Todros Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Alberto Todros, nato a Pantelleria il 21.7.1920.

D: Quando?

R: 21.7.1920.

D: Alberto, i motivi dell’arresto, del vostro arresto.

R: Per individuare i motivi dell’arresto devo fare una premessa. Io sono figlio di un matrimonio misto tra un ebreo e una cattolica. Cattolica mia madre, ebreo mio padre. Durante la Prima Guerra Mondiale mio padre era di stanza a Pantelleria, ha conosciuto mia madre e si è sposato appena finita la guerra nel 1918, fine del ’18, inizio del ’19. Ha portato mia madre a Torino, per cui io sono nato a Pantelleria perché come tutti i siciliani, come tutte le donne siciliane, quando devono partorire, vanno presso i genitori a Pantelleria. Infatti anche mio fratello Carlo è nato a Pantelleria. Trasferiti a Torino, nel ’25 ho perso il padre, per cui ho vissuto con la madre, sostenuto dai nonni paterni. La vita è stata una vita di stenti, difficile, perché senza padre a Torino non era facile vivere. Però ho potuto fare gli studi fino all’università, quando ad un certo momento nel 1938 durante il fascismo sono state promulgate le leggi razziali. Qui c’è la prima origine del mio interessamento alla politica, in quanto essendo figlio di matrimonio misto, non battezzato perché i miei genitori avevano deciso che ci saremmo battezzati, avremmo fatto la scelta religiosa alla maggiore età, non battezzato, sono stato dalle leggi razziali dichiarato di razza ebraica. Perciò espulso da tutte le scuole pubbliche. Per poter continuare ho dovuto iscrivermi all’Istituto San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino, perché era ammessa, essendo mia madre cattolica, la possibilità di continuare gli studi nelle scuole private. Ho fatto il liceo scientifico e appena finito il liceo scientifico le leggi razziali erano già state promulgate, non avrei potuto iscrivermi all’università. Qui c’è un episodio importante della mia vita: essendo intenzionato a continuare poiché essendo dichiarato di razza ebraica col liceo scientifico non avrei potuto fare nulla come occupazione, mi sono recato al Politecnico dove ho incontrato il direttore amministrativo, che si chiamava Martini, al quale ho chiesto, essendo figlio di matrimonio misto, battezzato, perché mia madre mi aveva poi fatto battezzare, di iscrivermi al Politecnico, anche se dichiarato di razza ebraica. Naturalmente tralascio tutte le vicende, sono state vicende lunghe che mi hanno portato ad un colloquio col Preside del Politecnico, dopodiché hanno accettato che io mi iscrivessi al Politecnico prendendomi la responsabilità di dichiararmi di razza ariana. Mi sono iscritto al Politecnico e ho fatto il primo biennio. Però da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo che mi aveva così emarginato, creato mille problemi, dichiarato di razza ebraica anche se io mio padre lo avevo conosciuto fino a cinque anni, cioè per pochissimo tempo. Quando il Politecnico è stato bombardato io mi sono trasferito con la famiglia ad Imperia, ad Imperia Porto Maurizio dove ho continuato a fare dei viaggi di studio ad Acqui dove era stato trasferito il Politecnico. Viaggi che sono stati interrotti, perché durante un viaggio, io ero all’età della leva, però essendo dichiarato di razza ebraica ero stato escluso dal servizio militare, di conseguenza mi trovavo senza documenti militari e con la mia età… una pattuglia ha rastrellato il treno. Io ho capito che se mi prendevano mi avrebbero arrestato, mi sono gettato giù dal treno e non sono più andato ad Acqui per evitare inconvenienti di questo tipo. Però a Porto Maurizio proprio per la mia origine e le vicende che avevano tratteggiato la mia vita mi sono gettato nella politica con un primo contatto con un gruppo di giovani antifascisti, coi quali facevamo delle riunioni clandestine, divulgavamo la stampa clandestina di quel tempo e discutevamo sul da farsi per lottare contro il fascismo. Fino a che è venuto l’8 settembre.

D: Scusa Alberto, con te c’era anche tuo fratello?

R: Mio fratello è venuto dopo. Nel primo periodo delle riunioni con questi giovani antifascisti c’era un giovane comunista, c’era un liberale, c’era un giovane del Partito d’Azione, c’erano diverse componenti dell’antifascismo giovanile di allora. E’ intervenuto l’8 settembre, avevamo avuto notizie che i tedeschi si avvicinavano ad Imperia, occupavano la Liguria. Da allora per evitare che le armi che esistevano ad Imperia cadessero in mano ai tedeschi la prima cosa che abbiamo fatto con questo gruppo di giovani, siamo andati sul molo d’Imperia. Ad Imperia c’è un lungo molo che penetra nel mare per circa settecento metri. Abbiamo buttato in mare tutti gli otturatori dei cannoni antisbarco. Poi siamo andati alla capitaneria del porto dove abbiamo gettato in mare delle casse di munizioni, pistole, mitra, tutto quello che abbiamo trovato. Poi ci siamo recati alla caserma della quarantunesima fanteria tra Porto Maurizio e Oneglia, abbandonata dall’esercito perché l’8 settembre l’esercito si è sciolto, sono scappati tutti. Abbiamo incominciato, ed è qui che è entrato mio fratello, con alcuni giovani raccolti a Imperia abbiamo iniziato a trasferire le armi che abbiamo trovato in un rudere nella collina antistante la caserma della quarantunesima fanteria. Durante uno di questi viaggi un compagno di scuola mi ha visto da lontano, dalla collina di fronte e questo fatto si è poi tradotto nel motivo fondamentale del mio arresto, perché ad un certo momento verso le 18.00 dell’8 settembre abbiamo avuto notizia che i tedeschi erano arrivati ad Imperia. Per cui la prima cosa che si pensava facessero era di recarsi nella caserma per vedere cosa era successo. Abbiamo abbandonato il trasferimento delle armi e ci siamo recati nelle nostre abitazioni. Questo compagno di scuola appena i tedeschi hanno preso possesso della città e ristabilito le cariche fasciste e tutto l’apparato fascista che si era dileguato all’8 settembre, appena stabilito questo rapporto ha fatto una denuncia. Questa denuncia è andata in prefettura, il prefetto, che era ancora il prefetto del periodo badogliano, ha ordinato immediatamente l’arresto. Di conseguenza la milizia volontaria ha fatto il primo arresto. Io in quel periodo per poter vivere facevo il supplente in una scuola magistrale superiore di un comune vicino a Imperia dove la scuola dopo i bombardamenti si era trasferita, Ponte Dassio. Mentre sto facendo lezione arriva il commesso e mi invita a recarmi in presidenza. Mi reco in presidenza e in presidenza trovo i poliziotti della questura di Imperia che mi dicono che devo recarmi con loro dal questore per un interrogatorio. Mi portano sotto, mi caricano su una macchina, vanno ad Imperia. Quando arrivano a Oneglia, anziché proseguire per la questura, mi scaricano al carcere di Imperia. E lì è il primo arresto.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Questo è avvenuto ai primi di ottobre del ’43. Ai primi di ottobre del ’43 mi portano nel carcere a Imperia dove trovo tutto il gruppo che aveva con me fatto il trasferimento di armi dalla caserma della quarantunesima fanteria alla collina di Imperia. Rimaniamo ad Imperia in carcere, ritrovo mio fratello, sono nella stessa cella con mio fratello. Il capo del carcere, un certo Cangemi, era un antifascista. Di conseguenza ci ha molto aiutato per i rapporti con la famiglia. Potendo avere rapporti con la madre io mi sono ricordato che il figlio del prefetto era un mio carissimo amico. Allora io invito mia madre ad andare a parlare al figlio del prefetto, il quale parla al padre e il padre che cosa fa? Stabilisce che ci può rilasciare considerando i fatti che abbiamo compiuto come una ragazzata. Io ero il più vecchio, avevo ventitré anni, gli altri erano tutti più giovani di me. Per cui dopo quindici giorni di carcere ci mettono fuori. Io riprendo a fare lezioni all’Istituto Magistrale Superiore di Fisica e Matematica quando un giorno il verbale del prefetto va in mano alla Gestapo, la quale non crede che quanto asserito dal prefetto sia un fatto da lasciare non colpito e ordina l’arresto di tutti i sette ragazzi che avevano fatto l’azione l’8 settembre. Per cui ad un certo momento i carabinieri, invitati dalla Gestapo, si recano nelle case di tutti i sette ragazzi e non trovano nessuno, perché erano tutti fuori casa e li invitano a recarsi dai carabinieri. Loro discutono se recarsi dai carabinieri o no, poi ad un certo momento, dato che tra i sette c’era il figlio di un comandante della Milizia, Gazzano, il quale dice: “Se ci fosse stato qualcosa di particolare mio padre sarebbe stato avvisato”, decidono di presentarsi. Si presentano tutti e sei dai carabinieri, i quali li arrestano, li ammanettano, li legano alla catena tre e tre e li portano da Porto Maurizio di nuovo al carcere di Imperia. Io non c’ero perché ero a lezione di matematica a Ponte Dassio. Quando torno da Ponte Dassio e passo davanti al municipio d’Imperia li vedo tutti e sei arrestati coi carabinieri che vanno verso il carcere. Vado a casa, mia madre disperata dice: “Hanno arrestato di nuovo tuo fratello, scappa almeno tu”. Io vengo preso da un tormento: scappare o non scappare? Poi a un certo momento, dato che ero il più anziano e responsabile dell’azione, ho deciso di presentarmi ai carabinieri. Di fatti ho preso un pacchetto con la biancheria, mi sono presentato alle tre ai carabinieri, i quali, meravigliati, mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.

D: Questo quando?

R: Questo sempre nel novembre del ’43. In carcere ad un certo momento è arrivato l’ordine di passaggio alla Gestapo di Savona. Allora ci hanno preso dalle celle, tutti e sette ci hanno caricati su un furgoncino e ci hanno portato a Savona. A Savona nella piazza della stazione c’era un albergo occupato dalla Gestapo. Ci hanno consegnato alla Gestapo, la quale ci ha trasferito al carcere di Savona. Il carcere di Savona era un carcere vecchissimo, terribile, senza i confort normali di un carcere, per cui noi siamo stati scaraventati in una cella con dei delinquenti comuni, con dei ladri, con dei prigionieri comuni. Siamo stati lì alcuni giorni, fino a quando verso la fine di novembre un giorno ci hanno fatti uscire dalle celle insieme ad altri, ci hanno portato nel cortile. Nel cortile c’era un furgoncino, ci hanno caricato su quel furgoncino e ci hanno portato a Marassi di Genova sotto la SS. A Marassi di Genova siamo entrati in questo carcere che era terribile, perché non si usciva a prendere aria, si mangiava una volta al giorno, una fetta di pane e un cucchiaio di zuppa, non si poteva stare seduti sul letto, la sentinella controllava dallo spioncino in continuazione. Bisognava stare in piedi, tutte le mattine c’era l’ispezione del comandante del carcere della SS che ci faceva mettere in perfetto ordine d’altezza, controllava se i letti erano fatti alla perfezione. Se non erano fatti alla perfezione succedevano dei pasticci. Di conseguenze è stato un periodo dove sia per la mancanza di aria che per il vitto scarso siamo tutti quanti deperiti abbastanza. Per cui quando nel febbraio del ’44 è arrivato l’ordine di trasferimento a Fossoli di Carpi eravamo tutti già abbastanza provati, deperiti e provati per il carcere che avevamo subito. Ci hanno caricati su un carro merci e coi binari che erano davanti al carcere ci hanno portato alla stazione. Lì un fatto particolare: mentre formavano il treno che sarebbe andato a Fossoli, davanti al treno che si stava formando è passato un treno della Genova Ventimiglia sul quale c’erano dei conoscenti di Imperia. Quando mi hanno visto, io ho detto: “Voi dove andate?”. Loro hanno detto: “A Imperia” dal finestrino, “Tu chi sei?”. Ho detto il mio nome, mi ha detto: “Non ti riconoscevo più” tanto ero deperito. Allora ho potuto attraverso di loro mandare notizie a mia madre. Siamo partiti, siamo arrivati a Fossoli e a Fossoli la scena che si è manifestata all’entrata nel campo è stata una scena terribile, perché si passava per arrivare al campo politico davanti alle baracche dove c’erano gli ebrei, dove c’erano bambini che giocavano all’esterno. Era quasi sera. Giocavano all’esterno delle baracche dove c’erano dei vecchi. C’era una popolazione di ebrei che aspettava di essere trasferita al campo di concentramento. Siamo entrati nella baracca numero 10 di Fossoli e a Fossoli si è sparsa una prima voce che saremmo stati liberati se aderivamo alla Repubblica Sociale. Dato che la baracca non era ancora organizzata, mancavano i castelli, mancavano i materassi, mancava tutto quanto necessario per poter vivere, durante la notte abbiamo discusso cosa fare. Una parte ha optato per presentarsi per poi scappare e andare in montagna, una parte ha deciso di non presentarsi e io e uno dei due fratelli Serra, perché con noi c’erano altri due fratelli, abbiamo deciso di non accettare. Ma la cosa non era vera, infatti alla mattina non se n’è nemmeno più parlato. La nostra vita a Fossoli è stata una vita abbastanza interessante, perché eravamo all’aperto, si lavorava in lavori molto leggeri, ricevevamo i pacchi dalla madre, che intanto si era trasferita a Carpi, ci mandava tutti i giorni il pacco dei viveri, si poteva discutere. E’ lì che io ho avuto i primi incontri politici con alcuni comunisti e socialisti, che facevano durante le ore di riposo le scuole di partito ai giovani. La vita è andata avanti fino a giugno del ’44, quando una mattina si è sparsa la voce che il giorno dopo ci sarebbe stato un trasporto per la Germania.

D : Scusa, Alberto, a Fossoli ti hanno immatricolato?

R : Sì, mi hanno immatricolato. Io avevo una delle prime matricole, adesso non mi ricordo nemmeno più il numero, mi sembra il 10, perché il campo politico è stato costituito con il nostro gruppo. Poi sono arrivati da Genova, da Milano, da Torino, sono arrivati altri prigionieri e siamo diventati un gruppo numeroso. Tralascio tutti i tentativi di fuga fatti, perché sono scritti in un libro di memorie che io ho compilato. Fino a che, arrivata la notizia, una mattina si è presentato il maresciallo delle SS, ha incominciato a chiamare un certo numero di persone e man mano che li chiamava si allineavano da una parte. Dopodiché sono arrivati dei pullman, ci hanno caricato sui pullman e portati alla stazione di Carpi. Durante l’andata alla stazione si doveva compiere un tentativo di fuga che non si è compiuto, però è descritto in un libro che Bonfantini, uno dei prigionieri che era con noi, ha scritto, “Il salto nel buio”, dopo il ritorno. Siamo arrivati alla stazione di Carpi, ci hanno caricato su questi carri bestiame, cinquanta, sessanta per carro. Era giugno, faceva caldo. Mia madre intanto, che aveva ottenuto a Verona dalle SS il permesso per venirci a trovare a Fossoli al campo di concentramento, quando è arrivata le hanno detto che noi stavamo partendo per la Germania. E’ venuta alla stazione, tramite l’aiuto della popolazione di Carpi, che è una popolazione meravigliosa, che ha fatto delle cose meravigliose per l’antifascismo, ha raccolto dei viveri, dei vestiti ed è venuta alla stazione. Ha cercato di avvicinarsi al treno, inizialmente le SS non l’hanno lasciata venire, poi resistendo e scavalcando un muretto si è avvicinata al vagone, ci ha consegnato questi viveri e questi abiti. Il treno ad un certo momento hanno chiuso i vagoni ed è partito. Tra l’altro, alla partenza ci hanno detto che durante il viaggio per ogni prigioniero che sarebbe scappato, all’arrivo dieci sarebbero stati fucilati. Ad un certo momento con noi nel vagone c’era un anarchico di Genova che era un uomo coraggiosissimo, che era già scappato due volte dalla SS, il quale alla partenza, mentre noi abbiamo ricevuto i bagagli dalla famiglia, lui ha consegnato alla moglie tutti i suoi bagagli, ha detto: “Ci vediamo in tal posto, perché io scappo”. Infatti appena chiuso il vagone ha incominciato a tentare di tagliare il fondo del treno, perché gli addetti alla stazione di Carpi ci avevano consegnato un fiasco di vino con dentro un fascio di lime per il ferro e poi una mezza forma di formaggio, ci avevano dato un mucchio di cose. Per cui questo qui con le lime che aveva trovato nella valigia ha incominciato a segare il fondo del treno. Però era giorno, non si poteva scappare in quel modo, perché la SS occupava un intero vagone e controllava tutti gli altri vagoni. Per cui ci siamo messi d’accordo a una certa ora, appena veniva buio, di tagliare il filo spinato che c’era sul finestrino del vagone, calarsi giù uno alla volta. Lui si è proposto di essere il primo, con l’impegno di attaccarsi alle sbarre di apertura del vagone e aprire la porta del vagone. Infatti questo qui ad una certa ora, appena si è fatto buio, io ero sotto il finestrino, l’ho aiutato a salire, è uscito dal vagone, sì è trasferito davanti alla porta e ha aperto la porta del treno. Appena aperta la porta, io l’ho tirata, tre o quattro sono saltati giù, io ho chiamato mio fratello. Mio fratello, faceva molto caldo, eravamo tanti nel vagone, si era addormentato, per cui si è svegliato. Nel momento in cui arriva fino alla porta del vagone, il treno si ferma a Rovereto, per cui non siamo potuti scappare. Dopo la partenza abbiamo tentato di rifare lo stesso gioco altre volte, ma non ci siamo più riusciti, perché gli altri prigionieri si sono opposti dicendo: “Una volta possiamo dire che l’hanno aperta dall’esterno, lo facciamo due volte ed è la fine di tutti”. Per cui siamo arrivati a Mauthausen. L’arrivo a Mauthausen è una cosa allucinante: di notte, con questi SS coi cani, con le grida, i colpi col calcio del moschetto, del fucile se non facevamo presto. Siamo scesi dai vagoni, ci siamo incolonnati e abbiamo iniziato la salita verso Mauthausen, perché Mauthausen è in cima a una collina e ci sono parecchi chilometri per poter salire. Io e mio fratello avevamo i bagagli che ci aveva dato la madre. Durante la salita non ce la facevo a portarli su e lui continuava a dire: “Resisti, resisti che questi saranno la nostra salvezza”. Ad un certo momento con molta fatica resistendo a lasciare i bagagli vediamo nel cielo una luce che man mano ci avviciniamo aumenta. Sembrava un incendio. Invece, era l’illuminazione del campo. Quando arriviamo davanti al campo si aprono le porte del campo e noi entriamo dentro questo campo di concentramento che aveva un grosso piazzale, a destra c’erano la lavanderia, la cucina, l’ospedale e a sinistra tutte le baracche. Entriamo e ci mettono tra il muraglione, sembrava una fortezza con dei muraglioni alti tre metri con sopra il filo spinato con l’alta tensione. Ci mettono tra la baracca della lavanderia e il muro per la notte, perché siamo arrivati a sera tarda. Tra l’altro, pur essendo in giugno faceva freddo. Vediamo delle ombre che si avvicinano, che sono come dei fantasmi, perché hanno la testa rapata con una striscia in mezzo alla testa, poi hanno dei vestiti con tanti tasselli di colore diverso, un numero. Sono prigionieri del campo che si avvicinavano e ci dicono: “Domani vi porteranno via tutto, perciò date a noi i valori che avete e noi, quando ritornate nel campo, ve li restituiamo, oppure date a noi i valori che vi diamo una bottiglia d’acqua” perché eravamo tutti assetati dopo un giorno e una notte passati nel vagone, eravamo tutti assetati. Allora molti accettano, lì succede una scena che a raccontarla sembra ridicola, che tutti cercano di mangiare tutto quello che possono. Appena sanno che gli portano via tutto, mangiano lo zucchero, mangiano quello che possono. Alla mattina arriva la SS, ci fa spogliare completamente, si ritira da una parte i documenti, i gioielli, i soldi, tutto quello che abbiamo. Mette i vestiti su un mucchio di vestiti e poi, mano a mano che siamo spogliati, ci manda sotto la lavanderia, c’erano le docce.

Ci manda sotto le docce dove nella prima camera c’erano degli altri prigionieri che con un rasoio senza sapone, senza niente ci depilano completamente, sia i peli del pube che le ascelle, i capelli. Ci depilano completamente e poi ci mandano in un secondo salone dove ci sono le docce. Uno alla volta veniamo messi tutti lì dopo essere stati classificati, catalogati, prima di entrare …. Quando siamo tutti dentro questa grande doccia esce l’acqua, ci fanno la doccia, naturalmente doccia senza sapone, senza niente. Poi usciamo dall’altra porta e ci sono due mucchi di vestiti, mutande e camicia. Si passa davanti ad un mucchio, ci danno una camicia, dall’altro le mutande e poi fuori. Naturalmente non essendo scelte c’era il magro che aveva le mutande grandi, il grasso che aveva le mutande piccole, tra noi facciamo dei cambi per avere il minimo della possibilità di vestirci con questi. Poi ci mettono in fila e ci portano nei blocchi di quarantena. La quarantena era un periodo che si passava in un blocco tra una baracca e l’altra, era il periodo più terribile del campo dove avveniva la prima eliminazione. Tutti i deboli che non resistevano venivano subito mandati all’ospedale ed eliminati. In questa quarantena io ero al blocco 17, erano quattro blocchi di quarantena, 15, 16, 17, 18, poi c’erano due blocchi, 19 e 20, che erano i blocchi della morte. Pur essendo all’interno del campo avevano una seconda cinta che li ricingeva e lì dentro venivano mandati i condannati a morte, erano trattati…tra poco lo descriverò quando tratterò della fuga che hanno tentato. In quarantena la vita era terribile perché si stava in piedi tra i due blocchi, senza scarpe, con camicia e mutande. Questo avveniva per noi fortunatamente a giugno, ma per gli altri anche a gennaio. Si stava lì in mezzo, sempre in piedi, non si beveva, non si poteva far niente se non chiacchierare tra noi, non ci si poteva sedere per terra perché il capo della baracca subito arrivava col manganello di gomma e ci dava delle bastonate. Ad un certo momento alla mattina ci mettevamo in fila e facevamo la ginnastica col cappello: “Mutzen ab, Mutzen auf”, cioè su e giù il cappello. Poi arrivava l’orzo, il mestolo di orzo che ci davano. Tra l’altro avevamo poche gamelle, per cui ce la passavamo uno con l’altro. Poi rimanevamo lì, a mezzogiorno ci davano un mestolo di zuppa di rape che era terribile, i primi giorni non si riusciva a mangiare, poi la fame faceva mangiare anche quella zuppa. Dopo si passava al pomeriggio, alla sera davano una fetta di pane e un cucchiaio di margarina. Poi ci facevano mettere, questa è la cosa più allucinante, in fila e ci portavano dentro il baraccone dove c’era il camerone per dormire. C’erano dei materassi di paglia per terra. Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno coi piedi. Finita la prima fila c’era un piccolo corridoio in mezzo, seconda fila, un altro corridoio, terza fila. Naturalmente quando non ci stavamo tutti, perché eravamo molti, veniva il comandante con questo bastone di gomma a picchiare per farci stringere, stringere e far entrare quelli che erano rimasti fuori. Naturalmente si passava lì la notte senza poter dormire, perché io cercavo di avere sulla faccia i piedi del fratello o dell’amico e di conseguenza era meno… Tra l’altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso. Alla mattina ci si alzava, ci si doveva lavare nel Wascheraum, che era una vasca con tanti zampilli dove ci si lavava alla bell’e meglio. Poi si tornava fuori, si stava così quaranta giorni. Al quarantesimo giorno o trent’otto, trentasette secondo i bisogni veniva il trasferimento al comando di lavoro. Allora veniva la SS con un elenco, chiamavano un certo numero di nomi e questi che venivano chiamati venivano inquadrati a parte, poi uscivano dalla quarantena, li vestivano con la giubba di tela e i pantaloni di tela e gli zoccoli e andavano nel comando cui erano destinati, perché erano destinati ai vari comandi di lavoro attorno a Mauthausen, nelle officine, in vari luoghi dove c’era il lavoro forzato. Io non vengo chiamato, mentre mio fratello viene chiamato. Io non sono stato chiamato perché arrivando a Mauthausen ho detto che ero studente d’ingegneria e sul mio cartellino hanno scritto “Bauteckniker”, tecnico in costruzioni, perché ero studente di ingegneria civile edile. Tecnico in costruzione, perciò come specialista non vengo chiamato. Qui era un comando di manovali, di fatti sono stati portati a Melk e la metà è morta subito, dopo i primi mesi. Non vengo chiamato, non mi ero mai diviso dal fratello. Vado dal segretario del Baukomando e chiedo di non dividermi dal fratello, di mandare anche me in questo comando. Lui prende il mio cartellino e dice: “No, tu non puoi perché sei tecnico specializzato, devi rimanere qua”. “Allora lasci mio fratello qua”. Quello dice: “Non posso, non posso”. Poi con la mia insistenza cosa fa? Prende mio fratello, lo toglie dal comando, lo rimette in quarantena e mette al suo posto un altro prigioniero. Il giorno dopo io vengo chiamato al Baukomando e mio fratello invece rimane in quarantena. Vengo chiamato al Baukomando che era il comando costruzioni. Tutte le mattine alle 7.30, alle 8.00, secondo la stagione alle 8.30 venivamo inquadrati nella piazza d’appello e portati fuori a fare dei lavori edili, strade, baracche, a fare dei lavori, muretti di recinzione, a fare dei lavori. Io vengo destinato al gruppo degli scaricatori. Ad un certo momento arrivavano camion pieni di ghiaia, cemento, sabbia, materiali edili. Io dovevo tutto il giorno scaricare questi materiali e portarli nel deposito.

D: Scusa una cosa, Alberto. Quando vi hanno immatricolati a Mauthausen?

R: Appena arrivati.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 77.604. Era molto importante perché da quel momento la nostra identità è scomparsa e siamo diventati dei numeri. Faccio questo lavoro con la preoccupazione, tornando in campo tutte le sere, di non trovare più mio fratello. Faccio questo lavoro per quindici giorni, è un lavoro faticoso, sento che non ce la faccio più. Combinazione, il segretario di questo comando era un delinquente comune, un ergastolano viennese, il quale quando ero arrivato aveva sentito che io ero italiano, lui amava molto Venezia, Roma, Firenze, per cui si ricorda di me e mi manda a chiamare dal luogo dove scaricavo i camion. Mi mette un registro davanti di pagine bianche e mi chiede se sono capace di fare le linee nei fogli tutti uguali, dato che sono studente di ingegneria dovrei essere capace. Mi mette alla prova. Naturalmente io lo faccio, lo faccio molto bene perché erano fogli a quadretti, per cui era facile col righello fare tutte queste righe. Lui contento dice: “Va bene, allora rimani qui a lavorare con me”. Mi mette a lavorare in una baracca al caldo. Questo qui era uno dei primi arrivati a Mauthausen, un Kapò, mangiava ogni ben di Dio perché facevano il traffico con l’esterno, con i gioielli dei deportati. Mi faceva sedere vicino, ogni tanto si faceva delle grosse pastasciutte. Tra l’altro essendo viennese faceva con lo zucchero e il cioccolato. Quando rimaneva un po’ me lo passava. Era il dolce più prelibato che ho mai mangiato nella mia vita. Dopo una settimana di questo lavoro al chiuso, al caldo, al coperto mi dice: “Ma come mai sei qui tranquillo e sei sempre lì preoccupato, silenzioso?”. Gli dico: “Io ho mio fratello in quarantena, tutte le sere che vado su ho paura di non trovarlo più”. Mio fratello in quarantena quando andavo a trovarlo alla sera, perché alla sera dopo il lavoro, dopo aver mangiato avevamo mezz’ora e potevamo girare nel campo, andavo verso la quarantena e alla quarantena lo trovavo e diceva: “Hai fatto male a togliermi”. Adesso era con dei russi, con tutti altri… “Io non capisco nessuno, non conosco nessuno, almeno andavo con gli amici. Se mi mandano a lavorare non so come farò a resistere senza conoscere nessuno”. Allora lui mi dice: “Perché non me l’hai detto prima?”. “Io non gliel’ho detto, Lei è già così gentile con me, non volevo…”. Allora alla sera arrivo, questo era un uomo potentissimo perché il comando all’interno, l’organizzazione era in mano a questi Kapò. Alla sera ritorno, trovo mio fratello trasferito nello stesso mio blocco e nello stesso mio comando.

D: Che era il blocco del campo libero numero?

R: Dieci, numero dieci.

D: C’era anche Don Gaggero?

R: C’era anche Don Gaggero, è stato un elemento favoloso. E così alla mattina dormiamo nello stesso letto in ottanta centimetri io e lui, siamo di nuovo assieme, viene a lavorare e a prendere il mio lavoro a Mauthausen, il lavoro da scaricatore. Io continuo a scrivere, a fare il segretario. Insomma, fatto sta che, per farla breve, la mia vita a Mauthausen è stata una vita fortunata, perché tolto questo mese di quarantena, tolti i quindici giorni passati a fare lo scaricatore, ho trovato un lavoro stabile, seduto, mangiavo qualche cosa di più, stavo al caldo rispetto agli altri che invece hanno passato dei momenti terribili. Con la mia posizione ho potuto vedere dei fatti terribili, per esempio l’uccisione dei sabotatori di Vienna. Erano trentasei operai di Vienna che sono stati arrestati per sabotaggio e mandati nella scala della morte. A Mauthausen c’era una scalinata che andava alla cava di pietra di 186, 187 gradini. A questa scala lavorava la compagnia di punizione, caricavano dei grossi massi sulla schiena e li facevano portare su per i 186 gradini tutto il giorno, fin quando non ce la facevano più e li eliminavano. Questi operai viennesi sono stati mandati in questa compagnia, hanno cominciato a caricare delle pietre molto pesanti e andare e venire. Man mano che cadevano li ammazzavano. Io ho visto, perché lavoravo vicino, ho visto cadere uno per uno tutti questi deportati, ammazzati. La cosa strana che mi sono sempre chiesto è come mai quando hanno visto il primo, il secondo, il ventesimo, il trentesimo non si sono mai ribellati. L’istinto di conservazione è più forte della volontà di ogni uomo, per cui speravano sempre che la cosa finisse. Ho visto tanti altri episodi importanti, per esempio a un certo momento è arrivato a Mauthausen un gruppo di ebrei ungheresi trasferiti nella collina, perché nel campo non c’era più posto. Nella collina, di fronte alla camera dove io dormivo. In questa collina li hanno recintati, li hanno lasciati lì che morissero un po’ alla volta. Io alla sera arrivavo dal lavoro, c’era il mucchio di cadaveri di quelli che erano morti durante il giorno, tra i quali c’erano ancora molti vivi, perché si vedevano delle braccia e delle gambe che si muovevano. Poi veniva il carretto, li caricava e li portava nel forno crematorio. Li hanno ammazzati quasi tutti, donne, vecchi, bambini, tutti, fino a quando li hanno poi caricati su dei pullman. Noi l’abbiamo saputo, li hanno portati sul Danubio e hanno affondato la vecchia nave nella quale li hanno caricati.

D: Vicino a te, nel blocco 10, dormiva Hans, se non mi sbaglio.

R: Sì. Dunque, Hans è stato un deportato che mi ha aiutato molto. E’ stato un po’ la causa quasi della mia morte, perché in quarantena è arrivato davanti alla quarantena… Hans era un deportato di Bolzano che parlava benissimo il tedesco e che era stato messo in un comando importante, quello del pane. Lui una sera, saputo che erano arrivati degli italiani, è venuto davanti al blocco di quarantena, è il primo che mi ha spiegato che cosa era Mauthausen, quale inferno era Mauthausen. Poi prima di andare via mi ha dato una sigaretta. Naturalmente la sigaretta non si poteva fumare nel cortile, allora quando siamo entrati nel blocco, messi a dormire, abbiamo trovato un fiammifero e, quando il Kapò è uscito, abbiamo acceso la sigaretta. Poi io l’ho passata al mio vicino che era un comandante partigiano, Valentini. Valentini l’ha passata a Vecchi. Mentre passava la sigaretta a Vecchi è entrato il capo blocco, li ha visti e li ha presi tutti e due. Li ha portati nel Waschraum, noi abbiamo sentito gridare, sentito delle urla che non finivano più. Poi questo qui è entrato dentro e ha detto: ” Chi ha acceso la sigaretta venga fuori”. Io avevo acceso, questi erano vicino a me, non potevo che essere io ad aver acceso la sigaretta. Allora mi sono alzato, sono arrivato lì e ho trovato tutti e due insanguinati, svenuti per terra e quello ha cominciato a picchiare me. Mi ha picchiato, quando svenivo con un secchio d’acqua mi faceva rinvenire, poi ha detto: “Adesso vado a chiamare la SS”. Dato che al nostro arrivo a Mauthausen ci avevano letto il regolamento di Mauthausen, cioè chi veniva pescato a fumare veniva impiccato immediatamente alle travi del blocco, questo dice: “Vado a chiamare la SS”, c’era un segretario spagnolo, politico che dice: “Ragazzi, siete finiti perché se arriva la SS vi impicca tutti e tre”. Io parlavo tedesco perché avevo studiato al liceo scientifico tedesco, parlavo un po’ di tedesco. Allora gli dico: “Ma Lei è un fumatore, erano quattro mesi che non fumavamo in carcere, ecc. Abbiamo ricevuto una sigaretta, abbiamo sentito il bisogno di fumare. Lei dovrebbe capirlo”. Questo qui è uscito, dopo un quarto d’ora invece di tornare con la SS è tornato e ha detto: “A dormire”. Alla mattina ci ha chiamato fuori, ci ha detto chi voleva andare all’ospedale, perché eravamo tutti pieni di botte, di ferite, ecc. Ci avevano detto che andare all’ospedale era meglio non andare, perché lì si moriva. Abbiamo detto di no e abbiamo continuato la nostra vita. Quando siamo andati a lavorare e ci hanno messi al blocco 10, nel letto di fianco al mio c’era Hans, il quale si alzava alla mattina molto presto per andare al comando del pane. Dato che non aveva tempo di fare il letto, perché lì volevano il letto squadrato, fatto alla perfezione, abbiamo fatto un contratto. Dice: “Sentite, voi mi fate il letto quando vi alzate un’ora dopo, un’ora e mezzo dopo, io tutte le sere vi porto un pezzo di pane”. Abbiamo fatto il contratto e abbiamo mangiato il pezzo di pane tutte le sere che lui ci portava e abbiamo fatto il letto.

