Pichler Erich

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Pichler Erich Florian. Sono nato il 14 ottobre 1926 a San Leonardo in Passiria.
D: è stato in carcere a Silandro?
R: Sì. Ci siamo dovuti presentare a Silandro per evitare che a causa della Sippenhaft, arrestassero i nostri genitori (come ostaggi familiari) e li portassero nel Lager di Bolzano. Mio padre, che si era già fatto quattro anni di prigionia in Russia, dall’agosto del 1914 fino all’agosto del 1918, non voleva assolutamente essere arrestato e ha voluto che noi andassimo a costituirci.
L’abbiamo fatto e ci hanno incarcerati. Ci siamo consegnati il 19 agosto 1944 a Silandro e il 22 agosto ci hanno incarcerati nelle caserme del paese. A Malles è poi arrivato il reggimento e per un certo tempo hanno portato a Malles anche noi, ma alla fine hanno deciso di incarcerarci definitivamente e ci hanno riportato nella prigione di Silandro.
D: A Merano non c’era il carcere?
R: A Merano ci sarà stato certamente un carcere, ma noi siamo stati rinchiusi in quello di Silandro.
D: Sa per quale motivo a Silandro e non a Merano?
R: Perché noi siamo stati incarcerati a Silandro e la competenza l’avevano là. Da Silandro ci hanno portati a Bolzano per il processo.
D: Dove?
R: A Gries, nelle caserme. Là hanno condannato sia me che mio fratello a tre anni. Dopodichè ci hanno riportato a Silandro. Forse era il 10 di ottobre. Siamo rimasti lì e non abbiamo più sentito nulla fino all’11 novembre.
L’11 novembre ci è stato detto che dovevamo tornare a Bolzano per un nuovo processo, perché l’ultimo non era stato fatto bene, forse saremmo stati assolti. Sono venuti con noi a Bolzano. Ci hanno fatto un nuovo processo. Ci hanno condannato a 11 anni per diserzione, perché ci eravamo rifiutati di andare in guerra.
D: Chi erano i giudici in questo processo?
R: Erano uomini della giurisdizione speciale delle SS e della polizia.
D: Dove si trovava esattamente questo edificio?
R: Non lo so con precisione. Era a Gries, nelle caserme.
D: In piazza Gries o in un altro luogo?
R: Fuori Gries, nelle caserme.
D: In Via Vittorio Veneto? Sulla strada per Merano?
R: Sì, là fuori. Ci hanno condannati a 11 anni. Siamo rimasti per cinque giorni nel carcere di Bolzano.
D: Dove si trovava il carcere a Bolzano?
R: Dove si trova ancora oggi, vicino al Talvera. Da lì ci hanno prelevato il 16 novembre tra molti insulti: “Verrete fucilati!” “Credevate di poter disertare?” Ci hanno messo le manette, poi però ce le hanno tolte perché ci hanno portati in stazione. In quel momento è scattato l’allarme aereo e siamo entrati nel tunnel, quello dall’altra parte, per trovare rifugio. Passato l’allarme ci hanno ricondotti in stazione e spediti a Dachau. Ci hanno tolto le manette perché dicevano che non avevamo fatto resistenza e che non potevamo fare resistenza. Il 17 novembre siamo arrivati a Dachau.
D: Prima di passare a parlare di Dachau, può spiegarci cosa esattamente significa diserzione?
R: Ci siamo presentati alle armi il 2 giugno ed il 6 giugno ci siamo allontanati dalla truppa, siamo scappati e dal 6 giugno al 19 agosto siamo rimasti nascosti vicino a casa. Alla fine abbiamo dovuto costituirci per evitare che i nostri genitori finissero nel Lager di Bolzano.
D: Lei sapeva che a Bolzano c’era un Lager?
R: Sì, si sapeva che c’era un Lager, ma nessuno sapeva che aspetto avesse. Lo chiamavano Lager Kaiserau, ma noi non abbiamo avuto nulla a che farci. Noi siamo arrivati a Dachau. Arrivati là abbiamo dovuto …
D: Si ricorda di come siete arrivati a Dachau? In autobus? In treno?
R: In treno. La ferrovia era distrutta e abbiamo dovuto fare una deviazione per la Val Pusteria fino a Lienz e poi da Lienz a Dachau. È stato un viaggio lungo. Abbiamo impiegato una notte ed un giorno interi. Fino a Monaco abbiamo viaggiato in treno. A Monaco ci hanno fatti scendere e ci hanno anche dato qualcosa da mangiare.
D: Eravate su un treno o su un vagone merci?
R: No, era proprio un treno, ma con i finestrini rotti. Faceva freddo.
D: Quanti eravate su questo treno per Dachau?
R: Io, mio fratello e Haller Franz: eravamo in tre con tre guardie.
D: SS?
R: Sì, e polizia.
D: Siete arrivati alla stazione di Monaco?
R: Sì. Da qualche parte in un ristorante ci hanno dato da mangiare. Hanno mangiato anche le guardie. Con un camion ci hanno portato al Lager di Dachau, che si trovava a circa 30 chilometri di distanza. Siamo arrivati verso sera. Ci hanno consegnati davanti al portone.
Subito abbiamo dovuto correre dentro. Beninteso, noi non eravamo deportati del campo di concentramento. I deportati avevano un abito a righe bianche e blu mentre a noi, quando finalmente ci hanno dato degli abiti, hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno fatto vestire così perché avevamo abbandonato l’esercito ed eravamo disertori.
D: Avete ricevuto anche un numero di matricola?
R: No, i militari processati e condannati (Strafgefangene) non avevano numero di matricola. Lo avevano solo i deportati.
D: Non avete ricevuto alcun contrassegno a forma di triangolo?
R: No, proprio nulla.
D: In quale blocco è stato portato?
R: C’era una baracca apposta per gli Strafgefangene. Si trovava in fondo al campo. C’erano anche tante celle, era una caserma o una baracca di sole celle. C’era anche un lungo corridoio. Quella sera ci hanno portati in una di queste celle.
Ci hanno fatti spogliare. Nudi abbiamo corso per circa 30 metri. Siamo arrivati in una stanza dove ci hanno dato un paio di mutande ed una camicia. Questo era tutto.
Più tardi ci hanno portato nel Bunker, nel blocco celle e ci hanno rinchiusi in una cella. La cella era larga 2 metri e lunga 3. In questa cella erano rinchiusi 23 uomini appena arrivati.
Eravamo io, mio fratello, Haller Franz e tanti sconosciuti, 20 altri sconosciuti. 23 uomini sono rimasti rinchiusi in questa cella dalla sera alla sera successiva. Da mangiare ci hanno dato una pessima zuppa. Questo era tutto.
D: C’erano solo sudtirolesi in questo blocco per gli Strafgefangene?
R: No. C’erano prigionieri da ogni dove: tantissimi croati, poi italiani, francesi, olandesi, persino norvegesi, ungheresi.
D: C’erano anche tedeschi?
R: Sì, perché era un blocco per Strafgefangene.
D: Questo blocco aveva un numero o una sigla?
R: Non me lo ricordo. Era una baracca a se stante. Aveva 15 camerate e in ogni camerata c’erano 24 uomini. Erano piene. Quando era tutto pieno, trasferivano i deportati in un campo esterno
D: Da questo blocco per Strafgefangene si poteva vedere il forno crematorio?
R: No, il crematorio no. Era separato. Noi eravamo isolati. C’era un cortile. Quando uscivamo dal cortile arrivavamo sulla strada principale. Fuori c’erano ovunque baracche del Lager. Da qualche parte c’erano anche le baracche delle SS e le postazioni di guardia delle SS. Le SS sorvegliavano anche noi, proprio come facevano con gli altri.
Non ce la passavamo tanto meglio, forse in alcuni giorni andava meglio, in altri peggio. Ci hanno tormentati e affamati nello stesso modo. Avevamo una fame spaventosa.
D: Quanto è rimasto nel blocco celle?
R: Nel blocco celle siamo rimasti un giorno, fino alla sera del giorno successivo. Poi ci hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno vestiti con quella. Eravamo Strafgefangene, ognuno aveva questa divisa.
D: Le hanno rasato la testa o no?
R: No. Ci hanno rasati, ma non completamente. Nella baracca io e mio fratello siamo stati assegnati alla camerata. E bisognava innanzitutto pregare per avere il permesso di andare dove eravamo stati effettivamente assegnati. Si usava così.
Abbiamo ricevuto il posto. C’erano tre tavolacci uno sopra l’altro e letti per alloggiare 24 uomini. C’era anche un tavolino. E questo era tutto. All’esterno della camerata c’era un ampio corridoio, largo tre metri, dalla prima all’ultima baracca attraverso 15 camerate e da qualche parte c’era il lavatoio, non riesco a ricordare bene, e la latrina.
Al mattino dovevamo alzarci alle 5 per fare le esercitazioni, dovevamo anche marciare attraverso il campo di concentramento. Molto spesso c’era un uomo sul piazzale, ben visibile a tutti, che aveva tentato di scappare durante il lavoro all’esterno e reggeva un cartello con la scritta “Ho avuto sfortuna” oppure “Sono stato troppo stupido” oppure qualche altra frase simile. Rimaneva là dalla mattina presto alla sera tardi. Non riceveva nulla da mangiare. Doveva stare sempre in piedi.
Cosa hanno fatto di questi uomini non si sa, non sappiamo proprio se li hanno fucilati o se li hanno riportati dai loro camerati. Non lo so. Li riacciuffavano quasi tutti quelli che tentavano di fuggire. Anche noi avremmo avuto un’occasione per fuggire, ma era solo una fantasticheria, perché li riprendevano sempre. Noi non l’abbiamo fatto.
Uscivamo per circa 2-3 chilometri. Fuori c’era una collinetta. C’erano degli alberi. Ai piedi della collina dovevamo costruire un Bunker, un rifugio antiaereo, ma il terreno era tutto sabbioso. Si doveva rivestire tutto con blocchi. Con la carriola dovevamo trasportare fuori il materiale, zig-zag e fuori. Era un lavoro difficile. Il materiale veniva reinterrato fuori, accanto ai binari, e camuffato perché non venisse visto. Non abbiamo continuato a lungo con questo lavoro perché la caserma o la baracca erano troppo affollate, dopo pochi giorni hanno spedito Franz Haller a Norimberga e il 3 dicembre hanno portato via anche me e mio fratello. Siamo arrivati a Mosbach, nell’attuale Baden-Wüttemberg, dove c’era un Lager chiamato Goldfisch. Siamo rimasti là dal 7 dicembre 1944 fino al 27 marzo (1945). Poi hanno evacuato l’intero campo e ci hanno portati via.
Ci hanno fatti tornare a Dachau a piedi. Abbiamo marciato dal 27 marzo fino al 24 aprile. Il cibo era sempre terribile, avevamo tanta fame, eravamo estremamente deboli.
D: A Mosbach c’era un campo di concentramento o una caserma?
R: C’erano diverse baracche per Strafgefangene.
D: Solo per Strafgefangene?
R: Sì, solo per Strafgefangene.
D: Durante il trasporto da Dachau a Mosbach eravate soli, Lei e suo fratello, o c’erano anche altri Strafgefangene?
R: C’erano altri 300/400 Strafgefangene. Ci hanno caricati sui carri bestiame e ci hanno portato in ferrovia fino a Mosbach, dove ci hanno fatto scendere e ci hanno fatto camminare per una mezz’ora o forse più per raggiungere le baracche. Il campo era in costruzione.
Io lavoravo nella squadra “U”, cioè Unterkunft (alloggiamento) e dovevo coprire di ghiaia i vari sentieri, c’era un binario e dovevamo prendere la ghiaia da un vagoncino. Dovevamo anche mescolare il cemento, fare le gettate per i pavimenti e costruire i tetti delle baracche.
Quando il grosso del lavoro era stato fatto, mi hanno mandato alla fabbrica. Mio fratello aveva cominciato a lavorare alla fabbrica sin da subito. Era a un’ora di cammino dal campo. Dovevamo uscire e andare verso Neckarelz. Là scorreva il fiume Neckar e sul fiume c’era un ponte ferroviario con un passaggio pedonale. Tutti i giorni attraversavamo questo ponte.
Dall’altra parte c’erano 150 scalini da salire. Proprio in cima c’era una ripida scala in legno, con altri 35 scalini. Lassù c’era l’ingresso della fabbrica. La fabbrica era tutta all’interno di una collina. In questa fabbrica c’erano tanti stanzoni molto grandi, tutti scavati nella roccia.
Camminavamo un quarto d’ora per raggiungere la nostra postazione di lavoro. Venivamo divisi. Ciascuno doveva lavorare al proprio posto. Non ricordo più quanti stanzoni ci fossero, dieci, undici o forse anche di più. Non l’ho mai saputo perché non ho mai visto tutta la fabbrica per intero.
D: Cosa si produceva nella fabbrica?
R: Si produceva materiale bellico. Parti di carro armato, parti di aeroplano. Le parti non venivano assemblate in fabbrica, venivano mandate a Berlino e lì si provvedeva all’assemblaggio.
Mio fratello ha lavorato più a lungo di me nella fabbrica perché io all’inizio ero nella squadra “U”. È andata avanti così fino a febbraio e poi ha iniziato a cedere, a sgretolarsi. Gli aeroplani erano molto fastidiosi. C’erano molti bombardamenti e c’erano moltissimi allarmi aerei. Venne colpito anche il ponte ferroviario. La prima volta lo hanno ricostruito, ma venne subito bombardato di nuovo. La seconda volta non sono più riusciti a sistemarlo. È stato verso la fine di febbraio.
D: Nelle gallerie c’erano solo Strafgefangene o anche deportati?
R: La fabbrica era separata. Era a un’ora di cammino dal campo. Al mattino dovevamo camminare un’ora per andare e alla sera un’altra ora per tornare. Nella fabbrica c’erano dei civili, c’erano anche prigionieri italiani, altri prigionieri, civili, tedeschi. C’erano persone di diverse nazionalità.
D: Il suo preposto era un civile?
R: Si, il mio preposto era un civile, e anche quello di mio fratello lo era. Poi c’erano le SS. Il loro compito era solo di accompagnarci alla fabbrica e di restare lì tutto il giorno di guardia, ma non avevano nulla da dire sul lavoro. Per il lavoro avevamo un preposto civile e con lui dovevamo lavorare.
D: Ha notato differenze tra Dachau, Mosbach e Goldfisch per quanto riguarda la disciplina e le esecuzioni ?
R: Devo fare un distinguo. Goldfisch era il nome del Lager. Che si trovava nei pressi di Mosbach. Mosbach era solo la città. Il nostro Lager era vicino a Mosbach. Un paio di volte, non spesso, siamo andati a Mosbach per fare la doccia perché si doveva curare un minimo di igiene. Eravamo comunque sempre pieni di pidocchi. I nostri vestiti erano tutti pieni di pidocchi che ci davano il tormento.
D: Com’era la disciplina nelle gallerie? Ci sono stati dei morti?
R: Non lo so. Credo che là ci siano stati pochi decessi. Se capitava era in seguito a incidenti; forse qualche prigioniero è morto di fame. Questo è assolutamente possibile. C’erano anche dei deportati che lavoravano, perché una volta ho parlato con uno di loro.
È arrivato un sergente delle SS che non conoscevo e che mi ha visto. Ha urlato contro di me se non sapevo che non fosse permesso parlare contro i principali nemici dello Stato. Io gli ho detto: “No, non lo sapevo”. Ed io davvero non lo sapevo. Poi lui ha chiesto: “Da dove vieni?” e io ho detto: “Dall’Alto Adige”. “Che mestiere fai?” “Lavoro in agricoltura” “Come?” ha detto “Vuole sapere ancora del mio lavoro?”. Allora mi ha schiaffeggiato e insultato per un bel po’ di tempo. Alla fine sono riuscito a cavarmela. Mi ha lasciato andare. Ho avuto sfortuna. Il giorno dopo l’ho incontrato di nuovo ed è incominciato tutto daccapo. “Tu! Tu sei quello di ieri, vieni qui!”. Mi ha di nuovo preso a schiaffi. Per un bel po’. Me lo sono ben tenuto a mente e mi sono detto: “Te non voglio proprio incontrarti più!”
