non so se ci hanno tenuti senza mangiare, non mi ricordo, però una punizione ce l’hanno data.

D: Ecco, Tea, vi portavano al mattino e tornavate alla sera?

R: Sì.

D: Non stavate là a dormire al Virgolo?

R: No, il Virgolo era una galleria con dentro questa fabbrica, con tutti i macchinari, con tutti i reparti, reparti per ogni lavoro ecco. I tedeschi, c’erano i tedeschi dentro. Ci portavano alla mattina e ci portavano indietro alla sera.

D: Quanto tempo sei rimasta lì al Virgolo a lavorare tu?

R: Dunque, al Virgolo a lavorare sono rimasta fino a marzo. Dirò, per spiegare il perché mi hanno portato a…
Devo fare un passo indietro e parlare di mio fratello Aldo.
Io avevo scritto una lettera a mio fratello Aldo dal campo di concentramento, dove dicevo tante cose del campo di concentramento, della spia della Paola, tantissime cose. Dopo parlavo anche, ma scritta in maniera non esplicita, doveva esserci una spiegazione mia a tutti gli argomenti, ma mio fratello teneva conto dei principali argomenti, e poi dovevo io…
Tra l’altro io ho chiesto se il nascondiglio funzionava ancora a casa mia, so che erano dentro i tedeschi, che avevano portato quelli della Wehrmacht, cioè avevano portato quelli della Todt a dormire là, perciò il nascondiglio credo che non servisse più. Però ho parlato di questo nascondiglio su sta lettera.
Mio fratello, c’è stato un grande rastrellamento, lui alla sera, al 5 sera lui, il suo Maggiore, il Maggiore Ceppel, con il Maggiore Benucci, inglese, si sono trovati a Sant’Antonio Tortal. Benucci era accompagnato da un ragazzo di loro, e mio fratello era con il suo Maggiore. A mezzanotte mio fratello era andato a dormire, si sono ritirati, i due Maggiori sono andati insieme alla casera in cima, Cima di Mel, ed Aldo con Brancher sono andati giù alla Casera Bolenghin più giù, molto più giù.
Alle cinque del mattino sentono una voce: ragazzi, siete circondati, siete circondati, siete circondati. Allora svelti – svelti saltano giù perché questa casera era fatta in modo che qui c’è una scala, qua guarda la montagna. Il Maggiore Benucci… Quelli che li hanno svegliati alla mattina alle cinque non sanno chi siano, erano una voce che ha detto: siete circondati dai tedeschi. Loro sono scesi immediatamente e sono andati alla porta della cucina, che era di qua. Entravano dalla cucina e qui salivano per una scala ed andavano sopra a dormire.
Allora svelti sono scesi, hanno spalancato la porta e lasciato tutto aperto così giù per questa scala e sono entrati nella cucina. Mio fratello ha detto: io devo andare ad avvertire la mia missione. No, fermati qua, non muoverti, non volevano lasciarlo andare. Lui si è messo la sua tuta bianca, perché era tutto vestito di bianco perché c’era una neve spaventosa.
C’è una valle là, una valle che non saprei come definirla, dicono che bisognerebbe andarla a vedere perché è straordinaria. Ha dei massi enormi, dei cunicoli. Una cosa non saprei come dirla, perché è piena di anfratti, è strana, una cosa molto strana. In mezzo c’è questo piccolo torrente che viene giù da questa montagna.
Allora mio fratello va su, arriva esattamente nel momento in cui lassù si stanno sganciando, perché una staffetta che è arrivata da Sant’Antonio li aveva già avvertiti che erano circondati dai tedeschi. Allora viene giù e cerca di… Prende l’arma del Maggiore Ceppel, un bazooka, e corre insieme ad un altro Maresciallo, e corrono giù per questa valle. Vanno a nascondersi, cercano di scappare ai tedeschi.
Quando sono arrivati giù in una valle si sono fermati, trafelati tutti e due perché a correre per portare questa mitraglia… Allora il tedesco che si era guardato in giro, non il tedesco, il Maresciallo americano che si era guardato in giro aveva visto un posto che era come.. non so dire, un pianoro, dove c’erano degli alberi che lo coprivano. Là potevano nascondersi.
Sta dicendo a mio fratello: guarda, guarda quel posto là è il posto bellissimo dove possiamo nasconderci tutti e due. Si volta per chiamarlo e non lo vede più. Lo vede che sta risalendo la salita. Sta risalendo la salita. Lo chiama: Aldo, Brauni lo chiama, perché il nome in inglese di battaglia, il nome che aveva prima mio fratello di battaglia era Nuvolari, Nuvolari perché era…
Pensi che ha portato via un camion che con le due ruote dentro stava in cima sulla strada, e quelle fuori erano fuori dalla strada, lui riusciva a portare il camion in montagna. Riusciva a portare. Lo chiamavano Brauni.
Adesso ho perso il fio…

D: Che lui stava scappando…

R: Lui non stava scappando, stava rimontando la collina, dove in cima poco prima aveva visto passare due tedeschi. Lui stava rimontando la collina e non ha dato retta al suo Maresciallo, non ha dato retta.
Questo Maresciallo ha cercato di salire l’altra collina dall’altra parte per vedere se lo vedeva, ma non ha più visto niente, allora è andato a nascondersi sul suo nascondiglio ed è rimasto là quieto.
Dopo un po’ lui sente il colpo di bazooka. Mio fratello si era portato si vede in direzione che in linea d’aria poteva arrivare alla Casera Bolenghi dove c’erano i cinque, c’erano tre italiani e due inglesi dentro. Di fatti ha sparato un colpo di bazooka.
Dentro in questa casera uno degli italiani stava guardando fuori dal finestrino da questa parte qua, dalla parte verso Trichiana diremo. Vede i tedeschi che stanno venendo su dalla collina, stanno venendo su con il mitra, e stanno per puntare, si avvicinano alla porta, stanno per sfondare la porta, mentre arriva il colpo di bazooka.
Cosa fanno i tedeschi? Si buttano a terra ed a carponi girano la casera, si portano sul davanti per vedere da dove veniva questo colpo di bazooka. Non hanno più toccato la cucina. Non sono più andati dentro.
Questo che spiava fuori da questa parte qua pian pianino contro il muro si è portato dalla parte di qua, dove c’era un’altra feritoia, un’altra di quelle finestre da montagna, ha guardato fuori anche lui perché lui ha detto subito: questo è Elio, questo è Aldo. Questo è Aldo, sono sicuro che è Aldo. Di fatti lo vede che scende giù su una stradina scoperta, per niente nascosta, e che zoppica. Perché lassù lui aveva sentito il colpo di bazooka, l’americano, poi dopo ha sentito un altro colpo. Si vede che i due tedeschi che erano lassù gli hanno sparato sulle gambe. Di fatti aveva una gamba ferita.
Hanno visto Aldo venire giù e si è appoggiato ad un albero ed è caduto, scivolato perché si vede che non ne poteva più, poi si è rialzato ed è corso in un’altra casera che era di fronte a quella dove c’erano i cinque. Proprio quasi una di fronte all’altra, qui c’è il torrentello che passa e sono una di fronte all’altra.
Lui aveva due bombe a mano, ha tirato anche le due bombe a mano dalla parte all’altra casera per attirare l’attenzione su di sé. Poi è tornato di qua. Purtroppo sopra la sua testa c’era un nucleo di tedeschi, c’era un comando tedesco ed hanno cominciato a sparare, a sparare, ed anche lui a sparare perché aveva la sua rivoltella. Il bazooka non l’aveva più, però aveva la sua rivoltella, le rivoltelle americane.
Ha ferito un tedesco che poi è morto, abbiamo saputo che è morto. Dopo questo combattimento lui lo volevano vivo, non lo volevano morto, lo volevano vivo, e volevano che finisse le munizioni. Però io sono sicuro che l’ultimo colpo se l’è sparato. L’ultimo colpo perché l’ultimo colpo se l’è sparato lui, sono sicura perché me l’aveva già detto: a me la corda non la metteranno mai. L’ultimo colpo che ho qua sarà mio.
Di fatti così ha fatto.

D: Tea, quando tu hai scritto quella lettera dal campo di Bolzano a tuo fratello, la lettera non è mai arrivata?

R: La lettera l’aveva sulla pancia mio fratello, assieme a tutti i soldi della missione, della missione americana. Aveva un gran pacco di denaro, perché hanno portato via anche tutto il denaro, un po’ uno, un po’ l’altro si sono portati via tutto il denaro, e la lettera ce l’aveva in mezzo a…
Questi che hanno trovato la mia lettera poi dopo niente… Sulla lettera dico a mio fratello: non mandarmi tutti i pacchi via clandestina, mandamene qualcuno con il mio numero di matricola, che il numero di matricola è 8934.
Ecco, mi hanno preso come prendere una mosca nel latte. Mi hanno preso. La tedesca, la lettera l’hanno mandata, quando hanno preso la lettera l’hanno mandata si vede al Comando a Belluno, il Comando a Belluno ha telefonato a Bolzano immediatamente, ed il giorno… non so, questo è successo il giorno 6, io penso che il giorno 7 erano già là. Il giorno 7 a mezzanotte è passato il Comando tedesco con la Tigre, che era una donna, con la Tigre, noi la chiamavamo Tigre, che passava ed a tutti guardava il cartellino.
Quando è arrivata a me che ha visto il cartellino ha dato uno strappone, l’ha tirato via e mi hanno portato via. Mi hanno portato al Corpo d’Armata.

D: Il 7 di che mese però, Tea?

R: Marzo, marzo.

D: Ti hanno portato al Corpo d’Armata a Bolzano?

R: A Bolzano. Prima mi hanno portata al Comando del campo di concentramento, e là naturalmente io non capivo una parola. Dopo mi hanno portato al Corpo d’Armata. Al Corpo d’Armata giù, sotto quel sotterraneo là, il giorno dopo al mattino alle 9 sento diversi passi sul corridoio e mi portano nella sala di tortura, che è più in fondo.
Là hanno incominciato a torturarmi. Hanno incominciato a torturarmi, allora mi hanno messo allo spiedo, allo spiedo. Mi hanno legato le mani così con del filo di ferro, le mani diritte con il filo di ferro, poi me le hanno infilate sulle ginocchia, infilate sulle ginocchia, e tra le mani e le ginocchia mi hanno passato un ferro. Poi mi hanno alzata, mi hanno messo su una scala a pioli, una scala doppia così, ed io rimanevo là con le gambe e la testa in giù.
Là hanno incominciato ad interrogarmi. Mi hanno interrogato.. scosse elettriche. Erano in due con una corda di bue, l’impugnatura grossa e poi fine – fine che mi bastonavano. Si mettevano in posa con le gambe larghe e giù botte, e giù botte.
Allora mi facevano in qua con le scosse elettriche, oppure mi facevano perdere i sensi con le scosse elettriche e mi facevano in qua con le bastonate. Finché… Volevano sapere se mio fratello era un Comandante, perché loro erano fissati che Aldo era un Comandante. Perché con tutta questa roba che aveva addosso, era tutto vestito d’americano, perché era tutto vestito d’americano, credevano che fosse un Comandante. Invece mio fratello non era un Comandante, era il fac-totum del Maggiore Ceppel sì, perché lui essendo perito edile, perito meccanico era, conosceva un po’ l’inglese, conosceva un po’ il tedesco perché allora studiavano il tedesco, non si studiava…
Tra tedesco, inglese ed italiano si capivano, ecco. Così.

D: Lì al Corpo d’Armata sei rimasta fino a quando?

R: Là mi hanno torturato finché basta, poi mi hanno tirato giù, quando mi hanno messo per terra… Perché quando non ne potevo proprio più, perché continuavano ad insistere: suo fratello è un Comandante, ad un certo punto ho detto sì. Allora mi hanno tirato giù e mi hanno messo giù, mi hanno messo per terra.
Suo fratello allora era un Comandante? No, ho fatto io. Non mi hanno rimessa su? Mi hanno rimessa su, mi hanno riappesa e botte ancora. Fino a che…
Durante l’interrogatorio volevano sapere il nome dei partigiani, allora ho dato i quattro nomi dei partigiani che erano in campo, perciò sono in campo e quelli non possono fargli più niente. Volevano sapere altre cose, allora del nascondiglio?
Io gli ho detto per filo e per segno dove è il nascondiglio, perché ero sicura che nel nascondiglio non c’era più niente. Per filo e per segno ho… Loro credevano che io avessi incominciato a parlare, erano tranquilli perché io ormai avevo cominciato a parlare. Queste due verità sì, insomma, per loro sono state sufficienti. Dopo hanno continuato sempre con Aldo, Aldo, il Comandate Aldo, era un Comandante.

D: Ma quando ti hanno liberata?

R: Niente, poi mi hanno portato in cella perché io non ricordo niente, mi hanno buttato in cella e là io non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, sentivo solo quando chiudevano ed aprivano la porta, e basta. Là sono rimasta diversi giorni, fino a che si è interessato il Vescovo Bordignon che ha chiesto al Comando di Belluno dove fosse la tal prigioniera, tal dei tali.
Allora svelti – svelti dalle celle del Corpo d’Armata mi hanno riportato alle celle del campo di concentramento. Ho fatto cella chiusa, il campo di concentramento, fino al 3 Maggio. Al 3 Maggio. Sono stata liberata il 3 Maggio. Ho una fotografia della Nella che scrive che… nel meraviglioso giorno della nostra liberazione, 3 Maggio 1945.

D: Poi cosa hai fatto? Quando ti hanno liberata cosa è successo?

R: Quando mi hanno liberata… No, ero là che aspettavo che mi liberassero, la Croce Rossa, ma non chiamavano mai il mio nome. Non sono venuti due soldati armati a prendermi e portarmi via dal campo di concentramento? Io ero sulla porta delle celle che aspettavo, di qua tutti andavano fuori 50 alla volta. Io ero là sulla porta che aspettavo, mi capitano due soldati armati e mi portano via. Mi portano al Corpo d’Armata un’altra volta.
Allora la Nella, che aveva saputo, non so come perché non era ancora finita la guerra e là c’era i partigiani, però un po’ nascosti. Quando hanno saputo che ero stata portata al Corpo d’Armata erano già pronti per intervenire se io non fossi uscita.
Sa cosa voleva il Comandante? Mi ha chiesto se in cella avevo parlato con qualcuno di quello che mi avevano fatto. Io non ho parlato con nessuno, sono sempre stata in cella segregata, come facevo a parlare?
Guardi dice, che se lei parla e racconta a qualcuno quello che noi le abbiamo fatto noi saremo sempre sulle sue tracce e la uccideremo in qualsiasi momento.
Io sono venuta fuori e non sapevo dove girarmi. Io so che mi sono trovata senza conoscere le strade, senza conoscere niente, senza… Mi sono trovata davanti al campo di concentramento, davanti alla porta del campo di concentramento. Dentro c’erano ancora due dei miei compagni. Ce n’erano ancora due.
Mi sono seduta là sul prato ad aspettare. Mi si avvicina un uomo che viene su da… Io non ho osservato, là c’erano i campi, alberi di tutte le sorti. Mi si avvicina uno e mi dice: era in campo di concentramento? Sì, ero in campo di concentramento. Di dove è? Di Belluno. Credevo fosse italiana.
Sono saltata in piedi e questo ha preso la via dei campi… Mi sono guardata intorno, vedevo che tutte le macchine arrivavano ed andavano giù per i campi, erano tutti fascisti che scappavano. Erano tutti fascisti che scappavano.

D: Tea, ma quando sei arrivata a Belluno tu?

R: Noi siamo partiti a piedi, siamo andati con la Nella ad Ora, poi abbiamo preso il trenino e siamo andati a Predazzo, a Predazzo ci ha ospitati lei e là abbiamo combinato che c’era una galleria che portava fuori su Fiera di Primiero. Siamo arrivati a Feltre il giorno dopo perché abbiamo dormito a Fiera di Primiero da qualche parte, e poi siamo arrivati a Feltre.
Io a Feltre dicevo ai ragazzi: sbrigatevi, andiamo a casa, andiamo a casa, perché io ho i miei fratelli e voglio vedere Aldo, voglio vedere Aldo, partiamo.
Ci incamminiamo, fuori dalle porte di Feltre incontriamo due di Trichiana, io mi fermo, loro si fermano, e ci chiedono… La prima cosa, Aldo? Dov’è Aldo? L’ha visto? Vedo che questo alza gli occhi e guarda sopra la mia testa. È diventato pallido.
Io mi giro e c’è Bertino dietro di me che gli fa segno che io non so niente. Allora mi dice, l’unica cosa che ho chiesto: è stato impiccato? No, mi hanno detto no, è morto in combattimento.
Poi io non ho più parlato fino a Trichiana, ero di ghiaccio. Finché mio fratello piccolo ha sentito che era in arrivo la sorella dal campo di concentramento, è venuto di corsa con la sua biciclettina piccola, è saltato dalla biciclettina, è saltato sul carro, ci avevano mandato il carro, e così sono tornata a Trichiana.

Pianegonda Noemi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Noemi Pianegonda, sono nata a Valli del Pasubio, 30/11/30.

D: Noemi, la tua famiglia era, la famiglia in cui si appoggiava il regime fascista, oppure?

R: No, era appunto, io sono cresciuta in una famiglia dove, vorrei dire, l’ho sempre respirata quest’aria antifascista, anche il papà è stato perseguitato dal fascismo, non ha mai preso la tessera né il distintivo, che allora era quasi obbligatorio per poter avere un lavoro. Lui si è adattato a fare tutti i lavori, però non ha mai accettato quest’imposizione, quindi io l’ho respirata da bambina quest’aria, non è come si suol dire, dalla sera alla mattina io ho fatto da staffetta partigiana, che me lo sia sognata.
C’è un qualcosa dietro, che me la sono portata come una ricchezza, un patrimonio di cultura, di storia. Papà era così, col tempo abbiamo capito di più le cose, e quindi, la mia famiglia è stata così. Un papà meraviglioso.

D: Tu sei nata nel 30, quindi nel 44 avevi?

R: Ho compiuto 14 anni in carcere.

D: Che cosa succede nel novembre del 44?

R: Il 18 novembre, di sera hanno arrestato mia sorella, io sono stata arrestata il 19 mattina, 18 novembre del 44, era di sabato.
Io mi trovavo in Collegio, perché facevo la terza media, dalle Canossiane a Schio.

D: No scusami, il microfono.

R: Va bene?

D: Sì, sì.

R: Io mi trovavo in Collegio dalle Canossiane a Schio.

D: Scusa.

R: Una domenica mattina, il 19 novembre, che era di domenica, come tutti, si andava a messa, alle sei e mezza si sente suonare una scampanellata, la chiesa dell’Istituto era anche vicino alla portineria.

D: Che Istituto era?

R: Istituto Canossiane, le Suore Canossiane, io ero lì per fare la terza media, il terzo anno.

D: A Schio?

R: A Schio.

D: Mentre la famiglia?

R: La famiglia viveva a Sant’Antonio, allora non c’erano le scuole medie nei paesi come adesso, era l’unico mezzo per poter continuare.
Sentiamo questa grande scampanellata alle sei e mezza di mattino, e va bene così, poi viene una suora e mi dice: ” Noemi” e mi batte sulla spalla: “ci sono due signori che ti vogliono in portineria”, e gli dico: “Ma chi sono questi due signori”, e dice: “Non lo so” le dico: “Chiami la Direttrice” dico “perché la suora portinaia, non è responsabile di noi educande”. Noi eravamo le educande lì dentro. Viene la Direttrice e dice: “Assisto anche io, cosa vogliono” loro dicono, che sono amici di mio fratello. Due signori vestiti molto bene, che poi avrò modo di conoscerli in carcere per gli interrogatori, mi dicono che sono amici di mio fratello, però sono andati a Sant’Antonio dalla famiglia e non l’hanno trovato, loro hanno estremo bisogno di parlare con lui, per mettersi in contatto.
Io, già preparata un po’ dal papà, anche dalla mamma, dalle sorelle, gli dico: “Guardi che io dal 1 ottobre” allora, s’incominciava la scuola il 1 ottobre ” è da Ottobre” dico “che io manco da casa, non so mio fratello…”. ” Ma non è possibile” dico: ” Non lo so” dico, “studiava a Vicenza” ” Si ho cercato”, ” Non lo so veramente”.
Allora questi due dicono alla Madre, sì, la Direttrice, si chiamavano Madri le Canossiane, e dice: “Allora Madre ce la dà, la bambina, che la portiamo su dalla mamma, così confrontiamo se dice il vero”. E lei, era la sorella dell’Onorevole Cappelletti di Vicenza, che poi è stata anche Onorevole, era una suora sveglia. Dice: “No, mi spiace, se io non ho un permesso scritto, un’autorizzazione scritta dalla mamma, dice, io la bambina non ve la do, a me è stata consegnata, e qui rimane”.

D: Ci puoi descrivere questi due signori, che erano venuti?

R: Erano, uno grande, magro, con dei baffi, pallido di viso, me lo ricordo, con dei baffetti neri. L’altro, invece, era più robusto, più piccolo, con un accento spiccatamente fiorentino, proprio, tutte e due, mi ricordo, col cappotto blu, sia perché noi l’avevamo come educande, che era la nostra divisa il cappotto blu, mi ha fatto specie vedere, già eravamo in tempo di guerra, si vedeva ben poca gente vestita bene, con la camicia bianca, cravatta, tirati a lucido, diciamo. Questi erano i due, che poi erano i due famosi, che hanno arrestato l’Adriana, Vallì, la mamma e che poi ci siamo ritrovate in carcere.
È passata così la domenica, in apprensione dico: “Chissà che la mamma possa telefonare”. Non sapevo, le suore disperate, dice: ” ma cosa è successo?” ” Non lo so, io non volevo dire Walter di qua, anche se dico che è in montagna, come faccio a sapere dov’è” lo dicevo fra me questo.
Non so niente di Sant’Antonio, da lassù nessuno.

D: Noemi forse bisogna dire qualcosa prima? Tu hai detto, ho fatto la staffetta partigiana.

R: Sì.

D: Che cosa significa?

R: Significa, portare degli ordini a mio fratello che era un Comandante partigiano, all’altro Comando portare degli ordini, di spostamenti, notizie, piccoli messaggi ma che erano importanti, perché c’era un collegamento fra loro, almeno quello che capivo io. Dicevano, guardate che c’è un rastrellamento in corso a Posina, diciamo, allora dovevano spostarsi, oppure, guardate che viene su qualcuno a trovare, lo so, erano volte che poi io, non aprivo quasi mai neanche i biglietti che mi davano.

D: Quindi, tu portavi dei biglietti di carta?

R: Dei biglietti di carta.

D: Quanti anni avevi?

R: Tredici.

D: Quando facevi questo…?

R: Sì, perché i quattordici li ho fatti dentro.

D: Dicevi, che tuo fratello era Comandante partigiano di che Brigata?