D: Alberto, scusa, il forno di panificazione era dentro nel campo di Mauthausen?

R: No, era fuori.

D: Ma fuori giù verso il villaggio?

R: Fuori, nelle baracche esterne dove c’erano gli uffici, la segreteria, dove c’erano le baracche della SS. Era fuori.

D: Il momento della Liberazione.

R: Il momento della Liberazione è stato una cosa meravigliosa e drammatica nello stesso tempo. Noi sette, otto giorni prima della Liberazione, che è avvenuta ufficialmente il 5 Maggio del ’45 naturalmente, prima della Liberazione un giorno ci comunicano che non andiamo più a lavorare. Allora noi abbiamo subito capito che stava finendo, perché avevamo le notizie che la guerra andava male, che gli alleati erano vicini. Però il comitato internazionale dei deportati nel campo ci ha informati che avrebbero tentato di farci fuori tutti, allora ha dato delle disposizioni per cui ciascun gruppo, ciascuna nazionalità doveva aggredire una parte della cinta per cercare di fuggire, qualora avessimo visto che facevano i preparativi per eliminarci tutti. Fatto sta che mentre noi facevamo questa organizzazione loro non hanno fatto in tempo a far niente. Una mattina hanno raccolto tutti i gioielli, i soldi, le cose che avevano, sono saliti, hanno preso i Kapò e sono scappati. Per cui ci hanno lasciati liberi. Alla Liberazione è successo il finimondo, perché di 40.000 persone che eravamo 30.000 stavano morendo di fame. Per cui organizzare il campo era difficilissimo. Di fatti il CLN ha armato delle squadre per ogni nazionalità e le squadre costringevano i deportati ad andare in cucina a far da mangiare, costringevano i deportati a tenere un minimo di pulizia. Facendo da mangiare, cos’è successo? Che cambiando il vitto è scoppiata un’epidemia di diarrea. Per cui morivano come le mosche. Il blocco era come un gabinetto, pieno, non facevano in tempo ad andare nel Washraum, tutti i letti…era una morte continua. Tanto che, questo è l’episodio più bello di Mauthausen, Don Gaggero, che era in una condizione terribile, aveva le gambe gonfie, magro, stava in piedi per miracolo, raccoglieva tutte le lettere, i dati dei moribondi e poi un giorno mi dice: “Alberto, io ero stato nominato segretario, non segretario politico, segretario burocratico del comando della baracca 10”. Mi dice: “Senti, io voglio andare a Mauthausen”. Prima mi dice: “Facciamo la sepoltura a tutti quelli che muoiono”. E abbiamo incominciato col primo a fare la sepoltura, ma morivano così tanti che non siamo riusciti a farlo. Poi mi dice: “Voglio andare a Mauthausen a prendere l’ostia e gli abiti per dire la messa al campo”. Parte, va a Mauthausen, dal prete di Mauthausen, si fa dare l’ostia, si veste da prete, ritorna al campo e dice la messa al campo di Mauthausen. Un episodio meraviglioso, perché l’abnegazione di Don Gaggero è stata una cosa indescrivibile.

Cussigh Ferdinando

L’intervista è stata resa in dialetto. La trascrizione è stata tradotta in italiano.

Sono stato arrestato a Udine.

D: Aspetta, ti chiami, scusa?

R: Cussigh Ferdinando.

D: Sei nato?

R: Nato il 14 settembre 1925.

D: Dove?

R: A Savigliano del Torre, Comune di Povoletto.

D: Sei stato arrestato quando, Nando?

R: Arrestato il 4 settembre 1944.

D: Dove e da chi?

R: A Udine dalla SS.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché mi hanno arrestato? Perché ero un po’ con lo zoppo.

D: Cioè eri un partigiano?

R: Sì, assieme a me c’era tanta gente, tanti amici. Di cinque sono rimasto solo io. Siamo stati in prigione a Villaco, a Villaco in prigione ci hanno portati.

D: Da Udine? Ti hanno arrestato a Udine?

R: Sì e portato a Villaco, nelle prigioni di Villaco. Dopo, un trasporto a Dachau.

D: Ma ti hanno interrogato?

R: Interrogato niente. Non sono mai stato interrogato, neanche a Dachau.

D: Il libro lo puoi lasciare stare adesso. Stai tranquillo. Allora, da Villaco?

R: Da Villaco a Dachau, trasporto su un treno.

D: Era un treno come?

R: Era un treno pieno di ebrei, parte di Zaga, Jugoslavia, pieno di ebrei era. Zeppo, insieme a noi.

D: Ma era un carro merci?

R: No, era chiuso. Un treno passeggeri no, sempre un carro merci. Eravamo slegati, era pieno di pacchi perché li avevano portati da mangiare gli ebrei, erano pieni di tutto loro. Dopo, invece, a Dachau ci hanno spogliati di tutto, anche dei vestiti. Via tutto.

D: Quanto è durato questo viaggio?

R: Questo poco, Villaco e Dachau erano a pochi chilometri.

D: Quando sei entrato a Dachau cos’è successo?

R: Entrati a Dachau ci hanno dato un numero, dopo il bagno, ci hanno levato tutti i vestiti. Dopo ci hanno dato dei vestiti alla rinfusa, che avevano loro, andavano bene, non andavano bene è uguale. Ci hanno fatto la doccia, ci hanno rasato la testa, hanno rasato anche il resto. Dopo ci hanno mandati fuori, ci hanno dato il numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: No, quello di Buchenwald sì, 100.328, hunderttausend-dreihundertachtundzwanzig. L’altro invece in tedesco non lo so, neanche in italiano.

D: Quello di Dachau non te lo ricordi?

R: Aspetti che vediamo qua, c’è qua il numero. Guardo.

D: Allora, Ferdinando, sei arrivato a Dachau, lì ti hanno spogliato ecc., poi ti hanno mandato in blocco di quarantena?

R: In quarantena, sì.

D: Ti ricordi quale blocco?

R: Il blocco non me lo ricordo, ero in quarantena, proprio al margine, contro Monaco, si sentivano bene le sirene suonare per l’allarme. Sono stato circa trenta, quaranta giorni, proprio non lo so, bisogna vedere.

D: Dentro nel blocco?

R: No, no, in quarantena.

D: Non lavoravate lì?

R: No, no. Fermi. Dopo abbiamo fatto un altro trasporto. Erano tremendi i trasporti, perché si era chiusi, bombardamenti sempre. Ci hanno portati a Buchenwald. Altro controllo, altro bagno, cambiato il numero, cambiati i vestiti. Anche lì sono stato non in un blocco, in una grande tenda in fondo al campo, una tenda proprio grandissima. C’era fango, c’era freddo. Ho conosciuto i fratelli Villa, padre e figlio. Il padre dopo è morto a Mauthausen, invece il figlio è vivo ancora. Dopo un altro trasporto ancora, fino ad Alberstadt.

D: Ma lì a Buchenwald quanto tempo sei rimasto più o meno?

R: Poco in quei campi, Dachau e Buchenwald, poco tempo. Dopo sono stato più ad Alberstadt, che allora era una fabbrica di apparecchi. Ci hanno messi ad aiutare i Meister, si fabbricavano ali degli Junker.

D: Lì c’era un campo?

R: Sì, era un campo chiuso, vicino alla fabbrica. Era il migliore, si è potuto stare bene proprio, abbastanza. Si mangiava abbastanza, non era male lì. Dopo, invece, ci hanno trasferito di notte.

D: Ma in questo campo dove costruivi gli apparecchi c’erano anche dei civili con te?

R: Civili? Un civile e un deportato, faceva l’aiuto lui come me.

D: Ti ricordi se la fabbrica aveva un nome?

R: Sì, Junker, la Junker.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Lì sono rimasto sicuramente tre mesi, ma lì si stava, si poteva… Dopo ci hanno trasferiti a Langestein, lì invece era dura. Non tanto dura per me, perché io ero dentro nelle gallerie a montare il macchinario, perché doveva servire per fare pezzi di ricambio per Dora. Invece quelli esterni come il dottor Burelli, Berti erano a lavorare, a spingere vagoni, vagonetti per estrarre materiale. Quelli stavano molto peggio.

D: Il campo lì a Langenstein era fuori dalle gallerie, ma vicino alle gallerie?

R: No, no. Il campo era nel bosco. Per andare nelle gallerie c’erano sicuramente due chilometri. Alle sei alla mattina, senza vestiti, senza niente e camminare. Andata e ritorno. Alle sei si partiva, si ritornava alle… Dodici ore ci toccava fare dentro lì.

D: Le gallerie lì erano grandi?

R: Erano dietro a costruirle, sì, adesso non lo sono più, adesso la DDR le ha fatte più grandi. Le ha viste Lei?

D: No.

R: Adesso è lusso, ma quella volta erano piccole ancora, dove lavoravamo noi erano abbastanza grandi per mettere i macchinari, per montare i macchinari, ma era ancora da finire tutto.

D: Lì sei rimasto quanto tempo a Langenstein?

R: Fino a quando è avvenuta la marcia della morte.

D: Che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: E’ avvenuto… Anche quello è scritto. Nel mese di maggio, il 2 maggio mi pare. E’ finito abbastanza male.

D: Parlaci un po’ di Langestein, com’era organizzato questo campo?

R: Il campo di Langestein era organizzato, quello nel bosco era tutto dei deportati che facevano le gallerie, noi eravamo sull’orlo della strada chiusi, separati dagli altri.

D: Ma eravate anche voi deportati?

R: Uguale a loro. Solo che c’era un lavoro più leggero. C’era … di Trieste assieme a me, dopo c’era Primas Mario, anche quello era di Capo d’Istria, dopo c’erano molti russi, Ebrei mai visti, non li ho mai visti. Dopo c’erano tedeschi anche, c’erano i Kapò che erano tremendi. Entrando nelle gallerie, sempre botte. Dopo il pane lo rimpicciolivano ogni giorni di più. Trovando allora la colonna che entrava e che usciva si chiedeva: “A quanti pezzi danno il pane?”. “….” rispondevano i russi, avevo imparato anche il russo un poco io.

D: Quindi la pagnotta di pane veniva divisa?

R: Sempre, dopo ultimamente non era niente quasi, davano pezzettini così.

D: Ascolta, il campo dei deportati che lavorava nelle gallerie era nel bosco?

R: A parte, sì.

D: Erano nel bosco? Mentre voi eravate di fronte alle gallerie?

R: Di fronte, ma sempre nel bosco quasi, perché non passava mai nessuno lì.

D: Ma sempre con le SS attorno?

R: Sempre con le SS, sempre…

D: E anche voi nelle baracche?

R: Baracche nuove noi avevamo, perché eravamo appena arrivati.

D: Sempre attrezzate con i letti a castello le baracche?

R: Sì, tre o quattro posti. Uno sopra l’altro.

D: Voi facevate i turni?

R: Turni niente, di giorno facevamo noi, non so dopo durante la notte se facevano. Mi pare di no, mi sembra i turni solo quelli che erano nel campo grande, quelli sì facevano il turno.

D: Quelli adibiti allo scavo?

R: Non ci si incontrava mai con quelli, solo per la strada oppure si chiedeva il pane, dopo non sapevo se lavoravano come meccanici o a scavare le gallerie. Non si poteva vedere, guardare dove si voleva. Lì mi è morto il mio amico, Primas Mario, nel mese di febbraio. Era di Cassaco, vicino al mio paese.

D: Come mai è morto?

R: No Primas Mario, Conbelli Luca, ho sbagliato. Si può ritornare indietro?

D: Non preoccuparti.

R: Conbelli Luca era di Cassaco, è morto perché allora aveva messo un po’ di carta perché aveva freddo, l’hanno trovato, l’hanno pestato, l’hanno picchiato. Dopo gli sono venuti i buchi nello stomaco e le gambe così grosse, dopo è morto. Le gambe così, non ho mai visto una gamba uguale. Si spingeva dentro il dito e rimaneva il buco, una roba da non credere. Dopo abbiamo portato dei morti per una settimana intera su, fuori dal campo, dove adesso abbiamo il monumento. Anche quello abbiamo fatto. Dopo siamo partiti per la marcia della morte.

D: Com’è che vi hanno detto, dovevate evacuare il campo?

R: Sì. Tanti sono rimasti dentro, come Berti, come Burelli. Io non lo so, noi invece…

D: Ascolta, la marcia della morte quando è iniziata, la tua marcia della morte?

R: La mia marcia della morte… Anche quello sarà scritto qua, mi pare il 2 aprile.

D: Eravate in tanti, Nando?

R: Tremila. Sono rimasti quattrocento o cinquecento di loro.

D: Ma cosa vi hanno detto? “Sveglia”?

R: “Sveglia, incolonnati e fare per partire”. Non si sapeva neanche cosa facevamo, dove andavamo. Il bello è che si andava contro i russi, perché sono stato liberato dai russi io.

D: Raccontaci un po’ di questa marcia della morte. E’ stata lunga quanto?

R: Allora, dal 2 fino al 29, un mese. 300 chilometri, dico pure.

D: Camminavate di giorno?

R: Camminavamo di giorno, forse di notte. Camminavamo svelto, perché loro potevano ucciderci se non si andava avanti. Se cadevano erano morti, toccava mandarli via, era un disastro. Dietro si sentivano gli spari che li uccidevano quelli che cadevano. …., quello triestino, abbiamo parlato un giorno. Prima, “Quando vengo a casa ti porterò tanto pesce”. Il giorno dopo l’hanno fatto fuori. In quella lettera chiedono se è vero che … era con noi, se è morto, se è vivo. L’ha letta quella lettera? Sono venuti… mi ha rubato la…a vedere com’era la storia e avvertono anche la mia famiglia, che se non è rientrato vuol dire che è morto anche lui. Io ho detto che purtroppo l’ho visto uccidere.

D: Era assieme a te durante la marcia della morte?

R: Sì, sì. Era lui. Dopo era Primas Mario di Capo d’Istria, vicino là. Quello l’ha fatto fino in fondo, dopo l’hanno portato in ospedale anche. Dopo durante la marcia della morte, è scritto lì ancora, uno delle SS ci ha fatto andare fuori, scappare fuori dalla fila. Noi siamo scappati, io, Primas e tre belga, appena fuori poco dopo capitano tre ragazzini piccoli così col fucile, quattro colpi e li hanno fatti fuori tutti e tre. Noi per fortuna, perché il bosco là era così, loro sono scappati per di qua, noi per di là, ci siamo salvati. Non so come, non ci hanno visti, siamo qui ancora. Anche il Primas Mario è vivo ancora. Uccisi tutti e tre. Dopo sono tornato a vedere io, dopo liberato. Allora uno era appeso ad un albero, era più vecchio di tutti. Poteva morire se appeso con la cinghia. Gli altri due erano proprio morti con le pallottole. Un fucile, non pistola, un fucile avevano. Il campo era vicino proprio lì, allora loro hanno fatto quel lavoro lì apposta per farsi uccidere. Era un capo della Hitler-Jugend quello lì. Ieri sera ho cercato carte, ma io quando parlo di questa roba qua mi…

D: Ti ricordi il posto dov’era però? Così a memoria ti ricordi? Ti ricordi dov’era questo campo qui?

R: Sono tornato dopo anni a cercarlo, ho voluto trovarlo.

D: E dov’è quel posto?

R: Sono andato con Berti, con una signora che anche il suo marito non credevano, c’era mia moglie, c’ero io, il cognato di Berti, Nicoletto, non so se lo conosce. Avevo pressappoco in mente i binari, perché abbiamo camminato tanto sui binari che non si riusciva a passare, alzare le gambe per passare di là, non si riusciva a passare. Allora mi sono ricordato dei binari, dopo mi sono ricordato che era Wittenberg Uttestadt. Allora siamo arrivati a Wittenberg Uttestadt, abbiamo chiesto nelle chiese, no, no, no, no. Ma io volevo trovare i binari e li abbiamo trovati, ma non erano quelli. Ci siamo fermati in un posto, io guardavo sempre a destra, mai a sinistra. C’era una casa qua, andiamo a chiedere là. Prima abbiamo chiesto in paese, nessuno sapeva niente, andiamo a chiedere là. Allora siamo andati a chiedere là, era una professoressa. Berti sapeva il tedesco, chiedeva. Ha preso la macchina, comincia a girare, a chiedere per le case, nessuno sapeva niente. A un certo punto la signora e Berti: “Andiamo alla forestale”. C’era ancora un forestale, sono andati, io intanto aspettavo. “Adesso lo troviamo” ha detto Berti. Allora la signora, lei avanti, noi dietro e abbiamo trovato il paesino.

D: Che si chiama?

R: Si chiama…non so, il paesino Quaka, ma non credo che sia quel nome lì.

D: Tu non te lo ricordi adesso?

R: Sì che me lo ricordo adesso, ma il nome non so.

D: Stai lì tranquillo, stai lì, appoggiati dietro. Così. Perché altrimenti c’è un problema di microfono. Quindi avete trovato questo posto?

R: Abbiamo trovato quel posto lì, gli ho insegnato dove eravamo io e il Primas, gli ho detto che era un grande uomo, padrone di una fattoria. I russi gli hanno pulito fuori tutto. Dopo Primas Mario si era ammalato, ci ha dato il carretto quel signore e l’ho portato otto chilometri, ho portato Primas Mario fino in ospedale a Wittenberg Uttenstadt. Guarda che forze che avevo ancora.

D: Appoggiati dietro… Così.

R: Io non sono fatto per queste robe qua.

D: No, vai benissimo.

R: Eh, sì.

D: Nando, va benissimo. Ascolta un attimo, ma quando questo tedesco vi ha detto di scappare, lì avevate camminato quanto già?

R: 200 metri neanche, il campo era vicinissimo, quello della Hitler-Jugend. Ci hanno fatto andare apposta per farci uccidere. Non so com’è successo, siamo stati fermi in un acquitrino io e il Primas, abbiamo visto una casa, di notte quando era scuro siamo saliti sul fienile. Non ho dormito, dopo io sono sceso perché ho visto le galline, sono andato giù a prendere il mangime delle galline, ho portato su il mangime. Dopo qua che non si mangiava. L’ho portato su anche a lui, il mangime. L’indomani mattina lui sapeva lo slavo, somiglia al russo, allora abbiamo sentito parlare e ha detto: “Sono arrivati i russi”. Erano arrivati i russi quella notte lì. Tre giorni prima, due giorni prima hanno ucciso quei ragazzini lì.

D: Ma Nando, lì ormai la marcia della morte era già finita?

R: Sì, era già finita. Noi non sappiamo dopo, perché io sono rimasto lì con Primas, tre sono morti, siamo rimasti nascosti. Dicono che la marcia della morte è finita subito dopo, ma non so.

D: In tutto avete camminato quanti giorni?

R: Venti giorni, anche più.

D: Per fare 300 chilometri?

R: Sì, mica si andava per le strade, per i campi, per tutte le deviazioni. Abbiamo incontrato molte colonne che venivano, che andavano.

D: E mangiare?

R: Il topo, ho mangiato il topo. Dopo ho trovato una patata per terra, mi sono abbassato a prenderla e mi ha dato un pugno, qualcosa, qua ho il segno, uno delle SS, non mi usciva neanche sangue più. Pesavo trenta chili, neanche.

D: Tu sei andato a prendere una patata?

R: Hanno seminato le patate, si passava per i campi. Mi ero solo abbassato per prenderla, perché era appena seminato, le tagliano e le mettono giù. Ho cercato di prenderla, mi è arrivato un pugno proprio qua, mi ricordo bene. Menomale che non mi ha ammazzato, non mi ha ucciso.

D: E la storia del topo cos’è?

R: La storia del topo, la notte ci si accampava o qua o là per terra. Per fortuna io ho trovato un topo che era vicino a me, l’ho mangiato. Cosa avrebbe fatto Lei? Mangiare alberi, foglie, quelle robe lì. Non si mangiava niente più.

D: Non vi davano niente?

R: Niente, no, no.

D: E sul trenino in quanti siete arrivati?

R: Dicono quattrocento vivi. E’ scritto tutto lì.

D: Quando avete incontrato i russi cos’è successo?

R: Incontrato i russi, per prima roba ci hanno presi, ci hanno cambiati i vestiti. Io ero tutto marcio di scabbia, tutto marcio, fradicio, proprio fradicio. Pieno di pidocchi. Anche lui, uguale. Ci hanno dato una famiglia, ci hanno portato i vestiti, ce li ho ancora di ricordo a casa. Dopo ho trovato una valigia con una pelliccia dentro, l’ho portata a casa anche quella. E’ appesa anche quella là. I russi ci hanno trattato bene.

D: E’ lì che hai preso il tuo amico e l’hai messo sul carro?

R: Da lì l’ho portato sul carretto, non carro, l’ho trainato a mano all’ospedale di Wittenberg Uttestadt, al …

D: Per 8 chilometri?

R: 8 chilometri, sì. Dopo ho saputo che sono 8 chilometri, il giorno che ho trovato il paesino, quando siamo andati via ho visto che sono 8 chilometri per arrivare in città.

D: Hai lasciato il tuo amico in ospedale?

R: Il mio amico in ospedale insieme, è partito prima di me. Ormai mi portavano nella vasca da bagno, mi buttavano dentro perché era per chi è ammalato, perché ero tutto marcio. Ero peggio di lui dopo, peggio di Primas. Dopo, un bel giorno si dava la minestra in ospedale. Sono arrivato dopo e ho trovato che mangiava la minestra, anche la mia minestra quello là. Sarà anche così, ma in ogni modo… Tutto quello fatto, perché sarebbe morto anche lui. Primas, era lui che mi mangiava la minestra anche dopo. Perché se io lo lasciavo là… Dopo sono andato a trovarlo io a Capo d’Istria, mica lui. Perché lui credeva che fossi morto, perché stavo malissimo. Invece è rimasto di sasso quando mi ha visto.

D: Lì in ospedale quanto tempo sei rimasto?

R: E’ qua tutto.

D: Quanto tempo sei rimasto in ospedale?

R: Il 10.5.1945 sono entrato, uscito il 30.06.1945.

D: Quest’ospedale era gestito da chi, dai russi?

R: Era gestito dai russi, ma erano medici tedeschi, c’era anche un medico che si chiamava Rossi, italiano e lavorava anche lui per noi. Abbiamo trovato anche signore, signorine, ex deportate di Auschwitz. Lì ho conosciuto Pitar Maria, era di Gorizia. Dopo c’era un’altra di Gorizia, purtroppo è morta lì, era una bambina ancora, è morta proprio nell’ospedale. Io sono andato a guardarla, …. , addio, viene freddo. Morta proprio nell’ospedale in un modo proprio… E Pitar Maria è morta subito dopo a casa.

D: Quando ti hanno lasciato andare dall’ospedale cosa hai fatto?

R: Cosa ho fatto? Sono stato ancora fino al giorno di Sant’Anna al mese di giugno, sono stato a Dresda a piedi, tutto a piedi. Dopo ci hanno caricati a un campo di smistamento, ci hanno portati in Italia. Allora sul confine siamo passati sotto gli americani. Sotto gli americani un po’ col treno, un po’ con i camion sono ritornato a casa. Ero uno degli ultimi io.

D: Che percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Brennero, dopo dal Brennero siamo venuti per Udine.

D: Vi hanno fermato a Bolzano?

R: Sì, hanno fatto una disinfestazione … Non so che nome si chiamava quello là. In zona austriaca ancora. Ci hanno fatto pulire.

D: In zona austriaca vi hanno fermato?

R: Sì.

D: E in Italia dove vi hanno fermato?

R: Nessun posto. C’erano i preti che parlavano male dei russi, già quella volta parlavano male dei russi.

D: Sono venuti su i preti a prenderti?

R: Erano lì dove si passava il confine dell’Austria, erano lì, parlavano.

D: Questo viaggio l’hai fatto in treno?

R: Fino al confine in Austria, dopo in camion mi pare. Non sono proprio tanto… Dopo il treno abbiamo preso, e uno, un ex deportato, forse non ex deportato dai campi, era fermo lì, arriva il treno e lo uccide, era un carnico. Roba da non credere. Anche quello.

D: Tu sei arrivato a casa a Udine?

R: Il giorno di Sant’Anna a Udine e volevano che pagassi il biglietto del tram. Sono arrivato a Tricesimo e c’era tutta la gente a guardare come se fosse arrivato chissà cosa, perché ero il figlio unico, giocavo a calcio, ero un po’…

D: Quand’è il giorno di Sant’Anna?

R: Il mese di luglio, quel giorno sono arrivato io. Ero tra gli ultimi, tutti erano rientrati ormai, come quelli di Mauthausen, subito dopo erano a casa, invece io…

D: Durante la tua deportazione, quindi a Dachau, a Buchenwald, a Langenstein, negli altri campi, sei mai stato punito tu?

R: Punito? No, non sono mai stato punito.

D: Hai visto azioni violente?

R: Conbelli Luca, purtroppo. Si era bastonati sempre, entrando nei tunnel delle gallerie c’era un bastardo…

Appia Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come vi chiamate?

R: Appia Anna.

D: E siete nata, quando?

R: Il 18 gennaio 1921.

D: Dove, Anna?

R: A San Giovanni al Natisone.

D: Provincia?

R: Di Udine.

D: Anna, quando vi hanno arrestato?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Le SS tedesche.

D: Perché?

R: Eh perché, per attività partigiana, per quelle cose lì.

D: Vi hanno arrestato dove, in casa?

R: In casa alle 4.00 del mattino sono venuti, hanno circondato tutto e hanno fatto il rastrellamento, ci hanno portati via tutti, tutta la famiglia, e ci hanno portato via tutto quello che avevamo: biancheria, coperte, tutto, ci hanno pulito la casa e mi hanno portato a Gorizia, prima a Cormons, poi a Gorizia, nelle carceri di Gorizia.

D: Tutta la vostra famiglia?

R: La mia famiglia dopo un po’ l’hanno mandata casa e la mia mamma l’hanno portata con me; per quaranta giorni è rimasta fino a che lei l’hanno mandata a casa e noi siamo partite.

D: Vi hanno fatto qualche interrogatorio?

R: Sì, come no, tutti gli interrogatori. Io avevo il fidanzato, è stato quello il motivo più grande: lui era venuto a casa l’8 settembre da militare e non sapeva con chi stare, doveva pur lavorare. Lui lavorava però era attivo con gli altri, non con i tedeschi, come devo dire? Con i partigiani. Ma lavorava però, era in attività con loro. E allora è stato tutto lì.

Loro volevano sapere da me qualcosa, ma io non ho mai detto niente perché non sapevo neanche niente, noi ci vedevamo poco: c’era il coprifuoco di notte, di giorno si lavorava e non si poteva incontrarsi mai. Come posso sapere io che cosa fa un uomo? Non ero mica sposata per sapere cosa faceva l’uomo. Allora io ho detto proprio quelle parole lì. Io le cose di un uomo non posso saperle. Volevano sapere di quello, dell’altro, di tutti, della gente. Che ne so? Io non ho mai detto niente perché uno non sapevo e anche se avessi saputo non sarei andata a dirlo a loro.

D: E dopo cosa è successo?

R: L’8 settembre ci hanno messo in trasporto. Siamo partite con la tradotta, con il treno merci. In quaranta di noi dentro in un vagone, senza bere, senza mangiare per sei, sette giorni, fino a che siamo arrivate a destinazione, senza sapere dove si andava, senza potere fare i bisogni corporali, perché era quello che era. Per sei, sette giorni siamo state ammucchiate in quaranta di noi sdraiate a terra in un vagone. E non si sapeva dove si andava. Siamo arrivate ad Auschwitz.

D:Siete entrate col treno?

R: Siamo entrate sulla ferrovia, col treno e poi siamo scese, ci hanno fatto camminare, portare tutta la roba che avevamo. Cammina, cammina, cammina, non si sapeva niente; era di sera, poi ci hanno fatto stare in piedi tutto il tempo e siamo arrivate in un capannone. Lì ci hanno preso tutto, ci hanno spogliate del tutto, proprio spogliate, nude e poi ci hanno fatto il numero sul braccio.

D: E il vostro numero, Anna, qual è?

R: 88.651. E poi ci hanno tagliato i capelli, tutte quelle cose lì. Dopo ci hanno fatto la doccia, ci hanno messe sotto la doccia fredda senza niente, senza asciugarci perché non avevamo più niente. Poi ci hanno dato uno straccio di vestito bagnato e l’abbiamo messo su. Mi ricordo queste cose che non dimentico mai. Siamo state tutta la notte in piedi, quella notte. Tutta la notte in piedi perché si vede che non avevano posto dove metterci: tutta la notte, senza mangiare, senza bere, dopo sei giorni. Poi ci hanno accompagnate nella baracca, avevamo un metro di posto per dormire in sette di noi. Un metro, non era di più, in sette, otto di noi. La mattina ci alzavamo che era notte, verso le 4.00 di mattina al buio e ci facevano stare in piedi fino a che veniva giorno. Cinque, sei ore in piedi nel freddo e col freddo che era; era paludoso il terreno. Era tutta argilla, fango, e stare in piedi tutte quelle ore fino a che passavano a fare l’appello… Dopo si andava a lavarsi la faccia, non c’era neanche l’acqua, tutto il giorno così. La sera uguale.

Siamo state lì dall’8 settembre, siamo arrivate verso il 12, 13 settembre, e siamo rimaste fino alla fine di ottobre.

D: Lì non lavoravate?

R: No, solo tutti i giorni ci spogliavano, ci visitavano, ci facevano fare i bagni con le docce per lavarci i vestiti, per disinfettarli, e poi ogni altro giorno ci facevano visite per vedere chi fosse sana, buona, brava, bella, tutte le belle presenze, eravamo giovani. Fino che ci hanno mandato in trasporto.

D: Ti ricordi il numero della tua baracca.?

R: Era il numero 13. Mi ricordo sì, come no.

D: Di Auschwitz?

R: Era tutto attaccato lì.

D: Quello grande, grande.

R: Sì. Poi quello che si vedeva, tutti i camini che fumavano. Quell’odore acre di grasso bruciato. Era terribile, non si può descrivere quello che abbiamo visto lì noi perché uno che non ha provato, non ha visto, non può capire neanche lontanamente: solo noi, chi ha visto e provato, sa. E’ come raccontare una storia.

D: E da mangiare cosa vi davano?

R: Un po’ di brodo di carote, di rape e una fetta di pane e basta.

D: Dopo è venuto il trasporto. Come vi hanno scelto, ti hanno chiamata?

R: Sì, ci sceglievano. Quelle che erano belle, sane e giovani le mandavano a lavorare e ci hanno scelte. Mi hanno scelta e siamo partite un’altra volta con la tradotta; anche lì siamo state due o tre giorni senza mangiare prima di arrivare a destinazione perché siamo venute in Germania poi a lavorare in Bassa Sassonia. Siamo arrivate in una città che si chiamava….e lì abbiamo lavorato tutto l’inverno in una fabbrica di armi. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, o di giorno o di notte, perché c’era turno continuo, la macchina non si fermava mai, dodici ore di giorno e dodici di notte, una settimana per sorte. Siamo state lì fino a che sono venuti i bombardamenti che hanno distrutto tutto. Una notte hanno distrutto la fabbrica; era una grande cosa perché quella notte lì mancava la luce, c’era stato il bombardamento di mattina e noi eravamo lì a dormire. La sera mancava la luce. Siamo andate a lavorare ma non ci hanno fatto lavorare, ci hanno fatto tornare indietro perché non c’era la luce. Quella notte lì è andata giù la fabbrica perché hanno bombardato, hanno bombardato tutta la notte. É andata già tutta la città quella notte.

Dove dormivamo noi siamo rimaste tutte salve e dopo era tutto rotto, non c’era acqua, non c’era da mangiare, non potevano fare, ci mandavano a pulire le macerie nelle case, nelle fabbriche dove c’era bisogno. Siamo state lì a fare quel lavoro fino al 13 aprile.

D: Anna, quando eravate in questo campo ti hanno dato un nuovo numero?

R: Numero di che cosa?

D: Numero di immatricolazione; o avevi sempre quello?

R: Sempre quello. Eravamo sempre sotto la protezione di Auschwitz noi, era sempre quel comando anche se eravamo nella fabbrica.

D: Il campo era vicino alla fabbrica o era fuori dalla fabbrica?

R: Era fuori; non era un campo, era una grande fabbrica anche quella dove eravamo a dormire. Sotto era fabbrica e sopra dormivamo noi. La fabbrica dove lavoravamo io e lei era fuori nella città. Allora ci trasportavano a piedi, andavamo in fila, ci portavano e ci tornavano a portare qua perché erano le donne militari che facevano…

D: Quindi vedevate i civili?

R: No, perché si andava via che era notte, si tornava che era notte e poi come si faceva a vedere i civili, anche se li si vedeva? Avevamo le guardie, non si poteva mica. Andavamo in fila noi.

D: Eravate solo donne?

R: Sì.

D: Non c’erano uomini?

R: Dove, a lavorare? C’erano i maestri solo, i capi.

D: Erano militari i capi?

R: No, erano vecchi, si vede che erano della fabbrica, i capifabbrica e noi si lavorava, loro ci insegnavano. Sa come fanno i capi.

D: Lì cosa costruivate?

R: Armi. Ognuno aveva il suo lavoro. Io ero su una macchina in piedi alta così, ero abbastanza grande, stavo in piedi tutto il giorno.

D: E cosa facevi Anna?

R: Avevo un ferro che era un otturatore di moschetti, facevo i buchi coi trapani, sulla macchina lavoravo.

D: E lì sei rimasta fino a quando?