Non l’ho più incontrato perché lo evitavo, ho pensato che non volevo proprio farmi picchiare senza motivo. Sapevo di non avere colpe. E poi era un sergente delle SS sconosciuto, uno che non aveva nulla a che fare con il nostro Lager Goldfisch a Mosbach. Non lo conoscevo. Era un estraneo. Forse aveva a che fare con i deportati, ma non con noi Strafgefangene.
D: Quanti eravate nel Lager di Mosbach? Centinaia o migliaia?
R: Qualche centinaio, 500/600. Non lo so di preciso, all’incirca 300 / 600 / 700 Strafgefangene. Alcuni eravamo stati condannati per diserzione; altri per furto, altri per omicidio, altri ancora per storie di donne, avevano commesso crimini diversi.
D: E lei ha davvero commesso un crimine?
R: Il nostro unico crimine è stato di non esserci arruolati con i tedeschi.
D: E’ stato davvero un crimine?
R: Ai loro occhi sì. Non potevamo abbandonare la truppa. L’abbiamo abbandonata. Siamo diventati disertori ma abbiamo dovuto costituirci perché altrimenti avrebbero portato i nostri genitori in campo di concentramento. Nostro padre ha detto: “Vi dovete costituire prima che finiamo tutti nel Lager. Voi siete solo in due e noi siamo in tanti”.
D: Ritorniamo ancora per un momento alla Sua storia. Poi è tornato a Dachau?
R: Sì.
D: E poi?
R: Il 24 aprile siamo tornati a Dachau. C’era una gran confusione, perché la guerra stava finendo. Non c’era quasi più nulla da mangiare. Ricevevamo caffè da bere, ma pochissimo cibo. È andata avanti così fino al 29 aprile (1945). Il 28 aprile ci hanno scartati alla visita. Quelli come noi avrebbero dovuto prestare servizio in guerra. Io e mio fratello eravamo troppo male in arnese, secondo loro. Non ci hanno preso. Avremmo potuto offrirci volontari. Non l’abbiamo fatto. Non ci siamo offerti. Siamo rimasti nel Lager. Il 28 aprile ci hanno restituito gli abiti che ci avevano tolto in novembre, anche i soldi, non più in lire ma in marchi tedeschi. Non abbiamo saputo fare nulla di più furbo che indossare i nostri abiti civili. Oggi non lo rifarei più, perché questa decisione ci è stata quasi fatale.
Oggi mi procurerei il vestiario dei deportati. Sarebbe stato meglio anche allora, ma eravamo solo dei ragazzi e non sapevamo cosa fosse la guerra e cosa sarebbe successo.
Il 29 aprile sono arrivati gli americani. Gli americani ci hanno presi prigionieri insieme alla SS. Ci hanno catturati e messi insieme a loro semplicemente perché noi indossavamo i nostri abiti civili. Glielo abbiamo ben detto che noi eravamo detenuti nel Lager. Ci hanno chiesto se eravamo stati soldati. Si, per quattro giorni. E allora dovevano trattenerci. Ci hanno portato fuori con gli uomini delle SS e con tutti i prigionieri che avevano catturato. Improvvisamente ci siamo trovati dietro un muro, un muro di pietra, lungo forse 30-40-50 metri e alto 3 metri, o forse di più.
Fuori avevano due mitragliatrici pronte, nessun uomo accanto a loro ma tutte le guardie che ci avevano accompagnato là. Abbiamo dovuto metterci lungo il muro, con la faccia rivolta al muro e le braccia in alto. Volevano fucilarci sul posto, immediatamente. All’ultimo minuto è arrivato un ufficiale americano di grado elevato. Ha fatto fermare tutto.
Ci è stato permesso di rientrare nei ranghi. Così ci hanno fatti uscire dal Lager e ci hanno portato a Dachau, forse in un edificio pubblico. Era una casa grande a due piani, con un grande piazzale. Hanno portato lì tutti i prigionieri che avevano.
C’eravamo anche noi. Nel giro di due giorni, o forse di un giorno solo, si è riempito tutto l’edificio. C’erano forse 300 prigionieri al primo piano e 300 al secondo. Dopo due giorni ci hanno portati a Fürstenfeldbruck. Là avevano preparato un campo per prigionieri nuovo di zecca. Ai quattro angoli del campo c’era una torre con illuminazione e con sentinelle americane. Erano molto preoccupati che i prigionieri potessero scappare.
Hanno disegnato una riga bianca, un quadrato che racchiudeva il campo. Nessuno poteva oltrepassarla. Chi l’ha fatto è stato immancabilmente ucciso a colpi di fucile. Ogni mattina c’erano dei morti perché molti prigionieri credevano di potersene andare inosservati. C’erano anche dei posti di guardia intermedi, il quadrato disegnato in bianco misurava forse 150 x 150 m. C’erano continui arrivi di nuovi prigionieri. Era il primo maggio (1945). Ha nevicato e piovuto. Faceva freddo. Noi gelavamo.
I prigionieri si sono scavati delle buche, con le mani o con qualsiasi altra cosa potesse servire. Perlopiù avevamo a disposizione solo le nostre mani. Ci trovavamo in un campo in cui erano appena stati interrati i tuberi delle patate. Avevamo tantissima fame. Scavando le buche abbiamo scoperto le patate, che erano ancora fresche di semina. Le abbiamo dissotterrate tutte. La notizia si è diffusa immediatamente tra i prigionieri. In un giorno solo tutte le patate sono state dissotterrate. Le abbiamo arrostite o lessate e mangiate, perché c’era della legna che si poteva usare.
Per otto giorni gli americani non ci hanno dato assolutamente nulla da mangiare. Avevamo una fame tremenda. Eravamo io e mio fratello e poi c’era un certo Franz Thaler di San Martino in Val Sarentina, era molto debilitato, zoppicava. Era triste e disperato. Io gli dicevo spesso: “Franz, adesso che la guerra è finita, che siamo fuori dal Lager non devi disperare, riusciremo a tornare a casa”. Era molto scettico perché era malato.
Dopo otto giorni gli americani ci hanno dato due scatolette, una con biscotti e un paio di dolci e l’altra con un pasto, pasta e fagioli o roba simile. Era tutto buono, ma troppo poco. Nel campo noi abbiamo mendicato. Ma abbiamo ricevuto ben poco, perché ognuno si teneva il poco che aveva. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri. Sono arrivati anche Franz Haller e suo fratello. Stavamo insieme.
Loro rubavano. Questa era la nostra unica possibilità di sopravvivere, perché altrimenti saremmo morti di fame e poco ci mancava. Rubavamo ciò che ci serviva. Però ci hanno scoperti. Hanno detto in tutto il Lager che noi eravamo ladri. Quello stesso giorno sono arrivati gli americani con dei grossi camion per trasferire i prigionieri da qualche altra parte. Noi ci siamo subito fatti avanti e siamo partiti. C’erano 12 camion in tutto.
Su ogni camion hanno fatto salire almeno 50 uomini. Correvano come dannati, in colonna, c’erano tre/quattro metri di distanza tra uno e l’altro e viaggiavano a grande velocità. Siamo poi arrivati in una città. Da qualche parte c’era un ostacolo, forse a un incrocio. Il primo camion ha inchiodato. Tutti gli altri si sono fermati in pochissimo spazio. Non ci sono stati tamponamenti. Abbiamo proseguito verso Ulma.
Siamo rimasti lì un paio di giorni, sempre senza mangiare. Prima di partire con i camion da Fürstenfeldbruck, la Croce Bianca tedesca aveva distribuito del cibo e noi ne avevamo quel tanto che ci avrebbe permesso di vivere per un giorno. Ci hanno trasferiti da Ulma a Heilbronn in un campo per prigionieri molto grande. Si diceva che ci fossero più di un milione di prigionieri, suddivisi in gruppi più piccoli. Giungemmo anche noi in uno di questi gruppi.
Gli americani erano di solito buoni e non ci stressavamo mai, ma da mangiare non ci davano nulla, quasi nulla. Almeno tre settimane abbiamo passato così. Adesso non ricordo con precisione, ma è stato all’incirca da metà maggio fino a giugno, forse fino alla metà di giugno. Ricevevamo da mangiare una volta al giorno, mezzo litro/tre quarti di litro di zuppa liquida. Così è stato all’inizio. Dopo ci è stato dato del cibo tedesco in più, prima da dividere tra 18 uomini poi tra 14, oltre a una piccola fettina di pane. Ma non bastava. Eravamo molto deboli e smagriti. Dormivamo 16-17 ore al giorno, come i bambini piccoli. Ogni tanto volevamo e dovevamo alzarci, per andare a prendere da mangiare o perché magari avevamo qualcosa da fare, ma altrimenti ci lasciavano in pace per quanto potevano.
In tutta la Germania non c’era più nulla da mangiare. Prima di tutti venivano i soldati americani, loro ricevevano tutto, come sempre. Poi venivano i lazzaretti e i campi degli ammalati. Poi veniva la popolazione civile e alla fine i prigionieri. Per noi quindi non rimaneva molto.
D: Quanto è rimasto a Heilbronn?
R: Tra le tre e le quattro settimane. Non ricordo più bene. È passato troppo tempo. Alla fine siamo andati via anche da Heilbronn. Ci hanno caricati su un treno, migliaia di uomini. Abbiamo attraversato la Germania e siamo andati in Francia. In Francia, nei dintorni di Parigi, a Soissons.
Dalla stazione partiva una strada ripida che conduceva su un’altura. Abbiamo camminato di sicuro per una buona mezz’ora, o forse di più. Non eravamo quasi più in grado di camminare. Avevamo semplicemente esaurito le forze, perché anche ad Heilbronn non riuscivamo a stare in piedi e continuavamo a cadere. Tutto diventava grigio e per breve tempo svenivamo. Cascavamo e poi riprendevamo i sensi.
Poi ci rialzavamo, sempre molto lentamente, ma non ce la facevamo. Eravamo così deboli e talmente sfiniti che proprio non riuscivamo a stare in piedi. Cadevamo di nuovo, non sempre, ma spesso. Solo al terzo tentativo riuscivamo davvero ad alzarci ed a camminare, per fare quello che dovevamo, per prendere il cibo e cose così.
Dopo che avevamo fatto tutto, tornavamo nella nostra tenda e dormivamo, dormivamo, dormivamo.
D: La vostra situazione è migliorata in Francia?
R: È migliorata perché tutti sapevano che noi, eravamo sette o otto, eravamo stati prigionieri a Dachau. Lo sapeva tutto il campo. L’amministrazione del Lager, dove c’erano naturalmente tutti prigionieri austriaci ed italiani, ci ha diviso per nazionalità. Nel nostro campo c’erano solo austriaci e italiani con la cittadinanza italiana, come noi l’abbiamo sempre avuta. Noi eravamo e siamo rimasti cittadini italiani.
A noi, quando distribuivano il cibo, che veniva preparato fuori dal campo e distribuito poi all’interno, a noi davano sempre uno/due litri di zuppa in più, perché sapevano che eravamo stati a Dachau, e se ne avanzava ce ne davano ancora. Ogni giorno ricevevamo tre, quattro, anche cinque litri di zuppa. E la zuppa non era per niente male. Ne avevamo bisogno.
Era il cibo più adatto per superare la nostra totale debilitazione, il nostro stato di denutrizione. Era una zuppa né troppo grassa né troppo ricca. In questo modo siamo riusciti a riprenderci. Avevamo cibo quasi a sufficienza. Ricevevamo anche un pane americano, le “aggiunte americane” o come chiamavamo le pagnotte. Si trattava di pane bianco. Dovevano essere suddivise in quattro parti, c’era una pagnotta ogni quattro uomini.
D: In Francia?
R: Sì, in Francia.
D: Quando è arrivato a casa?
R: In questo campo stavamo meglio e siamo rimasti fino al 17 agosto. Alcuni giorni prima, forse tra il 10 ed il 12 agosto, è arrivato un colonnello italiano. Ci ha consolati e ci ha detto che saremmo tornati a casa. Era venuto apposta. Non sapeva che nel campo ci fossero prigionieri italiani, dovevamo scusarlo, altrimenti sarebbe venuto prima.
Si è subito dato da fare. Due giorni dopo hanno fatto partire gli ammalati. Poi sono partiti i prigionieri fino alla lettera “H”, che erano proprio tanti, e poi quelli dalla lettera “H” alla “Z”. Noi, con la lettera “P”, eravamo tra gli ultimi. Siamo usciti dal campo il 17 agosto e abbiamo ripercorso la strada fino alla stazione.
Ci hanno fatto salire di nuovo sui vagoni, sempre con gli americani di guardia. Quello è stato un bene, perché i francesi ce l’avevano a morte con i prigionieri. I francesi pensavano fossimo tutti tedeschi. Venivano con le pietre e le lanciavano contro i vagoni, ma gli americani sapevano come tenerli a bada. Gli americani ci hanno accompagnato fino al confine con la Svizzera. E poi sono spariti. Ci hanno lasciati soli. Finalmente, intorno al 19/20 agosto, eravamo di nuovo uomini liberi.
Ci siamo fermati là per un giorno e mezzo. Poi siamo partiti per l’Italia, attraverso la galleria del San Gottardo siamo arrivati a Domodossola e da lì siamo andati a Novara. A Novara ci hanno dato un foglio di congedo. Abbiamo potuto proseguire, fino a Milano il gruppo è rimasto unito, da Milano a Verona eravamo ancora numerosi e poi siamo rimasti in pochi. Alla fine siamo rimasti soli e ci siamo dovuti arrangiare per tornare a casa, dove siamo arrivati il 23 agosto.
D: Finalmente.
R: Finalmente! Avevo un fratello più vecchio. Era nato nel 1922. Era nell’esercito italiano di stanza in Italia. Avremmo dovuto combattere contro nostro fratello. Non l’abbiamo fatto e non abbiamo mai voluto farlo. Mio fratello è tornato in congedo proprio quando noi siamo arrivati a casa. Ci siamo incontrati da una delle nostre sorelle. Ci ha detto “Cosa? Siete i miei fratelli? Così gracili? Così scheletrici? Macilenti? Siete allampanati, vi si può vedere attraverso”. Gli abbiamo detto: “Avresti dovuto vederci due o tre mesi fa. Allora avresti potuto dire queste cose, ora non più”. Infatti ci eravamo ripresi abbastanza. Siamo arrivati a casa il 23 agosto 1945.
D: Posso farle ancora una domanda: Riesce a dimenticare? Vuole dimenticare? Oppure non vuole farlo?
R: Ho dimenticato tante cose, ma è impossibile dimenticare tutto. È proprio fuori discussione. È un pezzo della mia vita, un pezzo crudele della mia vita. I tedeschi ci hanno martoriati e torturati e stressati e ci hanno fatto soffrire la fame.
Dormivamo poco. Alle 10 potevamo andare a dormire, ma verso le 11, le 12 partiva l’allarme aereo che durava circa due ore. Era estremamente raro che non ci fossero allarmi aerei. Forse all’inizio di dicembre, ma da febbraio in poi l’allarme aereo suonava due volte quasi ogni notte. Con l’allarme dovevamo andare nel Bunker e nel Bunker nessuno poteva dormire. E adesso Lei sa quante ore ci rimanevamo per dormire, se andavamo a letto alle 10 di sera, stavamo quattro ore nel Bunker ed alle 5 del mattino dovevamo di nuovo alzarci. Tempo per dormire non ce n’era più tanto.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano / Dr.ssa Maddalena Rudari, giugno 2017)