R: No, della Garemi e della pattuglia quella di Sant’Antonio, che in pratica l’aveva quasi fatta lui, formata lui, tutti i ragazzi del paese quindi avevano una fiducia in questo, allora, a quel tempo, studiavano in ben pochi. Lui era già Perito, si era anche iscritto all’Università ai Ca’ Foscari, perché allora non era permesso andare all’Università, l’Istituto Tecnico Industriale non permetteva di accedere ad altre Università, era aperta solo Economia e Commercio che potevano andare.
Intanto è venuto l’8 Settembre, e quindi, non ha potuto più frequentare, i ragazzi della sua pattuglia avevano una fiducia, perché quello che diceva lui, erano convinti: ma se lo dici tu Walter, va bene, con l’entusiasmo che avevano diciotto vent’anni, ecco questo è stato.
Io continuavo, mi ricordo che da Sant’Antonio a Malunga è un bel tragitto, sono quasi due chilometri in mezzo ai boschi, l’ho fatta anche quattro volte una volta, quando c’era in vista il famoso rastrellamento, che poi è stato grosso veramente.

D: Quand’è stato, quello…?

R: È stato quello, il 17 giugno del ’44.

D: Dov’è avvenuto?

R: È avvenuto a Posina, ma, le truppe che avevano visto, le notizie che arrivavano, non dicevano, sono diretti là, erano dislocate da Schio un po’ a rastrello, diciamo, quindi le notizie non potevano dire vanno a Posina.
Allora, no, hanno visto più movimento di là, allora corri su a dirlo, poi torna, poi hanno cambiato.
Lo facevo qualche sera quando era buio, allora qualche partigiano mi accompagnava fino ad un pezzo di bosco, dove in cima al bosco vedevo giù Sant’Antonio, il mio paese, avevo anche paura, insomma.

D: Noemi, chi li faceva questi rastrellamenti?

R: C’era…

D: Tu lo sai?

R: Sì, c’era la Wehrmacht, poi c’era un commando, che adesso io non lo so, perché a quel tempo, sia perché non avevo ancora capacità come adesso di capire, c’era un commando di russi a Marano Vicentino, insieme a questi rastrellamenti mettevano dentro anche questo, sarà stato, trenta o cinquanta persone di russi, che si erano dati, e che quelli menavano.
Questi sono stati feroci, hanno detto nelle contrade, dove c’è stato il rastrellamento, perché hanno incendiato, in pratica quasi una vallata e di là.
Quel rastrellamento del 17 giugno, hanno bruciato case, morti, e così.
Dicevano che c’erano questi russi che erano dislocati a Marano Vicentino, dopo di più, io non so.

D: Questo rastrellamento, tu sai se per caso era in relazione a qualcosa, perché è avvenuto questo rastrellamento?

R: Perché…

D: Perché è noto?

R: Perché loro sapevano, loro dicevano che sapevano che quella zona del Pasubio e di Posina, praticamente fa corona così, Pasubio e Posina, dicevano che era infestata dai ribelli anche perché, dicevano i ribelli loro giustamente, perché i partigiani nostri quando passava qualche macchina la sabotavano come sempre, quindi c’era sempre qualche atto di sabotaggio, e questo dimostrava che c’erano dei controlli, solo che loro non sapevo quanti erano i partigiani, erano pochi. Una volta succedeva qua, diciamo, una sparatoria, un’altra succedeva là, quindi dava l’impressione che fossero in tanti, poi si chiamavano, avevano questa furbizia, io ridevo allora. Ehi pattuglia, pattuglia C, pattuglia A, ecco che allora… questo sarà successo poche volte, però ha dato l’impressione ai tedeschi, che fossero tanti, invece…

D: Mi spieghi cosa vuol dire ribelli? Hai detto ribelli, chi sono?

R: Sono ragazzi, che non avevano accettato di andare sotto, dopo l’8 Settembre di arruolarsi nella Repubblica, parecchi sono stati anche i militari che avevano disertato dopo l’8 Settembre, che non si sono più presentati, anzi, il primo Comandante Partigiano della Garemi, è stato un certo Sergio, nome di battaglia, era Attilio Andretto di Bevilaqua, Verona. Era un tenente degli alpini che era scappato via, non mi ricordo da dove se da Verona, dov’era di servizio o verso la Valdosta, ed era arrivato dalle nostre parti, dietro lui si era portato un altro militare. I primi vorrei dire sono stati proprio i militari che si sono nascosti in montagna.

D: Quindi i ribelli sono i partigiani?

R: Sono i partigiani.

D: Torniamo al 19 novembre del ’44.

R: La domenica è passata così. Dopo lunedì, martedì, mercoledì, adesso non ricordo, se sia stato il 21 o il 22, ricordo che era di giovedì mattina si ripresentano un’altra volta questi due signori con un foglietto della mamma, con scritto di consegnare la bambina, Noemi Pianegonda, a questi due signori, firmato la mamma.
La suora piangendo è andata a prendermi il cappotto, i miei compagni sono venuti fuori e mi hanno abbracciato “Noemi vedrai che torni” io non capivo neanche cos’era. Monto in macchina con loro, ed era una vecchia Balilla, vecchia diciamo adesso era una Balilla nera, monto in macchina e mi portano a Sant’Antonio.
Credo che mi portino a casa mia, e invece prima di casa mia una volta c’era una trattoria, c’è ancora adesso, ma l’avevano requisita per fare il Comando Tedesco, c’era una compagnia tedesca a Sant’Antonio, i tedeschi, e mi fanno andare lì. Naturalmente che proprio fra casa mia e questa casa ci saranno tre metri di distanza, mi affaccio alla finestra e vedo la mamma che attraversa la casa e va nel cortile, l’ho vista andare in magazzino, dalla finestra l’ho vista, non potevo chiamarla perché era pieno di tedeschi, sotto nel magazzino, avevano adibito la mensa, la cucina per questa compagnia tedesca, che c’era a Sant’Antonio. Al giovedì, questo.

D: In macchina, questi due ti hanno detto qualcosa?

R: No, mi hanno detto:” Vedrai che adesso troverai la mamma” dicevano “e troverai anche tuo fratello”, io dico, ripeto ” Io non so niente” dico, proprio non lo so, ripeto. Ma gentilissimi loro, proprio, uno mi accarezzava le ginocchia, uno le mani, erano proprio, uno davanti e uno seduto con me.
Il giovedì mi vengono a prendere, ho dormito lì in questa stanza, con una brandina e lì vogliono sapere ancora ” Guarda che abbiamo arrestato, noi siamo della SD” dice ” noi abbiamo arrestato le tue sorelle, che sono già in prigione, domani” dice “partirà anche la tua mamma, e se tu non ci dici dov’è tuo fratello e il papà” dice “farai la stessa fine anche tu”. Io ripeto che non lo so, piangevo, mi portavano una ciotola di qualcosa da mangiare e guardavo fuori se vedevo la mamma.
Venerdì mattina, invece sento un rumore, guardo in strada e vedo un camion carico, noi avevamo un negozio di generi alimentari, carico d’ogni cosa che cera dentro nel negozio, ed era inverno, l’inverno del 44 è stato molto nevoso, tanta neve e freddo, in cima al camion seduta c’era la mamma, che me la ricordo ancora, questo paltò marrone quel collo di volpe che ce l’aveva lei, così la vedo e la saluto, e lei mi guarda, il camion è partito verso il Passo, ed è andato a Rovereto, e lì è andato al carcere.

D: Lei è andata in carcere con tutta la roba requisita?

R: Sì. Quella non si sa dove l’abbiano portata, la mamma l’hanno portata.
Io invece, sono partita il pomeriggio. Sono partita il pomeriggio, sempre con la stessa macchina e con una ragazza che avevano arrestato di Valli del Pasubio, suo papà era un partigiano, ma io la conoscevo di vista era già tre anni che ero in Collegio non è che conoscessi tutti del paese, di vista, dico: ” Anche tu” dico ” E sì”.
Io sapevo che aveva il papà partigiano, ma proprio un partigiano autentico, e non ci stavamo in macchina allora ho dovuto sedermi sulle ginocchia di questa ragazza, di questa Antonietta, di là un tedesco e andiamo verso il Passo.

D: Quale Passo?

R: Passo del Pian delle Fugazze, e vedo che tutti e due tirano fuori la pistola.

D: Antonietta a Pianalto?

R: No, i due della SD

D: No, l’Antonietta era a Pianalto?

R: Sì, tirano fuori tutti e due la pistola, io non capivo il perché, poi invece, continuavano con la testa a girare a destra e sinistra, avevano paura che i partigiani che facessero qualche, l’ho capito più tardi, quando nel punto più freddo, andavano via velocissimo, più freddo, più stretto, più buio come strada, andavano via velocissimi, ma erano così, così proprio, dalla paura che avevano. Hanno tolto la pistola, quando siamo stati agli ultimi paesi della Vallarsa, prima di arrivare a Rovereto.
Andiamo in carcere, il direttore del carcere, prima fa entrare l’Antonietta, io sono lì, prende le impronte, io mi ricordavo dal papà che aveva fatto il Carabiniere, che diceva prendevano l’impronta, e quelle rimangono per tutta la vita nel casellario, una cosa brutta, diceva allora. Oddio, dico, anche quello fanno, io pensavo chissà cosa, e il direttore dice: “Ma la bambina” mi chiamavano bambina, perché portavo due trecce che arrivavano alle ginocchia, col nastro in testa, questo cappotto da Collegio, con i bottoni tipo alla marinara, diciamo, cappotto blu con i bottoni dorati, ed ero piccola proprio, dice: “ma quanti anni hai?” “Tredici” “quando li fai” dice “i quattordici anni?” “al trenta di novembre” allora si rivolge a loro e gli dice: “Io non posso accettarla” dice “perché c’è il regolamento, che dice che, prima di quattordici anni non possono entrare in carcere”. “Ma no, qui non ci sono leggi” dice: “Mi spiace ma io non l’accetto”, loro hanno confabulato fra loro, allora il direttore gli fa, “Mancano pochi giorni, che compie i quattordici anni, qui vicino c’è l’Istituto di Suore, se volete.”
Mi hanno portato, loro sono andati a bussare, insieme con me, all’Istituto della Sacra Famiglia che è l’Istituto Tacchi di Rovereto, un pensionato per gli anziani, con le suore. Lì sono stata fino al giorno del quattordicesimo compleanno.

D: Le suore non ti hanno chiesto niente?

R: Sì, mi hanno chiesto, sono state carine, man mano, un giorno, anzi, sono venute fuori perché hanno suonato e sono venuti loro due a prendermi e dice: ” La dobbiamo portare a Villa Maffei, a Rovereto” dice ” per un interrogatorio” dice “Possiamo venire anche noi” dice “perché la bambina” no, no, no, invece loro in due, non si muovevano mai una da sola. Io sono partita con loro due, e loro due dietro.

D: Questo prima del compimento del quattordicesimo compleanno?

R: Prima, prima, due giorni dopo, proprio, che ero lì dalle suore.

D: Villa Maffei, che cos’era?

R: Era una famosa villa, l’ho saputo dopo questa, che è dopo Piazza Rosmini in collina a Rovereto, la villa dove c’era il Comando Tedesco e della SS, che hanno detto che era famosa per gli interrogatori, per le torture, soprattutto per gli interrogatori snervanti. Mi hanno portato su a Villa Maffei, mi ricordo che c’era un caldo dentro, una giornata fredda e dentro era caldo, io col cappotto, dicevo: “Mi posso togliere il cappotto?”, sempre in piedi, vicina al tavolo.
“No, questa è una doccia che devi farla, di sudore, perché poi verranno delle altre docce” sono stata lì, l’interrogatorio era sempre quello, se sapevo, se sapevo “Non lo so”, poi dico “se fosse”, allora io mi sono lasciata dire “ma se fosse in montagna, come faccio a sapere dov’è? Come faccio”, dico “a saperlo”, “Ma lui l’avrà saputo che i suoi sono stati arrestati” ma dice ” ma, tu sai la zona dov’era” ” Non lo so” allora lì mi hanno dato quattro ceffoni, potenti.

D: Questi due che, sempre i soliti due?

R: Questi due, insieme con uno della SS, lì.

D: Erano sempre in borghese?

R: In borghese, e c’era un Comandante anche della S.S. in divisa, quello vicino, tanto che mi si è riempita la bocca di sangue, ho preso il fazzoletto e ho visto che era il dente, non spezzato, era sotto otturazione, probabilmente con due ceffoni così, che poi mi sono portata questo dente nero, una paletta davanti per vent’anni, era morto, non mi faceva male, io l’ho lasciato stare, per dire, era andata dentro una goccia di sangue, è diventato nero.
Dopo due o tre ore, due ore abbondanti d’interrogatorio, mi hanno detto: “Andiamo”, sono andata all’Istituto Tacchi, il 30 novembre, le suore che mi facevano le coccole, che mi trattavano, il 30 novembre la mattina sono venuti a prendermi e sono entrata in carcere, una cella da sola e la paura che ho avuto, no, neanche del… Adesso la faccio ridere, c’era freddo alle finestre mancavano i vetri, la neve entrava e i lettini delle celle erano fissi per terra, quindi non li potevi spostare, la neve ti entrava e ti copriva la mattina le gambe, e questo cappotto, lo tiravo su, chissà perché avevo paura dei topi, mi dice lei, quanto bambina ero insomma, questo lettino e pregavo, pregavo tanto, non sapevo fare altro. Questa pagnotta di pane, che era dura e pesante, come un chilo, questa mollica che era uno schifo, mi divertivo a fare…, mangiavo la crosta, e la mollica facevo la borsetta, l’attaccavo su per il muro, facevo un po’ di scarpe, quelle piccole cosette che può fare una bambina, io dico.

D: Eri in isolamento?

R: in isolamento.

D: A quattordici anni?

R: Sì, la fame era tanta, che dopo un mese, ho cominciato a mangiare la borsetta, la stella, il tacco della scarpa che si era sfilato, poi è anche vero, non la sentivi neanche più, si fa per dire, non si sente, l’ho sentita, ma ci si abitua anche a quello.

D: Eri in una sezione…?

R: Era la sezione donne, ma il reparto, cioè, le due celle in fondo erano isolamento.

D: Tu sapevi che le sorelle tue erano vicine?

R: L’ho capito, me l’ha detto la carceriera, me l’ha detto ma aveva una paura di parlare, povera, perché erano ossessionate anche loro da com’era il regolamento, diceva: ” C’è la tua mamma e anche le tue sorelle” oggi. Domani ” guarda che loro stanno bene” ” Glielo ha detto che ci sono anche io?” “no”.
Allora, cosa è successo, dopo quattro cinque giorni d’isolamento, mi hanno messo in un’altra cella, con un’altra signora, mi pare che fosse di Genova, la sera quando erano le cinque, dopo aver portato la minestra le carceriere aprivano le porte e nel corridoio dicevano il rosario e noi tutte rispondevamo. Io ho detto, come faccio a farmi capire dalla mamma e dalle sorelle, che sono qua anche io? Allora si diceva il rosario in latino, e io spiccavo marcatamente il latino, per farmi sentire, e l’Adriana ha detto: “Questa è mia sorella” l’ha capito, non la prima sera, magari l’avrà capito dopo, allora hanno capito che c’ero anche io dentro.

D: Perché non avevate nessuna possibilità di comunicare?

R: No, nessuna, nessuna, né aria fuori, né niente.
Il terrore era quando, sentivi il tintinnio delle chiavi, che arrivava la carceriera insieme alla SS.
Questo Comandante che ho visto su a villa Maffei, erano sempre loro della SD che interrogavano, e questa cella, andare giù nella stanza degli interrogatori, era qualcosa che stringeva, macchiata di sangue, metà muro, tutta schizzata.

D: Quindi ti portavano all’interrogatorio?

R: L’interrogatori in quella stanza, proprio, era… qualcosa, lì, sempre, e dov’era…

D: Puoi descriverci un tipo d’interrogatorio, tipo come avveniva, che cos’era?

R: Ma niente, io mi sedevo così, e loro là, poi uno magari, si sedeva sulla tavola, gambe così, come andava, ” Raccontami di tuo fratello”, “Ma mio fratello ha sempre studiato a Vicenza” e dai con questo Walter, e dai “ma il papà?” “ma il papà” il papà invece poi ho saputo da loro che è scappato quella sera che hanno arrestato loro, ma io non lo sapevo, il papà dico “io non lo so, sarà andato da parenti, non lo so dove sia andato”, “tu devi dirlo”, ma ci avevano il pallino fisso.
Anche lì mi ricordo, dice, facevano così, giocherellando il nervo di bue che avevano lì, dice “la vedi questa?”, “sì”, “lo sai che cos’è?” ” sì” dice “se tu non parli, la useremo con te”, io ” va bene” dico, “io non lo so” e allora lì, mi hanno riempito di botte, veramente, sono andata sopra che sono stata, non avevamo specchi, non avevamo niente, ma sentivo che indolenzivo dappertutto, il viso.

D: In quanti uomini contro di te?

R: Sì, due. Si alternavano, Oddio, sarà durato, cinque minuti, dieci, per me è stato un inferno. Abituata al rispetto di casa, abituata ad un Collegio dove credevo il mondo, dire la Madonna, per dire, ecco, la famiglia, dicevo, ma dove sono caduta, ma cosa è successo.
Io non pensavo neanche a me, continuavo a dire: ” Oddio ma la mamma, e la mamma?” e stato struggente, veramente, il carcere, il campo un po’ meno.

D: Nel carcere avete passato anche il Natale?

R: Sì, il Natale.

D: Si è distinto in qualche cosa questo giorno o era come gli altri?

R: Il Natale si è distinto, in quanto abbiamo avuto un mangiare un pochino più abbondante, una zuppa con dentro un po’ di carne. Da notare che la mamma era riuscita per la carceriera a mandarmi un quarto di mela, ed io assieme con l’altra, perché si divideva tutto, non la mangiavamo la succhiavamo perché durasse di più, e mi ricordo, credo, che sia durata due giorni, a Natale, appunto…
Invece a Natale io sono stata da sola, la mamma e le sorelle le hanno messe assieme. Loro hanno potuto vedere la mamma in che stato era ridotta, a loro ha detto la mamma, mi ricordo che me l’ha detto dopo, perché dice non mi date la bambina, non è giusto, dice, che la bambina viva con la mamma di un delinquente, di un ribelle, dice.

D: Dice, che vivevi con chi?

R: Vivevo con una prostituta, non è giusto, non è educativo che una bambina viva con una madre di un delinquente, un ribelle.

D: Vuoi raccontarci che cosa e successo un giorno con questa tua compagna di cella?

R: Sì, come dicevo io, con un ingenuità perché allora c’era tanto tabù
non è come adesso, una sera vengono dentro due in divisa, dice: “Tu, tutti girati dall’altra parte” mi fa, io mi giro dall’altra parte, mi ricordo che era la cella dell’infermeria, c’erano due lettini staccati, ma distanti uno dall’altro, e io mi giro dall’altra parte, naturalmente sei lì, non capivo neanche cosa fosse successo, e poi dice: “Beh, tu vai fuori, che adesso faccio io”. Lei la sentivo piangere, sentivo questo muoversi, questo… ad un certo momento mi sono girata, posso dirlo proprio, li ho visti uno sopra l’altro, mi ha sconvolto, veramente, ho detto: “Oddio, ma quello la sta picchiando” si figuri ancora, a cosa pensavo io, ma quella.
Poi è arrivato il terzo, il quarto faceva la guardia invece sulla porta, io non ho più detto niente, la mattina dico: “Cosa ti hanno fatto?” “Meglio che tu non lo sappia” dice, piangeva, piangeva e da lì è partita un’emorragia, non avevamo niente.
In Collegio, sotto ci vestivano ancora alla moda un po’ antica, portavo la camicia, lunga come il vestito, senza maniche. Ho detto: “Senti le mutande, no, la maglietta è di lana, ti do la camicia che almeno” e quella è riuscita ad infilarselo sotto, perché era imbrattata di sangue, l’acqua era gelata dentro, bene o male si è pulita, lei non ne ha mai parlato, ed io non ho più voluto parlare, lei si è chiusa e non ha più parlato, quindi è stata quello che hanno detto, che non ero degna di stare con mia madre.

D: Con questa signora di Genova c’è stata fino a quando?

R: Fino al giorno del bombardamento del carcere, poi non è venuta al campo con noi.

D: Ma ascolta, spiegaci, la bambina di quattordici anni, si può dire bambina?

R: Sì.

D: Di quattordici anni, dire in questo modo, a che cosa si aggrappa per…

R: Guardi…

D: Per non impazzire, non so, vogliamo capire.

R: Non so, io mi sono aggrappata, guarda, mi è entrata addirittura, in un certo momento, di dire: ma Dio, ma dove sei, che cosa è successo? Io non capivo, pareva proprio sconvolto completamente, l’insegnamento che avevo ricevuto in Collegio, dico: ma allora è tutto falso quello.
Il papà che mi diceva, che già mi raccontava, la sua vita militare, il suo servizio, che succedevano casi così, ma allora ha ragione il papà, ma ci sono questi casi, ma è possibile? Non so a cosa mi sia aggrappata, alla preghiera, forse sì, ho pregato tanto, che se Dio probabilmente ha ascoltato, diciamo noi che non ascolta, ma, ascolta, non va perduto niente, ecco. Dopo il bombardamento…

D: Quando è avvenuto questo bombardamento?

R: Il 31 gennaio, il giorno di San Giovanni Bosco, me lo ricordo.

D: Il 31 gennaio del?

R: Del ’45, era il giorno di San Giovanni Bosco, perché io mi ricordavo le date, così, dicevo, guarda, oggi è San Giovanni Bosco che è il protettore degli studenti, anche dicevano allora, chissà che faccia cambiare le cose.
Le carceri sono crollate, io ho avuto la fortuna di salvarmi, perché a mezzogiorno, alle undici viene la carceriera e mi dice: “Noemi, metti su il cappotto che andiamo in un’altra cella” perché la cella dell’infermeria era grande come questa, e dice “è arrivato un altro convoglio” dice “è l’unico, ma alloggiano poco, poi verrai ancora qua” e dice, “se vuoi fare, anche a meno del paltò” dice “guarda, lascialo lì, che dopo torni, e solo una questione di poco” “va bene” io dico.
Allora io parto con lei, e questa signora, e andiamo giù alla cella proprio al piano terra, al numero 2. A mezzogiorno e mezzo viene il bombardamento, non ha colpito in pieno la cella dove ero io prima, dal terzo piano ci sono stati 35 morti.
Allora lì ci hanno portato alla caserma che, la chiamano la caserma Rommel, a Rovereto, ma non era, era lo stabile solo, non c’erano dentro i militari, e ci hanno fatto alloggiare là quella notte in mezzo alla paglia, nel tavolaccio, e lì per la prima volta ho visto la mamma e le sorelle e Walter. La scena che c’è stata, credo che abbiano pianto tutti, la mamma era irriconoscibile, Walter poi, l’espressione di Walter che aveva, una mandibola di qua, un orecchio mezzo staccato, la barba lunga, ecco lì, ed il giorno dopo invece siamo partiti per Bolzano.

D: Anche due zii erano lì?