R: Fino a che hanno bombardato la fabbrica: era il 5 marzo e poi ci hanno fatto lavorare ancora, perché ci mandavano a pulire macerie. Si vede che non sapevano dove mandarci. Dopo il 13 aprile ci hanno trasferite a piedi. Siamo andate in un campo che si chiamava Leitmeritz e siamo state una settimana. Lì non abbiamo né lavorato né niente.

Poi ancora a piedi siamo arrivate in Cecoslovacchia; c’era una polveriera, non so come si chiamasse quel posto, non saprei dire; abbiamo lavorato quindici giorni fino alla fine, si facevano le bombe per i carri armati col tritolo. Riempivamo i cosi di tritolo e poi si metteva il detonatore.

D: E la fabbrica era sempre vicino al campo o era più distante?

R: Era tutto vicino lì. Lì siamo stati fino alla fine.

D: E anche lì non vi hanno cambiato il numero.

R: No. Perché il numero lo hanno fatto solo ad Auschwitz.

D: E basta?

R: Ci chiamavano sempre con quel numero perché eravamo un numero, non un nome.

D: E ti ricordi il tuo numero in tedesco?

R: No, me lo ricordo in polacco ma non in tedesco.

D: E in polacco com’era?

R: Perché erano le polacche che al blocco comandavano!

D: E a chi non capiva cosa succedeva?

R: Ormai si capiva, si doveva capire, sennò era meglio tacere.

D: Hai mai ricevuto punizioni tu?

R: Qualche schiaffo ogni tanto ma non grandi cose, perché ho sempre lavorato.

D: Al Revier sei mai andata?

R: Cos’era?

D: L’infermeria.

R: Sì, perché avevo male ad un orecchio. Avevo un ascesso, mi era venuto come un grande raffreddore, mi era venuto l’ascesso all’orecchio; c’era una dottoressa polacca e mi ha curato. Mi ha pulito, avevo paura ad andare. Non avevo voglia di andare. C’era una slovena che mi ha detto: “Andiamo, andiamo che io so parlare, vieni che non ti fanno niente.” Ma sai com’è. Allora sono andata, mi ha curata. Quello sì.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione? Fino all’8 maggio abbiamo lavorato. Una sera abbiamo caricato un grande camion di quelle bombe poi siamo andate a dormire e abbiamo visto la luce fuori nel campo, era illuminato. Abbiamo detto: chissà che cos’è? Perché non era mai accesa la luce e si vede che loro intanto erano scappati e noi la mattina ci siamo trovate sole: era il momento in cui arrivavano i russi. E’ venuta una polacca e ha detto: “Finita la guerra!”.

Allora noi eravamo contente, felici. Senza mangiare, non importava. Siamo state tutte riunite insieme e abbiamo detto: “Cosa dobbiamo fare?” Aspettare i russi non si poteva perché non si sapeva quando arrivavano e poi eravamo solo ragazze. Allora abbiamo detto: “Mettiamoci a camminare, andiamo avanti e troveremo qualcosa”. Non si sapeva dove andare, non si sapeva parlare e ci siamo riunite tutte le italiane e ci siamo messe a camminare sotto il fronte, perché i tedeschi si ritiravano e i russi stavano arrivando.

Gli aeroplani mitragliavano le truppe che si ritiravano e noi si camminava sull’orlo della strada, sul margine della strada, l’una dietro l’altra, in fila.

Pensare che mitragliavano e noi si andava nel fosso per ripararsi! Però nessuna si è ferita. Potevano ucciderci tutte per strada i tedeschi che erano tutti armati coi fucili, invece nessuno ci ha fatto niente. Abbiamo camminato tutto il giorno, era il 9 maggio, il giorno che è finita la guerra. Loro si ritiravano tutto il giorno e noi sempre a camminare. Via, avanti fino a che è venuta sera, senza bere e senza mangiare. Però eravamo libere almeno di camminare. Quando è venuta sera siamo arrivate in un paese e lì sono arrivati i russi, i primi carri armati russi e noi tutte sulla strada che si alzava le braccia. Si vede che loro hanno visto chi eravamo perché avevamo lo Straf dietro la schiena: hanno cominciato a buttarci giù pane, roba da mangiare. Lei non può capire quel momento lì cos’era. Nessuno lo può capire. Uno piangeva, uno pregava, uno cantava. Non si sapeva cosa fare. Vedere roba da mangiare, affamate! ci siamo inginocchiate e non sapevamo cosa dire.

Abbiamo messo giù una coperta, abbiamo raccolto tutta la roba e abbiamo cominciato a mangiare e via, e così è finita la giornata.

D: Poi cosa avete fatto?

R: Poi si andava a dormire dove si poteva: in una stalla, in una stanza, in una casa, dove si poteva. Siamo state lì due giorni e dopo abbiamo trovato uomini italiani che tornavano come noi, soldati militari. Abbiamo cominciato a parlare e loro hanno detto: “Se volete ci facciamo compagnia, andiamo avanti da qualche parte”. Non si sapeva, eravamo in Cecoslovacchia. Allora hanno detto i ragazzi: “Andiamo avanti perché è meglio che andiamo avanti per non stare coi russi”, perché avevamo paura che ci trattenessero anche loro. Non si sapeva come comportarsi. Allora noi abbiamo detto: “Sì, almeno ci sono anche uomini che ci guidano”. Eravamo sole, senza guida e senza niente.

Siamo andati avanti camminando e siamo arrivati a Praga e siamo stati a dormire nella Casa d’Italia, in una grande sala tutti insieme là. Dopo abbiamo cominciato un’altra volta a camminare, ad andare avanti, fino che siamo arrivati in Austria, fino a Linz. Abbiamo camminato per quindici giorni così. Di sera si trovava qualche fienile oppure anche nei prati si dormiva, senza niente. Fino che siamo arrivati a Linz e a Linz c’erano gli americani. Poi ci hanno radunati tutti in un altro campo che era libero e ci hanno tenuti lì un mese in attesa di rimpatrio.

In giugno siamo partiti e siamo arrivati a Bolzano. Da Bolzano sono venuti da Udine a prenderci con una corriera che veniva ogni giorno a prendere i prigionieri. Allora ci hanno portati giù a Udine e dopo sono venuta a casa, il 25 giugno sono arrivata a casa.

D: Come oggi.

R: Come oggi, di mattina.

D: 55 anni fa.

R: 55 anni fa, sì, sono tanti, no?

D: Come hai trovato la tua casa?

R: Ho trovato la casa tutta rotta, senza niente perché c’era stata la guerra anche lì. C’era un ponte vicino a casa mia, avevano buttato giù il ponte, bombardato, era rotto. E poi ci avevano portato via tutto. Abbiamo dovuto cominciare a lavorare e tornare ad aiutarci come si poteva, ma nessuno mi ha aiutato però. E’ la prima volta che qualcuno si interessa a me dopo cinquantacinque anni. Mai nessuno si è interessato a me, mai.

D: Anna, a Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: Era un bel posto, eravamo in tanti lì, non so cosa fosse, qualche scuola, qualche posto. Siamo stati un giorno.

D: Cos’era un ospedale, una caserma?

R: Deve essere stata una cosa di quelle perché c’era tanta gente.

D: Ti hanno rilasciato un certificato a Bolzano?

R: No.

D: Vi hanno dato da mangiare?

R: Sì, da mangiare sì. Arrivavano lì, si vede che era un posto apposta per ricevere la gente.

D: Anna, ritorniamo ad Auschwitz un attimo. Nel periodo in cui sei rimasta ad Auschwitz non hai mai lavorato nel campo?

R: No, non abbiamo lavorato là.

D: Potevi scrivere?

R: No.

D: C’era qualcuno che riceveva dei pacchi?

R: Che abbia visto io no. Da dove? Chi sapeva dov’eravamo? Neanche parlarne. Pacchi? No. Può chiedere quello che vuole, io Le dico.

D: Non hai mai visto neanche persone della Croce Rossa?

R: No.

D: Nemmeno negli altri campi?

R: No, io no.

D: Quando eri ad Auschwitz o negli altri campi hai visto per caso se c’erano anche delle ragazzine?

R: C’erano anche bambini ad Auschwitz, ho visto bambini che giocavano e anche bambine piccole, ragazzine, di tutte le qualità, sì. Abbiamo visto anche scendere dal treno quei poveri vecchi di ebrei, tanta gente che scendeva dai treni.

D: Nel campo della polveriera, come si chiamava?

R: Era un altro posto che non saprei cosa fosse, non abbiamo saputo che cos’era.

D: C’erano anche degli uomini?

R: C’era qualche uomo, devono essere stati militari mi pare, ma che abbia conosciuto io, no, io non ho avuto a che fare.

D: E quanto tempo sei rimasta in quella polveriera?

R: Gli ultimi quindici giorni.

D: Anna, tu non sei più ritornata a ….?

R: No, non voglio neanche andarci. E’ abbastanza una volta, poi guai, non potrei tornare a vedere quei posti. Non mi sento.

D: Ti ricordi altri episodi di quando eri ad Auschwitz o in altri campi che ci siamo dimenticati adesso?

R: Cosa vuole, episodi!!

D: Per esempio, quando parlavi degli abiti che ti hanno dato, vi hanno dato della biancheria?

R: No, che biancheria? Un abito, uno straccio di abito e basta, con gli zoccoli di legno. Io avevo i piedi piccoli, erano così, li trascinavo. Con quel fango non si poteva camminare. Che vuole?

D: Delle tue compagne che sono partite con te in trasporto quante sono ritornate?

R: Siamo tornate tutte quelle che conoscevo. Però una è morta a casa. Noi siamo tornate.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: I nomi. Una si chiamava Bruna, povera che è morta. Ines che è viva è a Cividale, Elvia e io. Poi ce n’era un’altra che si chiamava Antonietta, è morta anche quella e poi ce n’erano di Gorizia, di Trieste, ce n’erano tante, siamo tornate in tante di quelle che conoscevo io. Quelle che eravamo a lavorare siamo tornate. Però non so perché si sono anche ammalate per la strada. Quelle non so se sono tornate o no. Come ad Elvia, le è venuto male quando eravamo a Praga e hanno dovuto portarla all’ospedale, lei è tornata dopo, in settembre. E’ guarita ed è tornata dopo di me, a settembre ottobre.

Barbieri Agostino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Agostino Barbieri, sono nato il 30 marzo 1915 ad Isola della Scala in Provincia di Verona. Sono stato arrestato in una frazione di Isola della Scala che si chiama Tarmassia perché facevo parte di una missione militare che aveva lo scopo di fornire informazioni agli eserciti alleati e organizzare gruppi di partigiani.

Sono stato arrestato il 22 novembre 1944 dalle Brigate Nere di Verona con l’ausilio della polizia tedesca perché quando sono venuti ad arrestarmi di notte i fascisti non erano riusciti a portare a termine l’operazione e hanno chiesto l’aiuto della polizia tedesca.

La difficoltà dei fascisti era dovuta al fatto che io e il contadino che mi affittava l’alloggio, perché andavo a dormire solamente da questo contadino, abbiamo reagito al fuoco e c’è stata una sparatoria.

Durante la sparatoria, siccome vicino alla cascina dove io andavo a dormire qualche volta c’era un comando tedesco, sono partiti i tedeschi e hanno completato l’operazione dell’arresto.

Dopo l’arresto siamo stati portati alla Brigata Nera di Verona che allora aveva le carceri della scuola di avviamento Sanmicheli. Siamo stati lì una settimana naturalmente sotto gli interrogatori, i soliti interrogatori a base di botte, di sevizie, di maltrattamenti di ogni genere.

Dopo una settimana siamo stati portati al comando delle SS che aveva la sede nel palazzo delle Assicurazioni in Corso di Porta Nuova a Verona.

Siamo stati lì una settimana, ma non ci sono stati interrogatori. Dopo una settimana di detenzione in questo carcere, siamo stati portati al campo di Bolzano.

D: Un attimo, signor Agostino, quando Lei parlava di organizzazione, cos’era? Militare, si ricorda come si chiamava.

R: Sì, la Missione Rye.

D : Ma lì com’era organizzata questa Missione Rye. Innanzi tutto si ricorda il significato di Rye?

R: A dir la verità Rye è una sigla, deriva dal greco, non ho mai chiesto il perché, la ragione. Era una sigla che si davano tutte le organizzazioni clandestine, specie quelle militari. Ogni missione aveva una sigla che derivava o dall’alfabeto greco o latino o da altri generi di letteratura, di idiomi.

D: E come eravate organizzati? Il reclutamento per esempio come avveniva?

R: Il reclutamento da parte mia per quanto mi riguarda è avvenuto perché io avevo fatto il servizio militare di prima nomina come ufficiale al 79° Reggimento Fanteria e il comandante della Missione, il professor Teruzzi, aveva fatto il servizio militare con me nel 79° Fanteria, perciò mi conosceva.

Mi ha fatto avvicinare tramite due ragazzi, i fratelli Corlà, che erano ragazzi che seguivano l’Azione Cattolica perché Teruzzi era stato anche Presidente dell’Azione Cattolica a Verona.

Loro mi conoscevano, non perché io fossi dell’Azione Cattolica. Io non ero niente. Io ero lì, stavo a Isola della Scala dopo aver fatto però una certa attività col Comitato di Liberazione dell’Alta Italia per la messa in salvo dei prigionieri alleati che sono stati sorpresi dall’ armistizio. Era un primo impegno che aveva preso il Comitato di Liberazione.

Finita questa operazione che si faceva portandoli col treno da Venezia a Milano, poi a Milano io li davo in consegna ad altri compagni che li portavano al confine svizzero, finita questa operazione perché a un certo momento l’organizzazione era polizia fascista che si era organizzata, perciò non era più possibile farli viaggiare in treno, mi sono ritirato a Isola della Scala dove vivevo, avevo mia madre, mio fratello.

Lì sono stato raggiunto da uno di questi fratelli Corlà, mi ha parlato della Missione, mi ha parlato di Teruzzi e compagnia bella e allora abbiamo cominciato ad operare in quella zona.

Io ho avuto la responsabilità di una vasta zona del basso veronese, poi ho avuto il comando di un battaglione di partigiani.

D: Un’altra cosa sempre a proposito della Rye. La zona operativa della Rye dov’era? A Verona solo o anche in provincia?

R: Verona e tutta la provincia e anche confinava per una certa parte della Provincia di Vicenza. La provincia era divisa in zone. Ogni zona aveva un comandante. Io avevo il comando della zona della pianura insomma.

Altri ufficiali come il Colonnello De Miglio per esempio che era stato Capo Aiutante Maggiore al 79° Reggimento Fanteria dove io avevo fatto servizio, che conoscevo, il suo comando era a Cologna Veneta. Io l’avevo stabilito invece a Tarmassia, nella canonica di Tarmassia. Perché nella canonica?

Prima di tutto perché il comandante della Missione, come ho detto, faceva parte dell’Azione Cattolica, era molto dentro in quest’ambiente. Lui aveva la radiotrasmittente, ricetrasmittente che collocava sempre o nei seminari, o nei conventi, insomma in zone che almeno sembravano sicure.

Ho avuto una grande collaborazione dal parroco di Tarmassia, il quale s’è dimostrato partigiano veramente attivissimo. Ha lavorato moltissimo con me, mi ha dato molto aiuto.

Abbiamo ospitato lì in canonica un corso per l’addestramento all’uso dell’esplosivo plastico che noi non conoscevamo, né io come ufficiale di Fanteria, né nessuno dei fratelli Corlà che era appena stato nominato ufficiale, ma che aveva appena abbandonato il servizio.

Teruzzi, il comandante, ci ha mandato un esperto in esplosivi, che aveva fatto catapultare dall’alto, venendo dall’Italia già liberata. Abbiamo fatto questo corso. Durante questo corso siamo stati arrestati.

Per fortuna non durante la “lezione”, ma in quel periodo, perciò non abbiamo potuto completare l’istruzione e attuare quel programma che doveva essere attuato di sabotaggio.

D: Se si ricorda, la maggior parte dei componenti eravate tutti militari della Rye?

R: No, no.

D: No?

R: No, no. C’era una rappresentanza direi di tutte le parti politiche. Non c’era la prevalenza dei militari. Anche Teruzzi era militare di complemento, non era un ufficiale effettivo. Io ero un ufficiale di complemento, Corlà era un ufficiale di complemento.

D: L’obiettivo, i compiti di questa missione speciale della Rye qual era?

R: I compiti erano quelli di segnare, indicare gli obiettivi militari in questo modo. Se si formava per esempio, un comando oppure un deposito, oppure un’officina, oppure soprattutto il controllo della ferrovia Verona/Bologna che era la dorsale che portava tutti i rifornimenti sul fronte di Bologna e io avevo il controllo da Verona fino ai ponti di Ostiglia.

Ho avuto una grandissima collaborazione anche, perché avevo mio fratello ferroviere, dai ferrovieri. I ferrovieri hanno partecipato in un modo veramente entusiasta. Io dai capistazione sapevo esattamente tutto quello che trasportavano.

D: I diversi movimenti di truppe, materiali?

R: Esattamente. Deviazioni che facevano i treni perché per esempio partivano, ma poi ad un certo momento li facevano deviare. C’era tutto questo movimento a mia conoscenza. Di tutto questo movimento era perfettamente al corrente.

D: Voi avevate quindi rapporti anche con gli angloamericani?

R: I rapporti con gli angloamericani venivano fatti direttamente dal comandante.

D: Avevate un tesserino, qualcosa?

R: No, nessuna tessera.

D: Anonimato.

R: Nessuna tessera per carità. Le tessere… Niente, io avevo dei documenti falsi perché allora c’era il coprifuoco ed era proibito circolare col coprifuoco. Tramite mia moglie, mia moglie lavorava in un’agenzia di esportazioni di frutta e verdura e per avere i permessi per mandare la frutta e la verdura in Germania doveva andare al comando tedesco.

Al comando tedesco ha conosciuto un ufficiale che era ufficiale con me al 79° Fanteria che era passato ai tedeschi. Tramite lui abbiamo avuto quasi tutti i documenti per me e anche per tutti quelli che operavano con me di essere operatori della Todt, allora c’era quella compagnia per reclutare lavoratori e il permesso di circolare di notte.

E infatti una notte sono stato fermato dalla Brigata Nera, anzi da una pattuglia di tedeschi, ho fatto vedere il documento, loro mi hanno detto: “Bravo, bravo Italiano”.

D: Durante gli interrogatori però è uscita questa vostra partecipazione nella Rye?

R: No. Non è uscita perché se fosse uscita per noi ci sarebbe stata la fucilazione, perché è chiaro, è la legge di guerra, che chi opera a livello di spionaggio, specialmente per un ufficiale in borghese, c’è la fucilazione. Non è uscito nulla, per fortuna.

D: Ancora una cosa della Rye perché è un gruppo importante. Grosso modo eravate in molti voi della Rye?

R: Ma, io avevo direttamente quattro o cinque collaboratori. Poi siccome si lavorava a scompartimenti stagni perché c’era l’obbligo preciso, non lo so. Ad un certo momento l’ho saputo dopo la Liberazione, quando sono tornato da Mauthausen ho conosciuto altri collaboratori che prima non conoscevo, non avevo conosciuto.

D: Quindi dal Palazzo dell’INA, riprendiamo la narrazione, dal palazzo dell’INA dov’è stato portato, da lì al campo di Bolzano.

R: Sì.

D: Eravate in molti su quel trasporto?

R: No, eravamo una decina per quanto mi ricordo. Poi sono stato molto poco al campo di concentramento, intanto mi avevano messo in un capannone di pericolosi non so per quale ragione, si vede che mi hanno ritenuto pericoloso.

Verso Santa Lucia mi sembra, prima di Natale sicuramente perché Natale l’ho passato a Mauthausen, sono stato trasportato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno portato dove per infilarvi nei vagoni, nei carri bestiame?

R: Alla stazione, penso io. Siamo andati alla stazione, ci hanno messo sui carri bestiame, hanno sigillato i carri, poi siamo partiti. E’ durato sei o sette giorni questo viaggio, una roba bestiale.

D: Più o meno in quanti eravate su quel trasporto?

R: Forse una quarantina.

D: Per vagone però, quaranta per vagone.

R: Sì, per vagone. Si doveva defecare, urinare tutto lì, sedersi sullo sterco, una cosa spaventosa. Poi c’era il problema della sete. Il problema della sete gravissimo. C’è stata gente, i vicini alla parete del vagone che leccavano il piccolo ghiaccio che si formava dall’umidità e dal freddo esterno finché avevano la lingua rossa di sangue, perché la sete è stata una sofferenza atroce veramente.

D: A Bolzano non l’hanno immatricolata?

R: Quello non lo so. Non ho capito niente, mi hanno sbattuto entro questo stanzone e non sono più uscito. Mi hanno detto che non si poteva uscire perché eravamo pericolosi. Non so perché ero pericoloso. Non l’ho ancora capito.

Lì ho incontrato quello che è diventato il mio più grande amico: Piero Caleppi, Piero Caleppi che poi è diventato senatore, poi è diventato vice presidente del Senato e sotto segretario di Stato.

E’ nata questa amicizia che è durata fino al giorno della sua morte.

D: E altre persone di cui si ricorda? Che ha incontrato lì nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano non ricordo, non ho praticamente nessun ricordo particolare perché ero così attaccato a Caleppi. Lui era già dentro, praticamente chiamiamolo “anziano”. Io dormivo in una cuccetta, lui dormiva in una cuccetta attaccata alla mia, stavamo sempre assieme. Non ricordo altri personaggi, amicizie.

Poi più avanti ho conosciuto Pappalettera, Pappalettera che ha scritto quel bellissimo libro “Tu passerai per il camino”.

D: Si ricorda se c’erano dei religiosi anche?

R: Di religiosi ho conosciuto ma a Mauthausen, adesso mi sfugge il nome, Padre Gaggero, un filippino arrestato a Genova, un grande sacerdote che poi è stato spretato dopo la Liberazione.

Adesso invece è nata una storia in questo periodo. Io parlavo prima dei fratelli Corlà che sono stati arrestati. Ad Isola della Scala il paese della loro nascita s’è formato un comitato per la beatificazione. Erano due ragazzi molto, molto, molto religiosi. Dicono che hanno con la loro azione, con il loro comportamento, con la loro parola, con la loro convinzione hanno convinto l’avvocato Spaziani che era il Capo del Comitato di Liberazione di Isola a convertirsi. Sembra.

Però c’è una dichiarazione che io ritengo molto… che questa conversione sia avvenuta nel campo di concentramento di Bolzano. Quello che è stato scritto, è stato dichiarato che a Bolzano ha potuto assistere alla Santa Messa e fare la comunione.

Io ho chiesto, so anche la risposta vostra, a Bolzano se era possibile questo durante la detenzione, se c’erano servizi religiosi, questo è il punto interrogativo. A me non risulta, però non posso escluderlo, perché io ero dentro in questo baraccone, non potevo uscire, neanche prendere l’aria, perciò non so niente di quello che è successo.

Che ci siano state delle messe io non lo ricordo, perché non credo che i tedeschi… Non so, questo è un problema che non è ancora risolto.

D: Dopo sette giorni di viaggio e relative notti siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì.

D: Come si ricorda l’ingresso nel Lager di Mauthausen?

R: Siamo scesi dal treno naturalmente nelle condizioni in cui eravamo, ci hanno inquadrati perché dalla stazione a Mauthausen c’era un pezzo di strada in salita anche che bisognava percorrere a piedi naturalmente.

Quando siamo arrivati lì il comandante del campo ha chiesto se c’era qualcuno che sapeva l’italiano. E’ venuto fuori uno, ha fatto l’interprete. Siete a Mauthausen, qui esiste solo la legge dell’obbedienza, perciò chi vuol tentare di fuggire, si guardi attorno e vedrà che non c’è nessuna possibilità. Bisogna solo tacere e obbedire.

Ci hanno portati dentro in un enorme stanzone. Ho fatto un bagno bollente e immediatamente dopo un bagno freddo secondo le regole perfette dell’igiene.

Poi ci hanno messi fuori sei minuti nudi, tagliato tutto, rasati sotto, sopra tant’è vero che io scrivo sul mio libro che io ho avuto la sensazione che mi tagliassero via tutto quando il Friseur prese in mano il pene. Qui resto senza niente.

Poi ci hanno messo fuori in fila ad aspettare. Intanto nevicava e noi fuori ad aspettare. S’è completata la fila, poi ci hanno portato nelle baracche di quarantena dove si dormiva in tre, qualche volta anche in quattro su un materasso a terra.

Ci mettemmo giù di fianco, la SS col tubo di gomma ci batteva finché ci si stringeva, imballati come le sardine. Lì abbiamo fatto parecchi giorni.

Poi facemmo dei comandi per andare a lavorare. Io, Caletti, Pappalettera, ho conosciuto una persona, vive ancora, purtroppo stavo dicendo perché è molto ammalato, il Dottor Calore. Non so se voi l’avete…

Il Dottor Calore per me è un dio, un bravo, bravissimo… S’è comportato veramente, abbiamo stretto un’amicizia e mi dispiace moltissimo che stia veramente male, molto male. L’ho visto un paio di mesi fa.

Lì ho conosciuto il Dottor Calore e Pappalettera. Siamo andati a Sant Aegid, nella Stiria, è un paesino bello anche, molto bello perché uscire di notte per andare a fare la pipì e vedere queste casette dove filtrava qualche piccola luce pur essendoci la proibizione dell’illuminazione, sembrava di essere in un presepio.

Io lo scrivo questo anche nel mio libro. Ti riempiva di nostalgia, di casa. Purtroppo c’era la baracca dietro, c’era la SS, ma più che le SS c’era il Kapò. I Kapò erano forse peggio delle SS, erano peggio delle SS. I Kapò tremendi.

Hanno fatto poi una brutta fine perché il giorno della Liberazione il 5 maggio sono stati malmenati, sputacchiati, qualcuno ci ha rimesso anche la pelle. Insomma, se lo meritavano.

D: Prima di andare però al comando di lavoro lì a Mauthausen vi hanno immatricolati?

R: Sì, mi hanno dato una nastrina con del filo di ferro che ho perso perché l’ho data ad una mostra e non me l’hanno più restituita. Se la son tenuta a Verona. Hanno fatto una mostra, mi hanno chiesto quello che avevo, l’unica cosa che avevo era quella lì, non me l’hanno più data. 113883 il mio numero. Quando mi sono tolto il giaccone l’ho buttato via.

Io sono tornato con un frac che ho trovato in un magazzino e un paio di braghe delle SS.

D: In questo comando di lavoro c’erano altri italiani, vero?

R: C’era Caleppi, c’era quello che ho nominato prima Pappalettera, non mi ricordo più i nomi adesso. Sì, c’erano italiani, eravamo un gruppo di Italiani.

D: Solo italiani?

R: No, ma c’era un gruppo di iItaliani abbastanza numeroso. Lì non si stava… Si stava male, intendiamoci, dire che si stava bene sarebbe ridicolo. Siccome era un campo piccolo, c’era meno disciplina. C’era da lavorare perché si andava a scavare per fare le fondamenta per le baracche per i sinistrati, lì si lavorava giorno e notte, acqua, vento. Si andava e si ritornava in baracca con la divisa, quella a righe che ci avevano dato e poi te la mettevi la mattina che era quasi ghiacciata.

D: Il vostro lavoro lì in cosa consisteva?

R: Piccone, badile, carriola per me. Mi hanno dato un piccone, era alto così. Guai se la carriola non era strapiena. Caleppi ha avuto lì il periodo più brutto della sua esistenza. Gli hanno rotto una gamba apposta di botte e doveva trascinare la carriola con la gamba rotta. Si trascinava così, con la mano trascinava la carriola.

Ha trovato per fortuna il medico, era un medico iugoslavo che parlava molto bene l’italiano che ha avuto compassione, in un certo senso direi che l’ha curato anche, se curare si può, intendiamoci, perché lì non c’era niente. Almeno per un certo periodo è riuscito a toglierlo dal lavoro.

Poi quando siamo tornati, siamo rientrati a Mauthausen, ricordo che ho vissuto il momento della Liberazione con Caleppi abbracciati a piangere tutte due in quel di maggio. Durante il viaggio del rientro Caleppi è stato costretto, è stato ricoverato in un ospedale svizzero perché è stato malissimo, molto male.

D: Il campo dov’eravate, questo sottocampo, era grande, era piccolo, c’erano molte baracche?

R: Piccolo, piccolo, 400 baracche. Sant Aegid.

D: Era recintato come tutti i campi?

R: Recintato con i fili spinati naturalmente con l’alta tensione.

D: Rispetto al paese il campo era vicino al centro abitato o era fuori?

R: No, era staccato, ma la popolazione in un certo senso ci ha aiutato, lasciava cadere delle patate, dei pezzi di pane. Io ho avuto anche un’esperienza, l’ho scritto anche sul mio libro, di una SS, di una giovane SS che mi sorvegliava. Sono stato portato da solo a fare un terzo lavoro. C’era questo giovane SS, avrà avuto diciotto anni poverino, faceva una pena. Io stavo peggio di lui, ma comunque…

Ad un certo momento ha lasciato cadere un pacchetto. L’ho visto il pacchetto, ma continuavo a lavorare. Se per caso mi muovo, quello lì mi… Lui continuava a guardarmi, poi mi ha fatto segno di prenderlo.

Allora mi sono fatto coraggio. Erano biscotti. Questa è stata una cosa stupenda. Questo ragazzino che evidentemente forse era anche lui lì per forza, non era che sia stato uno che ha avuto questa idea, forse suggerita dalla famiglia, dalla mamma certamente, da qualcuno. Ho avuto questa sorpresa.

Poi il problema era mangiarli o non mangiarli? Se sono avvelenati? Li ho tenuti in tasca. Poi la fame era fame e li ho mangiati.

D: Voi al lavoro lì, diceva prima che eravate addetti a degli scavi, a costruire dei basamenti…

R: Sì.

D: Lavoravate per qualche ditta?

R: Questo non lo so. Non lo so perché lì si vedevano solo deportati, Kapò, capisquadra, persone civili non ne ho mai viste. Può anche darsi.

D: Quando siete ritornati a Mauthausen più o meno quand’era? Quando è stato evacuato…

R: Siamo tornati… Dunque, la Liberazione è stata il 5 maggio, un mese prima circa, cioè quando le truppe russe stavano sfondando il fronte tedesco. Siamo tornati quasi quasi assieme ai profughi che lasciavano a piedi naturalmente, dormendo per terra, dormendo sui marciapiedi, dove capitava.

Poi ci hanno portati dentro nel penitenziario, è durato quattro/cinque giorni questo trasferimento perdendo parecchi amici, parecchi compagni perché non ce la facevano, si buttavano per terra, gli sparavano e morivano.

D: Era una delle tante marce della morte?

R: Una delle tante marce della morte, come quello che si temeva noi di Mauthausen, parlavano di evacuazione di Mauthausen le SS e l’evacuazione di Mauthausen, qui non ci resta più nessuno.

E invece no, la mattina del 5 maggio al posto delle SS sulle torrette abbiamo trovato i soldati della territoriale che se ne fregavano di noi. Da lì abbiamo capito che… Ma pure fino a quasi all’ingresso degli alleati ci sono state delle SS che hanno sparato, sparavano ancora, ammazzavano fino all’ultimo momento, fino all’ultimo momento, finché un carro armato ha sfondato il portone ed è entrato.

Lei deve sapere che però gli spagnoli aspettavano i russi, avevano preparato delle bandiere. Quando hanno visto che erano gli alleati, hanno fatto marcia indietro. Son cose che capitano.

D: E cos’è successo poi al 5 maggio del ’45?

R: Il 5 maggio del ’45, sentivamo da qualche giorno il rumore dei carri armati, l’aviazione che circolava sopra di noi perciò era chiaro che il fronte si stava avvicinando.

Poi c’era anche radio Fante, la chiamavano ed erano i prigionieri spagnoli, ancora della guerra civile spagnola, che avevano occupato certi posti di scrivano, magazziniere, quelle cose lì. Avevano possibilità di attingere notizie che poi riportavano a noi. Sapevamo che si stavano avvicinando le truppe alleate, nessuno però sapeva se erano alleati o russi. Erano alleati o russi? Poi quando sono entrati abbiamo visto che erano gli alleati.

Ci siamo trovati nella piazza dell’appello grande più di uno stadio tutta strapiena, c’era gente che era riuscita persino ad andare sui tetti delle baracche, non so come abbiano fatto, abbiano trovato la forza di andare.

Lì ci siamo abbracciati piangendo, urlando, siamo liberi, siamo liberi. E c’è stata la Liberazione.

D: Però lì a Mauthausen siete rimasti quanto ancora voi?

R: Un paio di mesi, non di più. Si sono organizzate subito delle commissioni tra le quali c’era anche il Dottor Calore che era proprio l’animatore. Sono andati in Svizzera, hanno preso contatto con la Croce Rossa. Subito hanno promesso gli elenchi dei sopravvissuti, poi ci hanno dato la possibilità di scrivere a casa. C’è stata la Liberazione.

D: Il ritorno invece com’è stato?

R: Il ritorno, sono tornato con un camion dell’esercito alleato. Abbiamo fatto un giro lunghissimo, siamo andati a finire… Abbiamo attraversato tutta la Germania. Poi siamo arrivati a Bolzano. Siamo andati… Non ricordo più, abbiamo fatto un lungo giro. Siamo arrivati fino a Monaco. Mi ricordo Monaco distrutta. E siamo arrivati a Bolzano.

A Bolzano, mia moglie che allora era la fidanzata, era stata a Bolzano due giorni prima ad aspettarmi assieme a mio fratello, ma invece il giorno in cui sono arrivato io non c’era.

C’era un camion organizzato dal comune di Isola della Scala per accogliere i deportati, quelli che rientravano. Sono salito, sono rientrato a casa.

D: Ed era quando questo?

R: In giugno, verso la fine di giugno mi sembra. Ho trovato mia madre che non aveva più lacrime perché aveva perso il marito in guerra. Quando è venuta ad accompagnarmi alla stazione di Porta Vescovo, quando siamo partiti per la Russia, perché io ho avuto anche questo grande onore, di partecipare anche alla Campagna di Russia, lei ha detto: “Ho perso il marito, adesso perdo anche il figlio”.