Ich heiße Pichler Erich Florian. Ich bin geboren am 14. Oktober 1926 in St. Leonhard in Passeier.
FRAGE: Waren Sie in Schlanders im Gefängnis?
ANTWORT: Ja. Wir mussten uns dort zurückmelden wegen der Sippenhaft. Man wollte unsere Eltern hier nach Bozen ins Lager bringen. Das hat der Vater nicht angenommen, weil er schon vier Jahre russische Gefangenschaft mitgemacht hat von 1914 August bis 1918, vielleicht auch August. So hat er von uns verlangt, dass wir uns zurückmelden.
Das haben wir uns und dann haben sie uns eingekerkert. Wir haben uns am 19. August 1944 gestellt in Schlanders und dann haben sie uns am 22. August eingekerkert in Schlanders in den Kasernen. Das Reglement kam dann nach Mals. Auch uns brachten sie nach Mals eine Zeit lang. Dann haben sie entschieden uns endgültig eingekerkert zu lassen und haben uns in das Gerichtsgefängnis nach Schlanders zurückgebracht.
FRAGE: In Meran gab es kein Gerichtsgefängnis?
ANTWORT: In Meran wird es schon ein Gefängnis gegeben haben, aber uns haben sie in Schlanders eingekerkert im Gerichtsgefängnis.
FRAGE: Wissen Sie warum genau in Schlanders und warum nicht in Meran?
ANTWORT: Weil wir eigentlich in Schlanders eingekerkert wurden und dort zuständig waren. Von Schlanders hat man uns nach Bozen gebracht zu einem Prozess.
FRAGE: Wo?
ANTWORT: In Gries in den Kasernen. Dort haben sie uns dann verurteilt, mich und meinen Bruder, weil ich war nicht alleine. Dann haben sie uns drei Jahre Zuchthaus gegeben. Dann brachten sie uns wieder nach Schlanders zurück. Das war vielleicht um den 10. Oktober. Dann blieben wir wieder in Schlanders, haben nichts mehr gehört bis zum 11. November.
Am 11. November hieß es wir müssten noch einmal zu einem Prozess nach Bozen, weil das letzte Mal ist nicht richtig gewesen, vielleicht werden wir freigesprochen. Dann sind sie mit uns nach Bozen. Dann haben wir noch einmal einen Prozess gehabt. Da haben sie uns 11 Jahre Zuchthaus gegeben für die Fahnenflucht, weil wir uns geweigert haben, Kriegsdienst zu machen.
FRAGE: Wer waren die Richter bei jenem Prozess?
ANTWORT: SS und Polizeigerichtsbarkeit war das.
FRAGE: Wo war genau dieses Gebäude?
ANTWORT: Das kann ich nicht genau sagen. Draußen in den Kasernen, hier in Gries, Bozen.
FRAGE: Am Grieserplatz genau oder an einem anderen Ort?
ANTWORT: In den Kasernen draußen.
FRAGE: In der Vittorio-Veneto-Straße? Auf der Straße nach Meran?
ANTWORT: Ja, dort draußen. Dann haben sie uns die 11 Jahre gegeben. Dann brachten sie uns ins Gerichtsgefängnis hier in Bozen für fünf Tage.
FRAGE: Wo war dieses Gerichtsgefängnis hier in Bozen?
ANTWORT: Wo es auch heute noch ist, draußen an der Talfer. Von dort haben sie uns am 16. November geholt mit viel Schimpfen: “Ihr werdet erschossen! Was glaubt ihr Fahnenflucht zu begehen?” Sie haben uns dann in Handschellen gelegt. Später haben sie sie uns wieder abgenommen, weil man hat uns hinausgebracht zum Bahnhof.
Dann war gerade Fliegeralarm und wir mussten dann in das Tunnel, das auf der anderen Seite um Luftschutz gehen. Wenn der Fliegeralarm vorbei war dann haben sie uns auf die Bahn gebracht und nach Dachau abgeschoben. Sie haben uns die Handschellen abgenommen, weil sie sagten, dass wir eigentlich uns ja nicht wehrten oder wehren konnten. Dann sind wir am 17. November in Dachau angekommen.
FRAGE: Bevor wir von Dachau sprechen. Können Sie uns genau erklären was Fahnenflucht bedeutet?
ANTWORT: Wir sind eingerückt am 2. Juni und am 6. Juni haben wir uns von der Truppe entfernt, sind geflohen und dann haben wir uns zu Hause in der Nähe oder so aufgehalten, vom 6. Juni bis zum 19. August. Dann haben wir uns stellen müssen damit die Eltern nicht ins Lager nach Bozen gekommen sind.
FRAGE: Wussten Sie, dass es ein Lager in Bozen gab?
ANTWORT: Ja, das wusste man schon, dass es ein Lager gab, aber wie das aussah wusste eigentlich niemand. Das Lager Kaiserau hat man es geheißen, aber wir haben mit dem nichts zu tun gehabt.
Wir sind nach Dachau gekommen. Dort angekommen mussten wir…
FRAGE: Erinnern Sie sich wie Sie nach Dachau gekommen sind? Mit einem Bus? Mit dem Zug?
ANTWORT: Mit dem Zug. Der Zug war demoliert worden und so mussten wir einen Umweg fahren über Pustertal nach Lienz und von Lienz nach Dachau. Das war eine lange Strecke. Somit brauchten wir die ganze Nacht und den ganzen Tag. Bis nach München sind wir mit dem Zug gefahren. In München, da haben sie uns aussteigen machen, bekamen wir auch einmal etwas zu essen.
FRAGE: Waren Sie in einem Zug oder in einem Wagon?
ANTWORT: Nein, in einem Personenzug, aber mit kaputten Fenstern. Es war kalt.
FRAGE: Wie viele ward ihr in diesem Zug nach Dachau?
ANTWORT: Ich und mein Bruder und Haller Franz, unsere drei und drei Posten.
FRAGE: SS?
ANTWORT: Ja, und Polizei.
FRAGE: Dann kamen Sie auf den Münchner Bahnhof?
ANTWORT: Ja. Dann haben sie uns irgendwo in einem Restaurant ein Essen gegeben, auch die Wache hat gegessen. Dann haben sie uns mit einem Camion nach dem Lager Dachau gebracht. Das sind circa 30 Kilometer entfernt. Dort sind wir gegen Abend angekommen. Da haben sie uns am Tor abgegeben.
Dann mussten wir schon sofort hineinlaufen. Wir waren nicht KZ-ler, wohlgemerkt. Die KZ-ler hatten einen weißblau gestreiften Anzug und wir wenn wir einmal eine Kleidung erhielten, dann war es eine italienische Infanteriemondur. Mit dem haben sie uns Strafgefangene eingekleidet, weil wir die Truppe verlassen haben und fahnenflüchtig waren.
FRAGE: Haben Sie auch eine Matrikelnummer bekommen?
ANTWORT: Nein, die Strafgefangenen hatten keine Matrikelnummer. Das hatten nur die KZ-ler.
FRAGE: Auch kein Dreieck haben Sie bekommen?
ANTWORT: Nein, gar nichts.
FRAGE: In welchen Block wurden Sie gebracht?
ANTWORT: Das war eine extra Baracke für die Strafgefangenen. Das war ganz hinten drinnen. Da waren auch viele Zellen, eine Kaserne oder eine Baracke mit nur Zellen. Es war auch ein langer Gang. In eine dieser Zellen haben sie uns an diesem Abend hineingebracht.
Man hat uns zuerst die Kleidung abgenommen. Dann mussten wir nackt, vielleicht 30 Meter laufen. Dann sind wir in eine Stube gekommen wo sie uns eine Unterhose und ein Hemd gaben. Das war alles.
Dann haben sie uns später in den Bunkerbau gebracht, in einen Zellenbau und in eine Zelle gesperrt. Die Zelle war 2 Meter breit und 3 Meter lang circa. In dieser Zelle waren 23 Mann Neuzugänge eingesperrt.
FRAGE: Waren Sie zusammen mit den anderen drei…
ANTWORT: Ich, mein Bruder und Haller Franz und dann viele Fremde, 20 andere Fremde. 23 Mann waren in diese Zelle gesperrt vom Abend bis zum nächsten Abend. Zu essen haben sie uns einmal eine schlechte Suppe gegeben. Das war alles.
FRAGE: Waren nur Südtiroler in diesem Strafgefangenenblock?
ANTWORT: Nein. Da waren von allen Ländern Gefangene, Kroaten sehr viele, Italiener, Franzosen, Holländer, sogar Norweger, Ungarn.
FRAGE: Deutsche auch?
ANTWORT: Auch Deutsche, weil das war ein Strafgefangenenblock.
FRAGE: Dieser Block trug keine Nummer oder eine Ziffer?
ANTWORT: Das kann ich mich nicht erinnern. Das war eine extra Baracke. Die hatte 15 Stuben und in jeder Stube waren 24 Mann. Da war voll. Wenn voll war haben sie die Häftlinge abgeschoben und in ein Außenlager.
FRAGE: Konnten Sie von diesem Strafgefangenenblock das Krematorium sehen?
ANTWORT: Nein, das Krematorium nicht. Also das war separat. Wir waren abgeschlossen. Es war ein Hof. Wenn wir von diesem Hof hinauskamen, kamen wir auf die Hauptstraße. Draußen waren die KZ-Baracken überall herum. Irgendwo sind auch SS-Baracken gewesen und SS-Wache untergebracht. Auch wir wurden von der SS bewacht genau so wie die anderen.
Es ging uns nicht viel besser, vielleicht in manchen Tagen besser, in manchen schlechter. Uns hatte man genauso gestresst und hungern lassen. Wir hatten schrecklichen Hunger.
FRAGE: Wie lange blieben Sie im Zellenbau?
ANTWORT: Im Zellenbau waren wir einen Tag, bis zum nächsten Tag Abend. Dann gaben sie uns die italienische Infanteriemondur. Mit der haben sie uns eingekleidet. Das waren wir Strafgefangene. Jeder Strafgefangene hatte diese Mondur.
FRAGE: Wurden Sie auch rasiert am Kopf oder nicht?
ANTWORT: Nein. Sie hatten uns wohl geschoren, aber nicht kahl. In der Baracke sind ich und mein Bruder in die Stube eingeteilt worden. Dort mussten wir uns einbettlen, weil das war so üblich, dass man erst muss bitten, dass wir hier kommen dürfen, wo man uns doch zugeteilt hat.
Dann haben wir auch den Platz erhalten. Es waren drei Bridgen übereinander und so viele Betten, dass 24 Mann untergebracht waren. Es war noch ein kleiner Tisch dran. Das war eigentlich alles. Da war draußen ein breiter Gang, 3 Meter breit, von der letzten bis zur ersten Baracke, über alle 15 Stuben hinauf und da war auch noch der Waschraum irgendwo, kann ich mich nicht mehr genau erinnern, das Klosett.
Dann mussten wir am Morgen um fünf Uhr aufstehen zum Exerzieren, mussten auch hinausmarschieren durch das KZ-Lager. Dort stand sehr oft gut sichtbar auf dem Platz ein Mann, der geflohen war bei der Arbeit aus dem Lager und er trug eine Tafel: “Ich habe Pech gehabt.” oder “Ich war zu dumm.” oder irgend so ein Spruch. Er ist immer vom frühen Morgen bis zum späten Abend dort gestanden. Er bekam nichts zu essen. Er musste immer stehen.
Was sie damit getan haben, das wissen wir überhaupt nicht, haben sie sie erschossen oder wieder zurückgebracht zu ihren Kameraden. Das weiß ich nicht. Die meisten haben sie immer eingefangen, die stiften gegangen sind. Wir hätten auch einmal eine Gelegenheit gehabt abzuhauen, aber das waren Flausen, weil die haben sie immer erwischt. Das haben wir nicht getan.
Wir mussten 2-3 Kilometer hinausgehen. Draußen war ein kleiner Hügel. Dort waren Bäume drauf. Am Fuße des Hügels mussten wir einen Bunker machen, einen Luftschutzkeller, aber das war alles Sand. Da musste alles mit Blöcken ausgefüttert werden. Da war es nur “so” breit. Da mussten wir mit dem Schiebekarren das Material herausfahren, zickzack heraus. Das war eine schwierige Arbeit. Draußen wurde das neben dem Bahngleis irgendwo aufgeschüttet und getarnt damit sie das nicht sehen konnten. Das ging so nicht lange, weil die Kaserne war voll oder die Baracke.
Den Haller Franz haben sie nach wenigen Tagen nach Nürnberg geschickt und mich und meinen Bruder haben sie auch am 3. Dezember herausgesucht. Wir kamen dann noch Moosbach in Baden. Das Lager haben sie Goldfisch genannt. Dort sind wir gewesen vom 7. Dezember 1944. Dann mussten wir dort bleiben bis zum 27. März. Da wurde das ganze Lager geräumt. Sie haben uns fort.
Wir mussten zu Fuß nach Dachau zurückgehen. Vom 27. März bis zum 24. April sind wir wieder zu Fuß in Dachau angekommen. Das Essen war immer sehr schlecht und wir hungerten sehr und wir waren äußerst geschwächt.
FRAGE: War in Moosbach ein KZ oder eine Kaserne?
ANTWORT: Da waren mehrere Baracken für die Strafgefangenen.
FRAGE: Nur für Strafgefangene?
ANTWORT: Ja, nur für Strafgefangene.
FRAGE: Bei Ihrem Transport von Dachau nach Moosbach, waren Sie nur mit Ihrem Bruder oder mit anderen Strafgefangenen auch?
ANTWORT: Mit 300 / 400 Strafgefangenen. Da haben sie uns mit Viehwagon mit der Bahn nach Moosbach gebracht und dort auswagoniert, mussten auch eine halbe Stunde oder länger zu Fuß gehen bis wir zu diesen Baracken kam. Das Lager war erst im Aufbau.
Ich musste dann im Baustab U, das heißt Unterkunft, arbeiten, Wege einschottern, da war ein Gleis gelegt, und mussten Schotter holen in einer Lore. Wir mussten auch Beton mischen, Barackenböden herausgießen und auf den Baracken Dächer draufmachen.
Wenn das Meiste gemacht war, da kam auch in die Fabrik. Mein Bruder ist sofort in die Fabrik gekommen. Die Fabrik war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten da hinausgehen nach Neckarelz. Dort ging die Neckar und über die Neckar war eine Eisenbahnbrücke und auch ein Fußweg. Wir mussten jeden Tag über diese Brücke.
Auf der anderen Seite waren 150 Stufen hinauf. Ganz oben war noch eine steile Holzstiege. Da waren auch noch so 35 Stufen. Dann kamen wir hinauf. Da war der Eingang in die Fabrik. Die Fabrik war alle unterirdisch. Das war ein Hügel. In dieser Fabrik waren viele Hallen, große Hallen, alles im Felsen herausgehauen.
Wir brauchten eine Viertelstunde hinein bis wir auf den Arbeitsplatz kamen. Dann wurden wir verteilt. Jeder musste auf seinem Platz arbeiten gehen. Ich weiß nicht mehr wie viele Hallen waren, 10-11 oder mehr. Ich habe es auch nie gewusst, weil ich nie durch die ganze Halle der unterirdischen Fabrik gekommen bin.
FRAGE: Was wurde in dieser Fabrik produziert?
ANTWORT: Da haben sie Kriegsmaterial produziert. Ich glaube, Panzerteile, Flugzeugteile. Die ganzen Teile wurden nicht zusammengestellt dort, sondern sie kamen alle nach Berlin und dort wurden sie zusammengefügt und -gestellt und aufgebaut.
Mein Bruder war länger in der Fabrik und ich weniger lang, weil ich im Baustab U war. Das ging so bis Mitte Februar. Dann hat es angefangen etwas abzubröckeln. Nicht mehr die Flieger waren sehr lästig. Es wurde viel bombardiert und es gab sehr viel Fliegeralarm. Auch die Eisenbahnbrücke wurde getroffen. Die haben sie das erste Mal wieder so zur Not herstellen können. Doch sie wurde bald wieder bombardiert. Das zweite Mal haben sie sie nicht wiederherstellen können. Das war dann so gegen Ende Februar.
FRAGE: In den Stollen gab es nur Strafgefangene oder auch andere Häftlinge?
ANTWORT: Die Fabrik war separat. Sie war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten am Morgen eine Stunde und am Abend eine Stunde zurückgehen ins Lager. Die Fabrik, da waren Zivilpersonen, da waren auch italienische Gefangene so und auch anders Gefangene, Zivilpersonen, Deutsche. Da waren auch mehrere Nationen bei der Arbeit.
FRAGE: Hatten Sie einen Zivilmeister?
ANTWORT: Ja, ich hatte einen Zivilmeister als Vorarbeiter, mein Bruder auch. Da waren die SS. Die haben uns nur hingebracht und waren den ganzen Tag als Posten irgendwie da, aber die hatten nicht rein zu reden bei der Arbeit. Arbeit, da unterstanden wir einem Zivilmeisterchef und mussten mit dem arbeiten.
FRAGE: Haben Sie Unterschiede bemerkt bei der Disziplin, bei der Todesstrafe zwischen Dachau und Moosbach und Goldfisch?
ANTWORT: Ich muss unterscheiden. Goldfisch hieß das Lager. Das war ganz nahe an Moosbach. Moosbach war nur die Stadt. Unser Lager war nahe an Moosbach. Wir konnten einige Male, nicht oft, aber einige Male nach Moosbach um zu duschen, weil für ein bisschen Hygiene musste auch gesorgt werden.
Verlaust waren wir sowieso immer. Die ganzen Kleider waren voll Läuse und die plagten uns sehr.
FRAGE: In den Stollen, wie war die Disziplin? Gab es Todesfälle?
ANTWORT: Ich weiß das nicht. Ich glaube, es sind dort wenig Todesfälle gewesen. Wenn vielleicht irgendwann ein Unglück war oder tatsächlich ein Gefangener verhungert ist. Das ist schon möglich. Es gab auch KZ-Arbeiter dort, einige wenige, weil ich habe einmal mit einem KZ-ler geredet.
Da kam ein fremder SS-Unterscharführer und er hat mich gesehen. Dann hat er mich zusammen geschumpfen ob ich nicht weiß, dass man mit diesen Staatsfeinden Nr. 1 nicht sprechen darf. Ich habe ihm gesagt: “Nein, das weiß ich nicht.” Ich wusste es auch nicht. Dann sagt er: “Von wo kommen Sie?” Ich sage: “Von Südtirol.” “Was sind Sie von Beruf?” “Ich arbeite in der Landwirtschaft.” “Was?” hat er gesagt. “Von meinem Beruf auch noch?”