R: Anche il fratello e la sorella della mamma, perché loro pensavano che il papà, quella sera che stava per rientrare a casa, quando hanno arrestato, Vallì e Adriana, papà stava per rientrare, ma qualcuno, uno della Polizia Trentina poi deve essere stato, dice: “Valentino, non entri che c’è la Polizia” lui non è entrato, è andato per il paese, è scappato. Loro pensavano che i parenti, giustamente, avessero dato ospitalità al papà o anche a Walter, che c’era anche Walter in casa quella sera.
Quindi loro per rappresaglia hanno arrestato anche il fratello, ed è stata una sofferenza per lui ma anche per la mamma, e non diciamo di Walter, la sua serietà dopo, dice, ” Ma cosa ho fatto io”, dice “per la mia famiglia?” viene … anche questo, di dire.

D: Noemi, complessivamente, ti hanno interrogata quante volte?

R: Guarda…

D: A Rovereto?

R: A Rovereto, saranno state tre o quattro volte, non di più, dopo hanno messo, unite la mamma e le sorelle, e sono cessati gli interrogatori, anche per Vallì, anche per me, per tutti, perché? Ci siamo detti: “Ma, chissà?” avevano arrestato mio fratello, quindi il capitolo era chiuso con noi.

D: Quando è successo questo arresto?

R: Sa che lì, guarda, a casa…

D: Circa?

R: Circa, è stato qualche giorno prima di Natale, vorrei dire che fosse stato il 16, a casa ce l’ho, un 16 o un 17, prima di Natale, perché l’interrogatori erano cessati in quel periodo lì, la Vallì ne ha avuti molti di più interrogatori, io ne ho avuti meno, ma adesso non so, però hanno cessato quasi contemporaneamente, diciamo, quando hanno arrestato lui, hanno finito con noi.

D: Praticamente era dai primi di febbraio…

R: Al 2 febbraio, siamo entrati ai Lager.

D: Ma come siete arrivati da Rovereto?

R: Da Rovereto, ci hanno caricati la mattina, due per due.

D: Due per due, cosa vuol dire?

R: Due vicine, dovevamo fare le scale, ma prima di passare le scale, perché era questa caserma, questo casermone era rialzato, dovevamo scendere le scale, prima di scendere le scale una per una dovevamo mettere le mani dietro e proprio con dello spago stringevano i polsi, in una maniera, e giù. Quando siamo scesi vediamo che Walter e altri tre, anche l’ingegnere Busnelli e un altro, tre mi pare che fossero non sono con noi, non li avevano chiamati. A noi ci hanno caricato su un camion e già eravamo così stipati col telo giù.
Mi ricordo che siamo arrivati verso sera a Bolzano, non finiva più questa strada, la strada tutta buche dai bombardamenti, ed è stato una sofferenza anche il viaggio, perché io mi ricordo che avevo vicino a me Padre Maurizio che era il Cappellano del carcere, era tutto fasciato in testa dalle botte e anche dal bombardamento. Ad un certo momento è crollato, era proprio davanti a me, così in piedi, è andato giù ed è venuto la SS, quattro ne avevamo, ai lati del camion, e l’ha preso, così per la testa, con le fasce e l’ha alzato, e io l’ho sentito che ha detto: “Oddio ma questo è troppo”.
Con queste mani legate è impossibile fare movimenti, ti devi spostare con le spalle, io mi ricordo che cercavo di tenerlo su questo uomo. Ad un certo momento, perché avevano anche le pile che ci guardavano, ogni tanto, questi quattro. Un momento che non ci hanno guardati, dico: “Padre Maurizio, tiri più su le mani” essendo piccolina io magari, con i denti, dopo tanto sono riuscita a tagliarli lo spago “li tenga davanti” dico, e lui mi ricordo, che mi ha stretto la mano. Poi era venuto anche ospite a casa nostra, dopo finita…
E dico quel Padre, sentirlo dire “Ma Dio questo è troppo” mi ha fatto impressione, insomma, quando sono arrivati al campo, a me pareva di essere arrivati in manicomio, perché le torrette accese, quei fanali quando arrivava qualche convoglio, e quindi tutte le ombre parevano gigantesche, non so, vedevo deformato. Poi una porta di una baracca, che non sapevo che erano baracche, ma che si aprivano e mettevano fuori le teste “Oddio” dico, ” ma qui è un manicomio” e lì siamo state tante ore in piedi per l’immatricolazione, e dopo l’immatricolazione…

D: Come é avvenuta l’immatricolazione, cosa facevano?

R: Lì, a destra c’era, non era come l’abbiamo vista ieri, il campo, io sono stata sconvolta ieri. C’era il cancello qui, ma prima del cancello c’era un piccolo fabbricato, una casetta in muratura, e lì c’era dove venivano scritti tutti i deportati che entravano.

D: Prima di entrare dentro il campo?

R: Prima di entrare nel campo, era subito a destra, lì c’era questo ufficio immatricolazione e lì ti prendevano il nome e cognome e ti davano un triangolo col numero, e qui il tuo nome andava perso, diventavi un numero.

D: Triangolo di che colore?

R: Rosso che era politico. Perché io avevo fatto…

D: Numero?

R: 9155, io sono abituata a dire 9155. Diciamo che ha fatto un po’ ridere anche il discorso del mio triangolo rosso… ridere, parliamo di alcune persone che hanno voluto sentire “Ma cosa ci fai dentro tu deportata politica” e dico “sono, sono la sorella di un delinquente partigiano, dico” “allora portalo come onore”. Tipo Professor Meneghetti questo, ecco allora portalo con onore, no, difatti parla, io parlavo con Mario, che è il nostro presidente, e diceva di preciso non lo sappiamo, ma credo che tu sia l’unica, la più giovane deportata politica, parliamo, perché d’ebrei ce n’erano in Italia, dice almeno nell’aria di Bolzano.

D: In che blocco siete andati?

R: In blocco A e F, F lì, blocco donne, che poi di là, subito c’era il blocco E, di quelli pericolosi, che non li lasciavano uscire.

D: Quindi eri con le tue, la tua mamma e sorelle?

R: Ero con la mamma e le sorelle, sì.
Un altro particolare che vorrei dire dopo essere immatricolata, ci hanno mandato alle docce, io ritorno mi scusi se io mi riprendo, dopo taglia caso mai, la doccia, io non avevo mai visto la mamma nuda. Adesso ritorniamo indietro coi tempi, c’era quel pudore, quel modo, e mi ricordo la mamma che io l’ho guardata così, e dico: “Oddio che bella questa doccia, questo caldo” io dicevo, e la mamma mi guardava e si faceva così con le mani, quel gesto come di pudore, di nascondere, lì ci hanno dato la tuta, a me non ne hanno trovato una che andasse bene, allora mi hanno dato una camicia nera.

D: I vostri vestiti?

R: Li abbiamo lasciati la, che sono andati alla disinfezione, quindi non l’abbiamo più trovati, solo le scarpe ho trovato, e lì siamo andati ai blocchi.

D: Ci descrivi il tuo vestito?

R: Il mio vestito, il primo, io ho portato per venti giorni, questa camicia nera, proprio una camicia nera, come usavano i fascisti, col polsino, il colletto, i bottoni e fatta un po’ rotonda proprio gli spacchi, invece che gli spacchi era fatta come si fanno nelle camice che si fanno al giorno d’oggi, a me arrivava a metà gamba.

D: Poi cosa avevi?

R: Non avevo niente sotto.

D: Era febbraio!

R: Era febbraio, ma non avevo niente, avevo solo le scarpe mie, che mi ricordo, erano un paio di mocassini, fatte a mano, belle pesanti.
Poi hanno recuperato una tuta, piccola dicevano loro, ma io la giravo in su parecchie volte, lo stesso qua, consisteva di iuta grossolana diciamo, ecco, non so, fatta di canapa, color giallino, con una croce sulla schiena con un altro segno sulle ginocchia, ed il triangolo che bisognava portarlo qua.
Anche la storia del triangolo, sembra facile dirlo, ma bisognava attaccarlo, con che cosa? Non c’era né filo né ago, bisognava farlo, e con che?
Gli uomini dei blocchi di là, che stando dentro tutto il giorno, avevano imparato anche qualche cosa, avevano costruito un ago di legno, fine, fine, e così con dei capelli, mi ricordo, coi capelli delle mie trecce mi hanno cucito il mio triangolo.
Altrimenti erano botte, se non avevi il triangolo.

D: Ci parli delle condizioni sanitarie all’interno del campo?

R: Non sarebbero neanche da dire, non esistevano.

D: Il gabinetto, la latrina, la doccia?

R: La latrina c’era, doccia no, c’era un lavello lungo tipo abbeveratoio per i cavalli, usciva, non è che mancasse l’acqua però, l’acqua c’era, pochina ma c’era questo filetto d’acqua che veniva fuori, scorreva via e andava giù nella latrina, che di là c’era la latrina quindi portava anche via.
Non avevi un asciugamano, non avevi niente, né un sapone, né un pezzo di straccio da asciugarti.

D: La latrina com’era?

R: Era un fossato, e ti appoggiavi sopra, stare attenta di non cadere, e l’acqua dal lavello passava, qui c’era l’acqua che veniva fuori e di qui c’era la latrina, quindi l’acqua passava dalla latrina e portava via, diciamo.

D: Quindi era a cielo aperto?

R: A cielo aperto.

D: Non avevate una tettoia?

R: No, era nella tettoia, ma era, diciamo verso il muro, qui c’era il blocco e di là c’era questa porticina e c’era questo, diciamo, questo lavatoio, e ti lavavi così.

D: E pulirsi.

R: È stato il disagio più grosso che io abbia avvertito oltre la fame, che poi la fame, guardi, non è vero che… non la sentivi più, era diventata talmente, sentivo gli odori, ma proprio, l’acqua in bocca, dicevo, Dio che fame, che sfinimento. Se però, il discorso fra lavarsi e pulirsi io ne ho sofferto molto per la pulizia, qualcosa di atroce. Ma ci pensi Carla, non avere un pezzo di carta da pulirti.
Che poi sono stata fortunata ad avere la tuta, che almeno non avevo più tutto quel freddo, perché la camicia, ho trovato un pezzo di… qualcuna mi ha dato uno spago, qualcosa da legarla, perché era larga la camicia, e mi passava su l’aria, un freddo, ma non ho mai avuto niente, però, sono sempre stata bene.

D: Ascolta, parlavi del Professor Meneghetti?

R: Sì.

D: Chi era?

R: Era il Rettore dell’Università di Padova, io l’ho conosciuto, intanto è entrato molto tardi al campo, è entrato verso la fine di marzo.

D: Deportato anche lui?

R: Deportato, era alle celle, quelli delle celle, uscivano un’ora al giorno a prendere l’aria, e dovevano camminare in circolo di fronte alle celle, dove ci siamo fermate proprio ieri, che ho detto almeno qui…
Noi entrando da lavoro si faceva il giro del campo così, si passava davanti a loro per venire su, ed andare nel blocco di qua.
Lì ho visto un giorno questo signore, era mastodontico, una persona che guardarlo ti metteva rispetto, capelli bianchi, questo pizzo, e lui mi fa: “Cosa fai, tu col triangolo rosso” e dico, avevo anche paura a parlare, perché di là c’erano i due ucraini sugli scalini delle celle, nell’entrata delle celle, e dico: ” Sono qua, perché sono la sorella di un Comandante partigiano” dico, ” ma allora lo porti come onore”. Il giorno dopo tornando verso le sette di sera, lo stesso ” Ma studiavi?”, ” Sì” “ho studiato tanto anche io sai” mi fa lui, “cosa facevi?” “la terza media” “e adesso?”, “adesso piango” dico, perché, ho la mamma…”
Una parola oggi, due domani e tre domani, una sera mi vede che torno piangendo “Cos’è successo?”, ma sempre adagio, dico: “E’ scappato uno che era con noi”, dico, “e l’hanno ucciso” era che lavorava nel magazzino d’armi, ha tentato, diciamo, di fare il guado di andare di là, ma i cani l’hanno preso, e gli hanno sparato, e l’hanno ucciso, e dico, “è sempre un compagno, nostro”, e dice, ” non lasciarti abbattere, sai, non dargliela vinta, conosci la chimica?” “non so neanche cosa sia” dico, “le formule chimiche?” ” no” allora lui mi fa: “sai che cos’è il rame?” “il rame? Sì” “ecco come quelle leghe là, allora domani io tè né do tre da studiare, quattro da studiare a memoria, così tieni la mente” “mica ho voglia” dico, “ho altro da pensare, adesso, il mio compagno che è morto, la mamma” dico, “no, ce la devi fare” e con quella, devi fare, mi ha portato tutte le formule di chimica, e ogni giorno mi interrogava, come si chiama, lo zinco, la formula, la formula, dopo visto, “Va bene, ti porteranno via tutto”, questo era già passato quindici giorni lì, “ma la tua mente, no, il tuo sapere non lo devi, non devi dargliela vinta” e quello mi ha rincuorato, altroché, ma insomma c’è gente che ancora.
Poi gli ultimi giorni, tanto la sorveglianza, e andata scemando un po’, non c’erano più, prima cosa, che non abbiamo più visto le guardie nelle torrette.

D: Quante torrette c’erano?

R: Quattro, quattro, che poi fossero illuminate tutte e quattro, no, e sempre, qualche volta c’era questa, quella, che incrociavano le luci così, ma c’erano quattro.
Mi ricordo, che verso la fine, mancavano otto giorni, ormai, che mi ha preso in braccio, e dice: ” Ma, sei la mascotte del campo, sei stata meravigliosa” ” Ah, meravigliosa” dico ” è passato” e adesso dice ” adesso ricostruiremo” mi fa.

D: Noemi, facevi un accenno al lavoro, che lavoro, dove lavoravi?

R: Dunque, il primo periodo, il primo mese, sono andata insieme a mia sorella Vallì, alle caserme di Gries, e là…

D: A fare cosa?

R: Là facevamo, le stanze degli ufficiali, e poi, naturalmente se avanzava tempo, perché eravamo in quattro, andavamo in cucina a sbucciare le patate, o quello, a dare una mano alle cuoche, e poi c’erano le scarpe da pulire di questi ufficiali, si lavorava. Poi nel pomeriggio, si lavorava lo stesso allora in cucina per preparare per la sera, quello l’abbiamo fatto per un mese.
Dopo invece, hanno detto basta, anche perché è successo che noi abbiamo visto un movimento molto particolare alle caserme, continuavano ad arrivare militari, militari, militari, era diventato veramente, non più quattro caserme, non potevano starci dentro anche dieci, per dire, nel movimento, non lo so, non ci avevano fatto più andare. Allora ci hanno portato, noi quattro con altri sei uomini, o sette, vedendo il campo così sulla sinistra, c’erano due capannoni e lì c’era un capannone dove c’erano delle armi che ritornavano dal fronte dove bisognava oliarle, oppure non so, sistemarle, quello che si poteva toglierli la ruggine, e lì abbiamo fatto questo lavoro, fino alla fine, praticamente, cioè fino agli ultimi giorni, della liberazione.
Lì, ci siamo anche divertite, se si può dire divertiti perché gli uomini ci dicevano: “Portiamo dentro qualcosa, tu piccola, guarda che non ti fanno la…” la palpa, la chiamavano, in dialetto, proprio così, una volta sotto le ascelle, una volta, ero riuscita anche a trovare un paio di mutande, allora dentro su le mutande, i pantaloni, una lima, un pezzo di ferro, dice: “Ma perché dobbiamo portare dentro” dice “se fanno l’altro trasporto, tutto serve, per quelli che vanno” e lì abbiamo portato dentro parecchio, parecchio, quello che si poteva ma insomma. Poi hanno fatto la spedizione al 25 febbraio, ma che dopo sono ritornati al campo perché era impossibile nei collegamenti, cioè, dalle strade, dalle ferrovie che era impossibile.

D: Noemi, in quanti eravate ad andare a lavorare in questo capannone?

R: In questo, eravamo, quattro donne e sei o sette ragazzi.

D: Tutti i giorni uscivate?

R: Uscivamo ogni mattina, tornavamo la sera, però, come ti dicevo, era proprio vicino al campo, lì noi. Però quel giorno che è scappato questo ragazzo, che poi l’hanno ripescato e l’hanno rilasciato due giorni in mezzo ai campi perché ognuno lo potesse vedere, perché non potevi girare la testa dall’altra parte, eri obbligata a guardarlo.

D: Era lì?

R: Era lì in mezzo al campo.

D: Ucciso?

R: Ucciso, tutto bagnato, con quel freddo, cosa hanno fatto: noi della squadra ci hanno puniti due giorni senza pasto, e la mamma era abituata alla sera, perché noi che andavamo a lavorare ci davano una pagnotta in più, e la sera era abituata che gliela portavo. Guarda, viene da piangere, tre mesi di campo, tre mesi di pagnotta, non né ho mai mangiata una sai, te lo giuro, io non l’ho mai mangiata, la portavo alla mamma e la divideva con la zia, e dico, cosa dico alla mamma questa sera che non ho la pagnotta da darle, e qualche volta invece di portarla intera alla mamma, gli e ne davo metà e qualcuna ne davo a qualcun altro. La mamma fa: “hai il pane Noemi?” “No mamma, oggi non c’e l’hanno dato, sai a nessuna”, “non importa”.
Due giorni, freddo che fosse, guarda, perché era una brodaglia però era qualcosa di caldo a me dava sostegno, tant’è vero che dopo il terzo giorno che ci hanno dato il pane, la minestra, sai che ho vomitato, scusa il termine, io ho vomitato il primo boccone di pane, non mi andava giù, per dire la fame, per dire tutto il resto.

D: Noemi, invece le caserme a cui accennavi prima erano verso la montagna?

R: Sì, sì, proprio, tanto che noi si lavorava, terzo o quarto piano, adesso non so quanto alte fossero, avevano fatto una passerella in legno, un ponticello in legno, che andava dentro la montagna e c’era una galleria che era tipo un rifugio, avevano portato dentro anche l’infermeria, loro.

D: Sai, se avevano un nome queste caserme? Ti ricordi un nome?

R: No, io mi ricordo le caserme di Gries, era un quadrato di caserme, ricordo il cancello, che si entrava, attraversavo tutto, poi andavo su questa così di sinistra, e sopra avevano fatto questo ponte di legno, che guardare in giù dava anche un po’ una vertigine, e dentro allora, dentro abbiamo visto che c’erano i militari, ma c’erano i letti con le lenzuola bianche dei militari che erano feriti, noi invece guardati a vista sempre dalla Wehrmacht, deve essere stato lì, sempre all’inizio della galleria proprio l’imbocco, dove vedevamo gli aerei che sganciavano e viceversa.
Invece, che fosse quanto lunga non lo so, perché noi siamo andati fino lì, c’e ne erano due, dicevano che dopo faceva anche una curva, che andava di là.

D: Come ci andavate dal campo a lì?

R: A piedi, ogni mattina.

D: È ben lontano?

R: Sì.

D: Ricevevate da mangiare lì?

R: Sì, noi sì, e là ti dirò che mangiavo anche benino quella zuppa, perché non facevano… erano le cuoche, erano tedesche, non so, ma non facevano differenza per noi, prigionieri o loro.

D: Chi vi accompagnava tutte le mattine?

R: Veniva a prenderci uno della Wehrmacht, un soldato, non era sempre quello, più o meno sì, è stato anche quello. Qualche volta è venuto, una volta, lo chiamavamo Billy, uno piccolo, portava il fucile 91, che era grande, lungo il 91. “Oh”, dico “sotto il 91 c’è Billy”, ormai lo prendevamo anche così, e lui uscendo dal campo fa: ” Questa strada” e c’indica lì, e noi avevamo una voglia di vedere il centro, cos’era, “Sì, sì” abbiamo detto, allora abbiamo fatto Via Torino, e la gente, mi ricordo, era l’ora delle sette, sette e mezza, andavano a fare la spesa, non so, ci sono state parecchie persone che ci hanno dato delle mele, qualcuna anche il pane, in Piazza Vittoria c’era una che ci ha detto: “Puttane”, ecco.
Poi non lo so per strade, che strade abbiamo fatto, siamo arrivati al Gries e ne abbiamo sentite di tutti i colori, basta dirti l’incoscienza, di fare una roba, scusa, una cosa di quel genere, arrivare là alle nove le dieci che fosse, potevano pensare che fosse successo qualcosa, ma non ci si pensava sai, non è che, dicevo anche ieri con Vallì, non è che io avessi avuto, neanche paura di morire sai, cioè, forse era anche l’età, l’incoscienza, io avevo più paura per la mamma.

D: Noemi, la liberazione?

R: La liberazione, l’avevamo già sentita tre o quattro giorni prima nell’aria, qui guarda, c’era Radio Campo, il Professor Ferrari che era il capo campo dell’infermeria, il Professor Meneghetti, che ci avevano già detto, sono qua, sono alle porte, ormai ci sono, va tutto bene?
Tutti erano contenti, e mi fa il Professor Meneghetti: “Cos’hai?” “Non provo niente” ho visto gente felice che si abbracciavano, anche le mie sorelle, guarda, mi viene ancora la pelle d’oca, ti direi una bugia se ti dico che ho provato qualcosa. Io ero svuotata, guarda, nonostante l’aiuto che mi ha dato psicologico, il Professor Meneghetti, sentivo che andavo proprio calando non mi interessava più di niente, per dirti che non ho provato niente, ci avessero detto, ma guarda arrivano domani, sono arrivati oggi, oppure arrivano, va bene.

D: Quanto ti è durato, diciamo questo disinteresse, questo allontanamento?

R: Fino a quando non sono tornata a casa, che non è tornato mio fratello.

D: Da dove?

R: Da Dachau

Signorelli Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Angelo iniziamo?

R: Va bene iniziamo.

D: Ascolta una cosa, tu quando avevi sedici o diciassette anni lavoravi alla Falck a Sesto, in quale Falck?

R: Falck Unione.

D: E lì che cosa è successo?

R: Lì è successo che dopo i fatti del ’43, dell’8 settembre, e poi ancora l’avvento della Repubblica Sociale diciamo così e allora è successo che le condizioni degli operai peggioravano continuamente, i ritmi di lavoro sempre più … e poco cibo, perché c’erano le tessere così, malcontento e poi una grande voglia di far finire la guerra.
L’importante era questo. Specialmente per noi giovani, e così quando si è incominciato a sentire che organizzavano questi scioperi noi giovani eravamo un po’ entusiasti di partecipare a questi scioperi.
Infatti nel mese di marzo ci sono stati questi grandi scioperi che noi, almeno io, ho partecipato e anche tutti i giovani lo devo dire hanno partecipato con entusiasmo.

D: Scioperi del marzo di che anno?