Quando son tornato invece che le ho telegrafato da Rimini. Che son rientrato a Rimini, non ha voluto venire alla stazione perché temeva di vedermi o senza una gamba o senza un braccio.

D: Al ritorno dalla Russia?

R: Al ritorno dalla Russia.

D: Era?

R: Quella era una storia…

D: Ha partecipato all’Armir, al Don?

R: Io sono stato tra i primi in Russia con il SIR, Corpo di Spedizioni Italiane in Russia. Dove siamo andati in Russia, qui è successa una cosa che Mussolini certamente non s’aspettava. Non so se voi avete letto qualche libro di storia, non quelli scolastici perché non dicono niente quelli scolastici. C’è una vecchia edizione di Einaudi dove dice che quasi tutti i comandanti partigiani erano ufficiali reduci dalla Russia.

Perché siamo partiti con la testa piena della propaganda fascista, i russi mangiano i bambini, i russi qua, i russi là e invece abbiamo trovato una popolazione di una dignità assoluta veramente.

Molti italiani, ma molti italiani nella grande ritirata si sono salvati per merito delle donne russe che li hanno raccolti, li hanno scaldati, li hanno nutriti. Molti italiani. Molti anche si sono accasati, sono rimasti lì.

Io ho avuto la fortuna di evitare questa ritirata perché mi sono ammalato. Per fortuna mi sono ammalato. E’ triste dire che è una fortuna ammalarsi, ma comunque è stata una fortuna, mi hanno rimpatriato prima. Ma lo stesso quella popolazione che ho conosciuto io aveva una dignità estrema. Povera, ma guardi, una cosa… Un rispetto, rispetto persino per noi che eravamo degli invasori. Ci davano, anche quel poco che avevano qualche volta ce lo davano da mangiare perché non arrivava il cibo.

Poi io sono simpatizzante dei russi. Adesso ho visto all’ospedale, mia moglie è tornata dall’ospedale pochi giorni fa, c’era un’infermiera russa. Il tipo di russo… Io ho scritto un racconto su un incontro che ho avuto in Russia con Capascha, era una partigiana russa.

Eravamo diventati… C’era un affetto. Poi l’ho trovata morta su un camion. Ho trovato questa russa, quando l’ho vista ho detto tu sei Capascha. Di una bellezza… Bella, bella, bella e lei ha voluto leggere il libro.

D: Agostino, del tuo trasporto della deportazione quanti siete tornati vivi da Mauthausen?

R: Questo non lo so. Dicono che siamo tornati circa l’8-10%, ma cifre esatte non ne ho. Non mi ricordo, pochi comunque, siamo tornati in pochi.

D: Di Isola della Scala in quanti sono stati deportati?

R: Di Isola della Scala siamo stati arrestati in 10 e siamo tornati in 3.

Bianco Natalina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Bianco Natalina detta Pasqualina. Sono nata a Susa il 18 Gennaio 1928. Sono stata presa dai fascisti alla Trattoria Balma”. Ero con mia sorella, ed erano venute delle persone a dirci che ci aspettavano in montagna nascosti dietro i sassi i nostri fratelli con altri partigiani. Aspettavano che portassimo loro qualche cosa da mangiare, e mia sorella, mi sembra fossimo in cinque, aveva fatto cinque sandwich con quei grandi pani di campagna e con un po’ di vino. Si vede che quando sono venuti ad avvisarmi c’erano già le spie: mi hanno presa proprio sul cancello con lo zaino in spalla. Avevo gli scarponi per andare in montagna. A quei tempi si usava il nastrino rosso ed è già tanto che non me l’abbiano fatto mangiare, perché era rosso. Di lì ci hanno portati giù in paese.

D: In quale paese, Natalina?

R: San Giorgio di Susa, perché la Balma è sotto San Giorgio di Susa. C’era pure mia sorella. Ci hanno portati alle scuole di Sant’Antonino. Ci facevano pure l’appello, c’erano dei partigiani e ci facevano stare attenti, nella piazza della scuola. Dicevo: “Qui siamo a posto, ci fucilano anche qui”. Siamo stati tre giorni nella scuola a dormire per terra sulla paglia. Dopo hanno trovato un partigiano nascosto sul sottotetto; il fatto è che avevamo della paglia, dei conigli e hanno fatto rumore, allora loro hanno voluto salire su con le baionette nella paglia, hanno trovato il partigiano nascosto e l’hanno portato con noi assieme alle scuole; poi l’hanno portato al cimitero. C’era una serie di partigiani che sono stati fucilati e noi presenti, sull’attenti, a vedere la fucilazione. Poi di lì ci hanno poi portate alle Nuove a Torino; avevamo la camera vicino ad Anna e di tanto in tanto toc toc.

D: Quando ti hanno portato a Torino? Ti ricordi?

R: Alla fine di maggio, perché era giugno quando eravamo a Torino.

D: Ti hanno mai interrogata, Natalina?

R: Sì, sì ma non alle Nuove; lì ormai eravamo già predisposte per la Germania. Lì avevamo con noi in cella Ondina, così si chiamava, mi sembra fosse biellese e poi non è rientrata più, l’hanno fatta morire nel campo di Ravensbrück; l’hanno subito fatta fuori perché mi sembra che avesse qualche disturbo, era malata. Allora quelli che erano malati venivano fatti fuori subito, eliminati. Volevano gente sana e robusta che doveva lavorare sodo.

D: Dopo le celle delle Nuove di Torino cosa è successo?

R: Siamo andate a finire a Porta Nuova sul vagone in quattordici. Per poter far capire ai miei che partivo per la Germania abbiamo fatto dei bigliettini, li abbiamo buttati fuori dal finestrino, sperando che qualcuno facesse sapere, c’era un po’ di gente, che facesse arrivare alla famiglia la notizia che noi non eravamo più alle Nuove, così che mia mamma non dovesse venire più a portare i pacchi o qualcosa alle Nuove, perché noi non c’eravamo più.

D: Tu e tua sorella.

R: Sì, siamo sempre state assieme. Eravamo in tre in cella, con Ondina. Poi è partita la tradotta. Abbiamo fatto tutto il percorso detto da Anna, attraverso l’Austria e via, con la paura di essere fermati dai partigiani. La nostra tradotta viaggiava sotto sorveglianza dei tedeschi perché lo sapevano che era piena di deportati che andavano in Germania. Allora pensavamo anche noi di subire un attentato, essere liberate, e non so se qualcuno è fuggito via e ce l’ha fatta, perché delle sparatorie ci sono state. Comunque siamo rimasti in Austria a Innsbruck per un po’ di tempo, un po’ di giorni. Poi siamo partite direttamente per la Germania.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Ravensbrück ?

R: Terribile! La Carletti ha fatto tutto questo traffico per la strada, faceva la matta, si sedeva per terra, sulle valigie: ma lei era una diva, non era una poveretta come noi! Comunque a Ravensbrück come siamo entrate la prima cosa che ho visto furono le carriole piene di pietre e i prigionieri a portare queste pietre, io non lo so dove le portavano queste pietre. Dicevo: “Mamma mia, se noi dobbiamo fare dei lavori così, siamo a posto”. La prima cosa che ho visto è stato tutto quel filo spinato e poi mi ricordo che siamo entrate in quello che sembrava un bagno. Io me lo ricordo che abbiamo passato notte e giorno nudi; tutta questa roba che abbiamo tolto e tutta questa roba che abbiamo portato per cambiarci, la biancheria, io me lo ricordo che l’abbiamo messa tutta nel sacco già, tutta nel sacco, i gioielli, l’orologio, tutta nel sacco. “Verrà restituito quando andate via”, “Ce l’ha restituito?” Dovevamo lavarci, pulirci, non si poteva bere l’acqua perché c’era pericolo di tifo. Era l’acqua del lago. Senza bere, oltre che senza mangiare anche senza bere. Dopo siamo andate nelle baracche. Non so più se avevano solo due letti a castello, erano basse queste baracche. Io mi ricordo che quel cibo non potevo mangiarlo. Mia sorella mi dava il suo pezzo di pane per non vedermi morire. Comunque si mangiava quella porcheria, per me era immondizia cotta.

D: E tu avevi allora quanti anni?

R: Sedici.

D: Ti ricordi il tuo numero di matricola di Ravensbrück ?

R: 44.151, non so più se mia sorella aveva 152 e io 151.

D: Cosa ti hanno dato per vestirti dopo?

R: Ci hanno dato subito quel tipo di camicia, sembrava grigia; era d’estate, era leggera, altro che freddo. Noi eravamo dalle quattro all’appello fino alle sette, sull’attenti. Quando passavano le …noi per non farsene accorgere ci aiutiamo l’una con l’altra con la schiena così per scaldarci un po’, perché eravamo anche nude, oltre che alle quattro del mattino. É una zona fredda. Ci davano quella ciotola lì senza cucchiaio, senza niente, dovevamo noi magari cercarci qualcosa, scagliare dai letti qualche cosa per non prendere il cibo così con le mani. Mi sembra che avessimo la vasca con l’acqua, i rubinetti; nell’ingresso c’erano le baracche coi lettini. La prima cosa: guai a non essere pulite. C’erano pure le botte se non ci tenevamo pulite. A me sembrava di essere in quarantena. Non so se siamo state quaranta giorni.

D: Avete subìto delle visite?

R: Sì, eravamo sempre in coda e sempre nudi. Per visitarci, anche gli occhi o la bocca, dovevamo essere nudi, era fatta così. C’era gente anziana, purtroppo per la gente anziana è un’umiliazione forte. Di lì ci hanno destinati a Schönefeld a lavorare nel campo.

D: Lì ti hanno dato un altro numero?

R: Io non me lo ricordo questo numero della fabbrica, non me lo ricordo.

D: Tu cosa facevi in quella fabbrica?

R: Eravamo tutti allineati con i martelli pneumatici a mettere i chiodi agli apparecchi da caccia. Tutto il giorno così, facevamo dodici ore, una settimana di giorno e una settimana di notte. Comunque quando siamo arrivati lì ci hanno dato un po’ di mangiare normale, abbiamo toccato il cielo con le dita, ma era solo per il primo giorno. Ci hanno dato una caramella da succhiare, era come una caramella da succhiare, ci hanno trattato coi fiocchi il primo giorno e poi invece c’erano i bombardamenti. Mi ricordo sempre: tante volte venivamo all’appello, non c’era da mangiare per tutti perché non arrivava, noi aspettavamo il turno degli altri e poi andavamo a lavorare senza mangiare. Anche lì avevamo i letti a castello; ero al terzo piano, guai, dovevamo avere sempre il letto in ordine. Il pagliericcio che vada giù qualcosa! É successo anche che mi abbiano rubato tutti i trucioli e ho reclamato. Ho preso pure le botte. Dato che mia sorella distribuiva il mangiare là dentro ha cercato di recuperare qualcosa per aiutarmi, altrimenti io dormivo sempre sulle assi perché dovevo stare attenta a cosa mi succedesse. Purtroppo eravamo di tutte le razze. C’erano zingari, c’erano russi, c’erano slavi.

D: Natalina, anche tu ti ricordi a Ravensbrück di aver visto dei bambini?

R: Sì, erano alti così, andavano anche in fila a fare le visite. Io penso che fossero ebrei, delle famiglie ebraiche.

D: Che tu ricordi a Ravensbrück uomini non ce n’erano.

R: No, noi vedevamo in centro un tipo di torre che girava, sorvegliava, con sopra un tedesco; pensavamo che dall’altra parte ci fosse un altro campo come il nostro. Di là c’erano gli uomini e di qua c’erano le donne.

D: Natalina, come te la ricordi l’interruzione del ciclo mestruale?

R: Noi abbiamo capito subito che avevano messo qualcosa, delle polverine nella minestra, perché era tutto uguale. Io già avevo dei problemi, mia sorella che aveva quindici anni più di me aveva detto alla mamma: “Fai visitare la bambina, falle fare delle iniezioni perché non è normale che a quindici anni non abbia ancora il ciclo”. Appena fatte le iniezioni per farmi venire il ciclo me le hanno fatte per farlo andar via. Questo influisce molto sulla salute, penso. Poi c’era quella ragazza, Bice, con noi, a lei invece venivano come emorragia. Ha capito com’è? Lei doveva stare molto attenta perché a lei venivano come emorragia e allora è peggio ancora. Ad ogni modo io lì a Schönefeld avevo Bice vicina a dormire, invece mia sorella non dormiva con me. Forse Anna era in un altro padiglione dove c’era mia sorella. Anna era piuttosto robusta e ben piazzata, per quello la mandavano a prendere il rancio, diciamo rancio, magari fosse stato rancio, per me non era rancio, era schifezza.

D: Natalina, tu non ti sei mai ammalata?

R: Ringraziando il cielo, ho pregato tanto, piangevo e pregavo. Sono sempre stata piuttosto debole da quel lato. Purtroppo mi sono vista la vita distrutta, poi pensavo alla mamma da sola, e i fratelli via. Poi chissà come va a finire! Comunque è stata fortuna anche che magari, essendo giovane, uno resiste di più. Difatti mia sorella non ce la faceva, cercavo di aiutarla, l’accompagnavo fuori quando andavamo coi badili e la zappa a fare le trincee. Trascinavo lei, portavo il badile e la zappa sua per poter riuscire a fare qualcosa. Lei non ce la faceva proprio più a stare in piedi e l’hanno portata all’ospedale.

Quando è rientrata io lavoravo già alla FIAT. Pensi un po’. Noi siamo state, questo me lo ricordo, liberate anche il 25 aprile, e mia sorella è entrata a ottobre e io lavoravo già alla FIAT. A quei tempi, avendo la casa incendiata con tutto quello che è successo, avevo solo da dire “beh” e subito sono stata presa.

Proprio mi rifiuto, non voglio sentirne parlare più dei Lager. Andare a vederli per me è la morte. Mi sembra di morire. L’ho vissuta come una tragedia. Quando siamo rientrati ci hanno fatto fare una grande manifestazione in divisa al cimitero generale, con il rullo di tamburi. Io ho sempre pianto e mi ci è voluta più di una settimana per mettermi a posto. Sono già di carattere più fragile, non lo so.

D: Descrivici una giornata di quelle che hai trascorso a Ravensbrück.

R: Tutte tragedie. Per me era tutta una tragedia. Mia sorella nelle sue condizioni mi sgridava, mi faceva forza e coraggio. Lei non aveva la forza di trascinarsi e io ero fragile. Mi vedevo… io non so se sarò stata lì da dieci giorni, mangiavo il pezzo di pane che mia sorella mi faceva passare perché quella sbobba non mi andava proprio giù, mi veniva da rimettere. Come si può mangiare una cosa che è contro lo stomaco?

D: Il ricordo più negativo che hai sono le violenze, le percosse oppure la fame, il freddo?

R: La fame, anche il freddo e quell’appello da stare tre ore dalle 4.00 alle 7.00 del mattino sempre tre ore lì sull’attenti. Non è facile da mandare giù, perché dovevamo farlo, perché dovevamo farlo? Non so se avevo 44 di numero eravamo in 44 penso. 44.000? Non lo so.

D: C’erano altre ragazze della tua età?

R: Sì, ce n’erano, degli altri paesi, dell’Italia eravamo solo noi quattordici. Poi non so perché ci sono stati altri gruppi, magari altri periodi, quando siamo andati via noi sono venuti degli altri o che erano venuti prima. Non so.

D: E in fabbrica hai lavorato fino a quando?

R: Fino a che hanno capito che si sentivano già i colpi dei cannoni; quello ci dava un po’ di forza, un po’ di coraggio. “Forse ce la facciamo, forse ce la facciamo”. A noi i Meister non potevano dare tanta confidenza, quando avevamo tutti i chiodi così, facevamo il mucchio, dicevamo tra di noi: “Sta venendo avanti il fronte. “Alles kaputt”: capivano che arrivava la fine per loro, tant’è che poi abbiamo trovato anche i bagni caldi, le case ancora riscaldate, ancora a posto quando noi siamo entrate e ci siamo trovate libere.

D: Ma prima della Liberazione vi hanno riportato a Ravensbrück ancora?

R: Io questo non me lo ricordo. Mi ricordo solo che ci hanno fatte preparare per andare via, abbiamo fatto un percorso in camion, poi a piedi. Mi ricordo che viaggiavamo sembrava in una foresta. Una cosa che mi ricordo è che ho visto un bel vischio sopra un pino. Ho detto: “Questo forse è il portafortuna”. Difatti io me ne sono accorta e poi ci siamo trovate noi libere. Poi ci siamo trovate chiuse in un locale che mi sembrava una stalla. A me sembrava una cosa così.

D: E tua sorella era con te?

R: No, mia sorella era all’ospedale, mia sorella non ce l’ha fatta a venire via, era all’ospedale e non si sapeva niente. Poi è arrivata e io lavoravo già alla FIAT.

D: Avete trovato i russi in quella stalla?

R: Erano fuori, erano fuori. Lì avevamo delle russe, loro hanno capito che oramai eravamo sole. Dovevamo stare molto attente perché c’erano gli apparecchi di continuo che mitragliavano, una cosa o l’altra. Dovevamo stare molto attente a non essere prese, a scamparla. Arrivare alla liberazione e lasciarci la pelle!! Stavamo molto nascoste, il più possibile, perché gli apparecchi caccia si abbassavano a mitragliare.

D: E da quel posto lì….

R: E da quel posto lì abbiamo fatto armi e bagagli e il necessario per vestirci, cambiarci, sul carretto abbiamo fatto 300 chilometri a piedi, fino all’Elba. Tutta la parte russa l’abbiamo fatta tutta a piedi: al fiume Elba dall’altra parte avevamo gli americani e allora era tutta un’altra cosa. Ci hanno fatto attraversare di là. Ad ogni modo eravamo con Anna, in tutto quel percorso siamo state molto unite con Anna. Eravamo vestite da maschietti per mascherare che non eravamo mica ragazze. La violenza lì non mancava e dovevamo stare nascoste per la violenza, violenza sessuale.

I russi, l’abbiamo subìta dai russi la violenza sessuale. Noi ci siamo trovate in ville con bei lettini, ci siamo sistemate lì a dormire, eravamo due nella camera mia, due o tre nell’altra camera. Per quello poi siamo state molto unite e vestite da maschio: sono venuti i militari russi ubriachi, col mitra, sul tavolino da notte e dover subire. Ce l’ho fatta a sgattaiolare e scappare. C’era una pozza di sangue. Andarmi a nascondere, poi sempre stare nascosta. Da allora con Anna restavamo nascoste, andavano i ragazzi, gli amici, fuori a fare la spesa; noi facevamo da mangiare, nascoste. É guerra. Noi tutta questa violenza di cui stanno parlando adesso l’abbiamo subita, purtroppo.

D: E dopo vi hanno preso gli americani?

R: Quando poi abbiamo attraversato e ci hanno preso gli americani ci davano da mangiare la mensa buona, ci davano la cioccolata, le caramelle. Ci davano quello di cui avevamo piacere; ce l’avevano e ci rispettavano. Abbiamo dovuto passare tutto un percorso per arrivare a destinazione e raggiungere l’Italia che era molto lontana.

D: Però l’avete raggiunta l’Italia.

R: Ce l’abbiamo fatta.

D: Come avete fatto Natalina?

R: Non so dire, non so dire perché sulla tradotta non c’era posto per tutti; c’era gente sopra i treni e quando passavano sotto i ponti e sotto le gallerie ci lasciavano pure la pelle. Tutti volevano prendere il treno, tutti volevano prendere il treno, tutti volevano venire in Italia. Tutti cercavano dei mezzi il più veloci possibile per arrivare in Italia. A Milano non ho trovato un gran che di accoglienza.

D: Quando sei arrivata in Italia?

R: Ero con Anna, siamo state liberate il 25 aprile, poi abbiamo fatto tutto questo percorso: siamo arrivate a luglio, siamo arrivate a luglio.

D: Passando per Bolzano, per il Brennero?

R: Sì, ecco dal Brennero. Quanta gente ha attraversato dal Brennero e ci ha lasciato la pelle, perché tutti volevano prendere il treno. Tutti volevano venire, ma più di tanti non ci si stava, neanche accavallati.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Non mi ricordo più. Anna diceva che ci hanno dato quella roba, era appena dopo la guerra, tutti avevano dei problemi per i fatti loro, non è che abbiamo avuto un’accoglienza del tipo “Arrivano i deportati”, no, no.

Da Milano ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto anche un tratto col pullman, forse da Bolzano alla stazione di Milano.

D: Tu non ti sei fermata a Pescantina?

R: No, non me lo ricordo neanche quel nome. Forse non davo tanto peso, non ci facevo tanto caso. Anna è più brava di me.

D: Poi sei arrivata a Torino.

R: Sì.

D: Tu accennavi prima alla tua casa incendiata. Lo sapevi che la tua casa era stata bruciata?

R: No.

D: Questo è avvenuto dopo.

R: Dopo; quando sono arrivata a Bussolengo ho incontrato un amico di mio fratello. E’ stato lui ad accompagnarmi, ad andare ad avvisare mia mamma che stavo arrivando per non farle venire un infarto. Essendo tutta la casa disastrata lei ha avuto anche i suoi problemi e poi non era più tanto giovane.

D: Quando vi hanno incendiato la casa e chi?

R: I fascisti.

D: E quando?

R: Quando siamo state portate via. Non so se l’hanno fatto subito. Io ho anche un fratello deportato, Bianco Romano: è stato a Trieste, alla Risiera di San Sabba.

D: E poi?

R: É stato preso più tardi in una chiesa fuori da Chivasso, mi sembra.

D: Ma è ritornato da San Sabba?

R: Sì, è ritornato anche lui. Lui ha fatto un po’ più tardi, ha fatto meno prigionia, penso.

Girardi don Domenico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Domenico Girardi, sono nato a Montesover, Comune di Sover in Val di Cembra il 14 agosto 1910.

D: Don Domenico, quando siete stato arrestato Voi?

R: Sono stato arrestato la metà di gennaio 1945.

D: Dove e da chi?

R: Lì ero parroco a Montalbiano di Valfloriana in Val di Fiemme e dico subito non ho fatto niente di particolare, soltanto opera di carità, son vissuto da buon cristiano. Altro che passavano di lì tanti italiani, tedeschi, anche russi, ucraini, americani, due per esempio che erano stati colpiti quando bombardavano il ponte di Egna si sono salvati col paracadute, son passati lì da me, ho dato ospitalità. Fra i tanti assistiti c’erano due tedeschi disertori dal fronte di Cassino. Son rimasti due mesi, poi son partiti. Come disertori erano condannati a morte in contumacia. Dunque sono stati ripresi dai tedeschi sempre dalle parti di Merano sopra Lavis. Hanno chiesto: Dove siete stati in questo frattempo, cioè dalla diserzione ad adesso?” Ed hanno fatto il mio nome.

Allora la mattina per tempo son venuti a prelevarmi sotto l’accusa di essere collaboratore di Banditen.

D: Chi è venuto ad arrestarvi?

R: Sono venuti ad arrestare la mattina in paese verso le 2.00, le 3.00. Il paese era circondato da circa duecento persone tra polizia trentina ed altri tedeschi. Mi sono accorto di cannoncini piccoli, non so il termine tecnico, erano nei punti strategici del paese. Credevano che fosse un paese pieno di partigiani e invece non era niente.

Ad ogni modo mi sono accorto perché un tale, Simone Nones, aveva comperato una mucca a Brusago e doveva andare a prenderla. Allora non son potuti passare. E’ venuto in canonica, mi ha suonato, mi sono alzato e allora siccome bestemmiavo un po’ di tedesco, sono disceso e ho fatto da interprete. ” Dieser Mann hat eine Kuh gekauft”, ha comperato una mucca. Niente da fare. Un’ora dopo circa il casaro che doveva andare a fare formaggio la medesima cosa. Intanto la mattina sono venute le 5.00. Sono entrati i tedeschi, la polizia trentina in tutte le case e hanno fatto uscire tutte le persone, gli uomini radunati lì nel piazzale davanti alla Chiesa, le donne lasciate libere.

Sono andato a celebrare la Messa. Era in latino, ci si voltava a dire “Dominus vobiscum”. Ho visto due SS con lo schioppo, baionetta in canna sulla porta della chiesa. Ho pensato tra me: “Guarda che buoni cristiani, stanno lì ad ascoltare la Messa”. Finita, entrato in sacrestia erano lì pronti. “Kommen Sie mit. Venga con noi. Ja, sehr gern.Molto volentieri”. Credevo nella mia ingenuità per non dire ignoranza che mi prendessero come interprete. Guardate la presunzione umana.

In quel momento così là era. Sono uscito, messo lì da parte. Ho cominciato a rientrare in me stesso. Devo andare a far colazione anche. “Nein”. Un po’ di colazione sono abituato a farla, un po’ comico. Allora mi hanno permesso, sempre accompagnato.

“Ha delle armi?” Qui è il punto, mi è venuta paura, perché avevo una Beretta, schioppo da caccia, non l’avevo denunciato perché mi premeva troppo, era nuovo, era stato un bel regalo. L’avevo nascosto su in cima, sopra l’armadio.

I tedeschi sono andati dentro. Ma davanti c’erano macchine di proiezioni per le scuole. Uno di loro è salito sulla sedia e in quel momento “pataclicchete”, è andata bene, s’è fermato, s’è fatto male al ginocchio. La mamma era con me. “Bono”, dice. “Bono”. Cioè hai avuto il giusto premio. Insomma, non l’ha trovato.

Dopo mi sono messo lì insieme con gli altri. Ad un certo punto tutti in fila verso il comune e da lì verso Trento, la prigione, via Pilati.

D: Ma tutti? Oltre a te anche gli altri paesani?

R: Non tutti, no. Ne hanno scelto una quarantina. Lì anche li hanno lasciati, anziani e così via. Quelli sui quali si sospettava maggiormente. La gente piangeva. Io li rincuoravo. “Ma no, perché?” “Noi torniamo?” “Volete che conducano via il parroco? No, io ritorno, sono insieme con gli altri. Come ritorno io…”. Sempre ingenuo, ignorante vorrei dire, non capivo la situazione in quanto io avevo fatto un’opera di bene, l’avevo detto alle SS. “Io ho fatto solo il sacerdote, predico la carità, ma prima di predicarla, devo tradurla nella pratica. Io non ho fatto niente dal lato politico o altro. Niente. Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati”.

Ero anche giovane, avevo trentacinque anni, ma potevo capirle certe cose. Non le ho capite sempre nella mia ingenuità. Poi in via Pilati. Qui sono rimasto due mesi e mezzo in cella.

D: In cella due mesi e mezzo d’isolamento?

R: Isolamento. Veramente isolamento per tanti motivi che non posso neanche nominare. Non posso dire. Questo isolamento, abbandonato da tutti. Ci si vedeva lì solo, abbandonato da Dio, abbandonato dal prossimo. Proprio non si poteva comunicare, almeno in un primo tempo, con nessuno, dopo venivano le mie sorelle a trovarmi, allora qualche notizia, altrimenti solo.

Pensavo: “Signore, è una scuola anche di psicologia, ma Signore, cosa ho fatto? Ho dato da mangiare, un’opera di misericordia, perché arrivare a ‘sto punto?” Entra quella debolezza anche morale. Non da perdersi di coraggio, non mi sono mai perso di coraggio, ma in certi momenti di ipotensione cardiaca si abbassava il morale.

Affamati naturalmente. In un primo tempo, un quartino, forse non era mezzo litro di brodo di dadi al giorno e due pezzetti di pane al giorno. A quell’età avevo anche appetito. Fatto sta che tra lì e poi al campo di concentramento ho sentito la fame.

Premendo sotto lo sterno si sentiva qualcosa di duro, era la spina dorsale. Adesso non la sento più. Era la fame, la fame. Arrivati ad un certo punto si diventa deboli, fiacchi. La sete è la cosa peggiore. Insomma io sono rimasto lì. Dopo due mesi e mezzo ci trasportano.

D: Scusa, don Domenico, ti hanno mai interrogato quando eri lì in prigione?

R: Sì, si. Mi hanno interrogato alla Villa Rossa dove adesso c’è l’ambulatorio del Dottor Torri, mi pare, lì davanti alle scuole. Due volte mi hanno interrogato.

D: Chi t’interrogava?

R: Era un tale di cui non conosco il nome, un tedesco. Dopo c’era un traduttore, aveva l’interprete. Mi è rimasta impressa una signorina, non aveva ancora trent’anni penso. Iena la chiamavamo. E’ venuta lì. Credeva che sapessi il tedesco. Parlando in fretta in tedesco naturalmente, ho capito un po’, ma ho fatto finta di non capire.

Alla fine coi pugni sotto, indietro, indietro, perché c’era il duro. Mi sembrava che mi era venuta la voglia, la tentazione di far così con quella forza, ho trentacinque anni, così di metterle le mani al collo. Mi sembrava di essere in grado di forarla. Quinto non ammazzare, però in quel momento… In certi momenti quasi quasi lo dimenticavo.

Dico: “Calma”; sono stato capace di mantenere la calma, di rientrare in me stesso. Mai, prima pensare e poi parlare.

D: Ma sei stato accusato di che cosa tu?

R: Di collaboratore di Banditen. Non di armi, collaboratore di banditi perché dando da mangiare a questi che per loro erano banditi, scampati, disertori, io ho tenuto la scala. Loro hanno rubato e io ho tenuto loro la scala. Pensate che io sono sacerdote, predico la carità, le opere di misericordia.

Anche mio papà mi ha detto, oltre che tutti gli altri, “Non è quello che predichi quello che vale, il bene non è quello che predichi, è quello che fai”.

“Ho dato da mangiare agli affamati. Per di più a due dei vostri, due tedeschi, per di più. Non mi pare di aver fatto niente di male”. Per loro erano Banditen perché condannati a morte. Per loro erano Banditen. Il mio reato è aver fatto il bene.

In prigione si può andare non soltanto quando si ruba, ma anche quando si ama.

D: Scusa, don Domenico, quando tu eri qui in prigione a Trento, era inverno vero?

R: Inverno.

D: Faceva freddo?

R: Sì. Questo inverno ha anche degli episodi belli. Il terreno tutto ghiacciato. Quando gli americani, gli inglesi bombardavano la città, lo scalo ferroviario, c’era tutto il terreno ghiacciato, dunque un corpo unico. Sembrava che le bombe cascassero lì vicino. Allora ci facevano discendere “Hinunter” dicevano, come rifugi sotto, negli avvolti delle prigioni. Lì una bella lezione.

Il momento della morte è il momento in cui anche i bugiardi dicono la verità. Inginocchiati, devoti, uomini. Le donne erano in un altro appartamento. Ci dia l’assoluzione. Inginocchiati come all’inizio di una battaglia. Atto di dolore. “Io vi assolvo dai vostri peccati, nel nome del Padre…”

Segno di croce con tanta devozione. Non segno geroglifico, ma un segno veramente da buon cristiano. Bisogna che dica, c’era anche il maresciallo Herr Kunt si diceva, erano tutti italiani lì, ma l’autorità maggiore era questo maresciallo tedesco. Arrivava, certe volte stava lì anche lui. Non il segno di croce, però stava sull’attenti.

Mi sembrava d’aver colto almeno il rispetto per l’azione che stavamo compiendo.

Un altro episodio. Dopo il primo tempo ho organizzato anche gli aiuti esterni. I miei parrocchiani ogni settimana mi mandavano un bel pacco.

Non ho mai sentito la gioia della carità come in quei momenti perché quando si riceveva qualcosa da fuori, al successivo raduno lì nel rifugio si condivideva. La gioia nel dare, perché altri venivano da altre province, non avevano nessun mezzo, nessuna assistenza. La gioia nel dare, in maniera che avevo da mangiare il primo giorno in cui ricevevo la visita, il secondo e dopo era come gli altri. Non ho mai sentito… Insomma, la gioia nel dare. Di voler del bene.

D: Don Domenico, le altre persone arrestate con te, quelle del tuo paese, sono state poi liberate?

R: Sono state liberate tranne il parroco di Casata, il parroco Don Partis, è rimasto lì con me quindici giorni e poi è stato liberato. Gli altri sono andati a casa tranne due.

D: Chi erano questi due?

R: Due. Uno era un mio parrocchiano, dopo il medico condotto, un certo Dottor Nicolini che dopo è venuto medico condotto dalle parti di Egna, Neumarkt.

D: Dopo due mesi e mezzo di carcere qui a Trento ti hanno portato dove?

R: A Bolzano, Durchgangslager, campo di smistamento. Lì eravamo circa duemila. Dico circa perché ne arrivavano cinquanta di nuovi e ne partivano trenta per Dachau, da quelle Büchenwald ,parti lì, almeno così si diceva. Ne arrivavano cento, ne partivano cinquanta e così via. Era Durchgangslager, dunque campo di smistamento.

D: Con cosa ti hanno portato da Trento a Bolzano?

R: A Bolzano su un camion, eravamo in quarantadue, anche lì è stata bella. Quarantadue su un camion scoperto naturalmente, ai quattro lati del cassone quattro SS col mitra sempre pronto.

Arrivati a Gardolo: “Schauen Sie dort” “Guarda lassù”, sei bombardieri scendevano in picchiata per bombardare il ponte della Vis, ma a quell’altezza sembrava la nostra direzione e allora “Schauen Sie durch”; hanno visto, fermano il camion alle prime case di Gardolo, siamo entrati in una casa fino al cessato allarme e poi siamo saliti.

Intanto uno l’è partito. Saliti sul camion per continuare, 50 metri un altro allarme. Dentro. Al primo è andata bene. Sono partiti altri tre. Da quarantadue siamo rimasti in trentotto. Ci avevano avvisati, ognuno che parte, che scappa, dieci vengono fucilati. Allora ne erano partiti quattro, eravamo in trentotto, tutti in fila, due file così. Ai lati SS, ce la siamo vista un po’… Dovevo dare coraggio perché ero prete. uno su dieci, siamo intrentotto, dovrebbero ammazzarne quattro, volete che vadano a Trento?