Dann hat er mich geohrfeigt eine ganze Zeit lang und beschumpfen. Schließlich bin ich schon einmal davon gekommen. Er hat mich entlassen. Ich habe Pech gehabt. Am nächsten Tag begegnete ich ihm wieder. Dann ging es von vorne los. “Sie da! Sie sind ja der Mann von gestern, kommen Sie her!” Dann hat er mich wieder geohrfeigt, auch eine längere Zeit. Dann habe ich es mir gemerkt. Ich habe mir gesagt: “Mann, dir begegne ich nie wieder.”
Ich bin ihm nie wieder begegnet, weil ich bin ihm schon früh genug ausgestellt, weil ich dachte mir: Ich lasse mich nicht hauen für nichts. Ich weiß mich nicht schuldig. Dann ist das auch ein fremder SS-Unterscharführer gewesen, der mit unserem Lager Goldfisch in Dachau nichts zu tun hatte. Den kannte ich nicht. Das war ein anderer. Der hat vielleicht wohl mit KZ-ler zu tun, aber nicht mit uns Strafgefangenen.
FRAGE: Wie viele Strafgefangene ward ihr im Lager Moosbach? Hunderte oder tausende?
ANTWORT: Da waren mehrer hunderte, 500 / 600. Ich weiß das nicht genau, so herum, zwischen 300 / 600 / 700 herum, Strafgefangene. Wir waren Gefangene wegen Fahnenflucht, andere wegen Diebstahl, andere wegen Totschlag, andere wegen Frauengeschichten. Die hatten alle andere Delikte begangen.
FRAGE: Haben Sie wirklich ein Delikt begangen?
ANTWORT: Wir haben kein anderes Delikt begangen als, dass wir den Deutschen nicht gedient haben, den Soldaten.
FRAGE: War das wirklich ein Delikt?
ANTWORT: In ihren Augen schon. Wir durften die Truppe nicht verlassen. Wir haben sie verlassen. Wir sind fahnenflüchtig geworden, weil wir mussten uns stellen, weil sie sonst die Eltern ins Lager gebracht hätten. Der Vater hat gesagt: “Bevor wir alle ins Lager gehen, müsst ihr euch stellen. Ihr seid nur zwei und wir sind mehrere.”
FRAGE: Noch eine Minute zurück zu Ihrer Geschichte. Danach kommen Sie wieder nach Dachau.
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Und dann?
ANTWORT: Am 24. April sind wir in Dachau zurückgekommen. Dann war auch alles nicht mehr in Ordnung, weil der Krieg ja zu Ende ging. Es gab kaum mehr zu essen. Man bekam sehr wohl Kaffee, aber zu essen sehr wenig. Das ging bis zum 29. April. Am 28. April haben sie uns noch ausgemustert. Die Strafgefangenen hätten sollen Kriegsdienst leisten. Sie bekamen eine Bewährung an die Front zu gehen oder auch nicht.
Ich und mein Bruder waren ihnen zu schlecht. Uns haben sie nicht genommen. Wir hätten uns dann freiwillig melden können. Das haben wir nicht. Wir haben uns nicht gemeldet. Also sind wir im Lager geblieben. Am 28. haben sie uns die im November abgenommenen Kleider zurückgegeben, auch das Geld, nicht mehr in Lire, sondern in Deutsche Mark. Wir wussten nichts Gescheiteres zu tun als unsere Zivilkleidung anzuziehen.
Heute würde ich das nicht mehr tun, weil das ist uns ziemlich zum Verhängnis geworden. Ich würde mir heute eine KZ-Kleidung besorgen. Das wäre besser gewesen, aber wir waren Kinder und wir wussten nicht was Krieg ist und was da kommt. Am 29. April sind die Amerikaner gekommen. Dann haben uns die Amerikaner gefangen genommen mit den deutschen SS und allen wie sie waren. Sie haben uns einfach mit denen zusammen gefangen, weil wir hatten unsere Zivilkleidung an.
Wir haben ihnen schon gesagt wir sind im KZ gefangen gewesen. Ja, ob wir einmal eingerückt sind? Ja, vier Tage. Ja, dann müssen sie uns behalten. Sie haben uns hinaus mit den SS-Männern und mit den ganzen Gefangenen, die sie hatten. Plötzlich waren wir hinter einer Mauer, eine Steinmauer, die war vielleicht 30-40-50 Meter lang, etwa 3 Meter hoch oder auch mehr.
Draußen hatten sie zwei Maschinengewehre stehen, aber keinen Mann dabei und die ganzen Posten, die uns dort hingebracht hatten. Dann mussten wir uns an die Mauer stellen mit dem Gesicht an die Mauer, mit den Händen hoch. Sie wollten uns da erschießen, ganz augenscheinlich. Doch dann kam ein höherer amerikanischer Offizier noch rechtzeitig. Er hat dann alles abgeblasen.
Dann haben wir wieder können in die Reihe gehen. Dann haben sie uns dort weg und hinausgebracht nach Dachau in ein Staatsgebäude wahrscheinlich. Das war ein großes Haus mit einem großen Platz, einen Stock unten und einen oben. Da haben sie die Gefangenen, die sie hatten, hineingebracht.
Wir waren auch da. Da war vielleicht innerhalb nur zweit Tagen das alles voll, ja, schon nach einem Tag. Es sind vielleicht untenauf 300 Gefangene gewesen und obenauf auch 300 Gefangene. Nach zwei Tagen mussten wir gehen nach Fürstenfeldbruck hinaus. Dort hatten sie ein nagelneues Gefangenenlager bereitet. Auf allen vier Ecken da stand ein Turm mit Beleuchtung und mit amerikanischen Posten. Sie haben zu sorgen gehabt, dass die Gefangenen nicht abhauen.
Man hatte einen weißen Streifen gezogen, viereckig. Dort durfte niemand hinaus. Wer da hinausgetreten ist, den haben sie unweigerlich erschossen. Jeden Morgen gab es dort Tote, weil viele Gefangene glaubten sie kommen fort, sie können sich fortschleichen. Es waren auch Zwischenposten, weil das war vielleicht 150 m x 150 m eingekreist mit diesem weißen Band. Dort haben sie dauernd neue Gefangene gebracht. Das war am ersten Mai. Dann hat es geschneit und geregnet. Es war kühl. Wir froren.
Die Gefangenen haben sich dort Löcher herausgemacht mit den Händen oder mit was immer. Wir haben meistens nur die Hände gehabt. Es war dies ein Acker. Dort waren gerade Kartoffel gesetzt. Hunger hatten wir sehr. Mit Löchermachen haben wir entdeckt, dass Kartoffeln angepflanzt sind und die waren erst frisch da. Die haben wir alle herausgegraben. Das wussten die Gefangenen sofort. In einem Tag sind die alle herausgegraben gewesen. Die haben wir uns gebraten oder gekocht und gegessen, weil es war auch ein bisschen Holz herum.
Die Amerikaner haben uns acht Tage überhaupt nichts zu essen gegeben. Wir hatten großen Hunger. Ich und mein Bruder, wir waren nur wir zwei, auch ein gewisser Thaler Franz aus Sarnthein, aus Reinswald, der war sehr behindert, er hinkte sehr. Er war trostlos und verzweifelt. Ich habe ihm oft gesagt: “Franz, jetzt wo der Krieg zu Ende ist, wo wir aus dem Lager heraus sind, darfst du nicht verzweifelt, wir werden schon nach Hause kommen.” Er war sehr skeptisch, weil er war krank.
Dann haben uns die Amerikaner nach acht Tagen zwei Dosen gegeben, eine mit Kekse und ein paar Süßigkeiten und eine mit einem Essen, Nudeln und Bohnen und so. Das war gut, aber viel zu wenig. Wir haben wohl im Lager gebettelt. Doch da haben wir kaum etwas bekommen, weil ja jeder das bisschen, das er hatte, nicht hergeben wollte. Es kamen täglich Neuzugänge, neue Gefangene. Da kam auch Haller Franz und sein Bruder. Dann sind wir zusammen gegangen.
Sie haben geklaut. Das war eigentlich die einzige Überlebenschance für uns, sonst wären wir verhungert. Wir wären es ja schon so fast.
Wir haben dann geklaut was wir gerade brauchten. Doch dann haben sie uns erwischt. Dann haben sie das im ganzen Lager veröffentlicht, dass wir Diebe sind. Da kamen die Amerikaner genau an dem Tag mit großen Camion um Gefangene aus dem Lager anderswo hinzubringen. Wir haben uns sofort gemeldet und sind mit 12 Camion weiter gefahren.
In jeden Camion haben sie zumindest 50 Mann hineingepfercht. Sie sind gefahren wie die Neger, im Tempo und alle kurz hintereinander mit drei-vier Meter Abstand, großer Geschwindigkeit. Dann kamen wir in eine Stadt. Dort war irgendein Hindernis, vielleicht an einer Kreuzung. Der erste hat schnell abgestoppt. Alle anderen haben sofort in kürzester Strecke abgestoppt gehabt. Sie sind nicht aufeinander aufgefahren. Als es wieder weiter ging, sind wir weiter gefahren nach Ulm.
Dort sind wir ein oder zwei Tage gewesen, auch ohne Essen, aber bevor wir in Fürstenfeldbruck fort sind mit den Camion hat das weiße Kreuz Deutschlands Essen ausgeteilt und wir haben gerade soviel zusammengebracht, dass wir auch tatsächlich einen Tag leben konnten. Dann haben sie uns von Ulm nach Heilbronn in ein großes Gefangenenlager dort. Da waren, so sagte man, mehr als eine Million Gefangene in vielen kleinen Abteilungen. In so eine Abteilung kamen auch wir.
Die Amerikaner waren sonst sehr gutmütig und haben uns nie gestresst, aber zu essen gab es nichts, fast nichts. Das ging mindestens drei Wochen so, wenn nicht länger. Ich weiß es nicht mehr genau, von Mitte Mai herum bis ein Stück in den Juni hinein, vielleicht bis Mitte Juni. Einmal am Tag haben wir zu essen bekommen, eine dünne Summe zwischen einem halben und einem dreiviertel Liter. Das war alles am Anfang.
Später gab es dann einen deutschen Kommis zu 18 Mann am Anfang, dann zu 14, drauf nur so ein kleines Schnittchen Brot. Das reichte einfach nicht aus. Da waren wir so schwach und so ausgehungert. Wir haben von den 24 Stunden so 16-17 Stunden geschlafen wie die kleinen Kinder. Als wir aufstehen wollten und auch mussten zum Essen holen oder was immer, irgendwas wurde verlangt von uns, von den Gefangenen, sie haben uns gewiss in Ruhe gelassen soviel sie konnten, aber irgendetwas war eben manchmal.
Ganz Deutschland hatte nichts mehr zu essen. Zuerst kamen die amerikanischen Soldaten, die haben alles bekommen wie immer. Dann kamen die Lazarette und die Krankenlager. Dann kam die Zivilbevölkerung und dann kamen erst die Gefangenen. Für uns ist nicht viel übrig gewesen.
FRAGE: Wie lange blieben Sie in Heilbronn?
ANTWORT: Das muss so drei bis vier Wochen gegangen sein. Ich weiß es nicht mehr genau. Es ist zu lange her. Dann sind wir von dort weiter gekommen. Sie haben uns auf die Bahn gebracht, einen ganzen Zug voll, mehrere tausend Mann. Dann sind sie mit uns durch Deutschland hinaus, nach Frankreich gefahren. In Frankreich, so in die Nähe von Paris, nach Soissons.
Dann ging dort vom Bahnhof ein bisschen ein steiler Weg hinauf auf eine Anhöhe. Wir hatten dort sicher eine halbe Stunde oder mehr Fußweg. Wir waren auch kaum im Stande dort hinaufzugehen. Wir waren einfach am Ende unserer Kräfte, weil in Heilbronn wenn wir aufstehen wollten, sind wir immer hinunter gefallen. Es wurde alles grau und das Gedächtnis hat uns verlassen für kurze Zeit. Wir sind hinunter gefallen, dann sind wir wieder zum Bewusstsein gekommen.
Dann sind wir wieder aufgestanden, immer sehr langsam, aber es reichte einfach nicht. Wir waren so schwach und so herunter gekommen, dass es nicht ging. Auch ein zweites Mal sind wir herunter gefallen, nicht immer, aber oft. Erst das dritte Mal ist es gelungen wirklich aufstehen zu können und gehen zu können und das zu tun was wir mussten, unser Essen holen und so.
Sobald wir das alles wieder hatten, gingen wir wieder in unser Zelt um zu schlafen, schlafen und schlafen.
FRAGE: In Frankreich wurde Ihre Lage besser?
ANTWORT: In Frankreich wurde die Lage besser, weil da wussten sie schon, es waren unsere sieben-acht aus Dachau, Gefangene. Das wusste das ganze Lager. Die Lagerführung, es waren alles Gefangene natürlich, Österreicher und Italiener, die haben uns nach Nationen sortiert. In unserem Lager waren nur Österreicher und Italiener mit italienischer Staatsbürgerschaft, weil die hatten wir immer gehabt. Wir sind italienische Staatsbürger gewesen und geblieben.
Dort sind wir gewesen. Uns haben sie immer dann, wo sie das Essen ausgaben, in der Küche, es war nicht die Küche, gekocht haben sie draußen, aber sie haben das ins Lager gebracht, zur Obrigkeit, dort wurde es verteilt, weil sie wussten, dass wir in Dachau waren, haben sie stets um ein-zwei Liter Suppe mehr gegeben und wenn noch eine übrig war noch den Rest, einen Nachschlag. So haben wir am Tag drei, vier, auch fünf Liter Suppe erhalten. Die Suppe war nicht gerade schlecht. Man konnte sie schon gebrauchen.
Das war eine passende Kost zum Übergang von unserer Heruntergekommenheit, von unserer Unterernährung. Sie war nicht zu fett oder zu üppig. So haben wir uns erholen können. Wir haben annähernd genügend zu essen gehabt. Wir bekamen auch dort ein amerikanisches Brot, die amerikanischen Militärkommiss oder wie man die hieß, die Brote. Es waren weiße Brote. Sie mussten in vier Teile geteilt werden und zu vier Mann bekamen wir ein solches Brot.
FRAGE: Das in Frankreich?
ANTWORT: In Frankreich.
FRAGE: Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: In diesem Lager ist es uns besser gegangen und dort sind wir gewesen bis zum 17. August. Einige Tage vorher, so vielleicht zwischen 10. und 12. August kam ein italienischer colonnello. Er hat uns getröstet und hat gesagt wir kommen nach Hause. Er ist deswegen hier. Er wusste nicht, dass hier italienische Gefangene waren, wir sollen entschuldigen, sonst wäre er früher gekommen.
Er hat dann alles in die Wege geleitet. Die Kranken haben sie schon zwei Tage später fort. Dann haben sie die Gefangenen bis zum Buchstaben H genommen, weil ja viele waren und dann zuletzt vom H bis Z. Ich mit “P”, wir waren bei den Letzten. Wir sind am 17. August aus diesem Lager herausgekommen und wieder den Weg hinunter auf den Bahnhof, wo wir herauf waren.
Man hat uns wieder einwagoniert, immer mit den amerikanischen Posten. Das war gut, weil die Franzosen waren sehr erpicht auf die Gefangenen. Sie glaubten wir waren Deutsche. Sie sind dann auch mit Steinen gekommen, haben die Wagons gesteinigt, aber die Amerikaner haben sich schon gewusst fernzuhalten. Die Amerikaner haben uns begleitet bis an die Schweizer Grenze. Dann sind die Amerikaner verschwunden. Dann haben sie uns allein gelassen. Endlich waren wir freie Menschen, so um den 20. August herum, 19.
Dort hatten wir eineinhalb Tage Aufenthalt. Dann ging es nach Italien durch den Gotthardtunnel, nach Domodossola, von Domodossola nach Novara. In Novara haben sie uns einen Entlassungsschein gegeben. Dann haben wir können, bis Mailand ist die Gruppe noch zusammen gewesen, von Mailand bis Verona sind noch einige wenige gewesen und dann sind nicht mehr viele gewesen. Dann sind wir auf uns alleingestellt gewesen und mussten sehen wie wir nach Hause kamen.
Wir sind am 23. August nach Hause gekommen.
FRAGE: Endlich am Ende?
ANTWORT: Endlich am Ende. Ich hatte einen Bruder, der älter war. Er war 1922 geboren. Er war beim italienischen Heer in Italien unten stationiert. Wir hätten sollen gegen unseren Bruder kämpfen. Das haben wir nicht getan und auch nie wollen. Der Bruder kam gerade auch in Urlaub als wir nach Hause kamen. Wir haben uns bei einer unserer Schwestern getroffen. Er sagte: “Was? Ihr seid meine Brüder? So dünn? So dürr? So mager? Ihr seid wie eine Laterne, man kann durch euch durchsehen.”
Wir haben ihm gesagt: “Da hättest du uns müssen vor zwei Monaten sehen oder drei. Dann könntest du das sagen, aber jetzt nicht mehr.” Wir hatten uns ziemlich erholt. So sind wir nach Hause gekommen am 23. August 1945.
FRAGE: Noch eine kurze Frage? Können Sie das vergessen oder möchten Sie das vergessen oder wollen Sie das nicht vergessen?
ANTWORT: Ich habe vieles vergessen, aber ich kann unmöglich alles vergessen. Das ist ganz ausgeschlossen. Das ist ein Lebensstück und ein böses Lebensstück. Die Deutschen haben uns sehr gequält und gepeinigt und gestresst und Hunger leiden lassen. Schlafen konnten wir wenig, weil um zehn Uhr durften wir schlafen gehen, aber um elf Uhr-zwölf Uhr war Fliegeralarm, der dauerte durchwegs zwei Stunden. Das war äußerst selten, dass kein Fliegeralarm war. Am Anfang im Dezember noch, wenn aber Februar wurde, dann war fast jede Nacht zweimal Fliegeralarm. Wir mussten immer in den Bunker gehen und im Bunker konnte niemand schlafen. Dann wissen Sie wie viele Stunden uns noch blieben zum Schlafen, wenn wir vier Stunden mussten im Bunker sein, um zehn Uhr abends ins Bett kamen und fünf Uhr morgens aufstehen mussten. Dann gab es Schlaf nicht mehr viel.