R: ’44. Marzo del ’44. Scioperi che sono durati tutta una settimana. Perché gli scioperi erano partiti così come si sentiva, dicevano che erano scioperi più che altro per dare un colpo per fare finire la guerra. Poi dovevano durare un giorno o due, poi invece sono durati tutta settimana perché anche i fascisti…
Io parlo dell’Unione lì a Sesto davanti alle portineria avevano piazzato tutti questi fascisti con fucili, mitragliatrici e mitra, e così hanno impaurito di più la gente e la gente si è allontanata dalle fabbriche e nessuno entrava. Comunque lo sciopero è stato si può dire totale, però subito questi scioperi pochi giorni dopo è scattata questa rappresaglia. Io ero giovane, avevo diciassette anni.
La notte dell’11 marzo, pochi giorni dopo lo sciopero, perché lo sciopero è finito verso il 6 o 7 marzo o che, era un sabato sera. Quella notte lì alle due di notte sentiamo mia madre che dice “Ma chi siete, cosa volete?”. Avevano piegato la porta, erano i fascisti e avevano il nome mio e quello di mio fratello, Signorelli Angelo e Signorelli Giuseppe e volevano portarci in caserma per interrogarci e tutte quelle cose lì.
Mia madre, anche i miei genitori si sono opposti ma non c’era niente da fare. Loro sono entrati in casa a malo modo. Come siamo scesi dal letto ci hanno puntato contro i mitra, hanno guardato se avevamo delle armi. Poi abbiamo dovuto seguirli, non sono valse né le resistenze né le lacrime dei miei genitori. Non è valso nulla.
Questo è stato un rastrellamento che nelle zone industriali di Monza, di Sesto e Milano in quella notte lì avevano arrestati tantissimi operai che avevano partecipato a questi scioperi.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era l’11 marzo. La notte dell’11 marzo del ’44.

D: Ecco, quindi tu abitavi a Monza?

R: Abitavo a Monza in via S. Rocco, allora era via S. Alessandro. Poi ci hanno portato in caserma a Monza in via Volturno in caserma dei carabinieri.
Poi ecco, in casa mia sono venuti sette fascisti in borghese e ce n’era uno vestito da carabiniere. Loro hanno detto “Non è niente, dovete seguirci, domani mattina ritornerete a casa”, invece sono tutte le storie che dicono poi a casa non si ritornava più.

D: E ti hanno portato nella caserma dei carabinieri di Monza?

R: Sì.

D: Lì hai trovato altri operai?

R: Sì, altri operai perché in tutti i quartieri o rioni di Monza c’erano in giro queste squadre. Poi si è saputo che erano tutte della polizia segreta che aveva sede a Verona.
C’erano tutte queste squadre, ogni tanto arrivava una squadra di queste con cinque sei o sette persone arrestate quella notte. Difatti noi del gruppo lì di Monza quella notte lì saremmo stati circa una ventina o forse anche di più.
Poi ci hanno messo tutti in una prigione sotto, resta proprio sotto il manto stradale diciamo, sotto che guardando dalla via Volturno si vedono dei finestrini così piccoli. E lì siamo stati fino alla mattina.

D: Interrogatori non te ne hanno fatti?

R: No, lì niente. Lì alla mattina poi è venuto un pullman, ci hanno messo su e ci hanno portato a Milano.

D: A Milano dove?

R: In questura a Milano in via Fatebenefratelli, alla Prefettura di Milano. E lì ci hanno messo su tutti. Loro si sono seduti in mezzo tra di noi in borghese, avevano le pistole in mano hanno detto di non tentare, di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare. Poi, eravamo chiusi dentro in questo pullman, non si poteva fare niente.
Ci hanno portato lì a Milano. Lì c’erano altri……. Abbiamo trovato altri operai o tecnici che avevano arrestato quella notte lì di Sesto, di Milano, di Cologno dei paesi dintorni.

D: Di quelli di Monza ti ricordi qualche nome?

R: Sì, mi ricordo quasi tutti diciamo quelli di Monza. Ero io, mio fratello poi dei sopravvissuti c’era Muretti che poi è morto qualche anno dopo perché era molto conciato anche lui. C’era Galimberti Ettore, c’era Sperandio Giovanni, Terzi Alvaro, quelli di Monza perché erano pochi.
Siamo stati portati via in tanti ma siamo ritornati in pochi.

D: Sperandio Giovanni lavorava con te alla Falck?

R: All’Unione, sì.

D: All’Unione?

R: All’Unione. Invece mio fratello e Muretti lavoravano al Concordia. E invece Galimberti Ettore lavorava al Vittoria e insomma ne avevano presi un po’ da tutti gli stabilimenti diciamo.

D: E lì a Milano allora in Prefettura?

R: Sì la Prefettura lì.

D: Ne hanno trovati degli altri?

R: Sì altri di Sesto, tutti operai. Sesto, Milano e dei dintorni lì insomma. Gente che aveva fatto questi scioperi.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ma lì, più che interrogatorio è stato… ci hanno letto il nostro, il nostro, l’accusa che avevano contro di noi.
L’accusa era: organizzatori e istigatori degli scioperi, atti di sabotaggio contro l’esercito tedesco e la Repubblica Fascista.
Questa era l’accusa. Ce l’hanno letta però noi non abbiamo detto né si né no. Non ci hanno fatto firmare niente. Questo era l’atto d’accusa. Poi il pomeriggio ci hanno portato a San Vittore.

D: Ecco, gli interrogatori chi è che te li ha fatti? I fascisti o i carabinieri?

R: Ma, erano forse dei magistrati, non so, perché erano in borghese. Lì in Prefettura non so chi erano quelle persone.

D: Non erano tedeschi?

R: No, no sempre italiani. Sempre italiani.

D: Poi ti hanno portato a San Vittore.

R: Sì.

D: Ti ricordi il raggio?

R: Beh il raggio, era un raggio dove c’erano tutti i politici. Adesso, il nome, il numero del raggio poi… Sono stato lì pochi giorni, sono stato lì 2 giorni io a San Vittore. Non ho avuto modo neanche di inquadrarmi bene. Io mi ricordo benissimo San Vittore quando ci hanno messo in questo raggio.
Quando ci hanno chiuso in queste prigioni. Quando, perché ci hanno messi una ventina o 17 o 18 per prigione eravamo. Ci hanno chiusi dentro lì e lì abbiamo trovato nella cella che ero io, trovato 2 o 3 operai della Caproni che erano già lì da qualche giorno. E questi qui della Caproni avevano subito un interrogatorio dai tedeschi ed erano stati anche picchiati. Anzi, c’era uno della Caproni che diceva che l’hanno picchiato così forte e quando lo raccontava piangeva. Ecco.
Niente noi in quelle condizioni lì siamo stati due giorni a San Vittore. La cosa che mi ha impressionato è stato quando mi hanno chiuso in questa cella con quei catenacci con tante mandate e mi sentivo molto molto demoralizzato diciamo perché ero giovane un po’ inesperto di queste cose e niente.
Ecco io dopo il secondo giorno che ero dentro a San Vittore è successo quel fatto che sono venuti quei due ispettori. Eravamo lì nella cella, una sera del secondo giorno sono entrati questi due ispettori. Io ero lì seduto proprio vicino alla porta, perché di letti a castello non ce n’erano, lì c’era un po’ di paglia, si dormiva lì. In un angolo c’era una specie di secchio per i nostri servizi. Ero lì seduto, sono venuti questi due ispettori; uno dei due mi guarda in faccia e mi dice: “Ma te che hai la faccia così da giovane, quanti anni hai?” E io gli ho detto: “17 anni”. Allora rivolto all’altro gli dice: “Guarda che qui c’è un minorenne, bisogna provvedere”. L’altro ha risposto così con arroganza dicendo: “Ma che minorenne e non minorenne; sono tutti lo stesso. Faranno tutti la stessa fine”. Ecco, io l’ho guardato negli occhi.
Quegli occhi non li ho mai perdonati nella mia vita, nei miei periodi di maggior sofferenza. Così quando mi ricordavo di questa persona lo ritenevo responsabile di tutte le mie sofferenze. Io l’ho sempre maledetto. Non lo perdonerò mai perché ha dimostrato di essere un uomo bestiale, non di essere una persona umana.

D: Questi ispettori erano italiani?

R: Sì, erano italiani, italiani.

D: Italiani. Ecco, dopo i 2 o 3 giorni che sei rimasto a San Vittore cos’è successo?

R: Ecco, dopo la sera del secondo giorno ecco, dopo, più tardi da quando erano venuti gli ispettori ci hanno cambiato raggio quella sera lì e ci hanno mandato in un altro raggio. E lì, non si sa poi perché ci hanno mandato in quel posto lì perché poi alla sera più tardi ancora verso le 10 è venuto l’ordine di partenza.
Ecco, io dico una cosa sola, che i nostri fascisti che sono venuti in casa ad arrestarci, poi, ci hanno portato a San Vittore e poi ci hanno mandato in quell’altro raggio, ecco, lì senza nessuna contropartita ci hanno venduto ai tedeschi.
Io dico queste persone che avevano la pretesa di comandare la propria nazione come potevano dare ai cittadini, anche se sono colpevoli di qualche cosa così, di dargliene in mano a degli stranieri. Oggi pretendono ancora di governare diciamo. Sono cose assurde.

D: E lì, il viaggio, siete partiti per dove?

R: Sì per Bergamo. Poi quando siamo andati lì c’era un camion e dovevamo, in quei camion lì dovevamo andar su. Erano quei camion militari con dei tendoni sopra, noi siamo entrati lì e non ci stavamo tutti ma forse con i calci dei moschetti ci hanno fatto stare tutti.
Poi, ci hanno tirato giù i tendoni e dentro si faceva perfino fatica a respirare, perché si fa presto a dirlo, ma essere chiusi.
Almeno noi eravamo in un camion solo ed eravamo forse un centinaio tra quelli di Sesto, di Monza, di Milano e paesi dintorni. E lì ci siamo stati tutti.
Io mi ricordo che si faceva fatica a respirare. Io piano piano con l’unghia sono riuscito a tagliare un po’ questo tendone ed entrava un filo d’aria. Altrimenti era una cosa incredibile.

D: Nessuno di voi però sapeva dove andavate?

R: No. Non si sapeva niente, non ci hanno detto niente. Anzi tra di noi ogni tanto qualcuno diceva: “Ci porteranno in qualche posto o ci fucileranno tutti”. Quando poi siamo in tanti c’è sempre qualcuno che pensa sempre. Ognuno dice la sua diciamo.
Dopo un paio d’ore di questo viaggio, perché non è che il camion…… e poi scortati da camionette di fascisti che erano davanti e dietro il camion. Poi siamo arrivati li all’uscita di Bergamo, nella città di Bergamo perché abbiamo fatto questo tragitto sull’autostrada.
Poi siamo entrati in Bergamo. Poi ci hanno fatto scendere. Ecco, quando ci hanno fatto scendere è stato un ritornare ancora a vivere perché su c’erano già tante persone che stavano male. Si sentiva l’aria pura della notte così si respirava a pieni polmoni. Ecco, questa è stata una bella cosa diciamo.

D: Ecco Angelo, eravate solamente uomini o c’erano anche donne?

R: No, lì erano tutti uomini. Tutti uomini, sì. Poi ci hanno incolonnato tutti in cinque, tutta una lunga colonna e siamo partiti. L’ora sarà stata verso le undici, undici e mezza di notte. Non c’era in giro nessuno perché c’era il coprifuoco.
Qualcuno che guardava fuori, perché la gente magari, quelli che sentivano qua i rumori perché loro urlavano per tenerci inquadrati. Poi se uno non stava bene inquadrato lo picchiavano così, insomma.
Ci hanno portato ad una caserma dei carabinieri, non so se è una caserma dei carabinieri. Lì non ci hanno accettato, forse hanno sbagliato il posto di portarci, poi alla fine ci hanno portato in quella famosa caserma. Era la caserma Umberto I mi pare. Che era una caserma di cavalleria dell’esercito. Lì siamo entrati, ecco.
Fino a lì ci hanno portato i fascisti, quando siamo entrati in questa caserma ci hanno dato in mano ai tedeschi. Però il primo ordine che hanno dato i tedeschi è stato: giù le mani. Perché loro ci hanno fatto fare tutto questo tragitto sempre con le mani in alto. Sempre camminando con le mani in alto. Una fatica anche a tenerle su e come uno abbassava le mani ci arrivava il calcio del moschetto sulle gambe o sulla schiena.
Quando siamo arrivati dentro lì, l’ufficiale tedesco ha dato l’ordine di abbassare le mani. E questo è stato perché si faceva fatica anche a tenerle su le mani, perché noi avevamo su anche i vestiti, io avevo il paltò perché era il mese di marzo e camminare con le mani in alto quasi tre quarti d’ora è dura eh.

D: Ascolta, e poi lì dove vi hanno messo?

R: Lì c’erano delle camerate, c’erano tantissimi altri prigionieri, persone che avevano arrestato, altri operai. Venivano da Torino, venivano dalla Liguria, venivano anche dalla Toscana, dalla zona di Lecco. Io ho trovato anche tanti di Lecco, che operai erano stati anche loro.
Tutta gente che avevano arrestato in quel periodo li degli scioperi. Li avevano portati lì. Lì hanno fatto il concentramento. Ma la prima cosa che mi ha impressionato quando sono entrato in quel posto lì era che tutte queste persone che era già da qualche giorno che erano lì tutti ci cercavano se avevamo qualcosa da mangiare.
Noi che venivamo da San Vittore, anzi, io a dir la verità, quella sera lì ci avevano dato da mangiare abbastanza bene, lì a San Vittore. Ci avevano dato gli spezzatini con le patate e un po’ di pagnotta e io avevo avanzato una pagnotta e l’avevo lì, e questa pagnotta quando questi prigionieri me la cercavano io gliel’ho data. Io ormai quella sera lì avevo mangiato, non sapevo cosa poi mi aspettava gli altri giorni.
Gliel’ho data e per mia meraviglia ho visto che questa pagnotta se la sono divisa forse una decina di persone e anche più. Un pezzettino per uno. Questa cosa mi ha molto impressionato perché è una cosa che non avevo mai visto. Poi ci hanno dato un posto anche a noi. Lì c’era giù un po’ di paglia un po’ dappertutto e hanno trovato un posto perché questa caserma ormai era tutta piena, hanno trovato un posto vuoto e ci hanno messo là. Anche noi là, il nostro gruppo là.

D: E lì sei rimasto quanto tempo?

R: Quattro giorni.

D: Lì hai subito degli interrogatori?

R: No, niente. Niente interrogatori. Ormai la nostra sorte era decisa. A noi non ci ha interrogato più nessuno.

D: Voi però non sapevate nulla?

R: No, non sapevamo nulla. Poi ho visto il giorno dopo com’era il trattamento in quei posti lì.
Il cibo lo davano una volta a mezzogiorno, una fettina di pane, ma una fettina di pane, con un po’ di brodo e basta. Era il cibo di tutta la giornata. Va beh che se si era lì non si lavorava e tutto. Però la fame era molto forte. Dopo, quando avevo così tanta fame, perché sono stato quattro giorni, avevo una fame, sono stato pentito di aver dato via questa pagnotta. Però quella sera lì non avevo fame, diciamo.

D: L’hai distribuito agli altri?

R: Sì.

D: Ecco, e quindi in quella caserma lì chi comandava erano i tedeschi?

R: Tedeschi. Sì.

D: Ascolta, i tuoi genitori?

R: Sì, i miei genitori da quando ci avevano portato via loro si sono dati da fare per sapere dove ci avevano portato. Non solamente i miei ma anche i genitori di tutti gli altri.
E poi lì a San Rocco dove abitavo io c’era un cappellano militare e si era dato da fare anche lui. Livio Mandelli si chiamava. Si era dato da fare anche lui per sapere dove ci avevano portati. E finalmente quel giorno lì avevano saputo che eravamo a Bergamo.
Noi siamo partiti quel 17 marzo, siamo partiti da Bergamo. Quella mattina lì verso le undici, le dieci e mezza, le undici sono arrivati i miei genitori e tanti genitori, familiari di quelli di Monza.

D: Che tu però hai potuto solamente vederli da lontano?

R: No, no, no. Li hanno fatti entrare in caserma. Li hanno fatti entrare in caserma. Sono venuti su lì, abbiamo parlato assieme. Li c’erano gli ufficiali. Tanto è vero che io avevo in tasca i buoni della mensa e li ho dati a mio padre e l’ufficiale tedesco ha voluto sapere cos’erano. Ha chiamato lì un interprete per vedere cos’erano. Poi quando ha saputo che erano i buoni della mensa allora… Chissà che segreti pensava che fossero.
Poi è venuto l’ordine, ci hanno portato giù nel piazzale di questa caserma. Ci hanno inquadrati e allora i nostri genitori li hanno messi un po’ da parte. Li hanno fatti uscire dalla caserma e poi a noi ci hanno dato un po’ di pagnotte a testa e un po’ di Bologna. Hanno dato sette pagnotte a testa e una fetta di Bologna diciamo. Questo era il cibo che ci hanno dato per il nostro viaggio.
Noi non si sapeva. Hanno detto che si partiva ma non ci hanno detto dove si andava.
Ci hanno inquadrato tutti. Poi ci hanno incolonnati verso la stazione. Ecco, io mi ricorderò sempre bene questo tragitto perché sono successe delle cose molto anche…

D: A piedi l’hai fatto?

R: Sì, l’abbiamo fatto a piedi. C’era questo lungo tragitto. Il nostro convoglio sarà stato come minimo di settecento, ottocento persone. Di prigionieri arrestati.
Poi ci seguivano i nostri genitori. I miei genitori e anche gli altri ci hanno seguito fino alla stazione.
Poi c’erano questi fascisti che ci accompagnavano a piedi. E poi di altre camionette che facevano la spola avanti e indietro con le mitragliatrici puntate. Perché loro prima di partire hanno detto di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare.
Poi la cosa bella è stata la gente di Bergamo. Perché era un pomeriggio. Siam partiti un pomeriggio. Saranno state le tre, le tre e mezza, quell’orario lì. E la gente di Bergamo ha visto questa lunga fila di prigionieri.
Questa gente ha incominciato a guardare e poi si è avvicinata. Vedevano tutti tutto questo lungo corteo di gente che piangeva. Perché i nostri familiari che piangevano. “Chi siete? Cosa avete fatto?” “E noi siamo operai che abbiamo scioperato e adesso ci portano in Germania. Così… non si sa”.
Ecco, questa gente di Bergamo, tantissimi, hanno dimostrato una grande solidarietà verso di noi. Andavano in negozio a prendere qualche cosa, fiaschi di vino, qualche cosa così e ce li portavano.
Ecco, io vorrei raccontare un piccolo fatto così. Uno davanti, che si trovava davanti a me, è uscito un po’ dalla fila per prendere un fiasco di vino che ci ha dato quella gente lì. Poi stava ritornando in fila e un fascista l’ha buttato via. “Vai via”. Perché pensava che era uno di quelli che.. Perché c’era un po’ di confusione lì. Lui è stato lì, poi è filato e se n’è andato.
E ci è andata bene. Mio fratello ha tentato anche lui vedendo questo qui. Ha tentato di svignarsela e invece ha preso il calcio del fucile sulla schiena e l’hanno messo in coda. Anche lì bisogna avere un po’ di fortuna.
Ecco, c’era della grande confusione. Voi pensate. Noi, la lunga fila, questi fascisti che ci seguivano armati, queste camionette che facevano la spola avanti e indietro, tutti urlavano, bestemmiavano, tutti. E poi la gente di Bergamo. C’era una gran confusione. E qualcuno penso che oltre a quello forse qualcun altro sarà riuscito ad aver la fortuna di svignarsela.
Poi siamo arrivati alla stazione, ecco.. Alla stazione abbiamo salutato i nostri genitori perché loro in stazione non hanno potuto entrare. Abbiamo salutato i nostri genitori.
Io mentalmente ho ringraziato e salutato la gente di Bergamo perché questa solidarietà che ha dimostrato nei nostri confronti è stata molto importante. E io devo dire che nei momenti anche di sconforto quando mi ricordavo queste cose mi aiutava sempre di più a resistere. Perché la solidarietà in quei momenti lì è una cosa molto importante.

D: Ascolta. In questo trasporto qui, questa lunga colonna che tu dicevi di prigionieri che andava verso la stazione di Bergamo, c’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano sette donne. Ecco, le hanno inquadrate per ultimo. Erano sette donne che venivano da Lecco. Lavoravano alla Bonaita mi pare o alla Badoni mi pare. Ma adesso non mi ricordo bene. Lavoravano in quella fabbrica lì. Hanno scioperato.
Erano sette donne che sono state prese anche loro. Poi dopo ho saputo che erano queste sette donne perché ho conosciuto anche i deportati uomini di Lecco. Però queste donne le hanno messe su un vagone da sole, mi pare. Perché, io le ho viste solamente quando le hanno accodate alla nostra lunga fila. Erano in ultimo.
A dir la verità in questa nostra fila cerano anche due vestiti da fascisti. Due giovani vestiti da fascisti. Non so chi erano. Non so cos’hanno fatto. E li hanno messi anche loro nel nostro convoglio e sono partiti anche loro due con noi. Vestiti da fascisti.

D: Arrivati alla stazione cosa c’era ad aspettarvi? Alla stazione di Bergamo.

R: Dentro nella stazione c’era questo lungo treno di vagoni bestiame. Fino all’esterno della stazione ci hanno accompagnato i nostri genitori e tantissime persone che ci hanno seguito. Poi queste non hanno potuto entrare. Noi siamo entrati in questa fila e una quarantina in ogni vagone. Ci mettevano in media quaranta ogni vagone e poi ci chiudevano questi vagoni e li piombavano. Erano carri bestiame chiusi.

D: Chiusi dall’esterno?

R: Chiusi dall’esterno.

D: Tu sei stato su assieme a tuo fratello?

R: Sì. Noi eravamo lì tutti assieme. Io, mio fratello e il gruppo di Monza. Poi avevo su qualcuno di Torino, qualcuno anche della Toscana avevo su, perché sono tutti dialetti che non avevo mai sentito parlare: il piemontese, il toscano.
Io ero giovane e non avevo mai girato in giro. Allora sentivo questi dialetti e mi piaceva un po’ sentirli, ecco, questi dialetti così.
Ecco io devo dire una cosa, che quando sono entrato sul vagone poi ci hanno chiusi dentro. Poi quando questo vagone è partito, come è partito il vagone io ho avuto una grande crisi di pianto. Ho incominciato a piangere. Forse è stato un bene. Mi sono sfogato di tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni diciamo così. Poi finalmente quando sono riuscito a calmarmi c’era mio fratello che è mi stato molto di conforto.
C’era Galimberti di Monza che era una persona un po’ legata alla Resistenza. Era sulla trentina. Era più esperto di noi. Aveva già fatto delle azioni di partigiano insomma. Ecco, anche Galimberti mi è stato di molto aiuto moralmente.
Tanto è vero che poi quando si andava sul treno Galimberti è stato quello che ha tentato di schiodare qualche tavola dal pavimento per tentare la fuga, ma noi non avevamo niente.
Se avevamo qualche cucchiaio, qualche coltellino, qualcosa, invece non avevamo niente. Avevamo solamente le nostre unghie. E’ stato impossibile.

D: Angelo, i vagoni piombati, quelli che dici tu e quelli per caricare il bestiame sono quelli senza finestre?

R: No, ci sono dei finestrini piccoli così. C’è un finestrino in alto. Aveva questo finestrino in alto.

D: E basta?

R: E basta.

D: E lì eravate in quaranta?