Fatto sta che pronti lì con il mitra, l’abbiamo vista brutta, ma dopo non hanno sparato. Invece che continuare per Bolzano, siamo ritornati a Trento in prigione dove eravamo prima e siamo partiti durante la notte per arrivare poi a Bolzano durante la notte.

D: Quindi durante la notte tu sei arrivato al campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Come te lo ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: L’ingresso, in fila, anzi due file. Tedeschi su dritti, bisognava fare i segni, cappelli, bisognava fare questo segno. Posso alzarmi? No. Allora bisogna far così. Giù, anche se uno non aveva cappello. C’era una damolina, una certa Kapeller. Il Dottor Nicolini, medico condotto, una persona molto intelligente, cappelli pronunciato dai tedeschi, Kapeller si è voltato un po’ a destra, a sinistra ‘sta Kapeller.

Il tedesco è andato lì, non uno schiaffo, un pugno. Era lì davanti. Un pugno, s’è riversato verso di me. Svenuto. Stava per svenire, allora l’ho fregato sulla testa, coraggio. Si è rimesso in sesto. Questo è stato il primo impatto.

Dopo ci hanno messi a dormire nel primo blocco, blocco A riservato agli ebrei. Durante la notte ne sono morti due, due ebrei che erano andati a prelevare da una casa di riposo. Uno scrupolo di coscienza da giovane, avevo poca esperienza. Uno proprio sotto di me. Eravamo in tre, uno sopra l’altro, tre.

Un moribondo, noi sacerdoti siamo abituati, le preghiere. Cosa fare? Non avevo niente. Ho dato l’assoluzione. Ho chiesto a uno che faceva la guardia di notte. Cosa c’è? Un vecchietto che sta morendo, niente, niente, sta morendo.

Uno, prima il saluto al medico con un pugno, uno sta morendo… Ho cominciato un po’ a raccapezzarmi. Dopo il secondo giorno ci hanno assegnato al nostro blocco, il mio era il blocco G, eravamo dentro in circa duecento.

Il blocco era come una divisione, camerette. Una malga, uno stallone con diversi divisori. Naturalmente uno sopra l’altro, anche lì tre. Anche lì da soffrire, però tanta consolazione, perché sapevano che io ero prete, mi avevano levato la veste naturalmente, mi avevano vestito… Una roba comica. Mi avevano dato un paio di calzoni da cavaliere, stretti… ” Diese Hosen sind zu klein, dico. Ste brache mi sono troppo strette. Nein”.

La prendevo con filosofia. Allora provare a metterle dentro. Erano proprio strette. Le ho messe dentro con fatica naturalmente. Dopo ho respirato. “Crac” hanno fatto e li ho visti ridere. “Diese Hosen sind zu klein”, dico calmo, tranquillo, cercavo di non arrabbiarmi perché ho come esperienza che man föngt mehr Fliegen mit dem Honig als mit dem Essig, cioè se ciapa più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, più con le buone che con le cattive.

Con i tedeschi mi sono arrabbiato una volta sola, lì l’ho vista brutta. Volè che ve la conta? Lì è una pagina brutta perché sono venuto a sapere che mio papà era morto. Papà e mamma erano con me in canonica. Sono venuto a sapere che era morto. Allora sono andato lì. “Mei Vater ist gestorben”. “Il mio papà è morto, fatemi qualsiasi condizione, pur di vedere la mamma”. La mamma per me era tutto.

A un certo punto c’era un tavolo alla porta d’uscita, una scala, un tavolo rettangolare, ascoltava. Dicevo: “Non ho soldi qua, ma ho campi, prati a casa. Pago tutto, vendo un campo pur di vedere mia mamma”, perché mia mamma non sapeva neanche se ero vivo.

D: Questo è successo quando era in campo di concentramento?

R: In campo di concentramento, sì. L’altro dopo aver ascoltato, anche qui ingenuo, credevo, forse mi sembrava commosso. S’è alzato, adesso non posso muovermi, ha fatto il giro, ho visto dal segno del piede che stava per darmi un calcio. La porta era aperta come un ponticello dopo la scala. Non mi ha raggiunto, mi ha raggiunto soltanto di striscio con quelle scarpe di montagna qui nella parte deretana, ne porto ancora la cicatrice.

Cicatrice nel senso che la pelle è un po’ ruvida. Non posso lasciarvela vedere. Quando sono stato in fondo, mi sono voltato ho detto: “Heute mir, morgen dir”, cioè oggi sono io che le piglia, ma domani potresti essere tu. Cric crac per il campo. Lì sono diventato un po’ furbo, invece che andar diritto, andavo così perché era più difficile. Non ha sparato, ma me la sono vista veramente…

Toccarmi negli affetti più cari, più intimi, papà e mamma, non sono stato capace di vincermi.

D: Don Domenico, quando allora sei entrato ti hanno messo al Blocco A, poi al Blocco G.

R: G.

D: Ti hanno tolto il tuo abito?

R: Sì, questo me l’hanno levato, l’hanno messo in un sacco da cemento vuoto. Dopo ho guardato dove lo mettevano. L’hanno messo sopra le prigioni del campo. Ho guardato proprio perché magari pensavo che un domanisarei andato a prendermelo. Mi hanno dato la divisa, ho detto prima, quella divisa da cavaliere non andava bene. Allora mi hanno dato una tuta grigia. Bianca era originariamente, ma era grigia con la croce di Sant’Andrea davanti, sulla schiena e nei calzoni.

Croce di Sant’Andrea perché era un segno. Non si poteva uscire. Se si voleva scappare bisognava andare come si era e quindi si veniva riconosciuti. Invece il segno eccolo qua. Qui uno che non l’ha provato, non può immaginarselo.

Più delle botte mi faceva soffrire questo segno. Più delle botte. Qui era nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale, era tutto, tutto. Vicino a questo c’era il triangolino rosso. I colori di questi segni erano tre: il giallo per gli ebrei, l’azzurro per gli ostaggi, cioè scappava un figlio, andavano a prendere il padre e il rosso per i politici, per i peggiori. Io ero uno dei peggiori.

Questo vuol dire: nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale. Anche un cane ha un nome: Fido, Bobi, così come quello della televisione. Un cane ha un nome. Tu sei peggio di un cane e questo moralmente era una sofferenza proprio che colpiva.

D: Lì dentro?

R: I soldi, quando sono partito da casa sono sempre stato povero, avevo trecento lire. Centocinquanta le ho lasciate ai miei e centocinquanta me le son prese io. Entrati nel campo ce le cambiavano perché non si poteva comperare, né negoziare con l’esterno. Ci davano dei soldi di valore, questa era una lira.

Questa era anche una scuola. Lì dentro c’era il Comitato di Liberazione Nazionale, il famoso CLN. Lì rappresentati da cinque partiti: Comunisti, Socialisti, Partito d’Azione, adesso Repubblicano, Democrazia Cristiana e Liberali.

E quando alle 6.00 di sera ci chiudevano nei blocchi, allora ci trovavamo tutti i rappresentanti di questi cinque partiti. Sono stati gli altri perché di politica non me ne intendevo niente, come me n’intendo poco anche adesso magari.

Mi hanno dato quello della DC, la firma è Pirelli, credo che sia quello delle gomme Pirelli, porto ancora la firma, questo è l’originale. Reverendo Girardi Don Domenico, matricola 10626 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di Bolzano e merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata in riconoscimento dei sacrifici sofferti per la patria oppressa.

Perché questo sia valido, doveva essere munito del documento di scarcerazione, eccolo qua, Entlassungsschein, il documento di scarcerazione e poi questo tagliandino, il distintivo speciale, questo.

D: Don Domenico, quando ti chiamavano allora per l’appello, ti chiamavano con il numero?

R: 10626 pulizia. Allora andavo. Il mio lavoro da principio era la pulizia dei gabinetti, non si può neanche dire perché di gabinetti non ce n’erano. Descrivo come era. Era un bidone di circa un ettolitro, un bidone di latta, in cima c’erano due orecchini così. La mattina questo funzionante gabinetto era pieno di escrementi.

Allora io e un altro prendevamo un palo, lo infilavamo in questi aggeggi, lo si portava fuori in una buca. Dopo hanno fatto una specie di orinatoio scorrevole. Allora avevo meno lavoro. Questo era il lavoro: fare le pulizie.

Dopo il lavoro batter su legna, è una delle belle consolazioni. Consolazioni per una scuola. Immaginarsi una bora di circa 20 metri, ai lati due SS col mitra sempre pronto a sparare, guai a parlare, non dicevano vai in fretta o altro, no, non parlare.

Avanti così. “Padre mi confessa?” “Sì, volentieri” Quando diceva “Confessami”, veniva lì vicino a me, intanto lavoravamo insieme, sempre in movimento. Tante volte, tanti, ma tanti che venivano a confessarsi. Dando l’assoluzione, alzando la mano facevo finta di asciugarmi il sudore, non c’erano fazzoletti.

“Io ti assolvo dai tuoi peccati in nome del Padre…” Un segno geroglifico ed era l’assoluzione. Finito un ramo dopo ne veniva un altro e tutti i giorni. Più di tutto la sera quando ci chiudevano nei blocchi, “Mi confessa Padre?” “Sì, volentieri”.

Io ero al terzo piano, lì vicino alla finestra, finestra senza vetri, mi sono preso anche una faringo/laringite cronica, per questo la voce con facilità mi scappa. Lì confessare. Barba lunga, testa rapata, confessore, confessando tutti uguali. Non mi sentivo di stare seduto, inginocchiati tutte due.

Per me era una bella consolazione poter dare una parola di conforto.

D: Don Domenico, quando sei arrivato tu nel campo di Bolzano ti ricordi che periodo era?

R: Il periodo era fine marzo.

D: Del ’45?

R: ’45. Arrestato la metà di gennaio.

D: Un’altra cosa Don Domenico. Tu potevi celebrare Messa?

R: No, mai, mai, né in prigione a Trento, mai, né celebrare, né dire il breviario, anzi, non si poteva avere niente. No, mai, mai celebrato.

D: Ti ricordi se c’erano altri sacerdoti con te a Bolzano?

R: Sì, a Bolzano lì al momento non ne vedevo, ce n’erano stati, Don Guido Pedrotti, ma era già partito. Dopo Monsignor Daniele Longhi anche. La domenica veniva un Monsignore di Genova dicevano, un Monsignore di Genova a celebrare la Santa Messa.

Un fatto che mi è rimasto impresso: la terza domenica di aprile ormai c’era odore di libertà. E’ venuto Monsignor Bortignon, allora Vescovo di Feltre/Belluno, dopo è diventato Arcivescovo di Padova. Quel famoso, bravo Vescovo che ha dato l’Olio Santo in fronte ai partigiani uccisi dai tedeschi a Bassano. S’è preso una scaletta, erano impiccati e ha dato l’Olio Santo.

Questo Vescovo, erano presenti anche SS, ha parlato in maniera ineccepibile, non potevano accusarlo i tedeschi, ma ha fatto capire a noi che ormai la vittoria, l’uscita, la Liberazione era vicina.

Anche il bell’episodio. Io avevo messo insieme un coro, cantavamo durante la Santa Messa. Le canzoni che sono conosciute dalla Sicilia fino a Bolzano. “Mira il tuo popolo”, “Lieta armonia”, “Inni e canti”, “Sciogliamo un cantico”, ecc. Queste canzoni che comunemente cantiamo o cantavamo dappertutto perché adesso ci sono altre novità.

Immaginatevi, duemila cantori. Ero su un podio, era una cassetta che scricchiolava, ero in pericolo di cadere, che dirigevo “Mira il tuo popolo”. Erano dei canti, credo che Riccardo Muti di fronte a quei concerti sarebbe risultato inferiore. Voglio dire una massa di gente stonata, non vorrei offendere la fama di Riccardo Muti…

Che sia canto stonato o non stonato, ma un’impressione, duemila persone a squarciagola che cantano “Lieta armonia”, “Mira il tuo popolo”, “Inni e canti” e così via. Vicini alla Liberazione, almeno così presentivamo. Una bella pagina.

D: Don Domenico, ti ricordi se c’erano anche delle donne nel Lager di Bolzano?

R: Sì, c’era un blocco riservato proprio alle donne. Era il blocco mi pare, non ricordo se era il blocco N. Era circoscritto, potevano uscire a pigliare l’aria fuori del blocco, potevano uscire in un piazzale. Naturalmente c’era il reticolato. Non si poteva avere nessun contatto con gli uomini, però si vedevano dentro. C’erano anche alcune che conoscevo. Questa Kapeller che ho nominato prima.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini dentro nel campo?

R: No, proprio ragazzini e ragazzine non ne ho visti.

D: In fondo al campo c’era il Blocco Celle.

R: Il Blocco Celle. Noi la chiamavamo la prigione del campo. Lì un episodio che mi ha fatto… La prigione, l’ho qui davanti alla mente come se fosse capitato ieri.

La domenica pomeriggio, la mattina sempre lavorare, ma nel pomeriggio avevamo la libertà di passeggiare nel piazzale, oppure di fare le nostre pulizie personali, nettarci. Ci spogliavamo come i vermi e mettevamo il vestito nella macchina la chiamavamo massapioci ad una gradazione di 100 gradi dicevano.

I pidocchi venivano tutti uccisi. Il vestito sterilizzato, dopo se davi uno strappo così, si metteva. Intanto si stava lì. Una domenica pomeriggio dunque tutti dentro nei blocchi. Cosa c’è? A un certo punto verso le 3.00 una voce da una delle celle: “Dio, mamma”, forte, una voce femminile, avrà avuto venti, venticinque anni, “Dio, mamma, mamma, Dio”. Sarà durato circa dieci minuti. Dopo non si è sentito più niente. S’è visto un carro con le ruote militari, con le ruote lunghe tirato da un asino rognoso, un soldato che tirava si è avvicinato con la retromarcia all’entrata delle prigioni, hanno caricato qualcosa. Io non ho visto proprio con i miei occhi, ma certo il corpo esanime, il cadavere coperto con una tela cerata ed è passato lì sotto proprio alla finestra del mio blocco.

Ho visto che non era la tela cerata liscia così piana, ma era un po’ curvata. Sotto c’era il corpo. Dicevano due ucraini che una cella era riservata proprio per il martirio, si diceva. Acqua, all’entrata uno scalino alto così, botte, ciac, uno, l’altro, dai ancora finché la vittima era morta, cadeva per terra, se non era morto dalle botte, si apriva il rubinetto e moriva annegata.

Io però non l’ho visto. Sono entrato alla fine ma di sbirciata perché non avevo altra voglia che di prendere la mia veste, ero andato a prenderla sopra intanto e l’ho indossata, l’ho baciata e l’ho bagnata di lacrime di consolazione. Siamo ritornati a piedi fino a Cavalese.

D: Prima della Liberazione dentro nel campo quindi tutti voi avevate un lavoro?

R: Sì.

D: Non uscivate dal campo?

R: Sì, si usciva, non sempre, ma si usciva quando in città c’erano dei bombardamenti, allora si usciva come operai per riparare, la stazione in modo particolare, si faceva la parte dell’operaio. Era anche qui una bella consolazione perché c’era gente, sempre scortati dalle SS naturalmente, ma ci davano qualche pezzo di pane, si faceva in modo di ricevere senza essere visti.

D: Don Domenico, tu ti ricordi quando sei stato dentro nel campo di Bolzano se potevate scrivere e ricevere dei pacchi?

R: No, non si poteva avere nessuna comunicazione con l’esterno, nemmeno riceverla. Io non ho mai ricevuto, non ho mai scritto, non era possibile, interdetta qualsiasi comunicazione.

D: Ti ricordi se attorno al campo, cosa c’era, un muro di recinzione?

R: Un muro di recinzione, sì, ma non mi sono mai avvicinato, tra lavoro, dopo c’era il piazzale interno, dopo si era occupati al lavoro, dopo le 6.00 ci chiudevano nei blocchi, non c’era tempo di far passeggiate. Si era controllati.

D: La Liberazione, cosa ti ricordi della Liberazione dal Lager di Bolzano?

R: La Liberazione, gli ultimi giorni avevamo tanta paura perché si era diffusa la voce che i veri partigiani avrebbero assaltato il campo, ci avrebbero liberato. Circolava la voce, per dire è tutto radio scarpa, circolava la voce che i tedeschi non avrebbero dato il campo ai partigiani assolutamente, piuttosto ci avrebbero uccisi tutti quanti. Questo era il pensiero, la paura. Si diceva, “Voi partigiani state dalle vostre parti, fate quello che avete fatto fino adesso. Lasciate”. Difatti è entrato, se ben ricordo, il 27 aprile uno si diceva fosse rappresentante della Croce Rossa Internazionale, uno svizzero e siamo partiti con la carta di legittimazione, eccola qua, Entlassungsschein, il lasciapassare proprio così, Entlassungsschein Girardi Domenico,

geboren 14.8.1910, Bozen entlassen. Con questo anche se ci avessero fermati, anche per venire a casa c’erano posti di blocco, con questo potevamo superare qualsiasi difficoltà.

D: Quindi tu sei stato liberato dentro nel campo di Bolzano e poi a piedi sei uscito dal campo?

R: E arrivato… Fino a Ora col treno, no, con mezzi di fortuna, poi col trenino fino a Cavalese. A Cavalese siamo arrivati alle 2.00 di notte, entrati in un convento, c’era il padre guardiano, una volta era padre guardiano, Padre Giuseppe De Gasperi.

Arrivando alle 2.00 abbiamo messo sottosopra il convento, mangiato finalmente un po’ di pane, di formaggio. Dopo riposato, se così si può dire, la mattina ritornati a casa, io a Valfloriana che dista circa 8/10 km.

Lì una scena commovente, perché preparato quel Don Patis di cui avevo parlato, era compagno di prigionia, tutto organizzato, dovrebbe arrivare Don Domenico. Allora avvisati tutti i parrocchiani, il suono delle campane e mi sono venuti incontro per circa 4 km. fino al centro, tutti. Vedevo anche delle mamme con i bambini piccoli sulle spalle.

Scusate, anche se sono passati cinquantacinque anni, ma mi par di viverla quella roba. Viene commozione. Ritornato. Prima stazione in chiesa, ringrazio il Signore che era lì vicino, “Ringrazio Signore che mi avete fatto ritornare”.

Vicino alla chiesa il cimitero, il papà morto il 14 aprile, seppellito il 16. C’erano ancora i fiori appassiti. Visita al cimitero, qui incontro con la mamma. Qui la fossa, io e qui la mamma. L’abbraccio. Un’emorragia nasale, cola il sangue, bagnati tutti quei fiori. Dicevano un litro di sangue. Una fortuna. Se non avessi avuto quell’emorragia, potrei essere morto in altre maniere. Emorragia cerebrale, una sincope cardiaca o altro così. L’incontro con la mamma.

Ritorno in canonica a pochi passi. C’erano le mie sorelle anche e andavo errando, al momento contento ma andavo errando. Andavo cercando mio padre, inconscio di quello che facevo. Contento, ma mi mancava qualcosa, mi mancava il papà. Ho visto le sorelle e vado a cercare il papà.

Qui un dolore. E’ passata, adesso sono qui, scusate la commozione, ma quando si ha una certa età…

Buttol don Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono don Raffaele Buttol, nato il 9 maggio 1918 ad Agordo, ordinato sacerdote nel 1943, mandato cappellano a Vodo di Cadore in novembre. Ho avuto una pleurite proprio in quell’anno e ci sono rimasto un anno; durante l’estate del 1944 sono cominciati i movimenti partigiani da quelle parti.

La scintilla è scoppiata con la morte di Bill, avvenuta in un rastrellamento da parte della Gestapo al rifugio Venezia.

I partigiani erano accampati sul Monte Rite, dove ora stanno trasformando il forte in museo di montagna.

Alcuni partigiani sono scesi, sapendo che c’era questo rastrellamento, incontro ai tedeschi.

Due sono scesi sul ponte sul Boite, dove il passaggio dei tedeschi era obbligatorio e con imprudenza si sono nascosti là per combattere.

Sennonché due tedeschi li hanno visti, hanno buttato una bomba, Bill è morto, Penna ferito ad una spalla è stato preso prigioniero, portato alle carceri di Belluno e si pensa che sia stato fucilato in quelle carceri.

Ho avuto un incontro con i tedeschi che portavano via Penna, i quali mi hanno detto che c’era un partigiano che aveva fatto kaputt.

Il giorno seguente, insieme ad un certo Pietro Talamini, fratello di Riccardo Talamini, chiamato Orso, nome di battaglia, si trovava sul Rite, abbiamo perlustrato il bosco alla ricerca della salma di Bill.

D: Raffaele, quando è avvenuto questo? Ti ricordi la data?

R: All’inizio di agosto del ’44. Siamo saliti fino al Monte Rite cercando la salma, ma non l’abbiamo trovata, siamo scesi.

La salma è stata ritrovata poi da un cacciatore, perché sentiva l’odore di corruzione. Da allora ho avuto continui contatti con i partigiani, dato che li abbiamo incontrati sul Rite. Ho avuto contatti anche con Gallo, il nome di battaglia era… mi scappa il nome.

D: Dopo lo recuperiamo.

R: Era comandante della Brigata Calvi. L’ho incontrato la prima volta in bicicletta e si è fermato a chiacchierare con me e mi ha chiesto se potevo conservare dei viveri per loro in canonica e li ho conservati. Questo perché un battaglione della Calvi si era trasferito proprio nella nostra zona, il battaglione Bepi Stris.

Il motivo perché si era trasferito lì era questo: il trenino di Cortina faceva servizio di trasporto d’armi; le armi arrivavano via Linz a Dobbiaco, da Dobbiaco caricavano sul trenino di Cortina – Calalzo. A Calalzo le trasportavano su quello di Padova e così le armi arrivavano al fronte.

Questo a causa di bombardamenti del Brennero, per cui c’era molta difficoltà a portare armi attraverso il Brennero.

Una missione di alleati aveva avvisato i partigiani che gli alleati avevano intenzione di bombardare la Valle del Boite per impedire che il trenino funzionasse.

Allora la Calvi promise che avrebbe trasferito nella Valle del Boite un battaglione per sabotaggi e così è stato.

E’ stato affidato questo compito al battaglione Bepi Stris ed allora ci sono stati diversi scontri.

Di notte i partigiani facevano saltare ponti, venivano minati e saltavano, finché i tedeschi stanchi di questo continuo sabotaggio avevano rastrellato truppe per l’Austria e portate fuori, hanno fatto un grande rastrellamento sui boschi dell’Antelào, da sopra San Vito, verso Vodo.

Sono stato avvisato del rastrellamento da un certo Signor Ragni, che era interprete della gendarmeria di San Vito, la quale gendarmeria si era collocata all’Alberto Malgora, dove questo signore era direttore. Avendo visto come mi trovavo, la mia situazione, quel signore mi ha avvisato del rastrellamento, pregandomi di dire ai partigiani di scappare e di non combattere, di nascondersi perché anche per un solo tedesco che fosse morto, avrebbero, per rappresaglia, bruciato Vinigo.

Non potevo muovermi perché era domenica ed ho mandato su sempre il fratello di Orso, Piero Talamini, il quale avvisava i partigiani; i partigiani sono scappati, si sono nascosti e non è successo nulla, è andato tutto liscio.

Qualcuno si è accorto del mio colloquio con un ragazzo che è arrivato in bicicletta e che mi ha avvisato della cosa e hanno denunciato me e sono stato arrestato ai primi di novembre del 1944.

D: Prima, ad ottobre, qualcuno aveva denunciato i tuoi rapporti con i partigiani?

R: Penso di sì, perché i tedeschi nell’interrogatorio mi hanno chiesto anche altre cose.

D: Ti hanno arrestato dove?

R: Mi hanno arrestato a Vodo. Sapendo di dover essere arrestato, perché avvisato, andai a Belluno e poi venni a casa mia; andavo a salutare i miei e ritornando a Calalzo ho incontrato una signorina che mi avvisava che i tedeschi mi cercavano, erano stati a Vodo per arrestarmi e non trovando me avevano portato via il parroco e la domestica.

Il parroco mi hanno detto che era sul trenino che ritornava a casa, rilasciato dopo un interrogatorio, e la domestica era ancora agli arresti. Sono salito sul trenino, sono arrivato a Peaio, una frazione prima di Vodo.

La mia intenzione era di tenermi nascosto, scappare per le montagne e ritornare ad Agordo.

Invece mi sono rifugiato la mattina presto in asilo, è arrivato il parroco per dire la messa in asilo, ci siamo incontrati, poi è ritornato in canonica, ha trovato i gendarmi che volevamo arrestarmi e lui ci è cascato: ingenuamente ha detto che ero in asilo ed ho dovuto presentarmi, di conseguenza; così è andata la cosa.

Mi hanno arrestato, mi hanno portato a Tai, là sono stato interrogato per tre ore, insistevano perché firmassi un verbale e mi sono rifiutato di firmarlo. Ad un certo momento ho buttato la penna sul tavolo, dicendo che mai mi sarei condannato da me firmando delle cose false e presi la porta per uscire: mi hanno lasciato andare.

D: A Tai dove ti hanno portato?

R: Nelle caserme, c’è una caserma, a Tai.

D: Da chi era gestita questa caserma?

R: Dalle SS penso in quel momento.

Avevano rastrellato anche tutto il Cadore, c’erano stati anche degli impiccati in Cadore in quel periodo ed addirittura avevano incominciato ad impiccare con il gancio anziché con il laccio, una cosa tremenda e pensavo che avrei fatto quella fine anch’io.

Quando sono uscito dall’interrogatorio, lungo il corridoio c’erano uomini armati da una parte e dall’altra con la baionetta in canna. Quando arrivai davanti alla mia cella volevo entrare, invece un soldato mi ha detto: “No, reverendo, venga con me”.

Mi ha accompagnato giù per le scale ed allora ho pensato che mi portassero sulla piazza d’armi per impiccarmi o per fucilarmi ormai, invece mi hanno portato, guarda che sorpresa, al cancello perché una donna mandata dal parroco di Pieve di Cadore ci portava da mangiare.

Dopo alcuni giorni ci hanno portato via, eravamo in diversi prigionieri, ognuno di noi aveva un angelo custode tedesco, con il trenino fino a Dobbiaco, e a Dobbiaco siamo scesi.

Nel frattempo è venuto un allarme aereo, sarebbe stata l’occasione buona per scappare, ma avevo sempre il mio angelo custode attaccato e quindi sono dovuto salire sul treno assieme agli altri e siamo arrivati a Bolzano.

Di notte ci hanno accompagnato al Corpo d’Armata e di lì immediatamente, senza neanche entrare, al campo di concentramento di Bolzano: lì sono rimasto per alcuni mesi.

D: Raffaele, quando sei entrato a Bolzano vi hanno spogliato e vi hanno immatricolati?

R: Subito in campo di concentramento. Abbiamo lasciato i nostri vestiti, ci hanno dato una tuta di canapa, color canapa mi sembra, con la croce di Sant’Andrea sulle spalle, il numero, il mio 6.447.

D: Assieme al numero vi hanno dato qualche altra cosa?

R: Il triangolo rosso, il segno della causa per cui eravamo dentro, politici.

D: In quanti eravate voi, nel tuo gruppo?

R: Partendo da Tai? Saremo stati una ventina penso, non ricordo il numero, ma una ventina sì.

D: Ti ricordi il nome di qualcuno?

R: No, non ricordo proprio, non ricordo più, mi dispiace.

D: C’erano anche delle donne in questo gruppo?

R: No, solo uomini.

D: Quando sei entrato a Bolzano in che blocco ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Confinavo con il blocco delle donne, il D mi sembra. So che parlavamo anche con le donne attraverso i reticolati in alto, la parete che divideva.

D: Gli altri sapevano che tu eri un sacerdote?

R: In campo sì, mi sono subito manifestato come sacerdote e venivano anche a confessarsi, venivano anche a consolarsi, io cercavo di aiutare quanto più potevo.

Il lavoro però era faticoso, portare travi, era un lavoro veramente faticoso, si facevano le piaghe sulle spalle.

C’era un deposito di travi fuori del campo di concentramento, dovevano allargarlo, abbiamo portato via tutte quelle travi, dopo abbiamo preparato i plinti in cemento armato alti meno di un metro, per porci sopra altre baracche ed allargare il campo.

Una curiosità: un giorno, mentre lavoravo a fare i plinti fuori del campo di concentramento, vedo una donna fuori dai reticolati: era mia sorella.

Allora ho detto ai miei compagni: “Là c’è mia sorella, fuori!” “Prenditi un piccone, vai su vicino”, mi hanno detto.

Ho preso un piccone, ho cominciato un buco, ma mia sorella come mi ha visto mi ha riconosciuto e si è messa a gridare il mio nome ed una guardia sulla garitta ha cominciato a gridare, urlare e puntare il fucile, per cui io sono scappato e mia sorella ha dovuto allontanarsi.

Ero stanco per le fatiche; i lavori di fatica erano affidati sempre a chi aveva un titolo di studio, a chi non aveva un mestiere pratico: medici, maestri, laureati ed anche preti.

Un giorno mi lamentavo del lavoro, della fatica che facevo con un tizio incontrato prima della conta sul campo aperto: mi ha chiesto chi ero ed ho detto: “Sono un prete della diocesi di Belluno e faccio veramente fatica a fare certi lavori”.

Allora lui, veramente buono, era un emiliano, mi ha detto: “Guardi, sono responsabile dei falegnami in campo, chiederò un altro falegname perché ne ho veramente bisogno. Quando il comandante chiede se c’è un falegname tra voi, tu alza immediatamente la mano, senza esitare.” Così ho fatto ed il giorno seguente o la sera seguente, non so, mi hanno chiamato fuori e sono andato a lavorare in falegnameria.

D: Dov’era la falegnameria?

R: Dentro nel campo.

D: Quindi non uscivate dal campo.

R: No, preparavamo le baracche per l’allargamento del campo.

Mi hanno dato una tavola da piallare, la pialla si piantava come una zappa nel campo e non andava avanti, allora si sono messi tutti a ridere. Erano tutti emiliani in quell’ambiente. Allora mi hanno detto: “Tu non sei mica falegname!” “No” dico “Qual è il tuo mestiere?” “Indovina!” Hanno cominciato a chiedermi i mestieri, poi i titoli, lauree niente.

“Insomma che cosa sei tu?” “Prete” ho detto. Da quel giorno mi hanno dato sempre del Lei, gli emiliani.

D: Raffaele, mentre trasportavate i pali lo facevi assieme ad altri deportati?

R: Sì, c’erano questi due di Lentate sul Seveso, sono poi venuti a trovarmi qui ad Agordo. I Parisio, due fratelli.

D: Nel campo c’erano altri sacerdoti?

R: C’era un certo don Andrea Gaggero, che era chiuso nelle celle perché aveva fatto il damerino della mensa degli ufficiali. Una volta entrando gli avevano affidato denari, non so chi, da portar dentro per i deportati genovesi, glieli hanno trovati addosso e quindi lo hanno chiuso in cella e castigato per diverso tempo.

A quello, sapendo che c’era, ho passato una Divina Commedia, un Dantino piccolo, formato tascabile, perché si passasse il tempo, anzi mi hanno permesso di entrare a vederlo, una guardia. La guardia delle celle era un altoatesino, era un buon individuo, portava dentro anche sigarette se gliele davano.

In cella, fra l’altro, c’era anche il segretario comunale di Vodo di Cadore, Filippi Antonio, incarcerato perché non aveva testimoniato contro di me.

Quel Dantino è rimasto in cella, lo so perché dopoguerra ho letto un giornalino femminile ed una deportata raccontava del campo di concentramento di Bolzano e di aver avuto tra le mani, nelle celle, perfino un Dantino, con grande meraviglia sua: come aveva fatto ad entrare quella Divina Commedia? Era il mio io penso, senz’altro.

D: Raffaele, ti ricordi di un medico all’interno del campo?

R: Lo ricordo sì. Sono andato da lui perché ero pieno di macchie rosse attorno alla cintura; siccome c’era la scabbia in campo pensavo di avere anch’io la scabbia.

Sono andato da lui, mi ha guardato e mi ha dato uno schiaffo sulla pancia, dicendo: questi sono pidocchi, non scabbia.

D: E’ stato quel medico che è stato colpito, che ha subìto dei maltrattamenti?

R: Non ricordo, mi sfugge.

D: Anche un falegname…

R: Un falegname sì, l’ho visto. Un falegname aveva lavorato nel blocco delle donne; finito il lavoro percorreva il corridoio di reti con la scala sulle spalle e un martello nel taschino. Ad un certo momento si è fermato perché il corridoio era chiuso da dei sottufficiali che ascoltavano il maresciallo, lui parlava.

Si era fermato a distanza, uno di questi sottufficiali ha fatto un passo avanti per lasciarlo passare, lui, credendo che fosse l’invito a passare si è mosso, sennonché il maresciallo pensando che avesse scomodato quegli ufficiali, è andato lì, ha levato il martello dal taschino e gli ha dato un colpo in testa.

Dopodiché io non lo incontrai più quel falegname, non lo vidi più.

C’erano delle avventure in campo di concentramento.

D: Non ti ricordi il nome di questo?

R: No, non lo sapevo, non l’ho mai saputo neanche.

D: Adesso ti dico un nome che ti ricorderai. In campo c’era anche un maestro, il maestro Palmeri.

R: Quello lo ricordo, faceva il facchino del carro, e un giorno mi ha avvisato: “Guarda don Raffaele che domani ho un incontro con mia moglie in un magazzino, incontro progettato da un magazziniere, se hai bisogno di qualcosa”. Allora ho preparato una lettera per il mio vescovo, gliel’ho data, se l’è messa nelle scarpe, nel magazzino ha finto di doversi allacciare la scarpa, l’ha levata e l’ha consegnata alla moglie e quella lettera è arrivata al mio vescovo.

In quella lettera io dicevo al vescovo che ero stato processato, ma non avevano testimonianze contro di me, anzi, mi ero rifiutato anche di firmare il verbale. Per cui il vescovo ha avuto la lettera ed è intervenuto. Si è incontrato con il Dott. Sailer, presidente del Tribunale Speciale di Bolzano ed hanno progettato di levarmi dal campo di concentramento e trasferirmi ancora alle carceri giudiziarie di Bolzano per rivedere il processo.