Thaler Franz

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franz Thaler, sono nato il 6 marzo 1925. Negli anni Trenta, dal 1931 al 1939, ho frequentato la scuola italiana. Poi quando avevo 14 anni. Mio padre… Ci sono state le opzioni. Mio padre ha scelto di rimanere, ha scelto l’Italia. Dunque io ero italiano.
E poi la gente un pochino… “Tu sei un italiano!” (Walscher!, dispregiativo). Sono stato messo in disparte. Erano tempi brutti. Erano pochi quelli che avevano scelto di restare e sono stati un poco angariati. Dicevano: “L’italiano!” (“Der Walsche!”)
Poi è arrivato un maestro tedesco che doveva insegnare il tedesco ai ragazzi e ai bambini. Una domenica siamo andati tutti a scuola. Il maestro si scriveva i nomi e quando è stato il mio turno anch’io volevo dirgli il mio nome. Però sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno urlato “Lui è un Walscher!”
Allora questo maestro mi ha guardato per un po’ e poi mi ha detto che dovevo andarmene, lui voleva insegnare solo ai bambini tedeschi. Questo è stato, per dire, il primo colpo. È andata avanti così. Avevo dei bravi compagni. Se qualche volta non andavamo d’accordo allora mi dicevano “maiale italiano!”.

D: In che paese abitava Lei all’epoca?

R: A Valdurna. È una frazione di Sarentino, proprio in fondo alla valle. Poi vennero tempi in cui molti dei tedeschi dovettero arruolarsi, anche degli italiani. Poi presto si cominciò a sentire che dei soldati erano caduti in guerra. E allora il grande entusiasmo per la Germania cominciò a scemare. C’erano quelli che imprecavano contro Hitler e che prima avevano gridato “Heil Hitler!”. Avevano visto che non andava bene.
Nel 1943 ci fu la capitolazione di Mussolini. Da lì in poi Hitler ha avuto tutto il potere su di noi. Si sono gettati su di noi. Abbiamo dovuto fare la visita di leva, tutti insieme, gente dai 16 ai 50 anni. Ovviamente la maggior parte era abile all’arruolamento. E anch’io lo ero.
Poi ho pensato che presto avrei dovuto arruolarmi. Sono scappato. Poi un accanito nazista del nostro paese ha detto a mio padre: “Se il Franz non si presenta, verranno messi in carcere suo padre e sua madre”. Allora mio padre mi ha cercato. Sapeva più o meno dove mi nascondevo. Stavo in montagna, non potevo farmi vedere da nessuno.
Quando volevo prendere qualcosa da mangiare dovevo muovermi di notte, senza luce. Avevo un fratello dall’altra parte (della montagna), andavo da lui. Mi dava burro e formaggio, lassù faceva il malgaro … la notte potevo andare a prendere qualcosa. C’erano anche un paio di altri compagni, da cui potevo andare.
Così la vita è andata avanti. Era estate. Mi sembrava di essere un animale selvatico. Appena sentivo un rumore mi spaventavo molto, volevo scappare
Un giorno passavo per il bosco, ho visto due uomini dietro un albero e volevo già scappare. Poi uno mi ha chiamato: “Fermati Franz! Non ti facciamo nulla!” Allora ho subito riconosciuto la voce. Era un collega di Vilandro. Ci conoscevamo da tanto tempo. Mi sono fermato, mi sono avvicinato un po’ a loro, abbiamo parlato e poi loro sono andati per la loro strada. Non è successo nulla..
Dovevo spostare continuamente il campo. Una volta sono stato forse tre settimane in una distilleria di pino mugo, ma me ne sono dovuto andare. Sono stato in un fienile, forse per due-tre settimane, e poi di nuovo in un altro fienile. Avevo tre fienili e la distilleria. Lì trascorrevo le notti.
Non era bello, tuttavia più bello di quello che è venuto dopo. Poi mio padre mi ha cercato e mi ha pregato: “Ti prego Franz, consegnati, altrimenti rinchiudono me e la mamma”. E tu cosa fai, allora? Volevo risparmiare un dolore ai miei genitori e mi sono consegnato. Sembrava che se mi fossi consegnato non sarebbe successo niente a me e ai miei genitori.
Io non ci credevo, ma la sera sono andato a casa. Poi è arrivato il comandante del posto (Ortsleiter), il nazista, e ha detto: “È bello, Franz, che tu adesso ti arruoli. Aiuti a combattere per Hitler.” Il giorno dopo sarei dovuto andare a Bolzano. Poi hanno chiesto un po’ e quindi mi hanno dato un foglio, una convocazione a Silandro per il servizio militare.
Sono arrivato là. C’erano molti conoscenti delle mie parti. “Come mai sei venuto qui?” Ho raccontato loro come era andata. Ho fatto due mesi di addestramento.

D: Quando sono stati questi due mesi?

R: Dal 21 settembre fino a due mesi dopo, in novembre. Terminato l’addestramento gli altri sono stati mandati giù in Italia, a Belluno ed io sono stato messo in prigione. Sono dovuto andare dal comandante del battaglione e lui mi ha letto una lettera: “Dovevi arruolarti a giugno e sei rimasto a gironzolare in montagna”. Mi ha chiesto se era vero. Ho pensato che ormai non potevo più negare.
Poi mi ha detto: “Domani andrai a Bolzano al Tribunale di Guerra!”. Il sergente (Wachtmeister) della mia compagnia mi ha portato a Bolzano. Sono entrato in una grande sala. C’era un tavolo. Dietro al tavolo sedevano otto/dieci SS. Erano i giudici. Uno di loro ha letto un foglio, il codice penale: “Per coloro che rifiutano il servizio militare c’è la pena di morte”. Ho pensato “In nome di Dio, qui mi fucilano.”
Le cose sono andate in modo diverso. Hanno guardato un po’. Pensavano che sarei svenuto, ma non l’ho fatto. Ho sorriso loro. Poi un SS ha preso un altro foglio e ha letto la sentenza: “Poiché l’imputato è minorenne”, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni ed io ne avevo solo diciannove, “e poiché si è presentato volontariamente, egli non viene condannato a morte, ma a 10 anni nel campo di concentramento di Dachau“.
In un primo momento ho pensato che mi fosse andata di nuovo bene, visto che non venivo fucilato. La parola Dachau non mi diceva nulla, non l’avevo mai sentita prima.
Sono rimasto altre tre settimane in prigione a Silandro. Quindi mi hanno portato a Dachau. Già il viaggio è stato un po’ duro, in viaggio verso Dachau, ho visto e vissuto tante cose. Quando siamo arrivati a Dachau un gruppo di lavoratori usciva proprio in quel momento dal portone, tutti magri, pallidi. Ho pensato a cosa si dovesse vivere in quel posto per avere quell’aspetto. L’ho capito più tardi.
Mi sono dovuto togliere i vestiti. Mi hanno chiesto perché ero lì, qual era la mia pena e la mia religione. Io ho detto: “Sono cattolico!” L’uomo delle SS allora mi ha risposto: “Qui da noi imparerà a pregare in modo diverso”.
Sono stato fotografato da tutti i lati. Ho ricevuto una camicia logora e un paio di mutande. Poi un SS mi ha portato nel bunker. È un edificio lungo, a destra e sinistra lungo il corridoio si aprono le celle, l’SS ha aperto una porta nel mezzo, mi ha dato uno spintone e buttato dentro. Mi sono guardato intorno. In alto c’era una finestra a bilico. Era stata verniciata di bianco, poi un castello, due letti. Non c’erano letti, solo… Non c’erano coperte, non c’era proprio niente.
Volevo sedermi. Era pressoché impossibile. Mi sono seduto sul coperchio del gabinetto e ho pensato: “Cosa mi succederà adesso?”. Erano già un paio di giorni che non mangiavo nulla. Mi sembrava che mi succedesse quello che accadeva alle bestie dei contadini, forse ai maiali, anche i maiali non venivano più nutriti al mattino. Mi sembrava di essere così: Oggi mi affamano e domani mi fanno fuori. Poi ho sentito dei passi nel corridoio. Ho sentito che veniva aperta la cella accanto alla mia e ho sentito urlare: “Fuori subito”. Ho sentito un uomo che usciva in corridoio. Poi è stata aperto la mia cella: “Fuori subito!”. Abbiamo dovuto pulire il lungo corridoio. All’ingresso c’era un lavatoio. Dovevamo prendere le pezze, un secchio con l’acqua, la paletta e la scopa. Ho pensato che la cosa più semplice era lavorare con la scopa e la paletta.
Allora l’uomo delle SS mi ha subito urlato addosso: “Fannullone! Imparerà con cosa si inizia!”, perché si doveva sempre iniziare dalle cose più pesanti, poi si passava a quelle più leggere. Quando vedevano che tu iniziavi dalle cose più facili, per loro eri il fannullone che voleva cavarsela.

Mi ha preso a ceffoni. Io avevo la paletta e la scopa, l’altro un secchio con l’acqua e le pezze. Mi sono dovuto accucciare e ho dovuto dare la paletta e la scopa all’altro. Poi mi ha dato una scopa. Accucciato ho dovuto saltellare due volte su e giù per tutto il corridoio. Alla fine ero stremato. E poi pulire in fretta il corridoio. Tutto doveva avvenire a passo di corsa.
Finito il lavoro abbiamo riportato indietro le cose e siamo rientrati nelle celle. Ho avuto tempo di pensare a quello che avevo fatto di sbagliato. È andata avanti così. Per cena mi hanno versato in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa di cavolo. Sulla porta della cella c’era uno sportello che si poteva aprire e formava una specie di tavolino. Lì bisognava appoggiare la ciotola che veniva riempita. Ho mangiato quello che mi hanno dato, ma era troppo poco. Col dito ho pulito bene tutto.
Era ora di dormire. Non sapevo dove mettermi. Sulla cosa di legno, che era lunga ma nel mezzo aveva una trave, non ci si poteva quasi sdraiare. Quando hanno spento la luce mi sono messo sul pavimento. C’era un termosifone con due elementi ma sicuramente non scaldava. Io gelavo.
Al mattino presto ho sentivo che veniva distribuito il caffè. Si è aperto lo sportello, ci ho messo la ciotola e ho pensato: Mi daranno ben del pane. Sono rimasto così. Allora l’altro mi ha chiesto urlando che cosa aspettavo, mica il pane, vero? Io ho detto “Si.” “No, non c’è pane”. Allora ho bevuto il caffè, era solo acqua sporca. Sono rimasto tre giorni nella cella.
Una volta, finito di pulire il corridoio, dovevamo consegnare le cose e abbiamo sentito urla provenire dal bunker. Poi si è aperta la porta e sono entrate 8-10 persone, rasate a zero, in camicia e mutande. Abbiamo sentito: “Mamma mia!” e abbiamo capito che erano italiani. Li hanno rinchiusi tutti insieme nella stessa cella.
E di nuovo si doveva pulire il corridoio. Sono passati davanti alla mia cella e hanno aperto quella dopo. E l’SS ha urlato “Due uomini subito fuori!”, ma loro non capivano che cosa aveva detto. Così l’SS è entrato nella cella, ha buttato due ragazzi in corridoio e li ha picchiati duramente. Loro hanno dovuto pulire il corridoio.
Da quel giorno la pulizia del corridoio la facevano gli italiani. Dopo tre giorni ho ricevuto dei vestiti. Non era un abito a righe, era un’uniforme dell’esercito italiano. Mi hanno messo in una baracca. C’erano quattro/cinque diversi …Come si dice? Francesi, svizzeri, russi, appunto diversi.
È arrivato il Natale. Abbiamo detto, forse potevamo suonare qualcosa per Natale. Abbiamo persino fatto un alberello con appesi un paio di pezzi di carta colorata.