R: In quaranta. C’era un po’ di paglia. Poi noi ci siamo organizzati in questo modo: in un angolo in fondo abbiamo fatto come l’angolo per il gabinetto.
Ognuno di noi nei nostri pacchi che avevano portato i nostri genitori avevamo un po’ di carta per cercare poi di pulirci; quando c’era un po’ si buttava fuori dal finestrino. Ci siamo organizzati in questo modo.
Ecco, la cosa più brutta di questo viaggio è stata la sete, perché loro sì ci avevano dato da mangiare però su questi vagoni non c’era neanche una goccia d’acqua. Voi pensate: mettete quaranta persone in un vagone dove non c’è niente altro che paglia. Solamente i movimenti. C’è sempre quella polvere. Quella polvere lì ci viene sempre una grande sete.
Noi il primo giorno sul nostro vagone avevamo sette o otto fiaschi di vino che ci aveva donato la gente di Bergamo. Eravamo in quaranta persone ed è stato abbastanza per bere quel bicchiere o due di vino. Perché sette fiaschi, otto fiaschi di vino sono dodici litri di vino; perché un litro e mezzo erano questi fiaschi.
Il primo giorno è andato abbastanza bene. Ma il secondo giorno, io dico sinceramente che il secondo giorno non c’era più nessuno che mangiava per la gran sete che avevamo. Avevamo lì ancora delle pagnotte, avevamo il cibo che ci avevano portato i nostri genitori, però non si poteva più neanche mangiare dalla gran sete.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: La prima fermata l’abbiamo fatta a Verona. Si è messo poi su un binario morto e lì siamo stati fermi diverse ore. Ed è lì dove Galimberti ha tentato di schiodare. Perché quando il treno si fermava quelli delle SS venivano giù dal treno perché sull’ultimo vagone c’erano su tutti i soldati delle SS.
Quando il treno si fermava loro venivano giù e facevano, camminavano avanti e indietro di guardia. Però se si riusciva a tirar su qualche cosa, qualche asse e calarsi giù si poteva riuscire perché in qualche vagone è riuscito qualcuno a fuggire.
Poi c’era anche la paura, perché loro prima di partire hanno detto che i vagoni che arriveranno dove qualcuno è fuggito gli altri saranno fucilati. E allora…
Ma noi, il nostro gruppo di Monza con Galimberti, quando qualcuno ha tentato di fare delle azioni, quando tentava di schiodare queste assi lui ha detto: “Voi non ci pensate che quando arriverete, che quelli che arrivano non gli fanno niente”.
E aveva ragione, perché in quei vagoni dove sono fuggiti non è successo niente. Perché in un paio di vagoni qualcuno è riuscito a filare.

D: Ascolta. Ecco. Dopo Verona? Via.

R: Via. Poi ci siamo fermati ancora in un altro posto. In un paesetto del friulano. Poi abbiamo fatto la linea Tarvisio non quella del Brennero.
Abbiamo fatto la linea Tarvisio perché mi ricordo che in stazione lì a Tarvisio ci siamo fermati proprio nella stazione. Era anche lì un pomeriggio e c’erano fermi dei treni.
E noi dal finestrino che si guardava fuori si cercava l’acqua, l’acqua, l’acqua. E c’è stato qualcuno che è riuscito ad andare a prendere qualche fiasco d’acqua. Però sul nostro vagone saranno arrivato forse un paio di fiaschi d’acqua. E’ stato abbastanza per bere quel bicchiere a testa. Ecco.

D: Quando vi fermavate non veniva aperto il vagone? Voi, tu non sei mai sceso dal treno?

R: Siamo scesi una volta in Austria.

D: Quindi dopo Tarvisio Austria.

R: Austria. Mi ricordo che era una notte, ci hanno fatto scendere, hanno aperto il vagone, ci hanno fatto scendere per fare i nostri bisogni. Ecco, in quell’occasione lì ci hanno dato anche un brodino caldo. Un brodino caldo ci hanno dato perché anche il freddo si è sofferto tanto in questo viaggio. Perché esser lì fermi, così, insomma.
Il freddo e la sete che abbiamo sofferto. Anche lì c’era tanta neve. Abbiamo mangiato un po’ di neve per dissetarci. Però ci hanno fatto scendere e più di quei tre o quattro passi lì in giro al vagone non si poteva andare perché c’erano tutti questi soldati con i mitra puntati. Lì penso che nessuno ce l’ha fatta a fuggire da quel posto lì. Poi ci hanno chiuso, è’ stata l’unica volta che ci hanno fatto scendere di notte.

D: Dopo quanti giorni?

R: Abbiamo fatto, senza contare il primo giorno, tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti diciamo.

D: Alla fine del viaggio dov’è che sei arrivato?

R: Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Ma voi non sapevate dove andavate?

R: No, ma no. Niente. Non si sapeva cos’era. Però c’è stato uno che quando siamo arrivati nella stazione di Mauthausen, quando siamo scesi lì, si è messo a piangere. Una persona anziana si è messa a piangere e ha detto che andiamo su a Mauthausen perché lui era già stato prigioniero nella guerra del 1915-1918 e diceva che stava male. Era un prigioniero militare della guerra 1915-1918. “E’ un brutto posto. Andiamo a stare male”. Questo non era vicino a me e l’ho sentito così, e non so neanche chi sia, ecco.

D: Quindi siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen il 20 marzo.

D: Sempre del ’44?

R: Del ’44.

D: E lì cos’è successo alla stazione?

R: Alla stazione, siamo usciti dalla stazione. La prima cosa che abbiamo fatto, abbiamo cercato di mangiare un po’ di neve per dissetarci un po’. Perché la sete ci ha accompagnato per questo viaggio sempre terribilmente.

D: Era giorno o notte quando sei arrivato?

R: Era pomeriggio. Sarà stato prima di sera perché là poi, in quella stagione lì alle quattro incomincia a venire buio. Sarà stato sulle tre. Perché là le giornate all’est alle quattro, quattro e mezza è già buio d’inverno. Poi lì era marzo, insomma le giornate sono ancora un po’ corte.

D: E poi cos’è successo?

R: Ci hanno incolonnato tutti all’esterno della stazione. Hanno cominciato. Lì urlavano, ci incolonnavano a cinque. Tutti in fila per cinque.
Quella lì era una brutta giornata perché cadeva neve mista ad acqua. Faceva anche molto freddo. Noi, io e mio fratello, avevamo una piccola valigia in due e non avevamo dei problemi.
Però c’erano tante persone che avevano magari due valige perché tutti portavano queste cose con grande speranza. Perché quando si portano delle cose, vestiti, qualcosa da mangiare, quelle cose lì, si pensa che aiutano a sopravvivere.
Non si sa dove si va a finire e non si sa quale sarà il nostro destino. E tutte queste persone portavano ognuno le proprie cose con grande speranza.
Io e mio fratello abbiamo aiutato qualcuno. C’era un professore che aveva due valige e io l’ho aiutato a portare questa valigia. Anche mio fratello. Poi anche degli altri. Cercavamo di aiutarli perché era molto faticoso camminare, perché c’era neve. Queste stradine che andavano su al campo non erano stradine asfaltate. Erano stradine con neve e ghiaccio, si faceva molta fatica a camminare.
Però in questi scambi quando ci si fermava a prendere la valigia, a riposare un momentino si prendevano anche delle botte perché questi soldati delle SS urlavano e picchiavano sempre.
Ecco, io devo dire che quando andavo su, si andava su per questa stradina, si vedevano queste belle valli.
Avevo dentro di me una grande voglia di mettermi a correre, di scappare. Se ero in Italia l’avrei tentato, perché se non mi prendevano subito non mi prendevano più, perché io allora ero molto veloce a correre. Non so se se mi prendevano.
Ti potevano sparare. Perché lì di cani non ne avevano. Non potevano mandarmi dietro i cani. Di cani quando ci hanno portato su non ne ho visti. Invece ero all’estero. Non sapevo, poi non si sapeva dove si andava a finire. Anzi mio fratello: “No, non tentare, non tentare”. Mi ha dissuaso un po’ e siamo andati su. Perché dalla cittadina di Mauthausen ad andare sul al campo ci saranno circa quattro chilometri. E’ stata una marcia molto faticosa date le condizioni anche del tempo.
Poi quando siamo arrivati nelle vicinanze del campo la cosa impressionante è che abbiamo visto questi scheletri umani vestiti con quei vestiti a righe che spalavano la neve, e c’erano altri che li picchiavano.
Ecco, queste cose ci hanno un po’ impressionato. “Ma qui dove ci porteranno? Chi sono quelli? Chi sono gli altri?”. Perché non avevano delle divise. Quelli che lavoravano le divise, i vestiti a righe e gli altri avevano dei vestiti civili che picchiavano e urlavano.
Poi abbiamo saputo cos’erano. Erano i famosi Kapò che poi abbiamo incontrato e abbiamo capito chi erano.

D: La prima immagine del campo?

R: Sì. La cosa è stata molto impressionante. Io devo dirlo. Perché Mauthausen si presenta questa costruzione come una fortezza. Tutta fatta di pietre. E’ una cosa che mi ha impressionato.
Ma la cosa che a me personalmente ha impressionato di più erano quegli sguardi, quando siamo arrivati lì, di quei soldati lì delle SS. Con quegli sguardi freddi, cupi, che ti guardavano con quello sguardo che ti incutevano proprio paura. Per non dire terrore.
Io dico. Io la paura l’ho provata perché non posso dire di non averla provata. Quando sono passato sotto il portone di Mauthausen sentivo dei brividi di freddo che mi attraversavano la schiena. Avevo paura e non ho vergogna a dirlo. Ho preso la mano di mio fratello e la stringevo.
Poi la cosa impressionante è quando sono entrato dentro nel campo. Al lato destro e al lato sinistro c’erano questi due prigionieri che erano lì per punizione. Perché poi, come di solito era sempre così. Qualcuno non so per che cosa. Per punizione.
Prima li picchiavano selvaggiamente, poi li legavano alla catena, uno a destra e uno a sinistra e li lasciavano lì tutto il giorno a dorso nudo. Faceva freddo, faceva caldo. In quelle condizioni tutti insanguinati. Se alla sera erano vivi ancora li mandavano alla camera a gas, se non erano vivi li mandavano direttamente al crematorio. Questo era un po’ il destino.
Però quando ho visto queste due persone così conciate, così magre, insanguinate, così legate alla catena mi ha impressionato molto.
Poi noi ci hanno allineato lì sulla destra. Poi a gruppi di una ventina per volta ci facevano scendere giù sotto. Lì sulla destra. Dove adesso c’è quella chiesa lì.
Sotto lì, nel sotterraneo a gruppi di venti ci facevano scendere, ci facevano consegnare tutte le nostre cose. Se avevamo orologi o anelli d’oro, soldi. Lì ci hanno ritirato tutto.
E loro tutto quello che gli consegnavamo lo marcavano giù. Era tutta una cosa, guardate, assurda perché poi delle nostre cose noi non abbiamo visto più niente.
Poi ci hanno tolto i nostri vestiti. Nudi completamente. Tutte le nostre cose che avevamo portato con grande speranza, le nostre valige, quelle ce le hanno fatte abbandonare di sopra. Quelle non ce le hanno fatte portare giù. Le abbiamo lasciate di sopra. Poi tutti i nostri vestiti che avevamo. Ci hanno levato tutto. Ci hanno depilato in tutte le parti del corpo, ci hanno tagliato i capelli a zero e poi abbiamo fatto la doccia. Poi siamo usciti dall’altra parte perché c’era un’altra porta dall’altra parte e là ci hanno dato un paio di mutande e una camicia. E poi ci hanno portato in una baracca.

D: Angelo, cosa vuol dire lasciare tutto?

R: Vuol dire tante cose. Si fa presto a dire “lasciare tutto” ma noi in quegli attimi lì lasciavamo una parte di noi stessi. Tutto vuol dire tutto. Quello che noi avevamo di nostro più caro.
Io avevo un portafoglio. Avevo la fotografia di mio padre, di mia madre, dei miei fratelli. Avevo le fotografie di quando correvo a piedi, perché avevo vinto tante corse.
Tutto vuol dire tutte le nostre cose. Tanto per dire anche una stupidaggine, il pettine, quelle cose lì. Ognuno si era affezionato alle proprie cose. Tutte cose che poi noi non abbiamo più avuto. Non abbiamo più avuto il cucchiaio diciamo… cose che non abbiamo mai avuto. Sono cose insignificanti ma molto importanti quando non ci sono.
Lasciare tutto vuol dire lasciare una parte anche del nostro cuore.

D: E non potevate nasconderlo da nessuna parte?

R: Da nessuna parte. Dove lo nascondevi? Perché te uscivi dall’altra parte nudo completamente. E quando uscivi di là c’erano sulla porta questi guardiani che ti guardavano con le mani in alto.
Ti facevano allargare le gambe. Non so se si poteva. Io non ha mai visto qualcuno che avrebbe potuto portare via qualche cosa.

D: Quindi tu hai lasciato tutto?

R: Ho lasciato tutto. Poi ci hanno allineati e ci hanno portati in una baracca di quarantena lì a Mauthausen. In questa baracca di quarantena, era una delle solite baracche come le altre, divisa in due parti: parte A e parte B. Io ero dalla parte B, insieme a mio fratello, al gruppo di Monza e tanti di Milano.
Noi siamo stati quattro giorni a Mauthausen sempre vestiti con questa divisa: un paio di mutande e una camicia e basta. Lì in quei giorni lì eravamo dentro in baracca.
Il problema grosso è stato alla sera quando davano l’ordine di coricarsi per dormire. Letti a castello non ce n’erano. Bisognava dormire sul pavimento di questa baracca.
Eravamo circa in quattrocento, forse anche di più in ogni parte. E non ci stavamo tutti anche perché le baracche sono lunghe, però una parte in mezzo era per i servizi. Poi c’erano le camerette dei Kapò, e quelle cose lì.
Comunque noi non ci stavamo tutti. Dovevamo metterci di fianco perché se no non ci stavamo tutti. Poi il problema era sempre questo. Quando di notte uno doveva andare ai servizi o qualche cosa, muoversi così per camminare bisognava calpestare sempre qualcuno. Ci sono quelli che si lamentano, quelli che dicono qualche cosa e poi c’erano i Kapò che sentivano un rumorino e allora entravano e picchiavano.
Lì abbiamo capito un po’ le cose: come sarebbe stato il nostro destino. Perché per picchiare delle persone per niente. Anche lì, ti fanno dormire per terra, ti hanno depilato dappertutto, ti hanno portato via tutte le tue cose.
Però io dico sinceramente che quando siamo in tanti, siamo lì in tanti, in qualsiasi momento ci sono sempre i pessimisti e gli ottimisti. Però il più pessimista di noi era poi, molto, molto lontano dalla realtà che abbiamo trovato perché non si pensava mai che esistessero quelle cose che abbiamo trovato.
Ecco, noi siamo stati quattro giorni in quelle condizioni. Il primo giorno è venuto il capo. Un comandante tedesco che ha parlato. Mandato dalle SS. Che ha parlato in tedesco, poi l’ha fatto ripetere da uno che l’ha tradotto in italiano.
Il secondo giorno la mattina ci avevano dato quel pochettino di caffè. Era acqua sporca. Alla mattina amaro. Poi a mezzogiorno ci hanno dato quella gamella di crauti. Difatti nessuno di noi è riuscito a mangiare quella cosa lì. Perché erano proprio porcherie.
Poi è venuto il Kapò, il comandante delle SS e ha detto: “Italiani oggi nessuno di voi ha mangiato la zuppa. Avete rifiutato la vostra zuppa. Fra qualche giorno la cercherete e vedrete come sarà buona, ma più della vostra razione non vi sarà mai data”. E aveva ragione. Era diventata buonissima poi.
“Oggi siete in mille”. Lui ha detto mille perché di preciso non si è mai saputo quanti erano questi trasporti. “Oggi siete in mille, fra tre mesi sarete in trecento”. Guardate che augurio. “Qui dovete imparare a stare agli ordini e a non fare mai quello che volete voi ma dovete sempre fare quello che vi sarà ordinato di fare”. Tutti auguri che ti mettevano addosso quella cosa che chissà poi come sarà.

D: Angelo quelle donne che sono partite con te da Bergamo sono arrivate anche loro?

R: Sono arrivate a Mauthausen; lì a Mauthausen ci sono delle celle. E queste donne le tenevano lì. Poi partivano per gli altri campi destinati alle donne. Difatti a Mauthausen non si è mai vista una donna.
C’erano quelle che arrivavano a Mauthausen, però erano giù in queste celle. E lì poi stavano magari anche dai dieci ai quindici giorni fino a che facevano il trasporto e poi per le donne c’erano altri campi che forse erano peggio anche di quelli degli uomini.

D: Nella baracca dov’eri tu in quarantena, eravate solamente italiani?

R: Sì, italiani. Eravamo tutti noi italiani che siamo arrivati lì, in quel 20 marzo. Perché è stato un grosso convoglio il nostro.
Però anche lì, io prima vi ho detto che ho sofferto la sete sul viaggio, ma la sete l’avevamo sofferta anche i primi giorni e anche dopo perché non è che là si poteva bere e via.
Noi si andava al gabinetto. Tante volte c’era qualche rubinetto, ma si cercava di bere un po’ d’acqua lì ma loro hanno detto di non berla perché era inquinata dall’infiltrazione del Danubio. Però la gran sete che avevamo ci faceva bere anche quest’acqua.
Ce n’è voluta un po’ per smaltire la grande sete che avevamo dentro di noi, che avevamo sofferto durante il viaggio. Ce ne sono voluti di giorni.

D: E nella baracca, letti hai detto che non c’erano?

R: No.

D: C’erano degli armadietti?

R: No, no. Niente.

D: C’erano dei tavoli?

R: Niente, niente.

D: C’erano delle sedie?

R: Niente, niente. Noi si camminava sempre lì in piedi. Si poteva sedersi per terra. Niente. In questa baracca c’eravamo noi. Degli armadietti non ce n’era bisogno perché avevamo solamente la camicia e le mutande che avevamo addosso. Di nostro non avevamo niente.

D: Quindi neanche scarpe avevate?

R: Niente, niente. Avevamo solamente camicia e mutande e basta. E quando ci hanno dato la zuppa da mangiare neanche il cucchiaio. Questa zuppa si mangiava così. Così come un maiale diciamo. Succhiandola così diciamo.

D: Ascolta. E per lavarvi avevate sapone, avevate..

R: No, no il sapone è sparito dalla circolazione. Io in quindici o sedici mesi, sapone, riso e pasta sono spariti. Non li ho visti più.

D: Dopo quattro giorni cos’è successo?

R: Dopo quattro giorni ci hanno dato il resto del nostro vestiario. Ci hanno dato degli zoccolotti, tanti zoccolotti olandesi, tanti zoccolotti incerati ma con sotto il legno. Erano meglio di quelli olandesi perché quelli olandesi erano terribili. Ti spaccavano anche i piedi. Ci hanno dato un paio di calze. Ci hanno dato i vestiti a righe con su ognuno il nostro numero di matricola, perché loro avevano stabilito il nostro numero di matricola. Ci hanno dato il nostro numero lì.
Quando ci hanno dato i vestiti ci chiamavano ognuno e ad ognuno c’era su il suo numero di matricola.

D: Cosa vuol dire numero di matricola?

R: Numero di matricola vuol dire che noi non avevamo più il nostro nome dopo. Il nostro nome era diventato il numero.

D: Quindi quando ti dovevano chiamare non ti chiamavano più Angelo Signorelli?

R: No. Mi chiamavano per numero.
Io ero il 59141 e mio fratello era il 59142, perché loro penso che li hanno fatti numerati in ordine alfabetico. Perché i numeri sono partiti dal 58000 e tanti e sono finiti al 59000 verso 300 o che diciamo.
Tutto il nostro convoglio è stato lì. Ci hanno dato questo numero e questo numero è sempre stato il nostro nome poi.

D: Allora. Il numero l’avevi.

R: Avevamo qui sulla sinistra sulla giacca. Qui sulla destra sui calzoni e ci hanno dato un braccialetto con un po’ di corda. Un braccialetto in lamiera con su anche lì il numero.

D: Cosa vuol dire Angelo chiamarsi con un numero?

R: Chiamarsi con un numero vuol dire tante cose, ma per me che l’ho vissuta vuol dire una cosa molto semplice. Perché noi dobbiamo pensare che tutto quello che hanno fatto le SS non è che lo abbiano fatto così a caso. L’hanno fatto perché è stato tutto studiato a tavolino.
La spersonalizzazione delle persone. Loro ci hanno dato un numero. La spersonalizzazione delle persone. Quando te ti hanno levato tutto dopo averti levato tutto ti levano anche il nome.
Poi per conto mio io l’ho vista in questo modo. Per facilitare anche il lavoro degli aguzzini. Perché se noi lasciamo alle persone un nome, pensate che dietro il nome c’è sempre qualcosa di umano. Tante volte questo nome può ricordare qualcosa anche all’aguzzino. Magari il nome di un figlio o di un parente o qualche cosa e può avere degli attimi di debolezza. Tante volte può avere sul nome della simpatia o qualche cosa. Invece dietro un numero di umano non c’è niente. Un numero è un numero e basta. Il numero si dice senza nessuna emozione, invece un nome… c’è sempre una storia dietro un nome.
Loro quello che hanno fatto l’hanno fatto così. Poi l’abbiamo sperimentato in seguito cosa volevano dire queste cose, perché quando le abbiamo provate a Gusen cosa voleva dire essere chiamati sempre per numero.

D: Ecco Angelo, a proposito di numero. Tu prima l’hai detto in tedesco e in italiano, e chi non capiva?

R: Botte. Venivano massacrati anche.. Voi dovete capire che tutti questi Kapò che abbiamo trovato in questi campi avevano il diritto di vita e di morte su di noi. Si divertivano alle nostre spalle ognuno di questi Kapò.
Quelli che avevamo sul lavoro ci massacravano così, quelli che avevamo in baracca non erano i kapò che avevamo sul lavoro e allora anche loro dovevano divertirsi alle nostre spalle.
Il nostro lavoro finiva alle sei, si entrava in campo, poi c’era il primo appello, poi il secondo appello lì all’esterno delle baracche. Prima l’appello generale sul piazzale del campo dove ci contava la SS e lì dovevano esserci tutti. Poi ognuno andava alle proprie baracche e lì c’erano altri appelli. Noi venivamo tutti allineati all’esterno di ognuna delle proprie baracche, e lì questi Kapò che avevamo nelle baracche si divertivano anche loro alle nostre spalle. Allora incominciavano tutte queste storie.
Abbiamo parlato del numero. Loro si mettevano là tutti bene allineati all’esterno delle baracche e noi eravamo lì tutti allineati tra una strada che divideva una baracca e l’altra. Loro si mettevano sui gradini delle baracche così ci vedevano meglio e ci chiamavano per nome. Ci chiamavano per nome detto in tedesco.

D: Per numero vi chiamavano?