Al vescovo, me lo ha detto il vescovo quando uscii, ha detto che avrebbero rivisto la causa, ma se mi trovavano colpevole avrei avuto la fucilazione come minimo, fucilazione al petto anziché alla schiena.

Ma la cosa è andata liscia, nessuno più testimoniava perché la guerra andava male per i tedeschi. Tutti avevano paura a parlare e così riaperta l’istruttoria in Cadore non sono venuti a capo di niente, anzi il Tribunale Speciale aveva preparato il foglio di scarcerazione, era venuto Sailer, assieme a Hölzl, in carcere a dirmi che avevano preparato il foglio, ma le SS lo avevano cestinato.

Nel frattempo hanno detto che avrebbero pensato a qualcos’altro per farmi andare a casa, ma nel frattempo mi avrebbero mandato nelle carceri giudiziarie, nelle carceri mandamentali di Silandro.

Difatti una sera è venuto un gendarme che mi ha preso perché doveva trasferirmi a Silandro ed ho fatto il viaggio con lui.

D: Hai parlato più volte del vescovo, del tuo vescovo, ma chi era?

R: Monsignor Maffeo Ducoli, un eroe. Mi commuovo quando parlo di lui. Un eroe anche della Resistenza, davvero, sotto tutti gli aspetti, ha sempre difeso le popolazioni, ha parlato forte contro gli occupanti e ha difeso quanta più gente poteva. E’ stato anche lui sequestrato per lavoro lungo una strada tra Belluno e Feltre.

E’ stato sequestrato anche a Feltre e portato dentro nel piazzale della fabbrica dell’alluminio e poi è stato rilasciato, ma sulla strada ha dovuto lavorare anche lui una volta, assieme agli altri fermati.

Poi è merito suo una cosa che resta in memoria di tutti i bellunesi: a Belluno hanno impiccato quattro partigiani che erano in carcere, è stata una rappresaglia e lui, saputo questo, si è presentato in piazza, sfidando anche l’ira dei gendarmi e di chi era lì.

Si è fatta portare una scala ed è salito, ha dato l’olio santo a tutti quanti quei quattro.

D: Scusa Raffaele, come si chiamava il vescovo?

R: Maffeo Ducoli.

D: Non c’entra con Bortignon?

R: Scusi, sbagliavo io! E’ Bortignon. Bortignon, era amministratore apostolico della diocesi di Belluno, poi è stato trasferito con grande nostro dispiacere a Padova ed è morto a Padova. Come si fa a correggere ora?

D: Non c’è problema, è corretto. Quindi il tuo vescovo era Bortignon, ed è venuto anche nel campo.

R: Io ero già fuori dal campo, forse ero in carcere, so che è andato in campo ed ha detto anche una messa in campo di concentramento.

D: Aveva portato anche dei generi alimentari.

R: Sì, certo. Ha sfidato le ire dei tedeschi; ha scritto una lettera a Franz Hofer, ferrata, chiusa, forte, in difesa delle sue popolazioni.

D: Nelle carceri di Silandro quando ti hanno portato? Ti ricordi?

R: Ai primi di marzo, ma sono rimasto pochi giorni a Silandro, 17 giorni. Là ho incontrato gente che avevo conosciuto nelle cantine delle carceri di Bolzano, dove si scendeva durante gli allarmi per i bombardamenti aerei. Cioè Gino Lubich e Giorgio Tosi. Gino Lubich l’ho rivisto. Arrivati a Silandro mi hanno assegnato una cella, mi hanno dato il necessario per fare il letto, mi hanno chiuso dentro. Fatto il letto, avevo tracciato una croce sulla parete di calce e mentre ero inginocchiato che pregavo, aprono la cella ed entrano Gino Lubich e Giorgio Tosi: sono rimasto quanto mai contento e soddisfatto di incontrarli.

Ora Gino Lubich l’ho incontrato ancora a Roma, è fratello di Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolarini. L’ho incontrato alla redazione di Città Nuova e Giorgio Tosi ha comprato una casa qui nella nostra valle di San Lucano e viene in villeggiatura in Valle di San Lucano.

Una casa vicino alla chiesa di San Lucano, vedesse che posto.

D: Raffaele, tu eri nel campo di Bolzano, ti hanno prelevato dal campo di Bolzano e portato in carcere a Bolzano e lì hai avuto un incontro….

R: Con questi due nelle cantine, durante i bombardamenti.

D: Anche un incontro con SS? Non hai avuto un incontro, un interrogatorio?

R: Sì, con il Dott. Hölzl. All’inizio si mostrava molto severo, mi ha chiesto: “Tu sei il tal dei tali? Sei nato in questo luogo? Tu hai avuto relazioni con i partigiani, sì e quali?” “Amministravo dei sacramenti, sepolto morti” “Ma ti sei interessato anche per altro?” “No”, ho detto io. Allora come una vipera mi ha sgridato ed ha detto che ritornassi in carcere, che ci ripensassi, se non volevo rimanere in carcere a vita. Allora dentro di me mi sono detto: “Se tu mi tieni in carcere a vita sono ben contento, se parlavi di impiccarmi avevo paura .. ma così…”

In seguito ha cambiato tono, forse si era incontrato con il Dott. Sailer ed ha cambiato anche tono, più remissivo, più buono direi.

D: Lì c’è stato l’interessamento anche del Comitato di Liberazione?

R: Penso di sì, perché la moglie del Segretario di Vodo, Antonio Filippi, è andata al Tribunale Speciale a chiedere informazioni di suo marito ed è stata trattata male, male e male, probabilmente era andato da Dott. Hölzl. Uscita, si è appoggiata ad un ippocastano del viale a piangere. E’ passato di lì un signore che vedendola piangere l’ha interrogata, ha detto il motivo e le ha detto: “Stia tranquilla, signora, pensiamo noi a quel tizio, vedrà che cambierà tono”. E così è stato.

D: Dalle carceri di Bolzano…

R: Dalle carceri di Bolzano sono andato a Silandro e lui, invece, qualche giorno prima è stato lasciato libero, per fortuna sua, perché è ritornato a casa con il tifo addosso ed è stato ricoverato a Belluno e per fortuna in tempo, sennò guai.

D: A Silandro c’erano altri religiosi?

R: Quattro preti, altoatesini tutti e quattro. Non ricordo i nomi, ma buoni, buoni religiosi, celebravo con loro la messa alla mattina, mangiavo con loro perché i frati del convento portavano dentro loro il vitto per noi. Il primo giorno che ho mangiato con loro non mi saziavo più. Hanno portato dentro delle palle grosse così, i canederli, mi sentivo pieno fin qua ed ancora ne avrei mangiate se avessi potuto; si era risvegliata la fame, perché ad un certo momento a Bolzano non si sentiva neppure più la fame. Si perde anche quella.

D: Oltre a questi quattro sacerdoti, a Silandro c’erano altri prigionieri?

R: Sì, delinquenti comuni ma di passaggio più che altro, ho conosciuto un tizio che mi ha parlato di un certo Stradelli, che era stato incarcerato con lui.

D: Erano sacerdoti tedeschi?

R: Sì, uno poi aveva 97 anni. E’ stato condannato a morte prima, per una stupidaggine direi.

Dopo Natale aveva disfatto il presepio nella sua chiesa, però l’hanno chiamato nel frattempo non so dove ed ha lasciato lì il bue e l’asinello, era di sabato. La domenica seguente entra in chiesa un signore e gli chiede come mai sono rimasti soltanto il bue e l’asinello sul presepio e dice: “Vogliono rimanere loro due soli al mondo, lasciali”. “Ma chi?” “Hitler e Mussolini!”, ha detto lui.

Per questo motivo è stato arrestato e condannato a morte per lesa maestà e lui si è messo a ridere, dicendo: “Ormai tanto non mi rubate, ho 97 anni!”

Ma poi è scoppiato a ridere quando ha sentito che la sua condanna veniva commutata in diciotto anni di carcere. Si è messo a ridere dicendo: “Voi volete regalarmi vita, ma dovete fare i conti con il Padre Eterno!”

D: Le guardie a Silandro chi erano?

R: C’era un custode, un certo Giuseppe Semola, mi sembra si chiamasse, o Segala, con la famiglia che custodiva il carcere, non c’erano altri.

C’erano i gendarmi sulla caserma, tanto è vero che si poteva uscire nel giardino della prefettura e un giorno sono salito su per il colle a spidocchiarmi un po’, per pulirmi. Parlavo sempre con Gino Lubich più che con Giorgio Tosi dell’esistenza di Dio, perché si diceva ateo, ma non era ateo, era alla ricerca io penso e con Giorgio Tosi abbiamo discusso dell’autenticità del Pentateuco. Aveva ragione lui, aveva studiato un testo di un certo cardinale Beha, il quale insisteva che l’autore del Pentateuco era Mosè e che le differenze di stile erano dovute a periodi diversi e luoghi diversi dove aveva scritto.

In realtà oggi gli esegeti dicono che è di autori diversi, però la fonte sì è Mosè, poi gli altri hanno redatto i testi. Aveva ragione lui quindi, questo è Giorgio Tosi.

D: A Silandro sei stato interrogato?

R: No, in santa pace, anzi…

D: Fino alla Liberazione.

R: Sì, è arrivata subito su una sera mia sorella e dice: “Sono venuta a vedere se sei ancora qui. Devi scendere a Bolzano per firmare un contratto di scambio di prigionieri”, è venuta mia sorella a dirmelo, quella che mi portava i viveri a Bolzano, ma io dico: “Mi sembra impossibile la storia!” Invece è arrivato un gendarme la sera mi ha preso e mi ha portato a Bolzano. Siamo arrivati alla sera al Tribunale Speciale e ci siamo incontrati con altri quattro, un certo Armando Osta di Comelico, che era già condannato a morte, l’avevo conosciuto nelle celle dei condannati, perché andavo con il cappellano, don Giovanni, mi sfugge il nome, cappellano delle carceri di Bolzano, portava la comunione tutte le mattine e l’accompagnavo in quella cella a portare la comunione ai condannati a morte.

C’era lui dunque liberato, una signora di Seren del Grappa e due ragazzi di Fonzaso; ricordo il cognome di uno, Balestra, ma dell’altro non ricordo niente, e siamo usciti tutti assieme.

Io ho firmato. Don Mario Martinelli che era dell’ufficio prepositurale ci ha offerto la cena; quella sera abbiamo fatto festa e poi il giorno dopo siamo partiti per tornare a casa. Un mese prima che finisse la guerra.

D: Tu cosa hai firmato?

R: Il contratto di scambio. Io purtroppo ho dato i miei documenti a chi ha stampato questo libretto e me li hanno persi. Eccolo qua, il contratto è qui. E’ un contratto di scambio: per sei gendarmi il Tribunale liberava cinque politici.

Mi sembra che tra questi sei gendarmi ci fosse un alto ufficiale, è per quello che hanno accettato lo scambio. Per la prima volta, io penso: forse è il primo contratto di scambio che combinano con i partigiani di Belluno. Il contratto dice: Scambio di prigionieri tra il Tribunale Speciale e il Corpo Volontari della Libertà della provincia di Belluno. Forse è la prima volta che danno un riconoscimento ufficiale ed anche l’ultima penso, perché ormai la guerra finiva.

D: La tua lettera al vescovo è stata conservata?

R: Sarà stata conservata dal vescovo penso, io non ho copia.

D: Il maestro Palmeri dove si incontrava con sua moglie?

R: In un magazzino.

D: Di scarpe forse?

R: Non lo so, è entrato, non credo di scarpe, perché andava fuori per i generi alimentari del campo di concentramento, faceva il facchino di quel carro. Dunque il magazziniere ha dato l’appuntamento alla moglie; lui, entrando nel magazzino ha finto di doversi allacciare le scarpe ed intanto parlava, la signora era vestita da commessa e così potevano scambiare qualche parola, così è stato.

Bravo quel Palmeri, non so come mai non è rimasto a Feltre, è ritornato in Italia meridionale.

D: Ti ricordi come nel campo di Bolzano facevate l’appello?

R: Sì, eravamo tutti in squadra, a graticola, mi sembra dieci per dieci, se mancava uno si vedeva subito il suo posto, perché tutti avevamo il nostro posto fisso: il compagno di fianco, quello davanti, quello dietro, tutto fisso, quindi era facile notare se uno mancava: lo si vedeva subito.

D: Quante volte al giorno veniva fatto l’appello?

R: Al mattino ed alla sera. Alla mattina prima che partissero quelli che lavoravano nella galleria della Lancia ed alla sera. Era triste quando c’erano le partenze, quando facevano l’appello di chi doveva partire per la Germania al mattino: partivano alle volte le mogli con i bambini ed il marito era alla Lancia a lavorare, alla sera, quando ritornava non trovava più la moglie, una desolazione era.

Poi erano tremendi anche contro le donne, i tedeschi. Era di partenza una spedizione per la Germania e non essendo partiti immediatamente per colpa dei bombardamenti hanno dovuti trattenerli in un blocco vicino alle donne, già scaricati dal campo di concentramento. Le donne avevano passato i viveri per il viaggio, consumati tutti i viveri, non avevano più niente da mangiare le donne, una sera hanno passato i loro viveri e per questo motivo sono state castigate, una giornata intera in piedi all’aria, fuori. Cadevano e dovevano rimanere a terra così come cadevano, fino a sera.

D: Hai parlato di donne ed hai accennato a dei bambini. Ti ricordi dei bambini nel campo?

R: Sì, erano sempre con le donne e li ricordo, poverini, ma loro avevano la mamma ed erano abbastanza tranquilli, ma le mamme! Per loro erano spine.

D: Gli appelli per la partenza per la Germania erano diversi dall’appello del mattino o della sera del campo?

R: Mattina e sera ci contavano solo, non facevano l’appello, ci contavano quanti eravamo nella graticola per così dire, in squadra, invece per la partenza in Germania chiamavano i numeri. Erano momenti di tremore quelli, avevamo tutti paura.

D: Tu hai visto tuoi amici partire?

R: No, amici si diventava lì in campo. Il 31 dicembre del ’44 abbiamo fatto un po’ di festa fino a mezzanotte, gridato, urlato, anch’io ho recitato preghiere con gli altri, tre rosari in gruppi diversi, poi a mezzanotte si sono quietati tutti quanti, sennonché un ragazzo era usciti in piedi su una cassetta, la cassetta della legna e stando lì in piedi raccontava barzellette ai suoi amici attorno. Io fingevo di non sentire, dormivo là vicino, ma ad un certo momento ho cominciato a ribollire, perché erano tutte barzellette sudicie e sono sceso dal mio castello al quarto piano, ed ho detto: “Per favore raccontate barzellette belle che possa ascoltare anch’io invece di queste cose sporche”.

E’ saltato un capocellula dell’Emilia, tutto ansimante e mi ha detto: “Reverendo, lasci che si divertano, cosa interessa a lei?” “Io non volevo mica disturbali, volevo soltanto che cambiassero barzellette per sentirle anch’io” e cercavo di ragionare con questo tale.

Un avvocato di Biella che dormiva vicino a me ha detto questa frase: “Reverendo, nolite abicere margaritas ante porcos, vuol dire non butti pietre preziose ai porci”, è una frase del Vangelo. Allora questo capoccia è andato a discutere con lui, ma lui non ha risposto, ha adagiato la testa, ha lasciato che l’altro gridasse e non ha risposto per niente ed anch’io ho potuto adagiarmi.

Alcuni giorno dopo quei ragazzi, incominciando da quello che raccontava barzellette, hanno chiesto di confessarsi da me, li ho confessati tutti ed il giorno dopo, alla conta, li hanno chiamati fuori in partenza per la Germania. Guardi la provvidenza come lavora.

D: Tornando un passo indietro: in questa zona ci sono state delle azioni repressive, paesi bruciati?

R: Caviola e Voltago. Due paesi bruciati. Voltago dista quattro chilometri da Agordo e Caviola quindici.

D: Perché sono stati bruciati?

R: A Caviola è arrivato un battaglione tedesco, non so quanti ed i partigiani hanno cercato di resistere in fondo alla valle di Canale d’Agordo e poi hanno distrutto quel paese, dimentico i nomi. Poi hanno combattuto la sera i partigiani. Questi tedeschi sono scesi dalla valle, hanno fatto il Passo San Pellegrino mi sembra, sono scesi a Canale d’Agordo, hanno bruciato il primo paese, il paesino, poi sono usciti per la vallata e poi, arrivati verso Falcade hanno trovato la resistenza da parte di partigiani, c’è stato un combattimento forte ed i tedeschi hanno bruciato Caviola, proprio per rappresaglia.

D: Gli abitanti di questo paese li hanno fatti evacuare?

R: No, erano tutti là. Hanno assistito all’incendio. Hanno dovuto ricostruire tutto nel dopoguerra. E’ una cosa triste.

A Voltago è successo pressappoco la stessa cosa: sono arrivati i tedeschi in rappresaglia, avevano preso prigioniero un partigiano, non so come, hanno voluto che questo partigiano indicasse le case dei partigiani, l’hanno portato avanti, non so se abbia indicato le case dei partigiani, fatto sta che hanno bruciato tante case ed un ragazzo di Voltago, uno studente, scendeva ad un villaggio per prendere il latte per la sua famiglia, ha visto i tedeschi che arrivavano con questo partigiano, è corso in paese a gridare “I tedeschi, i tedeschi!”.

In paese c’erano già tedeschi che l’hanno preso, Loris Scussel si chiamava il ragazzo, il nome del partigiano invece non lo ricordo; sono stati uccisi ambedue, il partigiano impiccato e questo ragazzo fucilato, sedici anni il ragazzo, ed hanno bruciato molte case del paese.

In campo di concentramento ho incontrato un sacerdote, don Vittorio Tiscornia, di Chiavari, il quale celebrava la messa la domenica, quando permettevano che fosse celebrata. Come facesse ad avere vino e particole io non lo so, ma certamente la domenica quando diceva messa distribuiva anche la comunione e conservava alcune particole per la settimana e quando volevo fare la comunione andavo da lui al mattino presto, prima della conta e mi dava la comunione.

Questo sacerdote era stato deportato perché quando ha avuto la primizia dell’olio, anziché conferire l’olio all’ammasso, l’ha distribuito ai poveri della sua parrocchia.

D: Bellissima questa cosa: è rimasto nel campo?

R: E’ rimasto nel campo fino alla fine.

D: Ti ricordi in che blocco era? Nel tuo blocco?

R: Mi sembra che fosse il blocco B.

D: Il numero non te lo ricordi?

R: No.

D: La messa dove la facevate?

R: Sul campo, all’aperto. Potevano venire da qualsiasi blocco, non potevano entrare naturalmente quelli delle celle, chiusi in cella, quelli no, per forza, ma gli altri potevano venire tutti.

D: Quindi all’aperto.

R: Sì, all’aperto. Non tutte le domeniche era permesso, se succedeva qualcosa in campo contro la disciplina o altro allora non permettevano più la messa, altrimenti sì.

D: Questo da quando è iniziato, te lo ricordi?

R: Quando sono entrato in campo io. Mi ricordo che a Natale un gruppo di deportati altoatesini hanno cantato Stille Nacht e tutti i loro canti tradizionali dell’Alto Adige; hanno commosso la gente, davvero.

D: Quindi c’era anche il coro?

R: C’era il coro, tutti altoatesini.

Moimas Albina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Moimas Albina, nata a Monfalcone il 30 ottobre del 1921.

D: Albina, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 giugno del 1944.

D: Dove?

R: Ero a casa a dormire.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato perché la sorella più anziana aveva un figlio con i partigiani e questo figlio era in montagna, non era a casa. Allora mia sorella già aspettava qualcosa di poco buono. E’ andata a dormire in un’altra famiglia. Così la mattina del 1 giugno sono venuti e l’hanno portata via con tutta l’altra famiglia.

Poi, dato che io stavo a Ronchi dei Legionari in Piazza Oberdan, era presto, erano le 6.00 di mattina, sentivo che qualcuno chiamava perché il portone era ancora chiuso, c’era il coprifuoco e io ero a letto.

Sentii chiamare, sono andata alla finestra, ho visto che era mia sorella. Mia sorella mi ha detto Albina, vai a casa mia a prendere qualcosa perché guarda qua, ci sono i tedeschi e i fascisti”, io e Bepi, suo marito, mio cognato e gli altri li avevano portati via da casa.

“Vai a casa mia, prendimi qualche cosa perché mi portano in prigione”. Allora mi sono alzata, ma non potevo andare subito perché era ancora il coprifuoco. Ho aspettato un momento con la bicicletta, poi sono andata sempre a Ronchi, anzi ad una piccola frazione, San Vito si chiamava. Lì sono andata, c’era la casa tutta buttata per aria.

Il bambino piccolo di mia sorella solo in casa. Io sono andata dentro, ho preso due o tre cose e poi sono andata sempre in Piazza Oberdan dove erano con il camion. Era dei fascisti e dei tedeschi. Sono andata vicino per portare queste cose, le cose sue. Mi sono fermata un momento.

E’ venuto un vicino, ha detto “basta con le chiacchiere, vai a casa perché se no vai su”. Mi sono girata e ho detto: “Non faccio niente qua”. “Allora basta, vai su anche te”. Non volevo. Ho detto: “No, io non vado su, non ho fatto niente”.

Allora s’è girato dall’altra parte, “Vedi la tua famiglia in fondo sul portone? Sono capace di portarti vicino e uccidere te e anche i tuoi”.

Sentendo quelle parole, ho preso paura, ho detto “E’ meglio che vado su” e così sono andata sul camion. Eravamo in ventinove, con me trenta. Siamo stati fermi un momento. A casa mia tutti sbigottiti, hanno preso la bicicletta che era sul portone, l’hanno portata dentro e sono andati dentro.

Col camion siamo andati a Trieste. A Trieste mi hanno portato in prigione al Coroneo. Là siamo andati dentro in un grande stanzone. Siamo stati tutta la mattina lì ad aspettare. Poi chiedevano cosa, il perché, il motivo… Poi ci hanno fatto salire sopra. Ci hanno portati ognuno in prigione, nelle stanze.

Dentro eravamo in tre, c’era già dentro gente, eravamo in venti là dentro, proprio. Lì sono stata dal 1 giugno fino al 28. Ventotto giorni sono stata in prigione. Poi dalla prigione hanno fatto il convoglio e portata là. Però quando ero in prigione i miei ogni due/tre giorni venivano a portarmi la biancheria pulita e anche qualcosa da mangiare perché in prigione si mangiava quello che si mangiava, insomma. Risi e bisi tutti i giorni.

Sapendo che dovevo partire per la Germania, ho messo un biglietto nell’orlo del vestito. Loro andando a casa hanno trovato questo biglietto. Il giorno che siamo partiti sono venuti tutti in stazione a Ronchi, i familiari, gli amici, i conoscenti, tutti quanti.

Quando siamo arrivati a Ronchi il treno s’è fermato perché c’era la stazione gremita di gente. Hanno fermato il treno e sono venuti tutti giù a salutare i nostri famigliari, ci hanno portato diversa roba da mangiare, hanno portato vestiario, roba.

Lì ci hanno lasciato un quarto d’ora. Poi siamo saliti di nuovo tutti quanti in treno sulla tradotta del bestiame e siamo partiti per la Germania. Però neanche in Germania, in Polonia.

D: Scusa un attimo Albina. Scusa un secondo.

R: Sì.

D: Hai detto che quando ti hanno arrestata a Ronchi dei Legionari tu facevi la trentesima. Eravate in trenta sul camion.

R: Sul camion.

D: Quanti della tua famiglia?

R: Della mia famiglia c’erano mia sorella e mio cognato.

D: E gli altri chi erano?

R: Gente di Ronchi, tutti amici, ci si conosceva, ci si conosceva tutti quanti.

D: Ho capito. Dopo ti hanno caricato alla stazione di Trieste?

R: Sì, quando eravamo in prigione alla mattina presto ci hanno fatto venire fuori tutti quanti dalle celle e ci hanno portato giù in prigione. Giù c’era altra gente delle altre celle, era una fila grande, saremo stati circa duecento persone, sì, perché il treno era grande, era tutto pieno, tutto pieno.

Però il treno era per Auschwitz e per Buchenwald. Mio cognato l’hanno portato a Buchenwald, non a Mauthausen. Il treno era lungo, metà ad Auschwitz, metà a Buchenwald.

D: Ascolta un’altra cosa.

R: Dimmi.

D: Quando eri in prigione a Trieste sei mai stata interrogata?

R: Poco. Quando eravamo appena arrivati nello stanzone, lì mi hanno domandato qualcosa ma poco perché non avevo da dire niente, non ero come i partigiani che li prendevano qua e là e avevano da dire. Non c’era motivo per farlo perché non avevo cose da dire.

D: I vagoni dove ti hanno messo erano carri bestiame?

R: Carri bestiame, sì, altro che, chiusi anche, tutti chiusi. Quello sì.

D: Sul tuo vagone in quanti eravate?

R: Oddio, tanti. Tanti perché stavamo in piedi come sardelle, tanti. Saremo stati trenta, anche più, tanti.

D: Solo donne?

R: Solo donne. Solo donne, sì.

D: C’erano anche delle ragazzine o persone anziane?

R: No, persone anziane sì. Io avevo 22 anni compiuti, loro erano più anziane di me. Mia sorella era del 1902, era più anziana, tanto più anziana, anche altre. Noi eravamo fra le più giovani, 20-22 anni.

D: C’erano delle guardie?

R: Quando ci hanno portato via?

D: No, quando eravate sul vagone, sul Transport.

R: C’erano carabinieri nostri e tedeschi delle SS, sì, anche nella prigione ci hanno portato alla stazione a Trieste, dopo hanno fatto il viaggio con noi fino al campo. Anzi un carabiniere ci ha detto: “Andè via contente perché se in preson ti es chiuse per ciapar aria, ma là vedarè qualcosa che non ve aspetè”. Un carabiniere me l’ha detto. Quello ha detto giusto.

D: Dopo che siete partiti da Ronchi, quanto è durato il viaggio? Te lo ricordi?

R: Da Ronchi col treno? Cinque giorni di viaggio perché c’erano i bombardamenti. Il treno si doveva fermare, mettersi da parte, non andare avanti. Cinque giorni perché siamo arrivati il 3-4 luglio là.

D: Mangiare e bere?

R: Mangiare e bere caro… Allora, mangiare… Noi ringraziando Iddio avevamo ancora qualcosa perché fermando a Ronchi… Davamo da mangiare anche agli altri. Prima di tutto, eravamo in giugno, noi avevamo tanti frutti, tante ciliegie. Mi avevano portato un cestino di ciliegie, tante. Le ho spartite in treno con tutti, anche altra roba. Poi ho tenuto anche qualcosa per me che mi hanno portato via, però ho mangiato quel poco che avevo portato via. Chi aveva portato via dalla prigione, chi aveva portato qualcosa lì in stazione, ma da mangiare, caro, niente.

Quando dovevamo andare a fare i bisogni, quando c’era il treno fermo, pregavamo quelli delle SS, loro scendevano e noi vicine a far pipì, vicino a loro. Basta, poi risalire e andare là.

D: E il treno è arrivato dove?

R: Il treno dentro Auschwitz. Dentro Auschwitz.

D: Cioè Birkenau, Auschwitz 2, Birkenau.

R: No, ho paura perché questo è il fatto, perché io mi ricordo benissimo di aver visto, anzi mia figlia è qua presente che mi aveva domandato le dicevo sempre: “Mi resta in testa quel portone che c’è scritto Arbeit…” Io l’ho visto là. Io non so che giro mi hanno fatto fare perché adesso ho visto com’è Auschwitz 1 e Auschwitz 2, ma prima non lo sapevo. Adesso ho visto qualcosa di più. Là non si sapeva dove ci avevano portato.

D: Quando il treno è arrivato era mattina o sera?

R: Era verso mezzogiorno, no, verso le dieci e mezzo/mezzogiorno siamo arrivati. Appena siamo arrivati abbiamo visto il demonio. Vicino a noi quando ci siamo fermati, hanno fermato un treno di ebrei, carico, stracarico di gente mezza viva, mezza morta.

Noi eravamo da parte. Hanno aperto i vagoni, hanno preso questa gente morta, chi per le braccia, chi per le gambe e li buttavano giù di peso.

Noi appena arrivati, abbiamo detto: dove siamo arrivati? Spaventate e basta. Dopo un’altra cosa. Fino che siamo andate avanti in fila sempre lì abbiamo visto mucchi di scarpe, mucchi di capelli, orologi, carte d’identità. “Signore Iddio, cosa c’è qui?” Eravamo vicino al crematorio perché ci hanno portato dentro proprio negli stanzoni del crematorio. Noi non lo sapevamo.

Siamo entrate in questo stanzone grande. Era pieno come di spine, queste cose fuori come quando si fa la doccia. Madonna, cos’è. Noi siamo entrate là. Ci hanno fatto fare, per modo di dire, una doccia. Prima l’acqua bollente. Dopo acqua fredda. Con quella ci siamo lavate. Nude, ci hanno messe da parte là. Ci hanno tagliato i capelli, ci hanno rasate, ci hanno portato via tutto.

Quando ci siamo guardate tutte quante non sapevamo se piangere o se ridere, non ci si riconosceva più, senza capelli, spaventate. Robe da non credere.

D: Albina, c’erano delle donne incinte con te?

R: No. Questo no. No. Delle donne più anziane sì, erano due, anzi, poverette, neanche tornate, ma incinte no. Neanche tanto giovani, erano come noi sui vent’anni, ventidue. Altrimenti un po’ più vecchie.

D: Poi che cosa vi hanno fatto dopo la doccia, cosa vi hanno fatto?

R: Ci hanno attaccato il numero sul braccio. Tutti in fila, ci hanno fatto il numero.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Me lo ricordo sì, me lo ricorderò: 82139, lo ricorderò per tutta la vita anche se non l’ho sul braccio.

D: E come hanno fatto a farti il numero?

R: Il numero non era una cosa tanto difficile. Era come una penna, come quando si fanno le punture, una robetta così, avevano una pratica tagliente, mi tagliano il braccio a puntini. Un attimo, non faceva male, erano come beccatine, robette così da niente.

D: Eravate in piedi o sedute?

R: Quando ci facevano il numero sedute perché si doveva appoggiare il braccio. Loro erano seduti vicino e facevano questo numero.

D: Dopo ti hanno dato dei vestiti?

R: Mi hanno dato dei vestiti, sì, mi hanno buttato dei vestiti. Mi ricordo sempre, mi hanno dato, erano tanto pieni di pidocchi, poveretta, una maglia verde che avrò tenuto su per tre mesi, una cottola, non so di che colore era, se era a campana o a pieghe, non so. Perché come ti disinfettavano loro, mettevano dentro, poi buttavano là la roba. Non era sporca, era disinfettata, era “sgrisinida” in dialetto.

D: Tutti qui i tuoi vestiti?

R: Oddio, i miei vestiti erano anche un paio di mutande legate in vita lunghe fino al ginocchio che si tenevano su a fatica. I vestiti erano tutti quelli, non erano altro. Un paio di scarpe, una scarpa numero 36 e una scarpa numero 38. Avevo un calzino corto e un calzettone. Immaginate voi.

Poi ho m’è toccato anche andare in ospedale per causa di queste scarpe, mi hanno fatto male, mi è toccato andare in ospedale perché mi si erano gonfiati i piedi, camminando, camminando con le scarpe mal messe, una stretta e una larga, andando fuori a lavorare mi avevano fatto male.

Una mattina male, male, avevo quaranta di febbre, mi hanno portato in infermeria, mi hanno portato in ospedale, mi hanno operato. Sì, mi ha operato una dottoressa russa prima la gamba. Ho fatto due giorni che mi hanno operato alla gamba, dopo due giorni mi è venuto fuori qua sotto il braccio un affare grosso così. Mi hanno operato anche sotto il braccio. Insomma, ho fatto quasi dieci giorni di ospedale sempre a Auschwitz nelle baracche.

D: Dopo però la spogliazione ecc. l‘immatricolazione, ti hanno portato in baracca.

R: Mi hanno portato in baracca, sì. La baracca sarebbe una baracca per stare un periodo perché eravamo come in quarantena perché avevano paura che da fuori portavamo le malattie. Ci mettevano in quarantena.

Però la quarantena non l’abbiamo fatta perché c’era tanta di quella gente. Avremo fatto quindici-venti giorni, dopo da là ci hanno tirato fuori, ci hanno messi nel blocco n. 13 che l’ho cercato adesso, ma non l’ho più trovato.

D: Quando sei stata lì ad Auschwitz, quando eri lì ad Auschwitz hai lavorato tu?

R: Sì, si, ho lavorato. Mi portavano fuori. I primi momenti mi hanno portato fuori senza lavorare. Mi portavano fuori la mattina, mi facevano camminare e andar per i campi. Ci davano una pala ciascuno, un badile, girare la terra del campo i primi momenti.

Poi è arrivato il momento che mi hanno cambiato di blocco, mi hanno messo in un altro blocco e lì eravamo già pronte per andare a lavorare.

Loro fuori da Auschwitz avevano delle grandissime fattorie, avevano dei trattori, avevano dei cavalli, avevano tutto, facevano questo grande raccolto per il campo stesso.

Noi ci portavano fuori. Come tagliavano il frumento, noi dovevamo prendere i covoni, legarli, metterli da parte perché come si girava, dovevamo fare alla svelta, portali qua. Per un periodo finché c’era il frumento.

Dopo invece c’era non l’orzo, una cosa come i fagioli, ma non erano fagioli, era un’altra roba. Allora prima passavano sulla macchina, aveva su questa roba, i fagioli, li mettevano lì. Dopo noi col vasetto che avevamo buttato qua, quello da mangiare, si doveva in fila così, trenta, quaranta donne tutte quante in fila abbassate a tirar su i grani per terra. Riempire i vasetti e buttarli nei sacchi.

La sera c’erano centinaia di sacchi pieni di roba, di tutta la roba cascata per terra. Tutto il giorno con la schiena abbassata per tirar su questa roba e metterla nei sacchi. Si facevano quei lavori ad Auschwitz.