D: Ha ricevuto un numero di matricola a Dachau?

R: No. Eravamo un pochino separati dal campo principale. Per noi era previsto che andassimo in un campo esterno e avevamo “Frontbewährung”, cioè se avevano bisogno di noi potevano mandarci al fronte. Noi non abbiamo ricevuto l’abito a righe.

D: La sua baracca aveva un numero?

R: No, era separata, ma annessa all’edificio del bunker

D: Accanto al grande muro del campo di concentramento?

R: Ben dentro, dietro il muro. Ho visto come era fatta la recinzione. Prima c’era un fossato con l’acqua dentro. Poi c’era il filo spinato, in rotoli. Poi c’era anche il muro, con filo spinato sulla sommità. Tutto aveva la corrente ad alta tensione, perché non si poteva scappare, non c’era possibilità.
Ci hanno detto che il 27 saremmo andati in un campo esterno, a Hersbruck. Al mattino presto ci hanno detto “Preparate tutto per il trasporto“. Non avevamo tanto da preparare: la ciotola e il cucchiaio e una coperta, no, nessuna coperta. Poi ci hanno stipati in un carro bestiame, hanno chiuso le porte. Sulla parte alta c’era una finestrella con una grata.
Siamo partiti. Quando c’era l’allarme aereo il treno si fermava. In qualche modo ci mettevano al riparo. Stavamo fermi anche una mezza giornata, una mezza nottata o una notte intera. Poi si proseguiva. Penso che ci abbiamo messo due giorni ed una notte per arrivare a Hersbruck. Siamo arrivati di sera. Nevicava.
Le SS ci stavano aspettando. Siamo scesi dal treno. In fila per tre ci siamo avviati per un sentiero ripido e dovevamo camminare svelti, le SS ci davano addosso con i manganelli ed i calci dei fucili. Abbiamo camminato un bel po’ sotto la pioggia e la neve. Eravamo stremati. La notte non avevamo dormito e non avevamo mangiato. Ci avevano dato un pochino di rancio, che ognuno di noi aveva divorato subito. Abbiamo continuato la salita. Abbiamo visto delle luci. Allora era lì che saremmo andati? E invece no, siamo passati oltre. Poi siamo arrivati in un avvallamento. C’era un grande edificio. C’era un torrente. Abbiamo attraversato un ponte. Poi hanno distribuito delle fettine di pane che dovevano essere suddivise tra quattro persone: dovevamo stare attenti a dove andava l’uomo che aveva ricevuto il pane, altrimenti saremmo rimasti senza… Siamo arrivati.
Nel grande edificio, mi hanno mandato al secondo piano. Erano già passate le tre di notte. Hanno acceso le luci. C’erano dei tavolati a tre piani. Con la luce qualcuno ha guardato giù dalle cuccette e ha urlato. “Franz, sei qui anche tu adesso?” Con lui ero stato in prigione a Silandro. Mi ha fatto piacere trovare persone conosciute.
Mi hanno assegnato un giaciglio e mi sono potuto sdraiare. C’erano un pagliericcio sottilissimo ed una coperta. Ho preso la coperta, mi sono sdraiato, mi sono infilato sotto la coperta, mi sono tolto i vestiti e li ho messi sopra la coperta. Ero così stanco. Mi sono addormentato subito.
Al mattino ci svegliavano i fischietti. Tutti fuori in fretta dalle cuccette per andare a lavarsi. Bisognava togliersi la camicia e scendere al lavatoio al piano di sotto. Era andato tutto bene. Il giorno dopo lo stesso. C’era un italiano, era più giovane di me di un anno, che nella fretta dimenticò di togliersi la camicia. Arrivò al lavatoio con la camicia addosso. Le SS non aspettavano altro che arrivasse qualcuno con la camicia addosso. L’italiano ha dovuto spogliarsi completamente. Con un tubo gli hanno gettato addosso acqua gelata ed un altro con uno spazzolone lo ha spazzolato fino a che non era tutto rosso di sangue. Non lo abbiamo più rivisto. Abbiamo pensato che fosse morto …
Il giorno dopo ancora una visita. Ho dovuto raccontare perché ero lì e per quanto tempo. Poi siamo stati pesati. Pesavo ancora 45 chili. Prima di costituirmi ne pesavo 69.

D: Ho capito bene? Lei è stato pesato a Hersbruck?

R: Si.

D: Dalle SS?

R: Si. No, c’erano anche dei prigionieri. Ho pensato: Più giù di così non può andare. E invece è andato ancora tanto più giù. Per il lavoro pesante, il cibo scadente, al mattino l’acqua sporca senza pane, senza zucchero, a mezzogiorno la zuppa di cavolo o forse una volta la zuppa di piselli o se tutto era andato davvero bene, a Pasqua abbiamo ricevuto due patate lessate, se erano piccole tre patate, se erano grandi due. Non si toglieva la buccia. Si riceveva anche un cucchiaio. Si mangiava tutto insieme. Questo era il cibo buono.
Oggi non riesco più a immaginarmi com’era con quel cibo, quel lavoro. Si faceva il possibile per sopravvivere…
Ero contento che ci fossero tanti italiani con me, italiani, croati, la maggior parte erano però italiani, ho imparato un po’ di italiano. Il mio miglior compagno era uno che veniva dal Trentino. Si chiamava Filzi, credo, Giovanni Filzi.
Più di tanto non potevamo parlare durante il lavoro. Solo quando tornavamo alle baracche avevamo forse una mezz’ora libera. Allora potevamo parlare. Di cosa volete che si parlasse? Di cosa sarebbe successo? Si parlava del cibo. Era sempre il primo pensiero. Avevamo tutti una tale fame.

D: Che lavoro faceva?

R: Ero alla cava.

D: Andava a piedi alla cava?

R: A piedi. Fino alla cava ci si metteva circa 10 minuti. Abbiamo costruito noi un Lager vicino. Era mezzo finito quando siamo arrivati. Dovevamo sistemare le pietre.
Un prigioniero francese con una slitta ed un cavallo trasportava le pietre al Lager. Era un lavoro tremendo senza guanti. Le pietre coperte di neve… Era duro. Avevamo pessime scarpe, senza calze. Stavamo tutto il giorno nella neve.
Era tremendo alzarsi al mattino e infilare i piedi nudi nelle scarpe gelate. Non era piacevole. Così è andata avanti.
Poi mi è venuta la scabbia. È una malattia che comincia tra le dita. A me è venuta su tutto il corpo, ero tutto ulcerato. Se si faceva pressione, dalle ulcerazioni uscivano sangue e pus. Stavo sempre peggio, e la scabbia è una malattia contagiosa. I miei migliori compagni mi evitavano. Questo non l’ho più sopportato.
Ho detto al kapò: “Per favore, domani mi dia malato.” Non ci si dava malati volentieri, perché se si era malati troppo poco la si sarebbe pagata cara. Io non ce la facevo più. C’era anche un italiano, quasi con la stessa malattia. Il giorno dopo ci siamo presentati. Dietro la scrivania sedeva un SS. Ci siamo spogliati. Mi ha guardato. Cosa c’era che non andava? “Guardi lei stesso!”
Allora mi ha guardato da capo a piedi: “Porco! Perché non l’ha detto prima?”. E così sono stato mandato via. Poi si è presentato il prossimo. Gli ha subito gridato addosso. Ci hanno cosparso tutto il corpo con un liquido. Sembrava olio da cucina.
Poi dovevamo tornare al lavoro. Dopo una settimana eravamo quasi guariti. Ho trovato di nuovo il coraggio per vivere ancora. Si andava avanti così. Un mattino avevo brividi tremendi. Ho pensato che non potevo più darmi malato. Poi ho pensato che se avessi ricevuto un caffè caldo e acqua calda mi sarei scaldato. Sono andato al lavoro. Dovevo continuamente andare di corpo. Avevo la dissenteria. Cioè, dovevo andare sempre alla toilette. Lo stomaco, tutto andava fuori.
Il kapò della squadra di lavoro se ne accorse. Dovevo sempre chiedere. Uno delle SS mi ha urlato “Vuoi forse scansare il lavoro?” Il kapò mi ha detto che non dovevo più lavorare, mi potevo sedere. Dovevo comunque svuotarmi continuamente.
A mezzogiorno tornavamo sempre alla baracca per mangiare.
Ho detto al kapò che non c’era niente da fare, doveva darmi malato. Allora qualcuno mi ha portato un termometro. Avevo la febbre ben oltre i 39°. Ero idoneo all’infermeria. Ci sono andato. Nella cuccetta c’erano già tre uomini. Non sapevo se erano ancora vivi o no. Erano pallidi. I vivi si distinguevano dai morti per il respiro e per gli occhi che si muovevano.
Alla sera stavo malissimo. Ci hanno portato una zuppa. Ero talmente debole che non ero neppure in grado di mangiarla. Il mio vicino si era già un pochino ripreso e continuava a guardare la mia zuppa. Ho detto “La puoi mangiare. Io non ce la faccio.”
Era il giorno del mio compleanno, il 6 marzo. Ho pensato che fosse la fine, in nome di Dio, adesso mi addormento e non mi sveglio più. Poi ho perso conoscenza. Il giorno dopo quando mi sono svegliato stavo un pochino meglio. Ho mangiato metà della zuppa. lentamente ho cominciato a stare meglio. È venuta un’infermiera e ci ha dato un cucchiaio pieno di carbone macinato. Questa era la medicina per la dissenteria. Poi ci ha prelevato il sangue, per cosa poi non sono ancora riuscito a capirlo.
La volta dopo è venuta un’infermiera della Croce Rossa. Non so se era un’infermiera della Croce Rossa o meno. Doveva farci un prelievo di sangue. Quattro, cinque volte ha mancato la vena, non l’ha trovata. Allora è andata da un altro. È successa la stessa cosa. È un po’ arrossita e se ne è andata. È tornata allora l’altra infermiera. Era vecchia, non ha detto assolutamente niente. Lei ce l’ha fatta.
Ho dimenticato qualcosa. Abbiamo pregato l’infermiera… Io dovevo ancora svuotarmi. Ho pensato “Come faccio?” Non ero in grado. In quello stesso momento me la sono fatta addosso. Non si poteva chiamare nessuno per fare pulire. Sono rimasto nei miei escrementi.
Il giorno dopo abbiamo chiesto all’altra infermiera se ci portava un vaso da notte. Si, ce l’ha portato. Però non l’abbiamo usato. Dovevamo restare nei nostri escrementi.
Miglioravo. Il terzo giorno al mattino ho visto che due uomini non c’erano più. Ho chiesto al mio vicino cosa fosse loro successo. Non sapeva se erano morti o se li avevano solo portati via, probabilmente erano morti. Siamo rimasti 16 giorni all’infermeria. Poi siamo tornati al lavoro.
Con la coperta sotto il braccio, il cucchiaio e la ciotola in mano… Da una parte tornavamo volentieri dai nostri compagni, dall’altra avevamo già di nuovo paura della vita del Lager, di quanto accadeva. Eravamo così deboli che potevamo stare appena in piedi e fare qualche passo.
Non siamo più andati al lavoro fuori nella cava, nel Lager c’erano diversi lavori da fare. C’erano un francese ed un tedesco. Non avevano alcun interesse a maltrattarci. Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta. I tempo era bello, il sole splendeva. Eravamo alla fine di marzo.
Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta, purtroppo il cibo era scadente. Poi ci hanno detto che tornavamo a Dachau. Il fronte si avvicinava sempre più, arrivavano gli americani. Hanno sgomberato il Lager. Non so più con precisione se il 4 o il 5 aprile ci hanno detto: “Prepararsi per il trasporto a Dachau”. Anche quello fu un brutto viaggio.
Arrivavano gli aerei americani a bassa quota. Quando vedevano un treno sparavano. So che una volta dovevamo andare al bagno, abbiamo bussato alla parete. Ci hanno urlato dentro: “Fatela come la fanno tutti i maiali!”. Ognuno l’ha fatta nel posto dove si trovava. C’era una puzza tremenda.
Una volta stavamo mangiando, siamo potuti scendere e abbiamo ricevuto da mangiare. Mentre eravamo fuori sono arrivati gli aerei americani, sono passati oltre ma hanno visto che c’era qualcosa. Allora sono tornati indietro. Su una strada c’erano 5-6 uomini delle SS. Gli hanno sparato…
Due erano feriti in modo grave, abbiamo visto, ed un paio feriti in modo più leggero li hanno caricati nel vagone, noi ci hanno chiusi di nuovo nel carro bestiame. Siamo ripartiti.

D: Purtroppo il tempo passa molto in fretta. Abbiamo ancora cinque minuti. Può raccontarci dove è stato liberato? Quando? Cosa Le accadde dopo la liberazione ufficiale?

R: Giunse il 29 aprile. Avevamo sempre il fronte … sentivamo gli spari e vedevamo tutto. Eravamo contenti che arrivavano gli americani, ma avevamo anche paura, cosa avrebbero fatto di noi prima di lasciarci liberi?
Giunse il 29 aprile. La guardia era un po’ sparita. Abbiamo pensato, io e due della Val Passiria e diversi italiani, adesso guardiamo in cucina. Non c’erano guardie da nessuna parte.
Uno ha detto: “Guardiamo se la porta del Lager è aperta”. Siamo andati e era aperta. Siamo usciti dal Lager e siamo arrivati agli alloggiamenti delle SS. È stato uno sbaglio. Ho pensato di cercare qualcosa da mangiare. Non abbiamo trovato nulla.
Siamo entrati in una baracca. C’erano divise delle SS. Uno ha detto: “Cambiamo le nostre camicie sporche e piene di pidocchi”. Detto fatto. Dopo che ci siamo cambiati sono arrivati due americani e ci hanno fatto segno di seguirli. Siamo andati. Abbiamo sorriso loro. Erano i nostri liberatori! Abbiamo camminato un po’, c’era un grande cortile, un grande portone. Abbiamo visto che avevano fucilato un gran numero di SS, gli americani.
Abbiamo pensato: “Giusto che vi succeda questo!”. Siamo andati avanti ancora per 25 m. Poi ci hanno messo al muro, con la faccia verso il muro e le mani sopra la testa. Abbiamo pensato, adesso fanno a noi quello che abbiamo visto hanno fatto agli altri. Siamo rimasti lì un bel po’.
C’erano due o tre ufficiali americani ed un paio di soldati. Ci hanno detto: “Abbassate le mani e giratevi!” Discutevano su cosa fare di noi. Eravamo vestiti per metà da SS e per metà da prigionieri. Ne siamo usciti vivi. Non ci hanno rimandato nel Lager, bensì con i soldati tedeschi prigionieri. Il sesto giorno abbiamo ricevuto per la prima volta da mangiare.
Ancora una volta mi sono lasciato andare. Avevo perso i miei compagni della Val Passiria. Pioveva e nevicava. “Così” alto era il sudiciume. Non ci si poteva sdraiare. Il quinto giorno ho pensato: non ce la faccio più, mi lascio cadere, mi addormento e non mi sveglio più. Quelli della Val Passiria mi hanno visto, hanno detto: “Franz, alzati! Così muori!” Io ho detto: “Non ce la faccio più”.
Mi hanno aiutato ad alzarmi: “Si, ce la farai!” Ho pensato che a casa sarei tornato volentieri. ma non ci credevo proprio tanto. Gli altri: “Certo. Ce la faremo. Ora siamo pronti”. Poi ci è stato detto che il giorno dopo avremmo ricevuto di sicuro qualcosa da mangiare. Ero contento, forse era vero che avremmo ricevuto qualcosa da mangiare.
Si, è successo. Il giorno dopo abbiamo visto dei furgoni davanti al Lager, era tutto all’aperto, hanno scaricato delle scatole di cartone, hanno cominciato a distribuire, due piccole scatolette. In una c’erano fagioli, un po’ d’olio e nell’altra un paio di biscotti e delle caramelle. Io ero l’ultimo. Guardavo continuamente. Chissà, forse non ce n’era abbastanza anche per me.
E invece ce n’era abbastanza! Mi sono seduto con le gambe incrociate, ho cominciato a mangiare, ho pianto. Poi è andato tutto meglio. Sono rimasto quattro mesi prigioniero degli americani. Ci davano poco da mangiare, ma quello che ci davano era buono.