R: Sì per numero, adesso ho sbagliato. Ci chiamavano per numero detto in tedesco. Io però i numeri in tedesco bene o male li conoscevo prima perché da ragazzo lì dove abitavo io c’era una contraerea dove c’erano i soldati tedeschi e qualche cosa avevamo imparato.
Io l’avevo quasi capito il mio numero, però non mi sono mosso. Allora sono venuti a prendermi e mi hanno dato un sacco di botte. Però la seconda volta che hanno chiamato il mio numero ero pronto. Perché quando chiamavano il numero dovevi fare un passo avanti, levarti il berrettino, metterti sull’attenti e stare lì sull’attenti. E se non ti muovevi venivano loro a prenderti e ti davano delle grandi botte. Loro picchiavano.
C’erano quelli che picchiavano coi bastoni, quelli che picchiavano coi pugni a seconda. Ecco, in quelle occasioni lì era brutto se uno cadeva per terra perché allora si prendeva di quei calci sullo stomaco e sulla schiena che tanti ci lasciavano anche la pelle. Lì era molto brutto quando cadevi per terra. Ma tante volte ti davano di quei pugni che ti facevano tramortire.

D: Angelo, oltre al numero ti hanno dato un’altra cosa? Avevi un’altra cosa sulla zebrata?

R: “IT” è la sigla. Il triangolo rosso. “IT” che voleva dire italiano. I francesi invece avevano la “F” lunga, i russi la “R”, gli jugoslavi la “J”, gli ebrei avevano la stella di Davide. Agli ebrei lì a Gusen mettevano anche delle strisce di vernice sulla schiena. Oltre al numero li distinguevano così.

D: Ecco, perché il triangolo? C’erano triangoli di altri colori oltre al vostro?

R: Sì. Il triangolo rosso era quello dei politici. Poi c’erano il triangolo verde di quelli che venivano messi in prigione per reati comuni. Poi c’erano gli omosessuali che avevano il triangolo rosa, mi pare. Poi c’erano altri triangoli. Comunque, ogni categoria li dividevano. Loro li dividevano per queste categorie.

D: E tu avevi il triangolo rosso?

R: Triangolo rosso.

D: Quindi quello dei politici?

R: Sì.

D: Ascolta. Allora, i Kapò erano tutti tedeschi?

R: No. Ce n’erano tanti polacchi.

D: E quando vi chiamavano vi potevano chiamare anche in polacco?

R: Di solito erano o in tedesco o in polacco.

D: Ma chi capiva di voi il polacco?

R: Eh…, ce n’erano pochi. Anch’io quando mi chiamavano in polacco ne ho prese un po’ di più di botte. Ma poi l’ho capito anche in polacco.
Però per me che ero giovane, queste cose si imparano meglio quando si è giovani. Invece le persone che avevano una certa età queste cose non le imparavano mai e prendevano sempre delle grandi botte.
E loro quando ti picchiavano ti insultavano anche: “Italiano di merda, sei un cretino, scemo, figlio di puttana”, diciamo. Tutte parolacce che quando ti picchiavano te le dicevano.

D: C’erano anche molti anziani con voi?

R: Sì. Io ero giovane. Quando vedevo anche uno di trent’anni era anziano. Però anche sui quarant’anni, cinquant’anni ce n’erano. Forse anche di più. Però quelli resistevano poco.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì. Ce n’erano di sacerdoti. Io ne ho conosciuti. Ho conosciuto Don Narciso Sordi. Ho conosciuto anche altri sacerdoti. Poi sono andati a Dachau. Poi c’era Don Gaggero. Ce n’erano tanti.

D: Questi li hai conosciuti perché erano nella tua baracca?

R: No, nel campo, la sera. Magari si andava da una baracca all’altra. Io nella baracca non ho mai avuto sacerdoti assieme.
Poi, dopo i sacerdoti un bel momento li hanno mandati tutti a Dachau. Là li hanno messi tutti nella baracca dei sacerdoti.

D: E avevano anche loro, comunque vada, il numero?

R: Sì, sì.

D: Il triangolo?

R: Sì.

D: Come voi?

R: Come noi. Senz’altro.

D: Di Don Narciso Sordo cosa ti ricordi?

R: Sì, mi ricordo quella volta quando ho visto quei ragazzi. E’ arrivato un convoglio di ebrei ungheresi.
Li hanno fatti scendere dal treno. E poi, c’erano anche delle donne, c’erano bambini, c’erano questi uomini. Li facevano camminare con le mani in alto. Quando ho visto quei bambini così piccoli che camminavano con le mani in alto io ho detto a Galbani, quello di Lecco. Gli ho detto: “Ah, Pino, Pino “. Perché noi tante volte la sera si diceva qualche preghiera. “Ah, Pino, Pino se succede… per permettere queste cose ho paura che Dio non esiste”. E questo dietro di me che era un prigioniero anche lui vestito a righe come me mi dice: “Perché dice così? Non è colpa di Dio. E’ colpa degli uomini”.

D: Dopo, quando hanno completato la vestizione eccetera, ti hanno portato in un altro campo?

R: A Gusen.

D: Ecco, questo viaggio come l’hai fatto?

R: A piedi, ma non sulla strada provinciale. Tutte stradette in mezzo a quelle colline lì perché sono circa quattro chilometri.

D: In quanti eravate?

R: Io che ero giovane, molto attento alle cose, ho visto che quando siamo partiti da lì eravamo in meno di quanti siamo arrivati. Perché loro, se guardiamo il numero di matricola, hanno immatricolato circa seicentocinquanta o settecento prigionieri che portano il numero che sono arrivati. Però per me erano molti di più perché ho visto anche delle persone piuttosto anziane. Ce n’era uno anche senza gamba che non l’ho visto partire.
Io penso che quando siamo arrivati a Gusen una parte di noi sia stata selezionata e mandata alla camera a gas, penso. O forse al Castello di Hartheim. Perché ho visto che eravamo molto, molto meno.

D: Ecco, nella tua permanenza quando tu sei rimasto a Mauthausen, camere a gas, forno crematorio, eccetera, non sapevi nulla?

R: No. Non sapevo niente. Non ho visto niente.

D: Dopo, una bella mattina, vi hanno presi e portati al sottocampo di Gusen?

R: A Gusen.

D: Che era Gusen I o II?

R: Gusen I.

D: Gusen I. Lì cosa vi hanno detto che dovevate fare? Dovevate andare lì per lavorare?

R: Sì. Loro hanno detto che ci portano nel nostro campo di lavoro.

D: Ah.

R: E siamo partiti. Ci avevano dato il resto della divisa. Ormai tutti vestiti con quelle vestite là. E poi siamo arrivati lì a Gusen I. Ecco, oggi non c’è niente.
Anche lui si presentava un po’ come una piccola fortezza, con quel muro di cinta, con quelle torrette dove c’erano le sentinelle e così.
E anche Gusen mi ha molto impressionato. Non l’effetto come Mauthausen, però anche a Gusen quando abbiamo attraversato e siamo entrati in questa porta, in questa porta dove siamo entrati dentro, c’era questo muro, poi c’erano questi reticolati che abbiamo capito che c’era la corrente perché c’erano le cose lì di…

D: Porcellana.

R: Di porcellana.

D: Gli isolatori.

R: Ecco, gli isolatori. E lì c’era la corrente. C’era questo filo spinato molto alto. Poi c’era una parte di circa tre metri. Poi c’era il muro. E in quella parte di tre metri sotto era dove giravano sempre le sentinelle coi cani lupi.
Ecco, entrato lì mio fratello mi ha detto: “Ah, siamo finiti in un brutto posto” fa, “di qui sarà difficile scappare”. Perché noi avevamo sempre questa intenzione di poter tentare la fuga. E difatti da lì non è mai fuggito nessuno.
Poi la cosa che mi ha impressionato di più era che c’era sul lato sinistro nell’entrata, in fondo, c’era come questo camino da dove veniva fuori un fumo.
In una giornata di vento questo fumo faceva come un arco e veniva giù proprio lì sul piazzale del campo dove eravamo incolonnati noi. Era un fumo molto acre. “Chissà cosa stanno bruciando?”. Poi l’abbiamo saputo che era il crematorio. Comunque era un camino che andava sempre, giorno e notte.

D: E anche lì le baracche erano di legno?

R: Sì. Le baracche di legno. C’era una baracca un po’ in muratura che c’è ancora, c’era ancora, adesso non so se c’è. Perché adesso non entriamo più di lì. E poi erano tutte baracche in legno.

D: Ecco. Ascolta. E lì vi hanno messo in una baracca?

R: Lì ci hanno messo nella baracca 16. Una baracca di quarantena. Baracca di quarantena vuol dire che i nuovi arrivati sono in questa baracca isolati dagli altri prigionieri del campo. Anche lì ci hanno messo in questa baracca divisa in due parti Stube A e Stube B.
In mezzo c’erano le camerette dei Kapò. Però non era come a Mauthausen che c’erano anche i servizi. Per i servizi, per i gabinetti, c’era una specie di baracca all’esterno, in fondo. I servizi erano lì.
E poi il giorno dopo abbiamo incominciato a lavorare. Alla mattina, suonava la sveglia del campo alle cinque la mattina, bisognava uscire alla svelta come suonava questa sveglia. Abbiamo visto che questi Kapò scendevano, erano già lì pronti, e picchiavano, urlavano.
Tutto quello che noi facevamo doveva essere fatto di corsa. Perché noi dovevamo uscire a dorso nudo. Loro lo gridavano. Perché uno doveva uscire dalla baracca a dorso nudo se no lo picchiavano, lo mandavano indietro.
Poi abbiamo capito cosa volevano sapere e poi dopo si faceva così automaticamente. Si doveva uscire dalla baracca a dorso nudo, andare a lavarsi. Anche lì sempre lavarsi con l’acqua fredda. Sempre senza sapone. Però dovevamo lavarci, poi entrare in baracca, andare ai servizi, entrare in baracca.
Sulla porta della baracca non è che si entrava facilmente perché c’erano questi Kapò che ti prendevano per le orecchie, ti strattonavano, ti guardavano nelle pieghe del collo.
Se eri sporco o pulito, a loro piacimento ti bastonavano, ti mandavano indietro. “Italiano di merda” dicevano, “Vai indietro a lavarti ancora”. Ti mandavano indietro a lavare e poi finalmente entravi. Ti vestivi. Dovevi fare il tuo castello fatto bene, una coperta bella, fatta bene perché alla sera se non era fatta bene avevi la punizione. Poi tutte cose che abbiamo imparato.

D: Ecco, lì nelle baracche c’erano i letti a castello?

R: Letti a castello. C’erano di tre piani e si dormiva in tre in ogni piano. Due di testa, uno di piedi. Si entrava in queste baracche. C’era il posto centrale che era per le camerette dei Kapò.
Poi c’era la baracca vera e propria dove c’era una grande stufa che serviva ai Kapò della baracca per farsi cuocere le loro cose. Per farsi da mangiare. E poi era tutta occupata da letti a castello. Ce n’erano sul lato sinistro, sul lato destro e una fila in mezzo. Così c’erano solamente due corridoi di qua e di là e lo spazio vuoto.

D: Tavoli, sedie?

R: No, no. Anche lì niente. Noi per sedersi ci sedevamo sui bordi del letto a castello. No, non c’erano quelle cose lì. Li vediamo tante volte quando andiamo a Dachau. Ma lì non ce n’erano. C’erano un tavolo dove c’era la stufa, dove si sedevano i Kapò e le sedie lì. Ma dove eravamo noi non si poteva e uno non si poteva azzardare di andare a sedersi al posto dei Kapò perché dai Kapò si cercava sempre di stare lontano perché ti picchiavano sempre.

D: Ascolta. E ad andare a letto i vestiti, eccetera, dove li mettevate?

R: Beh, i vestiti li mettevamo li un po’ sulla spalliera lì da parte, perché non potevano rubarci i nostri vestiti perché avevamo il nostro numero di matricola. La camicia la tenevamo su. Le mutande le tenevamo su. Era solamente la camicia.
Le calze le nascondevamo sotto al letto, perché quelle sì che sparivano. Le calze le rubavano, e anche le scarpe. Si mettevano lì perché se no te le portavano via e non le avevi più.

D: Le scarpe che erano zoccoli però?

R: Sì, zoccoli. Zoccoloni o quello che erano. Tante volte capitavano anche delle scarpe un po’ mezze andate. Magari di prigionieri, di militari. A seconda dei periodi. Perché le scarpe non ti duravano sempre. Quando erano spaccati gli zoccolotti olandesi lì, anche loro partivano.

D: Non è che te li cambiavano?

R: No, no. Quando erano rotti, quando erano a pezzi te li cambiavano. Altrimenti li cambiavi con qualcuno di quelli che erano morti. Mettevi i tuoi rotte e prendevi quelli di chi li aveva un po’ più belli.

D: Ecco, prima parlavi…

R: Perché sulle scarpe non c’era il numero di matricola.

D: Prima Angelo parlavamo dei sacerdoti, no? Che tu nel Lager hai incontrato dei sacerdoti deportati. Sacerdoti italiani deportati.

R: Sì.

D: Ti ricordi chi erano questi sacerdoti?

R: Erano: Don Narciso Sordo, Don Gaggero, Don Liggeri. Quelli che ho conosciuto. Poi ce n’erano altri. Perché poi dal mese di luglio, agosto, settembre, non mi ricordo bene, questi sacerdoti li mandavano a Dachau. Ma prima erano lì. Li mandavano a lavorare.
Dovevano fare anche loro quello che facevamo noi. Erano dei numeri e basta. Poi questo penso che sia avvenuto per un accordo che ha fatto il Vaticano con le SS. Non so…

D: Ecco, c’è un episodio che ti ricordi di Don Narciso Sordo?

R: Sì. L’episodio di quando ho visto quegli ebrei che erano arrivati. Questa lunga colonna di prigionieri ebrei dove c’erano quei ragazzini lì. Ecco, io quando ho visto quei ragazzini lì di sei, sette, otto anni così piccoli, camminare con le mani in alto mi ha molto impressionato. E proprio ho detto a Galbani, quello di Lecco: “Ah Pino, Pino, penso che noi tante volte alla sera, specialmente loro di là e specialmente alla sera, cerchiamo di dire qualche preghiera, però per permettere questa cose ho paura che Dio non esiste”.
Ecco, in questa occasione ho conosciuto Don Narciso Sordo che ha detto: “Perché dici queste cose? Io sono un prete. Sono qui a soffrire come te”. “Sì, sì, lo so anch’io queste cose” gli ho detto, “Però le nostre condizioni fanno pensare qualunque cosa. Perché queste cose non dovrebbero succedere”. “Eh sì hai ragione. Però Dio dà la libertà agli uomini e sono gli uomini responsabili e questo lo sappiamo”.

D: Ecco ascolta.

R: Ecco lì ho conosciuto Don Narciso Sordo, in questa occasione. Perché lui forse in quel periodo lì lavorava nel comando però non si sapeva che era un prete.

D: A Gusen questo?

R: Sì a Gusen.

D: Don Narciso Sordi non è morto a Gusen dopo?

R: E’ morto a Gusen dopo.

D: Mentre invece gli altri sacerdoti sono stati portati…

R: Sì, anche Don Nigeri è sopravvissuto ma è stato mandato a Dachau.

D: Ecco ascolta, una giornata tipo diciamo. Nel campo di Gusen..

R: Sì.

D: Che tu hai fatto. Una giornata, un giorno qualunque.

R: Sì.

D: La sveglia la mattina?

R: Alle cinque. Ecco la sveglia alle cinque..

D: Anche d’inverno?

R: Sì, sì alle cinque sempre. Come suonava la campana noi di corsa dovevamo scendere ai nostri posti dove si dormiva e uscire a dorso nudo e andare a lavarsi. Sempre di corsa perché il tempo era poco. Sempre di corsa.
Si andava a lavarsi e poi si entrava in baracca. Tante volte ti mandavano indietro ancora.
Ti davano qualche bastonata sulla testa perché ti insultavano dicendoti che eri sporco ancora. Poi quando avevi la fortuna di entrare ti vestivi. Magari mettevi ancora la camicia un po’ umida o bagnata del giorno prima perché io ho sempre lavorato all’esterno. Non ho mai avuto la fortuna di andare nelle officine.
Poi ti mettevi lì e ti davano il caffè della mattina. Loro lo chiamavano caffè. Chiamiamolo pure noi caffè. Era un’acqua scura, sporca Sei volte alla settimana era amaro, un giorno era dolce. Bevevi questa acqua, che non aveva niente di buono, però era calda. E questo era molto bello. Specialmente d’inverno quando bevevi questa cosa. Questo era il cibo della mattina.
Poi per le sei e mezza dovevamo essere.. no per le sei e mezza. Per le cinque e mezza dovevamo essere già bene inquadrati all’esterno della baracca. Dovevi fare il tuo castello fatto bene perché se non lo facevi bene alla sera venivi chiamato fuori per le cinque solite bastonate.
Poi alle cinque e mezza eravamo tutti bene allineati lì all’esterno perché i kapò volevano sempre fare bella figura. Ti allineavano lì di fuori. Ti inquadravano di cinque in cinque. E poi verso le sei meno un quarto ti davano l’ordine della partenza e si partiva per il piazzale del campo. E lì ogni comando.. perché non tutti quelli che erano in quella baracca lavoravano in quel posto. A gruppi ci mandavano ognuno al proprio comando dove ognuno lavorava. Io i primi tempi no. Eravamo una quarantina e lavoravamo tutti.
Ecco, io devo dire che i primi periodi noi italiani eravamo in quarantena e uscivamo sempre per ultimi, perché il nostro lavoro in quarantena è stato quello che abbiamo costruito il campo di concentramento che è stato chiamato Gusen 2. Lì abbiamo fatto dei lavori tremendi. Lì abbiamo lavorato con tutti questi kapò che erano polacchi, che ci picchiavano continuamente. Comunque la quarantena per noi italiani è stata terribile.
Poi è successo anche quel tentativo di fuga di quell’italiano che poi l’hanno ucciso così in malo modo. Perché i tentativi di fuga finivano sempre con la morte. Atti di ribellione finivano sempre con la morte. Poi parlando generalmente. Poi alle sei si usciva dal campo. Si usciva per il lavoro e si lavorava fino a mezzogiorno. Ognuno, quelli che lavorava nelle officine.. ognuno al proprio posto di lavoro si lavorava fino a mezzogiorno.
Io prima, come ho detto prima, ho lavorato in quarantina. Poi quando è finita la quarantina sono andato in cava. Poi dalla cava mi hanno levato. Altri comandi. Però la giornata di lavoro era sempre quella. Si lavorava fino a mezzogiorno.
Poi sul posto di lavoro portavano questa famosa zuppa tedesca che come vi ho detto prima non era buona. Poi era diventata buonissima. Io dalla fame che avevo se me ne davano dieci gamelle le avrei mangiate tutte. Ecco, questa gamella così buona. Poi era diventata buona. Poi era bella calda. Guarda, loro la portavano sul posto di lavoro in quei bidoni grandi e poi la distribuivano con un mestolo. Era anche caldissima.
Ecco, noi che si prendeva in mano questa gamella così calda. Noi che si lavorava all’esterno sempre al freddo. Quando prendevi in mano questa gamella così calda ti sentivi ancora prendere a circolare il sangue nelle vene perché così calda per noi che avevamo le mani così fredde perché sempre a lavorare al freddo. Era diventato una cosa molto bella questa gamella così calda. Aveva ragione quello delle SS che ha detto: “Così buona”. Era diventata così buona che..
Poi, il nostro lavoro, la fermata per la zuppa era quel venti minuti, mezzora. Poi si incominciava a lavorare fino alla sera. Alla sera si entrava in campo alle sei. Le adunate all’esterno. Prima sul piazzale. Poi all’esterno delle baracche. Ecco, all’esterno delle baracche succedevano queste cose; che i kapò si divertivano anche loro.
Come vi ho raccontato prima la storia del numero, poi la storia del cappello. Davano quegli ordini lì: “cappello su e cappello giù”. Lì loro tutti attenti a vedere che quando davano l’ordine “cappello giù” dovevamo tutti assieme levare il cappello perché a quello fuori tempo andavano là e lo picchiavano. “Cappello su”, anche lì, quello fuori tempo prendeva sempre botte. E questi lo facevano per divertirsi loro perché loro sghignazzavano, ridevano, ti picchiavano, ti insultavano.
Poi finalmente quando davano l’ordine di entrare in baracca. Non è che andare in baracca si andava subito. Bisognava andare a lavarsi bene gli zoccoletti perché magari erano infangati. Perché se entravi in baracca così sporco ti picchiavano e ti mandavano indietro. Forse i primi giorni le abbiamo prese, ma dopo poi l’abbiamo imparata la lezione. Si andava a lavarsi. Noi già intirizziti dal freddo, lavarsi ancora con l’acqua fredda così.. pensate alle sofferenze.
Ecco, poi quando si aveva la fortuna di entrare in campo ti davano la tua razione di cibo della sera. Alla sera davano il pane. Davano la nostra fetta di pane. Ecco, il pane tedesco era un chilo.
I primi tempi ne distribuivano in tre parti e allora poteva anche non bastare, per l’amor di Dio, ma era già una buona parte. Poi ti davano una fetta di salame. Al lunedì e al martedì una fetta di salame. Sarà stata trenta grammi di salame. Al mercoledì una fettina di margarina. Al giovedì ancora il salame. Al venerdì un cucchiaio di margarina, un cucchiaio di ricotta. Al sabato ancora margarina e alla domenica una fettina di salame e una fettina di margarina o un cucchiaio di ricotta o di marmellata. Erano quelle cose lì.. Dovete sapere che questo era il cibo per tutta la giornata, diciamo..
Poi a lungo andare queste fette di pane. Perché alla fine del ’44, poi è incominciato il ’45, forse per i bombardamenti, forse per le ritirate che anche i tedeschi facevano, il cibo diminuiva sempre. Dovete sapere che negli ultimi mesi questa pagnotta veniva divisa anche in dieci, anche in dodici e anche in sedici. Era diventata proprio una fettina così.. Ecco perché anche negli ultimi tempi la mortalità è aumentata così tanto.

D: Ascolta, tu dicevi che la tua baracca era la sedici.

R: Sedici. In quarantena.

D: In quarantena. Poi è diventata?

R: La dodici.

D: La dodici. La baracca ventisette che baracca era?

R: L’infermeria.

D: E lì cosa facevano Angelo?

R: Io sono stato ricoverato in infermeria tre volte. Nella baracca d’infermeria io sono stato anche operato. Perché quando ero pieno di scabbia che poi mi ha fatto infezione.. Allora ho dovuto marcare visita perché poi non riuscivo più neanche a camminare perché avevo dei foruncoli grossi proprio qui sotto le gambe e oltre la febbre facevo fatica anche a camminare.
Noi avevamo paura ad andare in infermeria perché si vedeva che tanti che andavano in infermeria non ritornavano più. Invece quando sono andato in infermeria mi è andata bene perché.. Io devo dire che quando alla mattina mi hanno portato là.. perché ci portavano in un posto dove c’erano gli ufficiali medici. C’era uno anche delle SS oltre agli ufficiali medici dell’infermeria. C’erano anche dei prigionieri che erano dottori. Lavoravano in infermeria.
Lì, c’era quell’ufficiale delle SS. Mi ricorderò sempre. Mi dice.. Perché noi si andava in infermeria e quando si fa questa visita di controllo, eravamo là vestiti, e lui ha visto che ero italiano e mi dice: “Di che città sei?”.