Quando si usciva, c’era la banda, tutte le belle signorine di fianco al portone, c’era il Presidente, mi ricordo quando si suonava che si passava. Bisogna che non ci pensi perché se no… Mi vien su…

D: Ascolta, altri lavori ne avete fatti?

R: Lì ad Auschwitz no perché dopo Auschwitz io sono stata a mi ricordo benissimo perché era il mio compleanno, stavo tanto male. Mi hanno portato via. Quando siamo stati a … al 30, perché sono arrivata a Ravensbrück il giorno 30. Il giorno 29 ad Auschwitz mi hanno detto che non si va a lavorare, si va fuori, bisogna tenersi tutti quanti lì fermi perché da un momento all’altro verrà un trasporto, cambiamo campo perché i giovani bisogna che vengano portati via, devono andare a lavorare in altri posti, perché si sentivano già i bombardamenti, la guerra.

Allora la mattina mi hanno portato in questo grande stanzone a fare i bagni, a cambiarsi di roba perché dovevamo fare questo trasporto.

Allora così è stato, bagno, per modo di dire, come erano abituati loro, un po’ di acqua calda, un po’ di acqua fredda, nude, ore lì senza asciugarsi, senza niente, come si è.

Allora finiamo di lavarci, ognuno passa in fila e le butta la roba. Chi un paio di mutande, chi un vestito, chi una calza. Passo io, mi buttano la mia roba. Però al momento delle scarpe, le scarpe, io sono l’ultima, no.

Vado là, vado vicino alle… Le chiamavano perché non erano neanche tedeschi questi delle SS, erano prigionieri come noi, però erano tedesche e polacche ed erano anche lì da tanto tempo prima di noi e allora erano i nostri comandanti.

Erano la Stubowa, la Blokowa, tutti quei nomi che davamo. Vedendo che ero così malcontenta, ma come, tutti hanno le scarpe e io no? Sono andata là, il mio parlare, un po’ che mi arrangiavo, non si capiva tanto, ma ho fatto in modo di far capire che io le scarpe non le avevo. Aspetta che vado a guardare un momentino se è avanzato qualcosa là. Va a guardare, “Nein”, niente. Io non vado via scalza.

Sì, ja che vado via. Come faccio? Per terra tutto pieno di pietrisco che appena si metteva i piedi per terra erano bucati. Mi siedo da parte, dico “Maria Vergine, come faccio da sola?” Mia sorella non era con me, non eravamo in campo assieme. Bisogna tener conto che io avevo 22 anni, lei ne aveva tanti di più e allora era in un altro posto.

Non l’avevano messa in quarantena, l’avevano subito mandata a lavorare sull’altro campo, faceva tappeti, con quelle più anziane. Ho detto, “Madonna, qua sola, senza scarpe, senza niente, come faccio?” Cominciava a fare freddo, erano gli ultimi di ottobre là in Polonia, fuori, l’aria era fredda. “Cosa devo fare, Maria Vergine?” Mi metto lì, batto la testa, mi tiro in parte. Madonna, un paio di scarpe. Bisogna stare attenta. Torno a guardare, un paio di scarpe. Mi abbasso pian piano, un paio di scarpe. Guada se c’è qualcuno, non c’è nessuno. Avevo paura che qualcuno veniva. Nessuno viene. Guardo le scarpe, 39, nuove, me le sono messa su, le più belle scarpe mai avute. L’ho raccontato nel campo adesso agli studenti e alle professoresse.

Prima di andar via mi hanno detto: “Signora ci racconti quella delle scarpe”, eravamo ad Auschwitz. Quando racconto, mi vengono i brividi perché è come se fosse stato un… Meraviglia. Non ne potevo più, sola, senza scarpe e invece le scarpe.

Prendo le scarpe, le metto su, ringrazio Iddio, il Signore benedetto, ringrazio, avevo le più belle di tutte. Dopo un po’ che eravamo in fila siamo partite. Ho avuto la grazia.

D: Era quando? Quando sei partita?

R: Son partita… Sono arrivata là il 30 ottobre, sono partita un giorno prima perché in un giorno siamo arrivate. Siamo partite la sera, abbiamo fatto tutta la notte, a mezzogiorno eravamo già a . Questa tenda nera Ravensbrück che ha detto la signora Rosina, Maria Vergine, la tenda della morte. Quando siamo arrivate ci hanno messo sotto là. Là c’era un tocco di pane, ma io stavo tanto male che ho preso il pane, l’ho messo sotto qua, il pane, un pezzettino di burro.

Al mattino avevo fame, ma il pane non c’era più, me l’avevano portato via.

D: Eravate in tante da Auschwitz ad andare a Ravensbrück?

R: Sì, eravamo in tante. Avevano scelto tutte le giovani, tutte meno di trent’anni, tutte sui venti, venticinque, tutte giovani. Sì.

D: Quanto tempo sei rimasta nella tenda nera di Ravensbrück?

R: Non tanto, era soltanto come per un riposo e poi continuare il viaggio. Mi hanno portato lì quando siamo arrivate verso mezzogiorno, metà giornata, mi hanno dato qualcosa, ero stanca, ho dormito. La mattina dopo siamo ripartite di nuovo.

D: Per dove?

R: Ravensbrück

D: E a Ravensbrück sei arrivata?

R: A Ravensbrück siamo arrivate… Là abbiamo trovato subito altro. Come mangiare e dormire era sempre uguale, perché… Invece tutt’altro perché appena arrivate ci hanno fatto fare la doccia, una roba più decente, non ci hanno scottato. Dopo ci hanno dato un paio di braghe, un giubbetto, un paio di mutande, lunghe anche quelle, ma non importa, stavano su per miracolo, mi cascavano sempre e le rimettevo su.

Insomma là non era un campo di quelli tremendi, era un campo più piccolo, tutte lavoravamo in fabbrica, c’erano tante polacche, tante tedesche. Italiane non eravamo in tante. Quelle slovene, anche slovene italiane perché erano di Pola, Fiume, quelle parti che erano ancora italiane.

D: Ti hanno cambiato numero?

R: Cambiato numero del braccio no, perché quello mi è restato, però numero qua sul petto sì. Allora qua avevo un altro numero, perché avevamo anche il numero. Eravamo in meno e il numero era tanto più basso.

D: Te lo ricordi il numero di Ravensbrück?

R: Guarda, non vorrei dirti una bugia, so che era col 4 davanti, sono sicurissima, ma adesso proprio tutto il numero, non voglio dire una bugia.

D: E il blocco te lo ricordi, in che blocco ti hanno messo?

R: Non erano numerati. No. Non c’erano tante baracche. Appena si entrava, c’era una baracca di SS donne. Tutte donne erano là, non uomini. L’appello, tutta la roba. Quello era interessante, l’appello. La mattina ci si doveva alzare presto, e il conteggio durava un’ora la mattina, era come punizione del campo, e un’ora la sera quando tornavi dal lavoro. In fila dritti sempre sull’attenti, guai se ci si muoveva, un’ora. Pioggia, neve, freddo, caldo, non importa. Chi stava male cascava, chi doveva fare i suoi bisogni andava sulla carriola e li cacciavano dentro in una carriola, dovevano aspettare che finisse l’appello e poi andavano a tirarli su.

Ci vorrebbe più di un’ora per raccontare tutto, è un piccolo riassunto. Una robetta così, perché raccontare tutto è troppo lunga.

D: Lì a Ravensbrück, dove andavate a lavorare?

R: Nelle fabbriche.

D: Fuori dal campo?

R: Fuori, sì, si doveva camminare dieci minuti e più. C’erano delle fabbriche grandi di aeroplani. Per una settimana ci hanno portati dentro, ci davano dei piccoli pezzi di alluminio, chiamiamoli di alluminio, e delle robette sue, da fare come chi era più bravo, chi sa far qualcosa per dopo dare i posti, come pareva loro di darmi il punteggio di chi era più… chi non era mai stata in fabbrica. Insomma, abbiamo fatto lì per un po’ di tempo.

Dopo ci hanno mandato nelle fabbriche a lavorare. Ci facevano l’appello, dopo c’era questa strada dove andare e si andava nelle fabbriche. Ognuno aveva il suo lavoro. Io lavoravo come in grandi vasche, tanta schiuma dentro, si lavavano dei pezzi, a volte mi davano, a volte niente, si dovevano lavare questi tocchi, però neanche là sono stata tanto perché sono cominciati i bombardamenti. Non siamo stati tanti nelle fabbriche.

D: Ascolta, nelle fabbriche c’erano anche degli uomini?

R: No. Tutte donne, erano proprio anche tedesche che lavoravano. Due uomini c’erano, ma non prigionieri, erano gente tedesca, due giovani che io guardavo sempre perché mangiavano delle mele piccole, mi facevano venire l’acquolina in bocca. Forse erano istruttori, guardavano quello che facevamo. Si stava abbastanza bene, c’era caldo in fabbrica. Si era riparate dal freddo, dalla pioggia. Peccato che è durato poco perché ci sono stati dei bombardamenti a Berlino. Non era tanto lontano da Berlino.

D: E dopo dove ti hanno portata?

R: Basta. In tre campi: Auschwitz, Ravensbrück, Wittenberg l’ultimo, l’ultimo è Wittenberg dove c’erano le fabbriche, tre ne ho passato. A Wittenberg c’è stata la fine che non mi è toccata tanto bella, ma mi pare che c’è ancora da dire qualcosa prima della fine.

D: Dai, dì ancora qualcosa.

R: Posso dire questo. In fabbrica sarò stata qualche mese, un mese e mezzo, dopo sono cominciati i bombardamenti, dei fumi che non si vedeva bene in cielo, tutto per coprire queste grandi fabbriche dov’erano.

Lì ci portavano nei rifugi. Dopo devono aver bombardato anche le fabbriche e non abbiamo lavorato più nelle fabbriche. Dopo ci hanno portato sempre in questo campo, ci facevano andare a lavorare per i camminamenti per i tedeschi, sottovia a coprire queste strade, a tagliare con la pala i tocchi d’erba, poggiarli sopra con le mani, prenderle così, portarle, per fare questa strada e loro passavano sotto i tedeschi. Erano gli ultimi momenti, perché era lì la guerra. Abbiamo fatto quello fino agli ultimi.

Si sentiva, guardate che sembra che finisce, che la guerra sia finita. Dopo una mattina abbiamo sentito correre, bim, bum, abbiamo guardato. Avevano tagliato con le forbici grandi, quelle che tagliano il ferro, avevano tagliato tutta la rete, hanno tirato via la corrente, hanno tagliato la rete. Allora tutti quanti con queste coperte sono scappati.

Ma noi eravamo in sei italiane siamo andate via da lì alla mattina con queste coperte sulle spalle, c’era la guerra, questi militari, questi carri armati, questa roba. Non sapevamo come fare, gira e volta. Poi alla sera abbiamo detto, torniamo al campo che è meglio perché dove andiamo a dormire? Dormire nei fossi non si poteva perché c’era la guerra.

Allora siamo tornate al campo. Ma al campo non abbiamo trovato più come prima. Quelle delle SS vicino alla nostra baracca avevano una cameretta, avevano i vestiti, le fotografie, le loro robe. Intanto che noi eravamo via avevano rotto tutto. Quando siamo entrate, hanno cominciato a picchiarci, non sapevamo neanche per cosa, perchè avevamo rotto tutto, tutti i loro ricordi, i loro vestiti, la loro roba. Cosa avevamo fatto? Noi non sapevamo niente.

Per fortuna che ce n’era una che sapeva parlare un po’ l’italiano. Ha detto, “Lasciatele in pace, io ho un figlio a Trieste e non vorrei che mi uccidessero mio figlio. Lasciatele andar via e non fate loro niente”.

Andar via e a dormire? Dobbiamo stare lì lo stesso. Allora siamo state lì. Una di Venezia mi ha detto: “Albina, vieni con me che io so dove nascondono le patate, così stasera possiamo mangiare”. Erano due giorni che non si mangiava.

“Guarda Maria, mi dispiace tanto, ma io non mi sento di venire”. “Perché devi dire di no?” “Io vi faccio la minestra, vi faccio quello che volete, ma a prendere le patate non vengo”. Con quattro parole brutte, “Guarda, va da sola”. E’ andata da sola. Noi stando alla finestra l’abbiamo guardata. Quando è stata sulla meson delle patate, i tedeschi l’hanno ammazzata. Mi aveva tanto pregata di andare. Io avevo detto, “Mi dispiace, fammi fare la minestra, fammi fare quello che vuoi, ma io con le patate non mi sentivo”. Se mi fossi sentita, avrei fatto la sua fine. L’è toccata bella.

Dopo siamo tornate indietro. Visto che l’avevano ammazzata, spaventate, non avevamo neanche da dormire, siamo scappate via prima che ammazzassero anche noi. Abbiamo preso paura anche dopo.

Poi il viaggio con i russi. Siamo andate via, camminando, camminando un giorno, due giorni, una s’è ammalata, un’altra è morta e io sono rimasta sola.

Per fortuna che passando per la strada, passavano un po’ ragazzi con lo stemma dell’Italia. Allora io ho detto che mi era successo così, che ero rimasta sola. Loro erano di Bologna. C’erano anche degli sloveni che passavano, si sono trovati insieme, hanno fatto un gruppetto. Aspetta un momentino. Mi sovviene. Avevo in mente di dire qualcosa ma mi è sfuggito.

D: Aspetta Albina, ti faccio io due domande, ascolta.

R: Sì.

D: Quando eri ad Auschwitz oppure a Ravensbrück tu hai subito delle punizioni, delle violenze?

R: No.

D: Hai visto delle violenze, delle punizioni?

R: Sì. Le ho viste proprio, agli ebrei, ne ho viste diverse. Ne ho vista una. Mentre si lavorava nei campi, come ti dicevo che raccoglievamo i fagioli, quella roba, c’era un ebreo che aveva il lavoro suo con i cavalli. Però nei taschini doveva aver avuto qualcosa, io ho visto che ha tirato fuori perché era di fianco a me lì, però il tedesco furbo delle SS l’ha visto, è venuto vicino, gli ha chiesto cosa ha tirato fuori, una bottiglietta.

Ha tirato fuori la frusta dei cavalli, gliel’ha data sul viso, gli ha tagliato mezzo viso. Io ero lì vicino. Dopo un’altra roba. La mattina quando andavamo noi c’erano dei letamai grandi, avevano tante bestie, era pieno di bestie per il latte, per il lavoro, c’erano dei letamai grandi, era la stagione calda e questi letamai grandi asciugavano.

Prendevano gli ebrei, tutti ragazzi, li mettevano dentro nei letamai tutti quanti. Uno andava a prendere l’acqua, l’altro gli dava il secchio e quello doveva svuotare il secchio dell’acqua e dopo gli mollavano anche l’acqua. Quando era sera, erano fin qua dentro nel letame, fino qua.

Quando sono tornata dall’ospedale è toccata bella anche a me. Allora mi hanno detto “Va”, io sono partita, sono andata via, però c’era il coprifuoco; siccome c’era il crematorio in funzione, doveva esserci coprifuoco, nessuno doveva camminare. Mi hanno mandato fuori. Vedo una tedesca che viene verso di me. Aveva una gomma di quelle del vino. Mi tocca bella. Parla, io non capisco niente di tedesco. Parla, grida. Ero appena uscita dall’ospedale, non potevo neanche camminare perché avevo avuto tanti giorni la febbre, mi avevano operato perché stavo male. Mi ha fatto capire che non si doveva passare. Ma se io ero in ospedale, ma non capiva. Doveva essere polacca, non capiva.

Insomma me le ha date. Via svelta. Arrivo in campo, non trovo più il mio letto, non trovo le coperte, era verso sera, non trovo niente. Il mangiare l’avevano già dato, salta anche il mangiare. Maria Vergine che roba.

La Blokova mi dice: “Stasera devi dormire lì”. “No”, ho detto io. I letti erano a tre corsie, tre castelli, sotto c’è come un cemento, come un buco. Dovevo andar in quel buco là a dormire. Io ho detto di no che non vado. “Sì” dice. “No” dico, non sono andata perché avevo paura degli scorpioni. “Io non vado”, ho detto. A vedermi dura, lì in piedi, mi ha fatto capire, c’era un letto su senza coperte, “Va su che io non ti vedo”. Ma in quel buco non vado, no, caro.

D: Albina, eravate tutte donne?

R: Sì, tutte donne. Vedevamo gli uomini perché erano di fronte a noi con la rete, li vedevamo. Ma noi eravamo tutte donne.

D: Hai visto anche dei bambini per caso?

R: Dei bambini, sì. Ho visto dei bambini. Perché nella baracca 13 dov’ero in quei quindici giorni, là c’era una baracca piena di bambini. A dir la verità io non posso dire tanto male. Oddio, piangevano, le mamme andavano vicino, erano cose che non andavano bene. Ma che facevano robe brutte io non posso dire perché io dico quello che ho visto. Le altre robe più grosse non le dico, non le ho mai dette, non le dirò mai.

D: Albina, le mestruazioni?

R: Quelle caro, appena ero in prigione. O che mi hanno messo qualcosa nel mangiare, o delle grandi paure. Perché i giorni che mi dovevano venire le mestruazioni, basta, in prigione non mi sono venute più. In prigione avevamo paura del fatto perché ogni tedesco che ammazzavano, venivano nelle celle a tirarne fuori dieci.

Allora la notte dicevamo chissà a quale cella tocca. Quella era la nostra paura. La paura era quella.

D: Ascolta, pensavi a qualcosa dentro nel campo? Pensavi a casa, pensavi a tua sorella?

R: Pensavo al mangiare. Pensavo al mangiare, ma non al mangiare buono, alle cose buone. Pensavo quando facevo il latte, il burro a casa con il fiasco in tempo di guerra. Pensavo: Quel latte lungo se l’avessi qua”. Non mi interessavano i pollastri, le galline. M’interessava quello e basta perché avevo tanta fame.

D: Ti ricordi adesso quando hai incontrato quegli Italiani alla Liberazione? Alla liberazione della fabbrica che sei rimasta da sola e hai trovato quegli italiani. Cos’erano? Militari?

R: Militari, bravo. Militari. Allora sono andata con loro per un periodo. Venivo sempre verso casa. Treni non c’erano, non c’era niente, c’era ancora la guerra, era un disastro finché non siamo arrivati un po’ più in giù.

Lì sono restata con questi qua. Una sera freddo e pioveva, c’era una brutta giornata. Questi ragazzi, andare avanti non si può andare. Abbiamo visto una casa, i tedeschi ci mettono del fieno, là sola, era mezza diroccata. Ci fermiamo là almeno stiamo là e non prendiamo la pioggia.

Così abbiamo fatto. Siamo andati là. Sola con questi sei ragazzi. “Tu Albina ti metti nell’angolo e noi dormiamo qua. Non aver paura, se viene qualcuno ci siamo noi”. Dopo tre ore che eravamo lì sento come quelle pile che c’erano. “Maria Vergine”, ho detto ai ragazzi, “viene qualcuno”. “Tu Albina stai buona, se viene qualcuno ci siamo noi”.

Entrano russi ubriachi. Entrano, prendono queste coperte. Prende la coperta, tira, c’ero io sotto. “Ah”, dice l’altro, viene vicino a me, mi ha tirato su. Gli ho mollato un sburton. In questa casetta mezza diroccata c’era una finestra bassa. Ho fatto un salto, non so come, ho fatto un salto fuori. Pioveva, era scuro, sola. In fondo vedevo come una luce. Corro fin là. Corri, corri, corri, arrivo là. C’era una stazione, una stazioncina piccola con un treno fermo e un po’ di gente che aspettava il treno, tedeschi, polacchi.

C’era il treno fermo e la stazione qua. Come faccio ad andare di là? Mi sono abbassata sotto il treno. Per sotto e sono passata. Sono arrivata là. La gente mi guardava e parlava tra loro. Da dove arriva questa?

Mi giro, vedo uno che mi segue, era un italiano di quelli che erano col gruppo, quello di Bologna. “Albina, sono venuto dietro, dove vai? Sola?” “Mario, erano ubriachi”. Non so cosa dire. Mentre eravamo lì a parlare, arriva la ronda dei russi, viene vicino. Mario, poveretto, è venuto a casa mia finito tutto, da ragazzo è venuto a casa mia con la famiglia, eravamo come fratelli. Aveva la giacca da tedesco. I russi non sapevano se era tedesco, se era prigioniero, chi era.

Anche loro saranno stati mezzi ubriachi. Domanda, “No. Nein Deutsch. Niente”. Questo che mi correva dietro, tutto bagnato, credevano fosse tedesco. Mi commuovo un po’ e perdo il filo. Dopo siamo tornati. Andiamo ancora dove sono i ragazzi. Siamo andati via. Dopo per fortuna abbiamo avuto una gioia.

Dicono questi ragazzi: “Senti, stiamo due giorni assieme e andiamo un pezzo avanti insieme”. Io sola donna, questo ragazzo che non faceva parte di loro e questi ragazzi qua. Camminiamo. Là c’era un paese tutto deserto perché la gente era tutta scappata, c’era la guerra.

Dicono questi ragazzi, mi è venuta un’impressione. “Dai, dai, senza mangiare ti gira”. Proprio perché sono senza mangiare penso a qualcosa. “Da quanti giorni non mangiamo?” “Ma, non so”. Io ho visto che vicino a quella casa c’è della terra mossa. Sì. C’è nascosto qualcosa.

Andiamo a cercare se c’è qualcosa. Sono andati sul dietro, hanno trovato la pala. Trovano questo pezzo di roba che avevano ben coperto, viene fuori il ben di Dio. Tutti questi vasetti preparati. C’erano galline, oche, non so quanti vasetti. Da un sacchetto da parte coperto c’era farina di polenta.

Allora tutti contenti. Madonna della misericordia. Prendiamo, svelti, a me e a Mario ci hanno messi da parte. “Adesso noi prendiamo tutto e poi anche voi due”. Sono entrati, hanno trovato pignatte per fare la polenta. “Io”, dico, “vado in camera a vedere se trovo qualcosa”. Ho trovato un catino con la brocca per lavarsi. Così abbiamo fatto la polenta, abbiamo mangiato e ne hanno dato un po’ anche a me e Mario.

D: Albina, quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia il 27 agosto, il giorno che è nata lei, mia figlia. Non posso significare perché è nata il giorno stesso, la prima figlia, il 27 agosto. Di sera.

Bellumat Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Vittore Bellumat, sono nato a Feltre il 12 ottobre 1926.

Come ha detto l’intervistato di prima, sono stato preso il 3 ottobre da una pattuglia tedesca, 3 ottobre 1944, qui in Feltre, in occasione di quel famoso rastrellamento cui è stato accennato prima. Portato prima nella Caserma Zanitelli di Feltre e poi al Cinema Italia, dove abbiamo pernottato quella notte; il giorno dopo siamo stati trasportati a Bolzano, con tappa a Grigno, Grigno di Valsugana.

Siamo arrivati a Bolzano tre giorni dopo, perché durante i bombardamenti il treno veniva messo sul binario a fianco, per dare modo agli altri treni di snellire.

Siamo arrivati a Bolzano alla sera, verso alle otto.

Una cosa che mi ricordo sempre è che, penso neanche in trenta secondi, eravamo in centoquattordici, noi di Feltre, e ci hanno allineati con i cani: ci sembrava gente veramente agguerrita militaresca, tanto era il terrore che ci incutevano.

Poi ci hanno portato nel campo di Bolzano e lì è stato un impatto terribile, perché abbiamo visto gli altri già prigionieri da prima, e nella penombra sembravano ancora più brutti.

Il giorno dopo ci hanno dato il numero, il mio numero era 5.014, ci hanno rapato i capelli a zero, consegnato una tuta con il triangolo ed abbiamo cominciato la nostra vita nel campo di concentramento di Bolzano.

Consisteva nella chiamata mattutina, l’appello, il famoso appello, si divertivano a prenderci in giro, cappelli su, cappelli giù, allineati.

Non ci chiamavano più per nome, eravamo solo un numero e guai a chi non rispondeva, magari per un momento di disattenzione, magari si aspettava che chiamassero il nome, invece era il numero e lì erano botte.

Ci portavano poi tutti i giorni a lavorare, uno da una parte, uno dall’altra. Sono stato alla Galleria del Virgolo, sono stato alla Caserma di Gries a lavorare.

Durante i bombardamenti loro si mettevano nei rifugi e noi nella piazza della caserma a lavorare con i bombardamenti sopra.

Ho lavorato, ho scaricato treni, ho lavorato in galleria, tanti lavori pesanti, e dopo i bombardamenti a sgombrare dalle macerie.

Alla sera, quando si rientrava, con quel poco da mangiare, fortuna che fuori qualcuno ci aiutava, si dormiva, non importa se il pagliericcio era misero, un paio di centimetri di trucioli e si dormiva, non c’era bisogno di calmanti, né niente.

D: Vittore, eravate sempre sorvegliati anche quando eravate sul luogo di lavoro?

R: Sì, mi ricordo per esempio al Virgolo: noi lavoravamo solamente all’interno, si caricavano i carrelli e quando si arrivava all’imboccatura c’erano i civili che portavano via il materiale o quello che noi si portava con i carrelli, ce li riconsegnavano e noi si lavorava all’interno.

Alle bocche del Virgolo c’erano le mitragliere e noi eravamo propri assoggettati a loro e basta.

D: Tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Io sono rimasto… la data precisa non mi ricordo, ma senz’altro fino a febbraio, dopodiché mi hanno trasferito a Vipiteno. Ci hanno trasferiti, perché il campo brulicava ormai. Si sentiva dire che l’ultima spedizione per la Germania fosse stata nel febbraio, non ricordo la data.

Dopodiché hanno cominciato a sfoltire il campo nei campi satelliti, i vari campi satelliti.

So che quando ero ancora a Bolzano sono stato in Val Sarentino a lavorare; si pensava di andare là mentre ci avrebbero preparato il campo. Erano le voci, noi si diceva, di radio bugliolo, le notizie che venivano da fuori, era la famosa radio bugliolo. Abbiamo lavorato in Val Sarentino e poi mi hanno portato, invece, a Vipiteno, che era al confine.

D: Scusa Vittore, prima accennavi di essere stato a lavorare in una caserma a Bolzano.

R: Quella di Gries, mi pare Gries.

D: Cosa facevi in quella caserma?

R: Tutto quello che occorreva, pulizie delle sale, servizi alle stanze degli ufficiali, tutto quello che c’era da fare. Generalmente, però, erano lavori pesanti, come scaricare camion: Partivamo con i camion di munizioni che si portavano al castello vicino a Bolzano, quel famoso castello dei conti Firmian, Castelfirmiano; lì c’era vicino un deposito d’armi e si portavano dentro queste cassette di munizioni.

Ricordo che il passaggio era sconnesso, con queste cassette da oltre cinquanta chili, era tremendo, perché in quattro si doveva scaricare un camion, uno dei lavori che mi ricordo d’aver fatto.

D: E su a Vipiteno?

R: Anche, uguale, eravamo alloggiati in una caserma, che era una caserma ex finanza. A Vipiteno noi eravamo esclusivamente sotto la SS, perché c’era una caserma con oltre, mi dicevano, mille SS a Vipiteno. Perciò potrei dire che quasi quasi stavo peggio lassù che a Bolzano, anche perché lassù nessuno ci aiutava: a Bolzano qualche pagnotta o frutta ecc… si poteva recuperare, a Vipiteno no.

Se si lavorava magari vicino a qualche casa normale si chiedeva a qualcuno: “Per cortesia può andarmi a prendere in farmacia qualcosa?”, io avevo la bronchite. Non capivano ed allora, era gioventù magari, dicevo una parolaccia e si vedeva che avevano capito.

Ho sentito tuttora a Vipiteno, pur essendo zona turistica, che accolgono bene ecc…; ci sono stato l’altro anno, dopo tanti anni ed ho trovato un autista, era una gita. Invece che andare a vedere le miniere, il museo delle miniere e quello che c’era in programma, in due ore di sosta, sono andato via per i paraggi dov’ero ed ho trovato un taxista. Ho visto la macchina: “E’ in servizio?”, “No, dice, era un tedesco dall’accento, ma parlava l’italiano, serve?” “Sì, vorrei andare qua”. Ero vicino alla stazione e mi ha portato là, ho visto la caserma e dico: “Fermo che guardo, chi c’è qui adesso?” “Ci sono i Kosovari” e parlavamo. “Lei conosce i posti”, mi dice, “Sì, ci sono stato parecchi mesi prigioniero!” “Mi ha detto mio padre, con la sua pronuncia, che qui c’erano i banditi”. “Ma che banditi, ho detto io, voi siete gente cattiva!” Ero giovane, ho compiuto diciotto anni nel campo di concentramento ed ho patito, perché quando sono tornato ho fatto otto mesi in ospedale, ho avuto il periodo dello sviluppo proprio nel campo, senza mangiare né niente, avevo una pleurite trascurata e altro, parecchie magagne; ho fatto otto mesi all’ospedale.

D: Ascolta Vittore, ma quando tu eri a Vipiteno, cosa facevi di lavoro?

R: Di lavoro eravamo in una caserma. Per esempio andavamo nelle caserme del luogo a lavorare, nei boschi. Vicino alla nostra caserma stavano facendo un rifugio antiaereo, una galleria, perciò lì avevo lavorato tanto e ci mandavano dentro quasi subito dopo scoppiate le mine di avanzamento. Non ricordo se erano intossicate, io ho sempre tossito, in quel periodo avevo la bronchite cronica e mi è rimasta anche adesso, a dire la verità.

Lavori pesanti veramente, scaricare camion, treni, anche per esempio vicino a Fortezza: ci portavano giù, c’era una caserma, un castello, una polveriera, scaricare munizioni anche lì, tutti lavori che servivano a loro.

D: C’erano anche delle donne in questo campo a Vipiteno?

R: No, nel nostro gruppo no; c’erano le donne, direi le amanti dei comandanti, quelli che ci trattavano veramente male e ci guardavano con disprezzo perché loro erano dall’altra parte.

D: Fino a quando sei rimasto lì?

R: Fino alla fine della guerra. Al 3 maggio, nel pomeriggio, sono arrivati i tedeschi, che erano in ritirata, via via, in mezzora abbiamo dovuto prendere i nostri stracci, so che ho dormito in un vagone in stazione a Vipiteno, perché ci hanno buttato fuori nel pomeriggio, nel tardo pomeriggio.

D: E poi cos’è successo?

R: Poi, non ho avuto la fortuna di Gianni di avere un camioncino, ero giovane, mi hanno preso che ero appena venuto fuori dal collegio, perciò non avevo né esperienza né niente ed ho cominciato a tappe a venire a Feltre. Ci sono voluti cinque giorni e sono arrivato veramente al limite delle forze.

D: Non sei passato dal campo di Bolzano?

R: No, lì c’erano i tedeschi, hanno messo una fascia di servizio ed hanno avuto due o tre tragitti con il treno, da una stazione, da un ponte rotto all’altro ponte rotto. Avevano fatto saltare tutti i ponti ed ho avuto la fortuna di montar su, sono centocessanta mi pare i chilometri da Bolzano a Feltre, ne avrò fatti centoventi a piedi.

D: Scusa, dicevi che vi hanno messo una fascia?

R: No, i tedeschi si erano messi una fascia e facevano un ottimo servizio di smistamento, chi doveva andare in su e chi in giù e tenevano l’ordine. Da quel lato li ho ammirati, pur odiandoli ancora al giorno d’oggi, in quel lato dicevo: “Hanno tenuto loro per liberare la zona”.

D: Ascolta, quando vi hanno detto che eravate liberi, in quanti eravate?

R: Noi qui da Feltre eravamo, nel nostro gruppo, quattordici, poi lassù ce n’erano tanti, passati per il campo di Bolzano provenienti da Sanremo, un gruppo da Sanremo, mi ricordo. Tanti che avevano anche fatto una ricerca per trovare un certo Annibale, non ricordo il nome, che piangeva sempre, quello era più giovane di me, ma piangeva sempre. Mi ricordo d’aver fatto amicizia.

D: Ascolta, Vittore, durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: I primi tempi ci avevano dato il permesso di scrivere a casa ed ho scritto in collegio, perché mia mamma era a Milano, era a balia; mio papà era morto in un incidente di lavoro. La mamma non era a Milano ma vicino a Domodossola, con la famiglia del notaio per cui lei lavorava, dove avevano la casa di montagna; andava al mare, poi in montagna.

Perciò avevano fatto la Repubblica della Val D’Ossola e lei è venuta a saperlo tre mesi dopo che ero prigioniero ed è venuta su con una neve!, quell’anno ne ha fatta tanta di neve, a trovarmi a Vipiteno.

D: Tua mamma è venuta a Vipiteno?

R: Quando ha saputo, con l’autostop ecc…, è capitata su, lei ed un’altra signora di Feltre.

D: E tu sei riuscito a vederla?

R: Ce n’era qualcuno più umano, la caserma era recintata, aveva un ampio recinto. Ci mandavano fuori, eravamo senz’acqua, a prendere l’acqua in paese ed allora l’ho vista: “Mamma, stai lontana!”, poche parole e via.

E’ stata su due o tre giorni e quando è tornata a casa io ho respirato, anche perché non volevo farmi vedere che ero ammalato ed avevo questa bronchite continua e lei soffriva.

D: Quindi sei riuscito a parlarle?

R: Sì.

D: Tu potevi ricevere posta, pacchi?

R: No, a Bolzano ne ho ricevuto qualcuno, lassù mia mamma ha portato un pacco.

Poi c’era una di Feltre che penso andasse d’accordo con uno della SS, un tenente; mi ha portato un paio di pacchi, era una che io conoscevo già, aveva un paio d’anni più di me e mi ha portato i pacchi, so che veniva lì accompagnata con questo tenente della SS e diceva: “Vittorino ti ho portato un pacco, me l’ha dato tua mamma”. Lassù eravamo in mezzo a gente, oltre che la SS, avevamo contro anche la popolazione. Veramente non ho un bel ricordo di Vipiteno.