D: In quali Lager, in quali città ha trascorso questi quattro mesi?

R: Dapprima un mese in Germania in diversi Lager, sempre all’aperto, e poi in Francia, in un grande campo di prigionia. Lì i malati o i deboli avevano una tenda separata… C’erano grandi tende. Io sono finito in una tenda per malati. Poi è andata un pochino meglio.

D: L’ultima domanda. Quando è arrivato finalmente a casa?

R: Il 19 agosto.

D: Di che anno?

R: 1945.

D: Si è pesato?

R: Poco dopo essere uscito dal Lager mi sono pesato. Pesavo poco più di 30 kg, forse 31.

D: Grazie infinite, signor Thaler.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano)

Ich heiße Franz Thaler, bin geboren am 6. März 1925.
Dann bin ich den 30er Jahren, von 1931 bis 1939 in die italienische Schule gegangen. Da war ich dann 14 Jahre alt. Mein Vater… Da kamen die Wahlen. Mein Vater hat sich für das Hierbleiben, für Italien entschlossen. Dann war ich ein Italiener.
Da haben die Leute dann ein bisschen… “Du bist ein Walscher!” Da war ich auf die Seite geschoben worden. Das waren damals schlimme Zeiten. Es waren wenige, die für das Dableiben gewählt haben und die hat man schon ein bisschen schikaniert. Es hat geheißen: “Der Walsche!”
Dann kam ein deutscher Lehrer in die Ortschaft und er sollte die Jugendlichen und die Kinder Deutsch unterrichten. An einem Sonntag gingen die Jugendlichen und die Kinder alle zur Schule. Der Lehrer hat den Namen aufgeschrieben und als er zu mir kam wollte ich auch meinen Namen sagen. Dann kamen schon welche vor und schrieen: “Das ist ein Walscher!”
Da hat mich dieser Lehrer ein bisschen angeschaut und hat gesagt ich soll gehen er möchte nur deutsche Kinder unterrichten. Es war so zu sagen der erste Schlag. Dann ging es so weiter. Ich hatte gute Kollegen. Wenn wir einmal nicht gut auskamen dann war ich “Der walsche Schwein!”.
FRAGE: In welchem Dorf wohnten Sie zu jener Zeit?
ANTWORT: Durnholz. Das ist eine Fraktion von Sarnthein, ganz hinten drein. Dann kamen die Zeiten, es mussten ziemlich viele einrücken von den Deutschen, auch Italiener. Dann hörte man bald einmal, dass Soldaten gefallen sind. Da war dann die große Begeisterung für Deutschland schon ein bisschen gesunken. Da waren schon manche, die über Hitler geschimpft haben, die vorher “Heil Hitler!” geschrieen haben. Sie haben dann gesehen es geht nicht gut.
Im Jahre 1943 hat Mussolini kapituliert. Dann hat Hitler die Macht gehabt über uns. Dann ging es auf uns los. Da wurden wir gemustert, von 16 Jahre bis 50 Jahre alte Leute, alle zusammen. Natürlich waren die meisten tauglich zum Einrücken. Ich eben auch.
Dann habe ich mir gedacht ich werde müssen bald einmal einrücken. Ich bin geflüchtet. Dann hat ein großer Nazi von unserem Dorf zum Vater gesagt: “Wenn sich der Franz nicht stellt, wird der Vater und die Mutter eingesperrt.” Dann hat mich mein Vater gesucht. Er hat ungefähr gewusst wo ich mich aufhalte. Ich war am Berg droben, durfte mich von niemandem sehen lassen.
Wenn ich etwas zum Essen holen wollte oder so, habe ich immer nachts gehen müssen ohne Licht. Ich hatte einen Bruder auf der anderen Seite, bin zu dem hingegangen. Er hat mich mit Butter und Käse, er war Senner droben… habe ich können nachts hingehen ein bisschen etwas holen. Es waren noch ein paar Kollegen, zu denen ich konnte hingehen.
So ist das Leben weiter gegangen. Es war Sommer. Ich bin mir irgendwie vorgekommen wie ein wildes Tier. Wenn ich ein Geräusch hörte, bin ich immer aufgeschreckt, wollte davonlaufen.
Einmal bin ich durch den Wald gegangen, da sah ich zwei Männer hinter einem Baum stehen und ich wollte schon die Flucht ergreifen. Dann hat mir einer nachgerufen: “Halt Franz! Wir tun dir nichts!” Dann habe ich gleich die Stimme erkannt. Es war ein Kollege aus Villanders. Wir hatten uns vorher schon lange gekannt. Da habe ich gehalten, bin ein bisschen näher zu ihnen gegangen, haben ein bisschen gesprochen und sie sind ihre Wege gegangen, ich meine. Es ist nichts passiert.
Ich musste immer das Lager wechseln. Einmal war ich in einer Latschen Brennerei, war vielleicht drei Wochen, musste wieder gehen. Ich war in einem Heuschuppen, vielleicht zwei-drei Wochen, dann wieder zum nächsten Heuschuppen. Ich hatte drei Heuschuppen und die Latschen Brennerei. Das war mein Nachtlager.
Es war nicht schön, aber trotzdem schöner als nachher. Dann hat mich mein Vater gesucht und hat mich gefunden und hat mich gebeten: “Bitte Franz, stell dich, sonst sperren sie mich und die Mutter ein!” Was machst du dann? Ich wollte den Eltern ein Leid ersparen, dann habe ich mich gestellt. Dann hat es noch geheißen wenn ich mich stelle passiert mir nichts und auch den Eltern nichts.
Geglaubt habe ich es nicht, aber ich bin abends nach Hause. Dann kam der Ortsleiter, der Nazi, hat gesagt: “Das ist schön Franz, dass du jetzt einrückst. Hilf für den Hitler kämpfen.” Am nächsten Tag hätte ich sollen nach Bozen gehen. Da haben sie ein bisschen gefragt und nachher einen Zettel gegeben, eine Einberufung nach Schlanders zum Militär.
Dann bin ich da hingekommen. Da waren viele Bekannte aus meiner Ortschaft. “Wieso kommst du da her?” Ich habe ihnen erzählt wie es gegangen ist. Dann habe ich zwei Monate Ausbildung gemacht.
FRAGE: Wann waren diese zwei Monate?
ANTWORT: Das war vom 21. September, zwei Monate weiter dann war November. Als die Ausbildung fertig war, die anderen kamen in Einsatz in Italien unten, Belluno und mich haben sie ins Gefängnis getan. Da musste ich dann zum Bataillonskommandeur gehen und der hat mir dann einen Brief vorgelesen: “Du solltest im Juni einrücken und hast dich im Berg herumgetrieben.” Er hat gefragt ob das stimmt. Ich habe mir gedacht jetzt kann ich auch nicht mehr leugnen.
Dann sagt er: “Morgen kommst du nach Bozen auf das Kriegsgericht!” Da hat mich dann mein Wachmeister von meiner Kompanie, wo ich vorher war, nach Bozen gebracht. Da kam ich in einen großen Raum hinein. Da war ein Tisch. Dahinter saßen 8-10 SS-Männer. Das waren die Richter. Dann hat einer einen Zettel herunter gelesen, das Strafgesetz: “Für diejenigen, die den Kriegsdienst verweigern ist die Todesstrafe.” Ich habe mir gedacht: “In Gottesnamen, werde ich eben erschossen.”
Da kam es ein bisschen anders. Sie haben ein bisschen geschaut. Sie haben gemeint ich werde in Ohnmacht fallen, aber das bin ich nicht. Ich habe ihnen entgegen gelächelt. Dann hat einer einen anderen Zettel aufgeklaubt, hat das Urteil herunter gelesen. Da hat es geheißen: “Weil der Angeklagte minderjährig ist”, weil damals warst du mit 21 Jahren volljährig und ich war erst 19, “und, weil er sich freiwillig gestellt hat, wird er nicht zum Tode verurteilt, sondern zu 10 Jahren KZ Dachau.”
Im ersten Moment habe ich mir gedacht es ist noch einmal gut gegangen, dass ich nicht erschossen werde. Mit Dachau wusste ich nicht was anfangen, habe ich noch nie gehört davor.
Dann war ich wieder in Schlanders im Gefängnis drei Wochen. Nachher haben sie mich nach Dachau geführt. Das war schon ein bisschen ein harter Weg, schon der Weg nach Dachau, habe ich viel gesehen und erlebt. Als wir in Dachau ankamen, da ging gerade eine Gruppe Arbeiter heraus beim Tor, alle mager, blass. Ich habe mir gedacht was wird man da erleben müssen damit man so aussieht? Das bin ich später draufgekommen.
Ich habe müssen die Kleider ausziehen. Sie haben mich gefragt warum ich hier bin und welche Strafe ich habe, welchen Glauben ich habe. Ich habe gesagt: “Einen katholischen.” Dann sagt der SS-Mann: “Hier bei uns werden Sie einmal anders beten lernen.”
Dann wurde ich fotografiert von allen Seiten. Dann bekam ich so ein abgenutztes Hemd und Unterhose. Dann hat mich ein SS-Mann in den Bunker geführt. Das ist ein ganz langes Gebäude, links und rechts die Zellen und mitten drinnen hat er aufgesperrt und hat mir einen Schubs gegeben und hinein. Ich habe einmal geschaut. Dann war oben ein Klappfenster. Es war mit weiß überstrichen gewesen, dann ein Stockbett, zwei Betten. Es waren keine Betten da, nur… Keine Decke und gar nichts war da.
Dann wollte ich mich niedersetzen. Das war fast nicht möglich. Dann habe ich mich auf den Klosettdeckel hingesetzt und nachgedacht: “Was wird jetzt gehen mit mir?” Ich hatte schon ein paar Tage nichts mehr gegessen gehabt. Ich kam mir vor wie früher beim Bauern, vielleicht ein Schwein, den hat man auch nicht mehr gefüttert am Vormittag. Ich bin mir so vorgekommen: Heute werden sie mich aushungern und morgen wird es drüber gehen.
Dann hörte ich auf dem Gang draußen Tritte. Ich habe gehört neben meiner Zelle hat er aufgesperrt. Dann hat er geschrieen: “Sofort heraus!” Ich habe gehört, dass ein Mann auf den Gang hinausgeht. Dann hat er bei meiner Zelle aufgesperrt: “Sofort heraus!” Dann sollten wir den langen Gang putzen. Beim Eingang war ein Waschraum. Wir sollten Waschlappen, einen Eimer mit Wasser, Kehrschaufel und Besen nehmen. Ich habe mir gedacht leichter ist es mit dem Besen und der Kehrschaufel.
Da schrie mich der SS-Mann an: “Sie Faulpelz! Sie werden schon noch lehren was man zuerst anfängt!”, weil man musste immer auf das Schwerere hingehen, dann kamst du eher auf das Leichtere. Wenn sie sahen, dass du auf das Leichte gehst, bist du der Faulpelz, wolltest dich sträuben.
Dann haut er mir schon links und rechts eine herunter. Ich hatte die Kehrschaufel und den Besen und der andere einen Eimer mit Wasser und einen Waschlappen. Ich musste in die Hocke gehen und den Besen und die Kehrschaufel dem anderen lassen. Dann gab er mir einen Besen. Dann musste ich zweimal den ganzen Gang in der Hocke abhüpfen. Da war ich total fertig. Danach schnell den Gang putzen. Da musste alles im Laufschritt gehen.
Als wir fertig hatten haben wir die Sachen zurückgetragen, dann wieder in die Zelle hinein. Da hatte ich Zeit nachzudenken was ich falsch gemacht hatte. Da ging es so weiter. Zum Essen kam am Abend so eine Aluminiumschale, ein bisschen eine Krautsuppe bekommen. In der Tür war eine Luke aufzuklappen. Sie hat einen Tisch gebildet. Da hat man müssen die Schale hinstellen. Da haben sie reingeschöpft. Ich habe dies gegessen. Es war viel zu wenig. Ich strich mit dem Finger sauber aus.
Dann kam es zum Schlafen. Ich wusste nicht wo hinlegen. Auf der Holzding, der war recht lang, aber inzwischen war ein Balken durchgezogen, dass man fast nicht liegen konnte. Als das Licht ausging, habe ich mich am Boden hingelegt. Da war eine Zentralheizung mit zwei Streifen, aber bestimmt nicht zum Verbrennen. Ich habe gefroren da.
In der Früh habe ich gehört, dass man Kaffee austeilt. Dann ist das Ding aufgegangen, habe die Schale hingestellt und habe mir gedacht: Da wird schon noch ein Brot kommen. Ich stand da. Dann schrie der andere auf was ich warte, etwa nicht auf Brot? Ich habe gesagt: “Ja.” “Nein, da gibt es kein Brot.” Ich habe dann den Kaffee getrunken, es war nur ein trübes Wasser. Dann war ich da drei Tage drein in der Zelle.
Einmal nach dem Putzen des Ganges als wir fertig hatten, haben wir müssen die Sachen abgeben, dann haben wir schreien hören aus dem Bunker. Dann ging die Tür auf. Dann kamen so 8-10 Leute herein, kahl geschoren, Hemd und Unterhose. Dann haben wir gehört: “Mamma mia!” Dann haben wir gewusst es sind Italiener. Die haben sie alle zusammen in der gleichen Zelle hinein getan.
Dann kam wieder das Putzen des Ganges. Dann gingen sie bei meiner Zelle vorbei und in der nächsten aufgesperrt. Dann schrie der SS-Mann: “Sofort zwei Mann heraus!” und die verstanden nicht was er gesagt hatte. Dann ging er hinein, warf zwei Bursche auf den Gang hinaus, hat sie richtig hin- und hergeschlagen. Dann haben sie den Gang putzen müssen.
Von nun an haben dann müssen die Italiener den Gang putzen. Nach drei Tagen habe ich Kleider bekommen. Das wird nicht ein gestreiftes Kleid, sondern ein italienisches Militärgewandt. Dann kam ich in eine Baracke hin. Da waren für vier-fünf verschiedene… Wie sagt man? Franzosen, Schweizer, Russen, eben verschiedene.
Dann kam Weihnachten. Wir haben gesagt ob wir vielleicht etwas spielen für Weihnachten. Ja, da wurde sogar ein kleines Bäumchen aufgestellt und ein paar farbige Papierfetzen drangehängt.
FRAGE: Hatten Sie eine Matrikelnummer bekommen in Dachau?
ANTWORT: Nein. Wir waren vom großen Lager ein bisschen abgeschlossen. Für uns war vorgesehen wir kommen in ein Außenlager und wir hatten Frontbewährung, d.h. wenn es uns braucht kann man uns auch an die Front schicken. Wir bekamen nicht das gestreifte Gewandt.
FRAGE: Hatte Ihre Baracke eine Nummer?
ANTWORT: Nein, das war ganz separat im Bunkerbau angebaut.
FRAGE: Neben der großen Mauer des KZ?
ANTWORT: Schon drinnen, hinter der Mauer. Da sah ich wie die Umzäunung ausgeschaut hat. Zuerst war ein Wassergraben und Wasser drinnen. Dann war ein Stacheldraht, Rollen. Dann ist die Mauer gewesen und mit oben hinauf auch Stacheldraht. Das war mit Starkstrom alles, weil da abhauen das gab es nicht, keine Möglichkeit.
Dann hat es geheißen am 27. kommen wir in ein Außenlager nach Hersbruck. In der Früh hat es geheißen: “Alles packen zum Abtransport.” Wir hatten nicht viel zu packen, die Essschale und den Löffel und eine Decke, nein, keine Decke. Da haben sie uns in einen Viehwagon hinein gepfercht, haben die Türen geschlossen. Auf der Seite oben war ein ganz kleines Fenster vergittert.