D: Parlava italiano?

R: Sì, ha parlato in italiano: “Di che città sei?”. Io gli ho detto di Milano. Poi sono venuto a sapere che era un medico italiano che aveva sposato un’austriaca e si era arruolato nelle SS. Questo lo sono venuto a sapere poi. Però da quello che ho saputo anche da quelli che come il dottor Carpi, che lui anche sono stati tanto tempo in infermeria che faceva questi disegni, Cercava di aiutare un po’ gli italiani.
E lui mi dice: “Cos’hai fatto?” e io ci ho detto: “Avevo la scabbia. Poi mi ha fatto infezione”. “Allora fammi vedere”. Allora ho abbassato i calzoni e gli ho fatto vedere. E lui mi ha detto: “Non aver paura. Ti manderemo fuori guarito”. E così e stato.
Io lì sono entrato in infermeria e sono stato operato. Mi hanno messo la maschera. Poi sono stato operato. Poi sono stato medicato. E lì in infermeria mi è andata anche bene perché mi davano anche da mangiare. Perché tante volte quelli che erano in infermeria gli davano più razioni da mangiare. Forse l’avrà ordinato lui, quello lì delle SS.
Praticamente io sono stato ricoverato forse un dieci o quindici giorni, non mi ricordo bene adesso, sono uscito che mi ero ripreso abbastanza bene. Per me l’esperienza della baracca ventisette mi è andata bene.
Però nella baracca ventisette c’erano quelli che poi ho saputo che ci davano da mangiare. Poi li tiravano su un po’. Poi li mettevano nell’acqua per vedere quanto potevano resistere, cioè, era un po’ per fare degli esperimenti. Per vedere quando venivano battuti gli apparecchi tedeschi nella manica. Per vedere quanto un pilota poteva sopravvivere. Perché loro fino a che avevano la speranza che uno poteva sopravvivere allora vedevano un prigioniero, lo mettevano lì per poter vedere quanto poteva resistere. Per poterli recuperare nella manica. Ecco, erano tutte queste cose.
Invece il blocco trentuno. Dove è stato regolato il blocco trentuno era brutto. Quelli là li eliminavano. Punture di benzina, così. Là era per la diarrea, per quelle cose lì. Malattie più brutte diciamo.

D: Ti ricordi di aver visto il forno crematorio?

R: Si beh, si senz’altro. Poi non c’erano problemi per avvicinarsi al forno crematorio. Potevi avvicinarti perché non cerano delle cose che lo vietavano. Potevi passare vicino al forno crematorio.
Quando lavoravo al kartoffelkommando avevamo un carro dove mettevamo su quelli che massacravano nella giornata e portavamo questo carro fino all’esterno del crematorio. Poi li lasciavamo li e poi li scaricavano quelli addetti al crematorio, questi prigionieri, per il crematorio.
C’erano morti e moribondi sul carro, perché li massacravano di botte così tanto che insomma..

D: Angelo tu hai lavorato anche in cava?

R: Si, in cava.

D: A Gusen?

R: Si, 10 giorni.

D: Cosa vuol dire lavorare in cava?

R: Guarda io ho lavorato in cava 10 giorni. Dopo la quarantina, quando mio fratello è partito per le officine è stato a Schwechat, Mödling e poi mio fratello non l’ho visto più fino a quando sono ritornato a casa.
Ecco, lavorare in cava! Lavorare in cava vuol dire una cosa terribile. Guardate, io in cava ho lavorato una decina di giorni; ho capito che ormai ero alla fine. Perché in cava uno poteva resistere un mese, un mese e qualche giorno, due mesi ma poi non ce la faceva più. Il lavoro era massacrante, c’erano i capi più cattivi; i kapò più cattivi. E non trovavi neanche un filo d’erba da mangiare perché io che ho lavorato in giro per i campi, tanta erba, quei tipi di insalata selvatica ne ho mangiata tantissima, ma in cava non puoi mica mangiare le pietre. In cava non c’erano i fili d’erba. In cava c’erano botte, lavori e basta.
Il lavoro era svolto così in cava: c’erano dei minatori specializzati che piazzavano le mine, queste mine scoppiavano alle 10,00, a mezzogiorno, alle 15,00, alle 18,00 alla sera. Ecco voi dovete sapere alle 18,00 alla sera, i prigionieri rientravano e scoppiavano le mine. Però il materiale che veniva giù preparavano il lavoro per quelli che andavano alle 06,00 alla mattina. A mezzogiorno intanto che mangiavi quel quarto d’ora di fermata, scoppiavano le mine. Alle 10,00 ti facevano ritirate.
Ecco alle 10,00, quando fischiava questo fischio, ritiravano i prigionieri e facevano scoppiare le mine. Però dovete sapere che tutto il materiale che cadeva tra uno scoppio e l’altro doveva essere portato via tutto. C’erano le pietre grosse e quelle venivano portate vicino allo scalo merci e lì poi venivano caricate sul treno. Allora quelle servivano per fare fortificazioni o altre cose. Invece quelle medie venivano messe sui vagonetti e poi questi vagonetti venivano spinti nel frantoio; perché lì a Gusen c’era un frantoio. Queste pietre venivano frantumate, erano le famose ghiaie che servono per le massicciate ferroviarie. Tutti questi lavori dovevano esser svolti.
Dovete sapere che per portarle in questi posti, o alla massicciata per essere portate via col treno, o sui vagonetti, c’erano dei ponti obbligati e per passare di lì c’erano questi kapò che picchiavano sempre.
Ecco perché in cava era difficile, impossibile resistere; perché erano delle grandi botte massacranti. Perché quelli picchiavano, allora le bastonate non era come la sera che ti mettevi lì con il sedere per aria e te le davano sul fondoschiena. Ma quando picchiavano sul lavoro dove andavano? Andavano sulla testa, sulla schiena, sul collo, dappertutto; dove cadevano questi colpi che erano picchiati con violenza micidiale.
Ecco perché tanti alla sera, quando rientravano in campo, erano così massacrati che poi li portavano direttamente al crematorio.

D: Perché poi tu non hai più lavorato in cava?

R: Non ho più lavorato in cava perché una mattina che ero lì in fila, ero lì in fila per uscire, e io capivo che non ce la facevo più, non potevo più resistere perché era una cosa impossibile resistere, ero lì in fila quando lo schreiber che ci contava lì sul piazzale del campo, ci conta sempre a cinque a cinque, arriva davanti a me si ferma e dice: “wieviel jahre?” che significa quanti anni hai, e io mettendomi sull’attenti perché questa era la prassi, rispondo 17 anni. Allora lui mi prende fuori e mi dice “in cava bisogna avere 18 anni per andare”. Allora in cava non mi hanno più mandato a lavorare, per me è andata bene; mi hanno salvato diciamo. Perché anche quello lì era uno schreiber polacco, perché questi schreiber polacchi tante volte mi davano l’impressione che cercavano di aiutare a salvare qualcuno. Erano prigionieri anche loro, erano prigionieri politici.
Io poi soltanto li in baracca ho fatto il garten kommando, altri comandi e via. E’ andata bene perché io…
Però io ero sempre nella baracca 12 dove c’erano quelli che lavoravano in queste cave. Ecco perché vedevo che in cava in poco tempo, poi lì nelle baracche e anche nelle cave c’erano quei kapò lì che erano cattivi, tremendi. C’era Otto che picchiava sempre, lui non picchiava mai con il bastone. Lui picchiava sempre con i pugni e sempre nel basso ventre. Sghignazzava come un matto e finché uno non vomitava non smetteva di picchiare. Era terribile quell’Otto lì. Poi un bel giorno è sparito e non si è più saputo quello che abbia fatto, però ho saputo che è sparito perché era un omosessuale ed è andato insieme a qualcuno, erano cose vietate e l’hanno fatto sparire e l’hanno ucciso.

D: Angelo, il giorno di Pasqua del ’44, che cosa è successo?

R: E’ successo quel tentativo di fuga di Nada Luigi, quel piemontese. Eravamo ancora in quarantina e lui aveva pensato di nascondersi in una baracca, era una baracca sul posto di lavoro non dentro nel campo, sul posto di lavoro lui ha pensato che lì dove mettevano tutti gli attrezzi, i badili, tutte quelle cose, lui si è nascosto lì, aveva fatto dei sacchi, aveva fatto come delle cose di tela, dei vestiti e lui ha detto: “qui di notte quando ritirano le sentinelle”, lui aveva pensato di fuggire.
I suoi amici dicono che era uno che aveva sempre nella testa la sua famiglia, ed aveva sempre nella testa questa cosa qui di fuggire.
Io non lo conoscevo ancora e non l’ho neanche mai conosciuto.
Praticamente quella sera lì, alla fine del lavoro, quando ci allineano tutti lì ancora sul posto di lavoro, perché allora ci allineavano tutti lì per il primo appello. Perché loro ci allineavano qualche dieci minuti prima del sei, perché alle sei dovevamo entrare in campo e poi ci contano. Perché loro dalle SS se hanno avuto tutti questi prigionieri, loro i prigionieri dovevano portarli in campo. O vivi o morti dovevano portarli in campo, perché quelli che uccidevano li dovevano portare in campo. In campo dovevano entrare anche i morti, ecco perché c’erano quei carichi dove mettevano questi morti, perché là li contavano. Se questo commando usciva con cento prigionieri, cento ne dovevano rientrare; o morti o vivi.
Lì ne manca uno, e loro ci contano due o tre volte e poi partono alla caccia con i cani lupo, questi kapò. Sono arrivati due o tre comandanti della SS, fino a che l’hanno trovato. Non ci hanno messo molto a trovarlo perché i posti da cercare, saranno entrati in questa baracca e lo hanno trovato. Praticamente l’hanno trovato e lo hanno portato in mezzo a noi che perdeva sangue dappertutto. Chissà le botte che gli hanno dato. E poi lo hanno incolonnato ancora; è entrato in campo con noi. Ormai gli altri comandi erano rientrati in campo e noi siamo rientrati per ultimi. Quando siamo rientrati, perché quando rientrano tutti in campo rientrano le sentinelle che ci sono esterne.
Questo era il giorno di Pasqua. Quel giorno di Pasqua non abbiamo lavorato fino a sera. No non fino a sera ma qualche ora prima ci hanno fatto rientrare. Poi l’hanno messo lì, è venuto quello delle SS e ha dato l’ordine di farlo fuori, perché l’ordine doveva darlo quello delle SS.
L’hanno fatto prendere da quattro di Torino, l’hanno fatto portare al wascheraum e l’hanno fatto annegare nell’acqua. Tanti dicono la botte, tanti dicono…, ma io la botte non l’ho mai vista però lo hanno fatto annegare nell’acqua. Praticamente l’anno fatto annegare nell’acqua, quelli gli hanno tenuto giù la testa un po’ poi non ce l’hanno fatta più e poi gliel’hanno tenuta giù i kapò. Lui ha avuto ancora quell’attimo che ha avuto la forza di tirare su la testa e le ultime parole sono state: “mio Dio, mia moglie e i mie figli”. Poi i kapò gli hanno tenuto giù la testa ed è morto così.
Poi questo morto lo hanno messo all’esterno della baracca e ci hanno fatto girare in giro tutti noi. C’era quello tedesco che parlava e l’interprete che lo diceva in italiano, che è questa: “E’ la sorte riservata a tutti coloro che tenteranno la fuga o che si ribelleranno.” E infatti io, nel periodo che sono rimasto lì, ho visto dei casi di tentativi di fuga o di ribellione e hanno fatto la stessa fine. Anzi, ho visto un italiano che si era ribellato ad un kapò, l’hanno massacrato di botte e poi è venuto quello delle SS e gli ha sparato un colpo di pistola, uno per ginocchio. Poi lo hanno lasciato morire lì così ed alla fine lo hanno messo nell’acqua. Ma penso che quando lo hanno messo nell’acqua era già morto.
La prassi di mettere nell’acqua c’era sempre in tutti i tentativi. Vedi che anche quel generale russo lo hanno congelato vivo? Era una cosa che a loro forse faceva parte del loro modo di pensare.

D: Angelo e atti di solidarietà?

R: Si anche quelli ne ho visti tanti e molto importanti. Guarda se non c’erano atti di solidarietà io…….
Il primo atto di solidarietà è stato in quella famosa baracca, quando io e Galbani stavamo mettendo il verde in giro ad una baracca della Wehrmacht, dei soldati tedeschi.
Eravamo all’ingresso di Gusen II e lì c’era una baracca dove mettevano questo, perché lì mettevano, quando ritiravano questi soldati dal fronte, allora cercavano questi battaglioni di ricostruirli e allora li tenevano lì quei 15-20 giorni. Noi stavamo mettendo il verde in giro a questa baracca. Io e Galbani eravamo solamente noi di prigionieri, poco distante da noi c’era un gruppo di SS, e quando all’interno della baracca sentiamo questa voce che dice: “It”. Forse lui era da diversi giorni che ci curava, E per trovare l’occasione prima di tutto in baracca non ci doveva essere nessuno perché per quello penso che anche loro avevano paura perché c’è sempre la spia. E io faccio per guardare e mi dice: “no stai giù, stai giù, di dove siete?”.

D: In italiano?

R: Si, parlava in italiano. “Di Milano”, “andate dove portate lo sporco che ho messo là un pacco per voi”.
Io questo soldato tedesco non l’ho mai visto. Ho sentito la sua voce, parlava in italiano. Dove c’era il posto della pattumiere abbiamo trovato un pacco per noi. C’era del pane, della margarina, qualche fettina di salame. Noi per diversi giorni, almeno 5 o 6 giorni abbiamo trovato questo pacco per noi. Non abbiamo mai saputo chi era questo soldato. Ecco perché io non accetto mai di parlare male dei tedeschi, perché anche se in quel periodo hanno avuto una dittatura, che era anche forse una maggioranza del popolo tedesco, però c’era anche una parte del popolo tedesco che……
Altra solidarietà di tedeschi l’ho avuta dai prigionieri medesimi, però questo era un soldato.

D: Che tu non hai mai visto.

R: Non ho mai visto. Sarebbe stato molto bello se io dopo la liberazione……. Perché lui era lì, poi da lì è stato mandato al fronte. Può darsi che sia morto in guerra, può darsi che sia un sopravvissuto. Se è un sopravvissuto anche lui si ricorderà di queste cose. Però queste cose di solidarietà che sono successe sono molto importanti.
Poi ne ho dentro anche da prigionieri, anche da prigionieri politici austriaci, anche polacchi, anche di solidarietà spagnoli. Tra di noi ce n’è stata tantissima. Anche di noi italiani insomma. La solidarietà in quei posti aiuta molto.

D: Lì stavi accennando a spagnoli ed austriaci, dentro a Gusen c’erano italiani, quindi spagnoli.

R: Si ce n’erano tanti. Si può dire che c’erano oltre gli spagnoli, i francesi, polacchi, russi. Allora erano ancora lituani, ce n’erano anche di quelli. C’erano olandesi, belgi; ce n’erano un po’ di tutti.

D: Come facevate a capirvi?

R: Tra di noi c’era come una lingua internazionale. Potevo incontrare qualunque prigioniero poi io giovane imparavo bene le cose. Poi c’era un russo che lavorava con me che lui parlava quasi l’italiano. Ma sai com’era bravo Fiodorov? Poi lui aveva una mania per la lingua italiana. I miei amici principali sono stati anche quei russi, perché quando ero al garten kommando lavoravo anche al kartoffelmittel con Fiodorov, con Pavan, con Signorenko, con questi russi, con Paullo. Ma quel Fiodorov studiava da ingegnere e lui aveva proprio la mania di imparare la lingua italiana. Quando io e Galbani si parlava e lui sentiva qualche parola nuova mi diceva: “Cosa vuol dire questo? Cosa vuol dire quello?”. Ma sai com’era bravo? Anche lui chissà se sarà sopravvissuto, perché negli ultimi giorni è stato in reparto infermeria. Non so che fine abbia fatto. Poi un bel giorno è arrivata la Croce Rossa russa, dopo la liberazione, e i suoi prigionieri se li è portati via. Io non ho più avuto l’occasione se Pavan, Fiodorov siano sopravvissuti. Erano proprio… ma che bravi.

D: Anche questo è uno dei deportati politici?

R: Si lui faceva il partigiano. Lui è stato preso a 70 Km prima di Leningrado. Ma con noi italiani lui aveva il debole. Ci volevamo molto bene tra di noi, ci siamo aiutati molto.

D: Ascolta, poi arriva il maggio del ’45. Cosa succede nel maggio del ’45?

R: Nel maggio del ’45 la prima cosa che succede è stata quella che le SS una mattina noi non la vediamo più. Al posto della SS ci sono la Wehrmacht, cioè l’esercito tedesco. Tutti piuttosto anziani e loro hanno detto di non tentare niente che loro hanno l’ordine di tenere la disciplina e basta. Di stare lì e di non fare niente.
Infatti le SS, questi soldati così coraggiosi, così tremendi che per comandarci a noi …… allora non sono stati lì a difendere anche le loro idee. Coraggiosamente se la sono filata anche loro. Questa qui è una cosa da dire, perché loro hanno messo i vestiti in borghese e sono fuggiti. Avevano già i posti dove andare.

D: Voi sapevate che era imminente la liberazione?

R: Si perché a noi è andata bene, perché noi con più si sentiva avvicinare il cannone, perché era ormai da diversi giorni che si sentivano i colpi di cannone che si sentivano sempre più bene e significava che si stavano avvicinando. Perché noi avevamo anche la grande paura perché circolavano anche le voci che ci facevano fuori tutti. Per noi è stata una grande soddisfazione quando non c’è più stata la SS e c’è stata la Wehrmacht. E allora abbiamo avuto la speranza che la SS non ci facesse fuori e infatti. Perché la SS ci aveva dato l’ordine, da quello che si è sentito dire, di farci fuori. Ci dovevano far andare sotto le gallerie di Gusen, erano già minate e farle scoppiare. Ci ha dato l’ordine l’esercito alla Wehrmacht, però questo generale non ha eseguito questo ordine e a quanto pare abbia avuto anche un encomio dagli alleati.

D: E quando sono arrivati?

R: Il 5 maggio. Cioè la notte del 4 maggio c’è stato un cannoneggiamento. Lì dove c’è Gusen, noi guardiamo dietro dove ci sono le cave di Gusen, lì sopra era piazzata una batteria di cannoni tedesca. E quella notte c’è stato un forte cannoneggiamento, si sentivano i cannoni che sparavano e gli americani che rispondevano. Poi verso le 02,00 – le 03,00 c’è stato silenzio e allora noi la mattina, guardando verso la batteria tedesca, era completamente distrutta.
Gli americani avevano attraversato il Danubio e alla sera verso le 17,00 sono arrivati lì.

D: Dove ti trovavi?

R: All’esterno delle baracche. Si vedevano questi kapò, questi delinquenti diciamo, che erano sempre così spavaldi anche loro e gli ultimi giorni, quando si è ritirata la SS, si vedeva che parlavano tra di loro, che avevano paura. E allora cercavano di organizzarsi perché avevano paura che li facessero fuori anche loro.
Infatti, noi verso le cinque, come ho detti prima, si sente dire che sono arrivati gli americani. Pensate che cinque minuti prima noi in tutte le baracche, non eravamo radunati sul piazzale, in ogni baracca i kapò tenevano radunati i loro prigionieri e loro cercavano di tenerli lì e di fuggire subito. Loro avevano pensato a questo sistema.
Pensate che alle cinque meno cinque un russo che era là in piedi e non ce la faceva più a stare in piedi, è caduto per terra e l’hanno massacrato di botte. Questo alle cinque meno cinque. Alle cinque senti dire che sono arrivati gli americani e allora come si sente dire questo è cominciato il linciaggio dei kapò. I russi che avevano lì i kapò li hanno fatti fuori subito. E quella sera lì è successo un po’ il finimondo.
Gli americani che cosa hanno fatto? Hanno preso prigionieri questi soldati anziani, le armi le hanno buttate e poi hanno buttato su un po’ di benzina ed hanno dato fuoco. Poi gli americani sono partiti ed hanno portato via i prigionieri, quelli della Wehrmacht e poi non si sono più visti per qualche giorno. E allora i prigionieri russi, spagnoli, quelli fisicamente più in gamba hanno preso un po’ di armi hanno circondato il campo e poi c’è stata la caccia ai kapò. I kapò hanno cercato di fuggire ma hanno trovato dei prigionieri armati che li avrebbero fatti fuori perché li conoscevano; quella sera lì è successo il massacro perché tanti kapò sono stati uccisi.
Poi oltre ai prigionieri c’è stata la caccia anche al cibo; c’è stato l’assalto alla cucina. Io così giovane mi sono lanciato in cucina per cercare, dalla grande fame che avevo, e poi quasi ci lascio anche la pelle perché ci sono stati tanti morti quando c’è stato l’assalto alla cucina perché tutti ti schiacciavano lì…

D: Ripeti, l’assalto alla cucina….

R: C’è stato l’assalto alla cucina e io inconsciamente mi sono lanciato anch’io all’assalto. Guardate, tanti sono morti e io quasi non ce la facevo più ad uscire perché tutti ti spingevano. Sono arrivato dove c’era il bidone della ricotta e della marmellata, prendevo le mani di ricotta e di marmellata per mettermele nella bocca ma non sono mai riuscito di mettermele in bocca perché quelli dietro di me mi portavano via tutto. Una cosa assurda. Alla fine mi è andata bene che sono riuscito ad uscire fuori vivo da quel casino lì. E’ stato un errore che ho fatto anche io di lanciarmi all’assalto alla cucina; per la fame. E’ stata la grande fame.
Poi alla fine io e Galbani siamo andati dove c’erano i conigli per cercare di mangiarne qualcuno. Siamo andati verso le gabbie dei conigli e sul percorso ho trovato Richard, che era un kapò della baracca 16, era tutto insanguinato anche lui mentre stava fuggendo. Aveva in mano un coltello. Allora io e Galbani siamo fuggiti dentro ad una baracca perché noi eravamo disarmati. Poi abbiamo trovato un gruppo di russi che lo cercavano e che ci dicevano che era scappato, poi lo hanno inseguito e non so se lo hanno preso.
Praticamente noi siamo arrivati alle gabbie dei conigli e i conigli erano spariti tutti. Alla sera della liberazione io e Galbani, ho trovato un russo un mio amico, non Fiodorov, perché Fiodorov era in infermeria, perché se era Fiodorov, un altro di quei russi con cui ho lavorato insieme mi ha dato la testa del coniglio, mi ha dato anche troppo.
Allora noi abbiamo preso due o tre patate, siamo andati al deposito delle patate, abbiamo fatto cuocere questa testa del coniglio con le patate nell’acqua sporca, perché erano saltate tutti i rubinetti e l’acqua non c’era più. Allora c’era un po’ di pozzanghere d’acqua e abbiamo fatto cuocere un po’ tutto; questo stato quello che abbiamo mangiato noi il giorno della liberazione.
Per gli altri giorni dovevamo arrangiarci perché gli americani sono tornati dopo quattro o cinque giorni. Dopo ci hanno rastrellato, ecco perché tanti sono morti ancora dopo la liberazione, perché ognuno quello che trovava tanto da mangiare mangiava tanto e poi moriva, quello che trovava poco mangiava poco però………
Però non era colpa degli americani, perché di campi di concentramento lì ce n’erano tantissimi e in tutti posti dove andavano ne trovavano e trovavano gente affamata da curare e via. E loro dovevano andare avanti anche a fare la guerra e per quello ne sono morti tantissimi anche dopo.