D: Come chiedevo a Gianni prima, tu ti ricordi di qualche religioso, di qualche sacerdote?

R: Sì a Bolzano, a Vipiteno no.

D: Ricordi quando celebravano?

R: Celebrava la messa, mi ricordo che una volta ha detto anche: “Fate pure la comunione, non occorre la confessione! quando tornerete a casa vi metterete a posto, qui siete tutti liberi con la coscienza di poter fare la comunione” e l’abbiamo fatta, mi ricordo con tanta devozione, un paio di volte.

D: Questo nella piazza del campo?

R: Sì, nella piazza del campo, che era grande.

D: E potevano assistere tutti a queste funzioni?

R: Sì tutti, quelli che non erano nelle celle, perché a Bolzano c’erano anche le celle. C’era un feltrino anche…

D: Ricordi il sacerdote com’era, se era un tipo particolare, giovane, anziano, alto, magro…

R: Statura media quello che diceva la messa, non ricordo bene, perché eravamo una folla, eravamo dall’altare magari anche un po’ lontani, poi la comunione… Ma una persona molto umana, molto simpatica, era prigioniero anche lui.

D: Era un deportato?

R: Sì, io ho letto anche il nome sul libro fatto nella ricorrenza dei trent’anni del Lager di Bolzano; c’è il nome di quel sacerdote.

D: Tu non lo ricordi adesso il nome?

R: No, il nome no.

D: Il tuo triangolo di che colore era?

R: Rosa all’inizio, all’inizio mi avevano dato… l’errore che diceva Gianni prima, all’inizio mi avevano dato il numero 5.514 ed il giorno dopo mi hanno richiamato e mi hanno dato il 5.014, avevano saltato di cinquecento numeri.

Sul libro figuro 5.514, ma ero 5.014.

Poi a Vipiteno dovevamo tenere sempre il triangolo e la tuta ed il freddo, come diceva Gianni per Colle Isarco, il freddo di Vipiteno era tremendo; aveva fatto tanta neve, c’era parecchia aria e non ci si poteva vestire più di tanto ma gli abiti civili non li tolleravano.

Bettiol Tullio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Tullio Bettiol nato a Belluno il 1 gennaio del 1927. Sono stato arrestato a Belluno a casa dei miei genitori da una squadra di tedeschi, saranno stati dieci o undici della SS che sono venuti alle 5 di mattina per arrestare mio padre che era in casa. Mio padre è riuscito a nascondersi in un nascondiglio che avevamo creato nella casa, mentre io sono rimasto a letto.

D: Scusa Tullio, perché volevano arrestare il tuo babbo, chi era il tuo babbo?

R: Mio padre era un componente del Comitato Liberazione Nazionale Provinciale per conto del Partito Comunista Italiano. Partecipava, da lungo tempo, prima all’antifascismo e poi alla guerra di Liberazione. Si era assentato da casa, ma quel giorno era in casa, casualmente, probabilmente c’è stata qualche soffiata che indicava che mio padre era in casa e sono arrivati questi tedeschi. Noi eravamo come Alpenvorland, cioè annessi al grande Reich e quindi c’erano sì i fascisti ma non la Repubblica Sociale, c’era il commando, c’era la Federazione Repubblichina ma il territorio era governato e comandato dai tedeschi.

D: Quando sono venuti ad arrestarti?

R: Ricordo bene la data perché erano finite le scuole da pochi giorni, era esattamente il 19 Giugno del 1944. Sono venuti alle 5 di mattina, hanno circondato la casa. Mia madre ha dovuto aprire la porta di casa, sono entrati e io me li sono trovati in camera con i fucili puntati. “Raus!

Raus!”, i soliti discorsi che facevano, alzarsi in breve tempo. Mi hanno fatto caricare la radio che avevamo in casa e una macchina fotografica.

Mi hanno portato subito al distretto militare dove c’era il commando della polizia tedesca, della SS. Lì sono stato chiuso in una stanza assieme ad una ventina di persone, venti/trenta persone della città di Belluno che erano state arrestate insieme a me. Ad una certa ora sono arrivati anche il gruppo di feltrini che erano stati arrestati anche loro quella mattina. Sono stati trattati, devo dire la verità, in misura peggiore che noi, nel senso che a Feltre si erano presentati questi SS certamente ubriachi e hanno anche creato fatti di sangue; tant’è vero che sulle scale di casa, di fronte alla moglie, hanno ammazzato il Colonnello Zancanaro medaglia d’oro poi al valor militare e il figlio che era a scuola con me, era un anno più vecchio di me. Sulle scale di casa li hanno ammazzati.

C’erano anche dei preti e sono arrivati al distretto verso le 7,30/8,00 del mattino.

Ci hanno tenuti tutto il giorno chiusi in queste stanze, dopo di che in colonna, a piedi, ci hanno portato nel carcere della città a Baldenich, in località Baldenich. Siamo stati smistati, io sono stato posto in una cella singola, non so perché, e sono rimasto lì parecchi giorni, una quindicina di giorni in segregazione. Non vedevo nessuno, non sapevo niente. L’unica cosa che potevo fare era leggere qualche libro che mi passava la biblioteca del carcere. Non ho mai visto nessuno.

Finalmente dopo una quindicina di giorni mi hanno tolto dalla segregazione e mi hanno messo assieme ad altri.

D: Non ti hanno mai interrogato?

R: No, non sono mai stato interrogato. Anche questo è un mistero che non ho mai capito. Una mattina, eravamo ai primi di luglio il giorno preciso non me lo ricordo, deve essere stato intorno al 5/6 luglio, alle 5 di mattina ci hanno fatto svegliare in due o tre, ricordo io e Germano Sommavilla che poi abbiamo vissuto tutte le vicende che sono seguite assieme. Prima ci ha fatto vestire soltanto, tant’è vero che tutti hanno preso un po’ di paura, perché l’ora non era la più indicata, le 5 di mattina quando ci fanno alzare significa che può succedere sempre qualcosa di molto grave.

Per fortuna ci hanno detto di prendere le nostre poche cose che avevamo e quindi abbiamo capito che non succedeva niente di grave, ma succedeva qualcosa di diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora. Infatti ci hanno fatto scendere nel cortile del carcere, ed eravamo una trentina. Ci hanno caricato su dei camion e da lì in colonna siamo partiti verso Feltre.

Quando siamo arrivati a Feltre hanno caricato su questi pullman dei Carabinieri, non ricordo il perché. Ricordo benissimo che c’erano delle mogli, delle madri che piangevano, che urlavano intorno ai pullman. Ci sono state anche delle sparatorie in alto da parte dei tedeschi per allontanare la gente. Hanno caricato questi Carabinieri ed assieme abbiamo proseguito il viaggio, sempre con autocarri davanti e dietro con fucili mitragliatori e abbiamo imboccato la Valsugana.

Fatta la Valsugana siamo arrivati a Trento e poi a Bolzano al Corpo d’Armata. Nel Corpo d’Armata ci hanno tenuti tutto il giorno seduti sul campo e ad un certo punto hanno fatto uno smistamento. Io, Sommavilla e se ricordo bene, nessun altro, siamo stati portati a Gries.

Altri che ricordo sono: un certo professor Viaggi che era stato mio insegnante, allora si insegnava anche cultura militare, che era un ufficiale dell’esercito, dicevano che era dell’Intelligence Service. E’ stato portato a Dachau e non ha più fatto ritorno.

Altri sono stati tenuti al Corpo d’Armata e sono stati trasferiti nelle celle, credo, nei sotterranei del Corpo d’Armata. Io, Germano e credo altri tre o quattro, ma non di più, siamo stati portati a Gries, dove c’era questo campo che era in formazione perché allora, non ricordo la frase in tedesco, perché un po’ l’ho voluto dimenticare, sbagliando tutto, probabilmente, ma non importa, era indicato come campo di punizione e rieducazione SS. Forse punizione si può comprendere, cosa significasse rieducazione non l’ho mai capito.

Siamo entrati in questo campo, ci hanno portato in una stanza, ci hanno fatto spogliare completamente, ci hanno fatto mettere i nostri indumenti in un sacco e ci hanno dato una tuta di colore blu con delle strisce sulla schiena, sui calzoni e con il triangolo rosso sul taschino della giacca e un paio di zoccoli. Ci hanno messo nel cortile seduti ed è venuto uno con una macchinetta elettrica e ci ha pelato completamente.

É stata la prima volta che ho subito una grossa umiliazione, chi sa perché ma mi è venuto perfino da piangere a subire questa umiliazione.

D: Scusa Tullio, oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Sì, mi hanno dato una catenina di spago con un ciondolino sul quale era inciso il numero einundachtzig, 81, che ho dovuto sempre tenere al collo e come mia identità personale sono sparito, sono diventato solo un numero, dovevo rispondere solo al numero einundachtzig quando venivo chiamato per l’appello o per altre incombenze nel campo. Ormai Tullio Bettiol a quel punto non esisteva più, almeno secondo i tedeschi. Erano delle guardie tutte SS.

Eravamo in pochi allora, infatti io avevo il numero 81 poi invece il numero è sempre più aumentato perché sono arrivati quelli internati, deportati dal campo di Fossoli che si stava sciogliendo perché stavano avanzando le truppe alleate. Quando sono arrivati quelli di Fossoli il numero è notevolmente aumentato.

Io sono stato portato all’interno del campo poi assegnato al blocco A, era un capannone con dei letti a castello. Ci hanno dato una coperta e si dormiva in questo capannone. La vita del campo era abbastanza dura nel senso che come tempi ci svegliavano alle 5 di mattina, spogliare completamente all’interno del capannone, attendere che aprissero la porta, poi si doveva uscire nel cortile e fare la così detta doccia che consisteva in un risciacquo del corpo. L’acqua arrivava da un tubo forato, acqua fredda, eravamo in luglio però alle 5 di mattina allora non era molto caldo. Quindi si faceva questa doccia senza sapone, senza niente, un risciacquo del corpo con acqua fredda attraverso questo tubo. Dopodiché ci si doveva rivestire e ci davano la colazione che consisteva in una gavettina di, chiamiamolo caffè, era acqua sporca, acqua un po’ nera con un po’ di pane. Dopo incominciava la giornata vera e propria e dovevamo o trasportare nell’interno del campo delle travi, del legname, da un posto all’altro, oppure ci portavano in una cava del fiume vicino al campo di Gries e dovevamo caricare dei carrelli, dei decouville, di sassi e portarli, spingendoli a mano, portarli su nel campo. Era una vita molto dura soprattutto quando raccoglievamo i sassi perché era caldo, era un lavoro improbo, pesante. Quando si arrivava al campo ci davano qualcosa da mangiare, il mangiare era una cosa incredibile, era acqua sporca con una patata dentro e un po’ di pane quello nero che alle volte era anche ammuffito e poi si riprendeva lo stesso lavoro di prima e verso sera ci rinchiudevano dentro nel campo. Ci davano la cena che consisteva sempre delle stesse cose e ci chiudevano nelle baracche. Nelle baracche in silenzio si doveva dormire fino al giorno dopo. Devo dire che credevo non si potesse dormire su di un tavolaccio, invece ci si abitua, si dorme molto ma molto bene.

Alle volte succedeva o perché non si sentivano bene gli ordini tedeschi, o perché qualcuno commetteva secondo loro qualche grave fatto, allora c’erano le punizioni: calci o botte oppure punizioni vere e proprie soprattutto quando qualcuno tentava di scappare dal campo. Io ho assistito a scene veramente poco belle, poco simpatiche anche da raccontare, a dire la verità. Ma a Bolzano sì, botte sì ne ho prese perché magari uno spingeva questi carrelli e secondo loro non li spingeva con sufficiente forza allora era qualche calcio o qualche bastonata sulla schiena. Non si poteva reagire certamente a ciò che ci veniva ordinato di fare.

D: Ecco scusa, ritornando indietro un momento, tu dicevi che prima era campo di rieducazione e poi era diventato campo di punizione, cioè, è cominciato come campo di punizione, il personale di guardia, i comandanti eccetera, sono rimasti sempre gli stessi, che tu sappia?

R: Che sappia io sì, però io non ricordo i nomi di guardie che sono state poi citate nei vari documentari e nei vari documenti. Io non ne ho memoria. So che il campo, da campo di punizione è diventato campo di smistamento “DurchgangsLager“. Però i nomi non li ricordo, assolutamente. Eravamo controllati da questi SS, dai cani lupo, che erano lì nel cortile a disposizione delle guardie. No, ma i nomi non li ricordo.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano anche delle donne deportate?

R: Sì, a Bolzano sì. Direi soprattutto però ricordo le donne nel campo di Merano. Però è un episodio che forse viene dopo.

D: Ecco, e sempre a Bolzano ti ricordi dei sacerdoti deportati, dei religiosi?

R: No, non ne ho memoria.

D: Ebrei?

R: Ebrei sì, molti. Però devo dire che io a Bolzano sono rimasto un mese o poco più, perché poi sono stato trasferito in altra sede.

D: Come è avvenuta questa selezione?

R: La selezione è avvenuta in questo modo: ci hanno messo nel cortile in fila e ci hanno detto “Si facciano avanti quelli che sono disposti ad andare anche fuori dal campo o a trasferirsi in un altro campo”. Il mio amico Sommavilla, che era un pezzo di ragazzo, lo vedo, “Alza su le spalle, io sono un po’ curvo per natura, alza su le spalle, fagli vedere che sei forte e andiamo via di qua”. Siamo stati selezionati anche noi e ci hanno trasferito su dei camion, ci hanno trasferito a Merano nelle caserme di Maia Bassa.

D: Eravate in molti in questo trasferimento?

R: No, direi che saremmo stati una cinquantina, cinquanta/sessanta, però a Merano abbiamo trovato già dei prigionieri e donne anche che erano già lì, ma da poco, penso.

Eravamo divisi come sesso, da una parte gli uomini, dall’altra le donne. Lì si è modificata un po’ la situazione nel senso che la vita era meno dura che a Bolzano: botte no, mangiare se si può dire un po’ meglio…sì un po’ meglio. E ci portavano fuori dal campo, nella stazione ferroviaria vicino a Maia Bassa, saranno stati cento metri di distanza, e ci facevano scaricare del materiale dai vagoni ferroviari che avevano razziato un po’ in tutta Europa. Ricordo tessuti pregiati, quadri, tappeti, anche zucchero e generi alimentari, ce li facevano caricare su dei camion e poi ce li facevano smistare, portare e scaricare nei castelli vicino a Merano. Io ricordo benissimo il castello, sono riuscito a trovarlo anche recentemente, dove si doveva salire su per le scale con questi tappeti pesantissimi, a parte che eravamo un po’ debilitati anche noi questo è logico, e si doveva salire per le scale e portare su questi tappeti e accatastare tante di quelle cose in questi castelli… cioè, era materiale che era stato razziato un po’ in tutta Europa, direi, materiale anche prezioso. Prezioso nel senso: tappeti persiani, telerie anche di pregio e cose del genere.

Un’altra cosa che ricordo è lo zucchero: i sacchi maledetti, scusate il termine, di zucchero che ci si caricava sulle spalle e si dovevano portare su per le scale. Ed io ero un ragazzetto, insomma, non ero un colosso, avevo sedici/diciassette anni, ma non è che fossi un gran colosso. Poi ho dovuto sopportare questi carichi…eppure li ho sopportati, sono ancora qui. Quindi vuol dire che la capacità di sopravvivenza e la resistenza hanno un certo peso nella vita di un uomo. Lì a Merano si faceva questo tipo di vita. Anche da lì, senza preavviso né niente, ci hanno caricato, un gruppo, e ci hanno trasferito a Karthaus, Certosa.

D: Ecco, un attimo: il campo di Merano era allestito dove?

R: Il campo di Merano era nella zona di Maia Bassa vicino all’ippodromo e vicino alla vecchia stazione ferroviaria di Maia Bassa, erano delle caserme dell’esercito italiano. Si dormiva in questi stanzoni, non più in gran capannoni, ma in stanzoni come quelli delle caserme, insomma.

D: E lì le sentinelle, le guardie, chi erano?

R: Le guardie erano sempre SS. Sempre, sempre. Io ho sempre avuto a che fare con SS, tranne su, se volete lo dirò dopo, tranne su a Karthaus, dove c’erano come comandanti SS, però c’erano delle truppe della Wermacht, cioè truppe, scusate, c’era un gruppo, un drappello della Wermacht.

D: Il lavoro che facevate lì di scarico, di portare ed occultare questi beni all’interno dei castelli lo facevate durante il giorno?

R: Sì, sì, durante il giorno. Sì, sì, di sera mai.

D: Ed anche le donne partecipavano?

R: No, le donne rimanevano all’interno del campo. Forse accudivano ad altre incombenze, ma non fuori. Io non ho mai visto portare fuori le donne.

D: E di italiani eravate in molti lì a Maia Bassa?

R: Beh direi che eravamo tutti italiani ed ebrei. Italiani ed ebrei. Però ebrei italiani. Non mi ricordo di prigionieri di altre nazionalità. Però adesso, ripensandoci ricordo che su a Karthaus eravamo assieme, c’era un gruppo di ebrei e c’erano anche ebrei francesi. Ricordo benissimo, invece, un tipo simpaticissimo che aveva un basco in testa, era un ebreo francese, che cantava sempre un ritornello che ricordo tuttora proprio. Ricordo che lo cantava sempre questo ebreo francese.

D: Ascolta Tullio, tu dici che c’erano degli ebrei perché erano contraddistinti in un altro modo da voi?

R: Sì, gli ebrei avevano il triangolo giallo. Noi il triangolo rosso, gli ebrei il triangolo giallo. Forse avevano anche, se si può dire un trattamento quasi peggio del nostro, nel senso che pigliavano più botte di noi, ecco. Per il resto alla pari.

D: Lì a Merano quanto tempo sei rimasto?

R: A Merano credo di essere rimasto fino a settembre, adesso non so se all’inizio o alla fine di settembre, e poi sono appunto stato trasferito a Certosa.

D: Tutti siete stati trasferiti a Certosa?

R: No, solo alcuni. Solo una cinquantina di persone, mentre a Merano eravamo sicuramente più di duecento.

D: C om’è che siete stati scelti?

R: Così, non saprei che scelta abbiano fatto i tedeschi.

D: Con cosa vi hanno portato a Merano?

R: Ci hanno portato con dei camion militari, sempre con la scorta. Ci hanno portato su in alcune baracche che forse erano state dell’esercito italiano, sotto il paese. Successivamente quando è venuto più freddo, ci hanno portato in una caserma che era una caserma di confine dell’esercito italiano. Nelle baracche siamo stati fino a novembre, si dormiva per terra, trattati veramente male e anche lì ci facevano lavorare nel senso che alla mattina ci caricavano sui camion e attraverso la valle che arriva giù al paese di Senales, se ricordo bene, una valle molto stretta, valle pericolosa anche. Ci portavano alla stazione ferroviaria e ci facevano scaricare dei vagoni ferroviari e caricare sui camion del materiale che erano, ricordo benissimo, soprattutto zaini e scarponi dell’esercito francese, erano proprio dell’esercito francese. Mi ricordo bene perché me lo avevano detto gli ebrei francesi che erano lì, ci si chiedeva la provenienza di questa roba. Ce la facevano portare su nelle baracche a Certosa. Quando è aumentato il freddo ci hanno portato in questa caserma sopra il paese di Certosa, ma eravamo in pochi, eravamo rimasti una trentina di ebrei e quattro o cinque italiani, non di più, pochissimi. Era proprio un minicampo. Chi comandava era un sorgente delle SS reduce della guerra di Russia, era stato ferito, era lui il comandante, un certo Otto, un pezzo d’uomo che poi aveva avuto la sua lezione, ho sentito, su a Bolzano. E un caporale delle SS polacco, Daloch, che poi i tedeschi avevano ribattezzato …. che dimostrava di avere una paura maledetta perché sentiva che gli alleati stavano avanzando e oramai era convinto dentro di se che probabilmente la guerra l’avevano persa e aveva una gran paura di ritornare in patria per le conseguenze che forse avrebbe subito. Questo non è che ce lo dicesse ma riuscivamo a capirlo noi.Mentre gli altri, saranno state una decine le guardie, erano della Wermacht. Eravamo in questa caserma recintata e si faceva quel lavoro di avanti e indietro con questi camion fino giù alla stazione di Senales poi ritorno. Ad un certo momento gli ebrei sono partiti per essere portati all’interno, non so se siano tutti arrivati… non so la fine che hanno fatto. Ho cercato di uno e purtroppo so che è morto ma credo sia morto in campo. Deve essere stata l’ultima spedizione che è partita da Bolzano verso l’interno perché poi sono state bombardate le linee ferroviarie e non ci sono stati più traslochi verso l’interno. Eravamo rimasti alla fine, era proprio in smobilitazione il campo, eravamo rimasti quattro italiani soli: io, Sommavilla che citavo prima; un giovane di Pavia, un certo Carlo che non ho più ritrovato, non ho più avuto notizie dopo la guerra e un certo Contiero di Bressanone che preparava il cibo ed era d’accordo con i tedeschi, faceva un po’ la spia, il controllore.Partiti gli ebrei, credo verso Natale o subito dopo Natale, avevamo capito che si metteva male anche per noi perché non si poteva sostenere un campo con quattro prigionieri, tenendoli lì a far cosa? Infatti ci avevano fatto capire che saremmo stati trasferiti nuovamente a Bolzano e di lì non si sa. Allora abbiamo pensato se si riusciva ad organizzare una fuga, ma solo noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, non il cuoco del quale non ci si fidava. Andando giù a caricare questo materiale alla stazione di Senales, abbiamo avuto modo di conoscere il capostazione che era italiano, di fede italiana, il quale aveva anche un po’ di compassione, pietà per noi ragazzi. Parlando assieme in qualche modo siamo riusciti a spiegarci e a fare in modo che lui avvisasse Belluno che avevamo intenzione di scappare perché si metteva male qua su. In quel momento ha funzionato l’organizzazione nel senso che mia sorella con il fidanzato sono venuti su da questo capostazione di Senales, con vestiti, con carte di identità false, con cibo e una bottiglia di cognac con del sonnifero che mia sorella si era fatta dare, o mia madre non ricordo, da un farmacista di Belluno che poi era venuto in campo insieme a noi. La farmacia funzionava ancora e sono riusciti a fregare il sonnifero, era una polvere quasi impalpabile bianca, ricordo.

Allora, i vestiti e tutto li ha tenuti il capostazione; noi in qualche modo ci siamo fatti dare questa bottiglia con il sonnifero e l’abbiamo portata su a Senales con la scusa che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto il cognac anche alle guardie, non alle SS perché questi dormivano non nella caserma ma in un albergo del paesetto, mi pare si chiamasse Croce Bianca l’albergo, ci sono due alberghi. Potrei dire l’episodio dell’albergo La Rosa dove invece c’erano due ragazze meravigliose che ci hanno anche aiutato quando Sommavilla stava male.

D: Dopo questa ce la racconti però.

R: Sì, questa posso raccontarvela perché poi è successo un episodio qualche anno fa, un paio d’anni fa anche difficile da raccontare ma emozionante per come è avvenuto.

Allora abbiamo inventato che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto da bere alle guardie che anche loro erano ragazzi giovani e hanno bevuto volentieri, solo che nelle cose che abbiamo offerto loro c’era il sonnifero che ha funzionato subito molto bene perché dopo un’ora dormivano tutti della grossa, tutti i soldati all’interno della caserma.

Quando abbiamo sentito che dormivano, perché russavano proprio, allora abbiamo deciso: “Qui, si scappa”. Abbiamo scavalcato la finestra di un bagno, abbiamo scavalcato il muro di cinta della caserma e siamo scesi giù per la valle. Avevamo dei ramponi, che ci erano stati forniti da mia sorella, perché c’era molto ghiaccio, era febbraio, c’era neve e ghiaccio, la località è a 1800 metri, mi pare. Era un freddo, freddo, ma devo dire che nonostante il freddo e io avessi solo un vestito di tela addosso, nient’altro, non ho avuto un raffreddore che fosse uno. Una volta il fisico reagiva bene, si mangiava poco, si lavorava come cani, senza vestiti, senza niente a queste temperature, non ho mai avuto niente. Solo Germano Sommavilla aveva preso una specie di bronchitaccia ma poi con l’aiuto di quelle sorelle che accennavo prima e che riprenderò, è guarito in poco tempo anche lui.

Tornando all’episodio della fuga, siamo scesi giù per la valle, sarà stato mezzanotte, l’una di notte, noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, in fila indiana siamo andati giù per la valle. Ad un certo punto del percorso è avvenuto un episodio un po’ strano, drammatico anche. Abbiamo incontrato, che salivano a piedi, dei militari tedeschi, erano dell’aviazione tedesca. Credo, che da quanto mi hanno detto dopo, che c’era un campo… una specie di rifugio per aviatori tedeschi, per riposare a Madonna che è un paese vicino a Certosa.

Erano in tre o quattro, loro venivano in su sulla loro destra contro la roccia, e noi eravamo sulla nostra destra sul ciglio dello strapiombo, perché è molto stretta e a strapiombo. Quando li abbiamo visti “Cosa facciamo?” io ero l’interprete ufficiale del campo, parlavo il tedesco e quando ci siamo incontrati è stato un momento di suspance perché ci hanno visto che avevamo ancora indosso i vestiti dei prigionieri e ci hanno detto “Gute Nacht”. Forse hanno capito che noi eravamo decisi un po’ a tutto, forse hanno avuto paura anche loro perché erano dei ragazzi, il fatto è che loro hanno proseguito, noi anche e appena passati noi ci siamo messi a correre come dei matti però loro non hanno avuto reazioni in quel momento.Così siamo arrivati giù a Senales dove siamo stati dal capostazione il quale ci ha rifocillato, ci ha dato dei vestiti diversi, ci ha dato i documenti e ci ha chiusi in un carro ferroviario. Con quello siamo partiti e siamo arrivati a Merano. Lì avevamo un punto di riferimento, una famiglia, i Pasi, che ci hanno accolto, avevamo l’indirizzo che ci aveva fornito mia sorella. Ci hanno accolto, ci hanno rifocillato, ci hanno dato una bicicletta e ci hanno indicato la strada per proseguire verso Bolzano, Belluno. Noi quindi siamo partiti e siamo arrivati oltre Bolzano, non mi ricordo mai il nome del paese sotto il passo del Campolongo….non mi ricordo mai il nome, eventualmente posso controllare e riferire.

Arrivati in questo paese siamo entrati in una trattoria, in un bar ed abbiamo trovato un gruppo di contrabbandieri, allora facevano contrabbando di sale e di tabacchi. Abbiamo cominciato a parlare “Dove andate?” “Andiamo a Pieve di Livinallongo” “Anche noi dobbiamo fare il passo del Campolongo, possiamo venire con voi perché non conosciamo la strada?” erano italiani. Loro ci hanno detto di sì, a condizione che portassimo anche noi una di quelle valigie piene di sale o di tabacchi. Noi abbiamo detto “Sì, volentieri” e abbiamo fatto di sera tardi, 9/10 di sera, tutto il passo del Campolongo e siamo arrivati a Pieve di Livinallongo. Lì siamo andati in un albergo, che abbiamo sbagliato tutto perché era una sede del comando Tedesco, l’Albergo Italia e lì abbiamo consegnato i documenti, questi li hanno guardati e hanno creduto che fossero validi, invece erano documenti falsi e ci hanno lasciato stare. Quindi abbiamo dormito e la mattina abbiamo preso una corriera, si chiamava allora, che faceva il servizio Pieve Livinallongo/Belluno e siamo arrivati a 7/8 Km da Belluno, dove ad una frazione del comune di Sedico, dove c’era un posto di blocco. Noi siamo riusciti proprio prima a far fermare il pullman dicendo che dovevamo scendere e siamo passati oltre il torrente e siamo andati nel convento dei frati che è un convento che c’è tuttora, i frati di Vedana. C’è un laghetto, c’è un bellissimo convento ma adesso non è più frequentato. Sembra che riprenda vita, ma non si sa, allora c’erano i frati domenicani.

Ci hanno accolto nel convento, nel frattempo siamo riusciti a far avvisare che eravamo lì, sono venuti con un mio vecchio compagno, si chiamava Bossi, poveretto è morto. É venuto con la macchina, ci ha caricato, facendo un giro largo ha evitato il posto di blocco, andando su per le frazioni e ci ha portato a Belluno. Naturalmente dimenticavo di dire che eravamo rimasti in due perché con il ragazzo di Pavia ci siamo separati a Merano, lui è andato verso la Lombardia e noi verso Belluno.

Arrivati a Belluno a casa mia non c’era più nessuno, la famiglia si era disgregata per necessità, non volontariamente. Mia madre era a Belluno, mio fratello da un’altra parte, mia sorella con la mamma e mio padre era in tutt’altre faccende. Verso Padova, anche lui è stato arrestato, è riuscito a fuggire e anche qui è successo un episodio che varrebbe la pena di raccontare.

Ci hanno rifocillato per sette/otto giorni in questa casa di amici che partecipavano al movimento della Resistenza, di Liberazione. Dopo di che ci siamo separati: Sommavilla è andato con il comando piazza a Belluno, si chiamava comando piazza, cioè un movimento partigiano e aveva giurisdizione nella città. Io invece sono andato con la bicicletta fino a Padova e da lì in Cansiglio dove mi sono aggregato alla Brigata Fratelli Bandiera della divisione partigiana Nannetti e sono stato lì fino alla Liberazione.

Lì ho avuto modo di rincontrare mio padre che nel frattempo era stato arrestato dai fascisti della Repubblica Sociale Banda Carità, famosa Banda Carità di Padova. Era riuscito a fuggire in maniera quanto meno rocambolesca con l’aiuto di mia madre ed era stato accolto nell’arcivescovado di Padova e poi con una macchina dell’arcivescovado portato su in cascina dove ci siamo incontrati, tutti e due fuggiti da due posti diversi quasi contemporaneamente e lì siamo stati assieme fino alla fine della guerra, alla Liberazione.

D: Ci racconti adesso quell’episodio di solidarietà delle due ragazze.

R: Lo racconto volentieri perché sul piano umano è stata veramente una cosa che può colpire, io sono sempre stato grato a queste due ragazze.

Erano due ragazze proprietarie dell’albergo La Rosa di Certosa, ci avevano aiutato perché quando il mio amico Sommavilla era stato male una delle due ragazze aveva avuto il coraggio di entrare nel campo, scavalcando le guardie, dicendo alle guardie che lei non portava niente ma sapeva che c’era un ammalato nell’interno. Ha portato dei medicinali, delle aspirine in modo che è guarito, una ragazza molto coraggiosa, devo dire la verità.

Questa ragazzo l’ho incontrata nuovamente dopo quaranta anni, sono stato ospite dell’Assessorato e Cultura di Bolzano e della RAI e siamo stati assieme a Certosa. Mentre la RAI cercava un posto per fare delle riprese e farmi un’intervista, aveva individuato un cortile, una casa che sembrava andasse bene e io mi sono messo là. Da questa casa è uscita una signora anziana che ha chiesto chi eravamo, è stato detto che era la RAI e che doveva fare un’intervista. Ci siamo guardati e lei mi ha riconosciuto, era una delle due sorelle che ci aveva aiutato. É stato veramente un fatto emozionante che, devo dire la verità, mi commuove tutt’ora. Perché ritrovare le persone conosciute in quelle situazioni è stata una cosa incredibile, ci siamo abbracciati fortemente, siamo stati assieme qualche ora e poi successivamente abbiamo avuto anche corrispondenza. Lei mi chiede sempre di andare a trovarla e io purtroppo non sono mai andato e mi riprometto sempre di andare, ma bisogna che mi decida di andare a trovare questa cara ragazza.

D: Quando tu poi sei rientrato e ti sei aggregato alla formazione partigiana Fratelli Bandiera, lì cosa avete fatto? Avete avuto modo di fare altre azioni?

R: Sì, perché ormai eravamo alla fine della guerra, perché io sono scappato dal campo di Certosa il 4 febbraio del ’45 quindi sono stato una decina di giorni a Belluno, eravamo già a marzo/aprile. Lì si era molto bene organizzati come corpo partigiano, dormivamo nelle tende, alle volte si scendeva nei paesi o per rifornimenti o per altri mansioni.

Quando le truppe alleate si sono avvicinate, sono arrivate su nel nord, siamo scesi a Vittorio Veneto per essere anche noi partecipi, o forse prima degli alleati, alla Liberazione di Vittorio Veneto e come divisione Nannetti, abbiamo liberato Vittorio Veneto. Dopo noi siamo risaliti e si doveva liberare Belluno, c’erano le truppe tedesche che ormai erano in ritirata disordinata, proprio abbandonando un po’ tutto, però reagendo delle volte in maniera molto crudele.

Siamo arrivati a Belluno, io sono entrato dopo le esperienze vissute, sono entrato a Belluno con un carro armato, per modo di dire, era un automezzo corazzato, con le ruote di gomma ma corazzato e sono arrivato in centro a Belluno con questo Tank con tanto di mitra a tracolla e divisa partigiana. Così è finito l’episodio della guerra.

D: Tu hai conosciuto il maggiore Tilman?

R: Sì, ho avuto modo di conoscere il maggiore Tilman della Missione Alleata perché lui era il coordinatore delle varie divisioni di varie estrazione politica, perché c’era Giustizia e Libertà, i Garibaldini… Uno dei suoi trasferimenti dalla zona del feltrino doveva venire in Cansiglio e una notte io sono stato fino alle 5 di mattina ad aspettarlo giù al ponte, si chiama ponte delle Schiette, e da lì è arrivato e l’abbiamo portato assieme ad un altro giovane che ricordo era sempre triste, è dovuto rientrare perché aveva tanta nostalgia di casa, malinconia, un giovane inglese. Invece il maggiore Tilman l’abbiamo portato su al comando della divisione, io ero semplice ragazzo garibaldino e quindi non partecipavo alle riunioni importanti.

D: Alle quali invece partecipava il babbo?

R: Alle quali partecipava mio padre che era allora il commissario politico della Brigata Fratelli Bandiera con il nome di Garibaldi.