D: E che cosa pensavi in quel momento lì?

R: Dalla liberazione? Si era contenti e tutto, si cercava di sopravvivere. Però il nostro pensiero era si per i genitori, per tutti e per tutto, ma il pensiero più forte era quello di trovare da mangiare. E’ una cosa assurda dirla oggi, ma in quei momenti là…
Sai in quante baracche siamo andati a svaligiare ma c’erano sempre vestiti. Ho buttato via anche la divisa e mi sono vestito di quei vestiti lì che trovavo nelle baracche. Perché lì c’erano tantissime baracche piene di vestiario, perché erano tutte cose che portavano via dall’Italia o da altre nazioni.
Ma noi cercavamo da mangiare e da mangiare non ne trovavi più. Alla fine per mangiare dovevi andare ancora al deposito delle patate e far cuocere qualche patata sempre con l’acqua sporca.

D: E la gente che abitava lì attorno?

R: Case ce n’erano poche. Poi siamo andati anche nelle famiglie e c’è stata una famiglia, ecco questa me la ricorderò sempre. C’è stata una donna piuttosto anziana che ci fatto entrare, a me e a Galbani, ci ha fatto da mangiare una pastasciutta dolce. C’era anche Terzi insieme e abbiamo mangiato questa pastasciutta dolce. Poverina, questi ci hanno raccontato un po’… però lei ci ha accolto bene, magari se l’è levato di bocca lei per darcela a noi.
Ma a noi era un fame che anche se mangiavi qualche cosa ce l’avevi sempre. Poi sono andato verso il Danubio, perché ci siamo allontanati un po’ dal campo, e abbiamo trovato le lumache. Là ce n’erano tantissime, ma sai che estensione di lumache che c’era? Poi abbiamo acceso il fuoco e le abbiamo fatte cuocere in mezzo al fuoco.
Ecco perché ne sono morti ancora tanti. E anch’io dopo mi sono ammalato e quando sono venuti gli americani alla fine mi hanno ricoverato in infermeria.

D: E poi il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa anche questo. Perché io quando sono ritornati gli americani, no il giorno prima del ritorno degli americani…
Quando sono venuti gli americani ci hanno portati in baracca, poi ci hanno curato, ci hanno visitato e disinfettato con nuvole di ddt. Poi hanno cominciato a darci da mangiare qualche cosa e ci hanno visitato e mi hanno detto che io dovevo essere ricoverato in infermeria perché stavo male, avevo la diarrea. Erano state le lumache e tutte quelle porcherie che avevo mangiato in giro; la carne del cavallo cruda. Più che altro è stata la carne di cavallo, quando ci siamo radunati all’esterno delle officine della Steyr, noi italiani abbiamo requisito un cavallo e lo abbiamo macellato e mangiato. E quella carne lì mi ha rovinato, per me è stata la carne di cavallo che i ha rovinato.
Il giorno prima che mi ricoverassero in infermeria è venuto il Giuliano Paietta, che era a Mauthausen, è venuto a prendere il nome dei deportati sopravvissuti di Gusen.
Lui aveva la lista dei sopravvissuti e gli ho detto se c’era Signorelli Giuseppe e lui mi ha detto: “Sì, tuo fratello è a Mauthausen”. “Allora digli che domani devo essere ricoverato in infermeria e se può venire a trovarmi, perché io non posso andare a trovarlo”. E allora io il giorno dopo sono stato ricoverato in infermerie e come sono stato ricoverato sono andato quasi in coma. Sono stato più di 20 giorni in quelle condizioni. Io non conoscevo più nessuno. E’ stato lì anche mio fratello a trovarmi, perché il Paietta è andato là e poi dopo tre o quattro giorni ha preso un soldato americano e ha portato mio fratello in camionetta ed è venuto a trovarmi. Mi ha visto in che condizioni ero e voleva stare lì però l’americano gli ha detto che aveva l’ordine di riportarlo indietro e l’ha riportato indietro. Lui è rimpatriato 15 giorni prima di me tramite la Croce Rossa svizzera e non ha detto a mia mamma in che condizioni ero perché non sapeva se ce la facevo.
Poi il fatto è successo così: dopo diversi giorni, una mattina, gli americani hanno cominciato a fare la penicillina. Loro ce l’avevano già e l’avevano data in infermeria, però i dottori polacchi la facevano ai suoi più che ai nostri. Però un mio amico italiano l’ha saputo ed è andato in infermeria a fare un po’ di baccano e gli ha detto di farla anche agli italiani perché se no avrebbe avvisato il comandante americano.
Così me l’hanno fatta. Mi ricordo che una sera mi hanno fatto quella puntura lì e succede che la mattina verso le 04,00 mi sveglio, ero uscito forse dalla mia fase di coma. Poi mi hanno detto che in quelle condizioni sono stato 27 giorni, ma io come se fosse stato un giorno. Io apro gli occhi, guardo in giro e la prima cosa che mi colpisce è stato il lenzuolo bianco. E mi sono chiesto: “Dove sono qua?” Poi la seconda cosa: una grande fame che ho addosso, una fame, una fame, una fame.
In fondo alla baracca c’è un lumino acceso e come vedo questo lumino con la grande fame che ho, ho pensato di andare là per cercare da mangiare. Io ero sul castello ma a pian terreno, esco, mi metto in piedi ma debole com’ero sono caduto per terra. Allora quando l’infermiere di turno ha sentito è venuto lì e mi ha sgridato dicendo: “italiano stai a letto, ma che cosa fai?” “Ho fame, ho fame” “Hai fame ma stai a letto, non mangi niente”. Poi mi ha messo a letto ed è andato a chiamare il dottore. Il dottore mi guarda, hanno parlato tra di loro e ho capito che erano contenti e che stavo un po’ bene. Però loro non mi davano da mangiare; io avevo fame, continuavo a cercare da mangiare. Poi succede che la mattina mi danno un po’ di caffè da bere, ma da mangiare non mi danno niente. Al pomeriggio, quando Galbani viene dentro, perché veniva tutti i giorni a trovarmi. Mi portava un po’ di miele, un po’ di zucchero per mettermelo sulle labbra. Mi faceva mangiare un po’ di biscotti. Ecco io quando c’era Galbani, anche se ero incosciente, io me lo sentivo che era lì vicino. Quando c’è stato mio fratello io non ho percepito niente, però veniva Galbani, forse avendo lavorato tutto quel periodo insieme, io capivo che era lì vicino. E allora gli dico: “Pino hai lì qualche cosa da darmi da mangiare? Ho fame.” E lui mi ha dato un po’ di biscotti, quello che aveva mi ha dato e io ho mangiato anche se i medici non avevano dato l’ordine. E poi mi dice: “Guarda che domani noi rimpatriamo. Dobbiamo andare a Mauthausen e poi ci portano. E tu non puoi partire con noi”. “Io vengo con te, io vengo con te”, “ma non puoi, non puoi”. “Tu mi lasci qui?”
Quando gli ho detto così è andato a parlare dicendo che io volevo tornare. E’ venuto lì il dottore a parlare e dice:” No vediamo” “Ma io ho fame, datemi da mangiare”.
Insomma praticamente poi ha fatto portare un po’ di tè con due o tre biscotti; si va bene era qualche cosa.
Viene il giorno dopo, io ero convinto mi hanno fatto firmare la carta e sono partito.
Pino e un altro di Lecco mi aiutavano a tenermi su, mi hanno messo su un camion.
Pensate, 4 km di strada partendo da Gusen per arrivare a Mauthausen, sono sceso da solo dal camion, solamente per la grande voglia che avevo per rimpatriare. Galbani e altri mi hanno dato un po’ di miele, tutto quello che mi davano io mangiavo. Ormai forse ero sulla strada buona insomma.

D: Poi sei rientrato in Italia.

R: Si sono rientrato in Italia. Quando siamo partiti da Bolzano ho detto all’autista del camion, perché da Bolzano a Milano l’abbiamo fatta in camion, gli ho detto: “Mi raccomando tutti i posti di ristoro che ci sono di fermarsi a mangiare perché io ho fame”.
A Trento poi, il primo posto dove mi sono fermato, mi davano risotto, pane, un panino o due. Ma io avevo sempre fame. Poi a Trento ho trovato quel prete che mi ha detto: “Così giovane così magro, da dove vieni?” “Da Mauthausen”. “Vieni dietro là” e mi ha dato un vino di quello buono che bevevano quelli che dicevano la messa. E’ il primo bicchiere di vino che ho bevuto. Ma io avevo sempre tanta di quella fame…..

D: Da Mauthausen e il rientro in Italia, chi è che l’aveva organizzato?

R: Gli americani lo hanno organizzato.

D: In treno?

R: In treno. Ci hanno portato a Linz, da Linz ci hanno dato un pacco viveri.
La storia del pacco viveri. Gli americani ci hanno dato un pacco viveri, ogni prigioniero un pacco viveri. In questo pacco c’erano scatolette di carne, biscotti; c’era di tutto. Anche delle sigarette.
Io, con quella fame che avevo, perché anche quando ero a Mauthausen avevo sempre fame, mi davano la mia razione ma però avevo sempre fame. Tanto è vero che una volta sono andato fuori a lavorare per darmi una razione doppia. Va beh. Come parte questo treno, in ogni vagone c’era un soldato americano che ci accompagnava. Io mi sono seduto in un angolino, non eravamo quaranta come quando siamo partiti, saremo stati una ventina. La prima cosa che mi hanno detto è stato: “Questo pacco viveri deve durare per un paio di giorni per arrivare fino a Innsbruck”, ma io con la gran fame che avevo mi sono messo in un angolino e senza accorgermi alla fine mi sono accorto che sono rimaste appena le sigarette. Le scatolette di carne e tutto il resto, mi sono mangiato tutto. E poi avevo fame ancora. Avevo le sigarette, ma io non fumo.
Poi il treno ha avuto anche la sfortuna che si è rotto, è stato fermo 24 ore perché hanno dovuto cambiare il pezzo della locomotiva. Lì c’erano dei vagoni con dei civili che rientravano, non solamente i prigionieri deportati; i prigionieri militari, i prigionieri che erano andati anche volontari a lavorare e che avevano le famiglie intiere.
E quando il treno si è fermato in quel posto lì, io ho cerato di andare avanti e indietro per vedere se qualcuno mi dava qualche cosa da mangiare, non ho trovato nessuno che mi ha dato niente. Poi ho trovato uno che io gli ho dato le sigarette e lui mi ha dato qualche patata; l’unico scambio che ho fatto.
Poi siamo arrivati a Innsbruck, finalmente siamo arrivati a Innsbruck, con una gran fame. A Innsbruck usciamo dalla stazione e ci portano in un campo di raccolta gestito dagli alpini italiani. Tutti gli italiani che rientravano dalla Germania lì li fermavano per organizzare e poi la cosa passava in mano agli italiani. Lì c’era questo campo che era gestito dagli italiani.
Io devo raccontare questo fatto perché…. Era fuori dalla stazione un paio di chilometri, ci hanno portato là, alla sera ci danno una pagnotta, una gamella con il risotto e un po’ di carne ad ognuno. Però è successa la solita cosa e cioè che io quando ho finito di mangiare, era una bella gamella di risotto, io avevo ancora fame, perché era una cosa guardate, forse io ero malato così, quella fame era come una malattia, ce l’avevo sempre. Allora dico a Galbani: “Io ho fame” e lui mi dice: “Non parlare” e io gli ho detto: “Andiamo a cercare da mangiare”. “E dove vuoi andare?”. “Andiamo dove c’è la cucina, forse qualche cosa troviamo. Se stiamo qui non mangiamo più”. E infatti partiamo, il campo era molto grande, poi la troviamo la cucina. Arriviamo in cucina, guardiamo lì di fuori, facciamo per entrare in cucina e c’è una sentinella italiana, un alpino italiano che non ci lascia entrare. “Perché volete venire in cucina?” ci chiede. “Perché ho fame” ci dico. “Ma te non hai mangiato la tua razione?”. “E si, ma ho fame ancora”. “Aspetta allora che vado a chiamare l’ufficiale di servizio della cucina”. Viene lì con questo ufficiale e mi dice “Ma te così magro” mi guardava poi ero magrissimo perché ero stato anche in infermeria tutto quel tempo lì “Ma da dove vieni?”. “Vengo da Mauthausen”. “Da Mauthausen venite?”. “Ho una gran fame”. “Ma la vostra razione?”. “E ce l’anno data, ma io ho sempre fame”. Allora parlano tra di loro e ci dicono di aspettare lì. Circa dopo 10 minuti arriva questo ufficiale alpino insieme ad altri due o tre ufficiali alpini e ci portano per ognuno una gamella così piena di risotto, due o tre pezzettoni di carne e un paio di pagnotte, a tutti e due. Io in 10 minuti, mezzora mi sono mangiato tutto. Adesso gli dico: “Adesso posso dire che sto proprio bene, adesso non ho più fame”. Quelli ridevano tra di loro, ridevano anche a vederci mangiare.

D: Lì avevi 18 anni?

R: Si. Ormai 18 anni.

D: Quanto pesavi?

R: Sarò stato sui 35 kg. 35-36. Ma forse con quella penicillina che ci hanno dato gli americani io ero guarito, però avevo fame.

D: Poi sei arrivato a Bolzano.

R: Si sono arrivato a Bolzano.

D: E a Bolzano dove ti hanno messo?

R: A Bolzano c’era tutto organizzato. C’era un posto che era gestito dalla Croce Rossa italiana o internazionale, non so. Poi ci hanno dato da mangiare, la nostra razione da mangiare. Anche lì avevo fame, però lì era quella. Poi si doveva partire.
Da Bolzano in avanti le linee ferroviarie erano tutte distrutte, però c’erano degli autocarri, camion e mezzi di fortuna che arrivavano a Bolzano e ogni regione prendevano i suoi. E lì ho avuto la fortuna di trovare il camion della Falck di Sesto San Giovanni. L’autista lo conoscevo, era Seveso, era uno operaio della Falck Unione. La prima cosa che gli ho domandato è stato: “Mio padre?”. “Si, ci sono tutti. Tuo padre, tua madre. Tuo fratello è tornato, ti aspettano a casa” mi risponde. Allora siamo partiti con quel camion e ho detto a Seveso: “Mi raccomando Seveso tutti i posti di ristoro che trovi sulla strada….”. Perché lui mi aveva detto che c’erano dei posti di ristori quando gli avevo chiesto se aveva qualche cosa da mangiare. “Allora tutti i posti di ristoro che trovi fermati perché io ho sempre fame” gli dico. E infatti così è stato. Ero amico dell’autista, il primo posto dove si è fermato è stato a Trento. Poi i posti gestiti dalle suore, perfino di notte in un posto sulla riva del lago di Garda gestito dalla suore. Perché lì erano preparati, arrivavano a qualsiasi ora. Erano forse le due o le tre di notte e anche lì ci siamo fermati e abbiamo mangiato pastasciutta o risotto, era sempre quello, un pezzettino di carne e una pagnotta e via.
Poi l’ultima cosa visto che siamo sul ragionamento del cibo. Finalmente arriviamo a Monza, quelli di Monza scendono a Manza. Io faccio la strada di Monza che va a Sesto che è la Via Borgazzi, e io dovrei scendere alla Bettola per andare a casa. Era mezzogiorno e Seveso mi dice: “adesso andiamo giù alla Falck che hanno preparato polenta e coniglio” e io ero lì nel dubbio. Volevo scendere perché ormai ero vicino a casa mia, ho fatto fermare il camion e ho detto: “io vado perché c’è mia madre”. Volevo vedere mia madre anche se avevo fame. Però ho avuto la fortuna di vedere fermo un ragazzo, l’ho chiamato e gli ho detto di andare a casa ad avvisare mia madre che io ero arrivato ma che adesso andavo a Sesto a mangiare. Lì si è deciso tutto.
Infatti sono andato a Sesto e ho fatto anche bene, perché c’era coniglio e ho mangiato abbastanza bene e tanto, l’importante era quello.
Poi l’ultimo pezzo l’ho fatto in bicicletta perché era un sabato e hanno trovato mio padre che lavorava, l’hanno avvisato è uscito ed è venuto lì. Invece c’era uno che lavorava vicino a me fino a mezzogiorno mi ha portato a casa; dalla Falck fino a Sant’Alessandro in bicicletta.
Là c’era tutta la gente che mi aspettava, è stato molto bello. Ho trovato mia madre, mio fratello, mia sorella, l’altro mio fratello e tutti gli altri. C’era tantissima gente e questo è stato il ritorno.

D: Ascolta Angelo, e poi il rientro, il rientro dai tuoi amici, nel posto di lavoro; il rientro alla vita, com’è stato?

R: Piano piano. Ho cominciato a lavorare forse nel mese di dicembre del ’45, perché prima ho dovuto curarmi e poi il ministero post bellico mi ha mandato su a Selvino e poi la Falck mi ha mandato a Baveno sul lago Maggiore. Comunque in quel periodo devo ringraziare tutti quelli lì perché hanno fatto tanto per noi.

D: Quando tu raccontavi, c’era gente che ti chiedeva del campo di concentramento?

R: Sì beh, quando siamo rientrati i primi giorni, i primi tempi, i famigliari di quelli che sono morti là, perché là ne sono morti tantissimi, venivano a casa e mi domandavano per avere notizie dei loro famigliari e io raccontavo. Tanto è vero che al primo che è venuto gli ho raccontato per filo e per segno, perché non avevo ancora imparato un po’ la malizia a raccontare queste cose, io ero giovane e ho raccontato tutto come lo hanno massacrato. E loro sono andati via sconvolti. Allora mio padre mia ha detto di non dire più quelle cose. Allora ho imparato un po’ a raccontare : “sì è morto perché il lavoro era tanto e da mangiare era poco. Qualche volta ti picchiavano”. Però il primo è stata una lezione e poi non ho più raccontato anche se ho visto delle morti spaventose, terribili, massacrati proprio… Però quei fatti lì non li ho più raccontati.

D: Angelo, Giovanni Sperandio però non è stato deportato?

R: Lui è stato ricoverato là ed è ritornato dopo quattro o cinque mesi.

D: Come mai?

R: Perché è stato ricoverato all’ospedale dagli americani. Lui era conciato…

D: E’ stato deportato?

R: Sì è stato deportato. Lui è finito a Ebensee. Lui era con me, è stato portato via con me, ha fatto Mauthausen, Gusen e poi lo hanno mandato al trasporto a Ebensee. Poi a Ebensee quando è c’è stata la liberazione degli americani lui era in infermeria.

D: Quindi ha fatto tutto il periodo di deportazione?

R: Sì. Quando è stato liberato dagli americani era in infermeria e poi era conciato così male perché lui…. Poi è ritornato in Italia, tanto è vero che io ai suoi genitori gli ho detto che era partito da Gusen e poi non ho saputo più niente di Giovanni. Non sapevo più niente, di sicuro non si sapeva più niente. Poi un bel giorno è ritornato. Poi è stato ricoverato in sanatorio, è stato diversi anni là.

D: Ascolta Angelo, tutto questo è partito perché tu con i tuoi fratelli ed altri operai eccetera avete fatto lo sciopero, nel ’44. Rifareste ancora lo sciopero?

R: Eh rifarei lo sciopero! In quel periodo bisognava fare qualche cosa, perché noi abbiamo riscattato anche l’onore della nostra patria con il nostro sacrificio, con le nostre sofferenze. Senz’altro soffrire ancora! Però in quegli attimi lì se non si faceva niente…
Invece noi con le nostre sofferenze, con i nostri sacrifici, con le nostre morti spaventose, con la lotta dei partigiani abbiamo riscattato il nome della nostra patria di fronte agli occhi del mondo.
Perché noi quando siamo arrivati a Mauthausen. Io sono stato uno dei primi italiani che è arrivato a Mauthausen. Noi italiani eravamo malvisti da tutti. Poi abbiamo detto che se eravamo lì non eravamo fascisti e che avevamo fatto anche noi la nostra parte.
Allora era giusto, in quell’attimo lì bisognava farlo quello sciopero. In quell’attimo lì bisognava fare la lotta partigiana. In quell’attimo lì bisognava soffrire insomma.

D: Angelo che cos’è la libertà?

R: La libertà è una cosa grande, bisogna tenerla da conto. Però la libertà non vuol dire schiacciare gli altri. La libertà e che sia libertà per tutti.

D: Angelo, che cos’è un lager?

R: Un lager è una cosa spaventosa. Poi quei lager lì erano cose brutte perché la persona in questi posti non esisteva più; la persona come persona umana. Lì esisteva un numero e questo numero era un numero da torturare, da farlo lavorare e da uccidere. I diritti non ne hai più. Eri un numero e finché rendevi qualche cosa ti lasciavano vivere. Perché ogni tanto quelli che non erano più in grado di rendere qualche cosa, di fare qualche lavoro li mandavano alla camera a gas. Il lager è la cosa più brutta che l’uomo ha creato.

D: Perché tu ogni anno ritorni a Gusen e a Mauthausen, al castello di Hartheim?

R: Perché noi a Mauthausen, a Gusen, in questi posti io quando sono ritornato in questi posti non avrei mai pensato che avrei avuto la forza di ritornare. I primi anni non ci sono ritornato, poi dentro di me ho cercato di ritornare per vedere. Perché noi in quei posti abbiamo lasciato una parte di noi. Io penso che in quei posti noi abbiamo lasciato una parte del nostro cuore, della nostra anima. Noi lì abbiamo lasciato i nostri migliori compagni. Noi ritorniamo anche per accompagnare le persone che vogliono andare in quei posti, perché tutti devono sapere che cosa è successo in quei posti per far sì che non risuccedano più queste cose. Abbiamo capito anche questo, perché ritornare, anche andare nelle scuole è stato un ritornare a vivere, ritornare a soffrire.
Io il primo anno che sono ritornato a Gusen dove ho sofferto così tanto ho sofferto ancora come quando ero là, però ho capito che era giusto ritornare. Anche andare nelle scuole ho sofferto, però era giusto andare. Quando ho scritto anche le mie memorie, le ho fatte con sofferenza. Però era giusto farle, perché le nuove generazioni devono sapere. Perché quando si perde la libertà si perde tutto.

D: Quindi secondo te è importante che i giovani sappiano?

R: Sappiano, conoscano e sappiano. Perché anche oggi che sono passati più di cinquanta anni, quando io vado nelle scuole tante volte mi lascio commuovere, mi lascio ancora prendere da grande commozione.