Dann fuhren wir los. Wenn einmal Fliegeralarm war hat der Zug gehalten. Uns haben sie irgendwie auf die Seite geschoben. Wir haben manchmal einen halben Tag gewartet, eine halbe Nacht oder eine ganze Nacht. Dann ging es wieder weiter. Ich glaube, wir haben zwei Tage und eine Nacht gebraucht nach Hersbruck zu kommen. Da kamen wir abends an. Es hat geschneit.
Dort haben sie schon auf uns gewartet, die SS-Leute. Wir sind ausgestiegen. In 3er Reihen mussten wir steil über einen Weg hinauf und es sollte immer schnell gehen, die SS-Männer hinter uns mit den Gummiknüppeln oder Gewährkolben. Wir sind eine Zeit lang gegangen, geregnet, geschneit. Wir waren ein bisschen fertig schon. Wir haben eine Nacht nicht mehr geschlafen, kein Essen. Wir haben schon Marschverpflegung bekommen, ganz wenig. Das hat jeder schon gleich aufgegessen. Wir sind hinauf. Dann sahen wir auf der Seite Lichter. Dann werden wir da hinkommen.
Nein, da sind wir vorbei. Dann kamen wir in einen Graben. Da war ein großes Haus. Da war ein kleiner Bach. Wir mussten über eine Brücke gehen. Da hat dann jeder vierte einen kleinen Laib Brot bekommen. Das war zu teilen gewesen für vier Mann. Da hat man müssen aufpassen wo der Mann mit dem Brot hingeht, sonst wärst du leer ausgegangen. Wir sind da hingekommen.
Ich bin dann in dem großen Haus da, mich hat man in den zweiten Stock hinauf. Es war schon nach drei Uhr. Dann haben sie Licht gemacht. Da waren dreistöckige Bridgen. Die anderen, als wieder Licht war, hat der eine und der andere ein bisschen herunter geschaut, und schreit: “Franz, bist du jetzt auch hier?” Ich war mit dem in Schlanders im Gefängnis. Mich hat es gefreut, dass da auch Bekannte sind.
Dann haben sie mir eine Bridge gegeben, habe mich können reinlegen. Es war ein ganz dünner Strohsack und eine Decke zum Übernehmen. Ich habe die Decke genommen, habe mich nieder gelegt, habe die Decke übergenommen, habe das Kleid ausgezogen, auch über die Decke gelegt. Da war ich so müde. Ich habe gleich geschlafen.
In der Früh gingen große Pfeifen. Da musste alles schnell heraus aus den Bridgen zum Abwaschen. Man hat müssen das Hemd ausziehen und in den Waschraum hinunter. Alles gut gegangen. Am nächsten Tag wieder dasselbe. Da war ein Italiener, er war um ein Jahr jünger als ich, der in der Eile vergaß das Hemd auszuziehen. Dann kam er mit dem Hemd im Waschraum unten an. Da haben schon SS-Männer gewartet sollte jemand mit dem Hemd an kommen, dann fehlt es.
Der Italiener hat müssen die Hose und alles ausziehen. Sie haben ihn mit einem Schlauch und eiskaltem Wasser abgespritzt und ein anderer mit einer groben Bürste abgerieben bis er blutig rot war. Dann haben wir den nie mehr gesehen. Wir haben uns gedacht er wird zu Grunde gegangen sein.
Am nächsten Tag wieder einmal Visite. Ich habe müssen erzählen warum ich hier bin und wie lange. Dann wurden wir noch gewogen. Ich hatte noch 45 Kg. Bevor ich mich gestellt habe, habe ich 69 Kg gewogen.
FRAGE: Habe ich richtig verstanden? In Hersbruck wurden Sie gewogen?
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Von der SS?
ANTWORT: Ja. Nein, da waren schon auch Häftlinge. Ich habe mir gedacht: Weiter runter kann es nicht mehr gehen. Es ging aber noch viel weiter hinunter. Durch die schwere Arbeit, das schlechte Essen, in der Früh das trübe Wasser ohne Brot, ohne Zucker, zu Mittag Krautsuppe oder vielleicht einmal eine Erbsensuppe oder wenn es ganz gut gegangen ist zu Ostern hat man drei Pellkartoffeln bekommen, wenn es kleinere waren drei, wenn es größere waren zwei. Da hat man nicht die Schale herunter getan. Man bekam noch einen Löffel. Das hat man alles zusammen gegessen. Das war das gute Essen.
Ich kann mir das heute nicht mehr vorstellen mit dem Essen und die Arbeit noch. Man hat getan was möglich war um zu überleben.
Mich hat es gefreut, es waren ziemlich viele Italiener bei mir, Italiener, Kroaten, meistens Italiener, da habe ich ein bisschen Italiener gelernt. Mein bester Kollege war einer von der Trientner Gegend. Er schrieb sich Filz, Filzi, glaube ich, Giovanni Filzi.
Mehrer reden durften wir nicht bei der Arbeit. Nur als wir in das Lager der Baracken kamen, hatten wir vielleicht eine halbe Stunde frei. Da durften wir zusammen reden. Was redest du dann? Wie wird das weiter gehen? Man hat über das Essen gesprochen. Das war das Erste immer. Alle haben so einen Hunger gehabt.
FRAGE: Was für eine Arbeit machten Sie?
ANTWORT: Ich war im Steinbruch.
FRAGE: Kamen Sie zu Fuß zum Steinbruch?
ANTWORT: Zu Fuß. Ungefähr 10 Minuten zu Fuß zum Steinbruch. Da haben wir uns selber ein nahes Lager gebaut. Es war halb fertig als wir da ankamen. Wir mussten die Steine herrichten.
Ein gefangener Franzose hat mit einem Pferd und einem Schlitten die Steine zum Lager hingefahren. Das war eine harte Arbeit ohne Handschuhe. Die schneeigen Steine… Es war hart. Wir hatten schlechte Schuhe, ohne Socken. Man hat den ganzen Tag im Schnee herum müssen.
Ganz schlimm war in der Früh als man aufstand, da musste man in die gefrorenen Schuhe barfuß hineinschlüpfen. Es war kein Vergnügen. So ist es weiter gegangen.
Dann bekam ich die Krätze. Das ist eine Krankheit. Das fängt zwischen den Fingern an. Das habe ich auf dem ganzen Körper bekommen, alles ein Geschwür, der ganze Körper. Wenn man gedrückt hat ging Blut und Eiter heraus. Ich wurde immer schlechter und das war eine ansteckende Krankheit. Da haben mich die besten Kollegen gemieden. Das habe ich dann nicht mehr vertragen.
Ich habe zum Capo gesagt: “Bitte, möchten Sie mich morgen krank melden.” Man hat sich nicht gerne krank gemeldet, weil wenn man zu wenig krank war, der hat drauf gezahlt. Ich habe es nicht mehr ausgehalten. Es war noch ein Italiener, fast mit derselben Krankheit. Wir sind hingekommen am nächsten Tag. Da war ein SS-Mann hinter dem Tisch. Wir haben ausgezogen gehabt. Dann schaut er mich an. Was mir fehlt? “Das sehen Sie doch.”
Dann hat er mich von unten bis oben angeschaut: “Sie Schwein! Warum haben Sie es nicht früher gemeldet?” Dann war ich entlassen. Dann kam der nächste dran. Den hat er gleich angeschrieen. Dann hat man uns mit einer Flüssigkeit bestrichen, den ganzen Körper. Man hat ausgesehen wie ein Kochöl ungefähr.
Wir mussten dann wieder zur Arbeit gehen. Nach einer Woche waren wir fast heil. Da habe ich wieder Mut bekommen zum Weiterleben. Da ging es so weiter. Einmal in der Früh habe ich so einen Schüttelfrost bekommen. Ich habe mir gedacht krank melden kann ich mich nicht. Dann habe ich mir gedacht wenn ich einen warmen Kaffe bekomme und warmes Wasser werde ich schon wieder warm bekommen. Dann bin ich zur Arbeit hin. Ich musste dann immer wieder austreten. Ich hatte die Ruhr. Das ist, eben immer auf die Toilette gehen. Der Magen, ging alles nach außen.
Das hat der Arbeitskapo gesehen. Ich habe immer fragen müssen. Dann war ein SS-Mann, der schrie mich an: “Willst du dich vielleicht von der Arbeit drücken?” Der Capo von der Arbeit hat gesagt ich brauche nicht mehr arbeiten, darf mich hinsetzen. Ich habe trotzdem immer wieder müssen austreten. Zu Mittag haben wir immer zur Baracke zurück müssen um zu essen.
Da habe ich zum Capo gesagt es geht nicht mehr, er soll mich krank melden. Dann brachte mir einer einen Fiebermesser. Ich hatte ein Stück über 39 Grad Fieber. Dann war ich für das Krankenrevier tauglich. Dann kam ich dahin. Es waren schon drei Männer in der Bridge. Ich habe nicht gekannt: Leben sie noch oder nicht mehr. Sie haben ausgeschaut blass. Da hat man nur von Lebenden und Toten den Unterschied gekannt durch das Atmen und die suchenden Augen tief drein.
Dann am Abend war ich ganz schlecht beisammen. Man hat uns eine Suppe gebracht. Ich war so schwach. Ich war nicht mehr im Stande die Suppe zu essen. Mein Nachbar hat es schon ein bisschen überstanden gehabt, hat immer auf meine Suppe geschaut. Ich habe gesagt: “Die kannst du essen. Ich schaffe es nicht.”
Das war mein Geburtstag. Der 6. März. Ich habe mir gedacht jetzt wird es am Ende sein, in Gottesnamen, schlafe ich ein und wache nicht mehr auf. Dann verlor ich das Bewusstsein. Am nächsten Tag als ich aufwachte ging es ein bisschen besser. Dann habe ich die Hälfte von der Suppe gegessen dann. Da ging es langsam aufwärts. Dann kam eine Krankenschwester. Sie hat uns einen Löffel voll gemahlene Kohle gegeben. Das war die Medizin gegen den Durchfall. Dann hat sie uns Blut abgenommen, für was weiß ich heute noch nicht.
Das nächste Mal kam eine andere Schwester vom Roten Kreuz. Ich weiß nicht war es eine Schwester vom Roten Kreuz oder nicht. Sie sollte uns Blut abnehmen. Sie hat vier-, fünfmal die Ader abgefehlt, nicht getroffen. Dann ging sie zum nächsten. Da war dasselbe. Dann bekam sie ein bisschen einen roten Kopf und ging fort. Dann kam wieder die andere. Es war eine alte, die hat überhaupt nicht gesprochen. Die hat es schon gemacht.
Ich habe vorher etwas vergessen. Da haben wir die Krankenschwester gebeten… Ich musste wieder austreten. Ich habe mir gedacht: Wie mache ich das? Ich bin nicht im Stande. In dem Moment ging es schon in die Hose. Man konnte niemanden rufen um vielleicht auszuräumen. Dann lag ich im eigenen Kot.
Am nächsten Tag haben wir die andere Krankenschwester gefragt ob sie uns einen Nachttopf bringt. Ja, hat sie uns gebracht. Wir sind trotzdem nicht raus gegangen. Im eigenen Kot haben wir liegen müssen.
Dann ging es ein bisschen aufwärts. Am dritten Tag in der Früh habe ich gesehen, dass zwei Männer weg sind. Ich habe meinen Nachbar gefragt was mit denen los gewesen ist. Er weiß nicht waren sie tot oder haben sie sie sonst weg, wahrscheinlich waren sie tot. Dann waren wir 16 Tage im Krankenrevier. Dann hat es geheißen wir müssen wieder zu den Arbeitern zurück.
Mit der Decke unter dem Arm, dem Löffel und der Essschale in der Hand sind wir… Einerseits sind wir gerne zu den Kollegen zurück gegangen, aber andererseits hatten wir schon wieder Angst vom normalen Lagerleben was alles passiert ist. Wir waren so schwach, gerade so, dass wir stehen haben können und ein bisschen gehen.
Dann haben wir nicht mehr zur Arbeit gebraucht hinaus in den Steinbruch, aber im Lager waren so verschiedene Arbeiten zu tun. Es war ein Franzose und ein Deutscher. Sie hatten auch kein Interesse uns zu sekkieren. Wenn wir genug zum Essen hätten bekommen, hätten wir uns schneller erholen können. Es war damals schönes Wetter, die Sonne hat geschienen. Es war so Ende März.
Wenn wir genug zu essen bekommen hätten, hätten wir uns können erholen, aber leider war das Essen schlecht. Dann hieß es wir kommen wieder nach Dachau zurück. Da kam die Front immer näher, die Amerikaner. Da haben sie die Lager geräumt. Ich weiß nicht mehr genau, am 4., 5. April hat es geheißen: “Packen zum Abtransport nach Dachau zurück.” Das war auch eine schlimme Fahrt.
Es kamen immer wieder die Tiefflieger, die Amerikaner. Wenn sie einen Zug gesehen haben, haben sie meistens herunter geschossen. Ich weiß einmal, da haben wir austreten müssen, haben an die Wand geklopft. Da haben sie herein geschrieen: “Scheißt hin wie ein normales Schwein!” Jeder wo er gestanden ist hat er hingemacht. Es war ein Gestank.
Einmal waren wir beim Essen, haben wir können aussteigen, haben wir ein Essen bekommen. Während wir raus sind kommen wieder die Tiefflieger, sind sie vorbei gewesen, haben aber gerade gesehen, dass da etwas los ist. Dann haben sie umgedreht und sind die gleiche Richtung her. Da auf einer Straße standen vielleicht 5-6 SS-Männer. Dann haben sie auf die hingeschossen.
Zwei waren schwer verletzt, haben wir gesehen, und ein paar weniger verletzte haben sie in den Wagon hinein getan und wir schnell wieder in den Viehwagon hinein. Dann ging es wieder weiter.
FRAGE: Leider geht die Zeit sehr schnell weg. Wir haben noch fünf Minuten. Können Sie uns erzählen wo Sie befreit wurden? Wann? Was geschah nach der offiziellen Befreiung für Sie?
ANTWORT: Es kam der 29. April. Wir haben schon immer die Front… schießen gehört und alles gesehen. Wir hatten uns gefreut, dass die Amerikaner jetzt kommen, aber wir hatten noch Angst was würden sie mit uns machen bevor sie uns frei lassen?
Da kam der 29. April. Der Wachmann ist ein bisschen verschwunden. Dann haben wir uns gedacht, ich und zwei Passeirer und etliche Italiener, jetzt schauen wir in der Küche. Es war nirgends eine Wache.
Es hat einer geschaut: “Schauen wir ob das Lagertor offen ist.” Wir sind hin, ja es war offen. Wir sind beim Lagertor hinaus, da kamen wir ins SS-Lager hinaus. Das war ganz falsch. Ich denke mir da herum auch etwas zum Essen suchen. Wir haben nichts gefunden.
Da sind wir in eine Baracke hinein. Da war SS-Bekleidung. Da hat einer gesagt: “Tauschen wir unsere verlausten und schmutzigen Hemden aus.” Gesagt getan. Während wir das gemacht haben kamen zwei Amerikaner bei der Tür herein, haben uns gewunken wir sollen mitgehen. Dann sind wir mitgegangen. Wir haben ihnen entgegen gelächelt. Das sind ja unsere Befreier! Wir gingen ein Stück hinaus. Da war ein großer Hof, ein großes Tor. Wir haben gesehen da haben sie eine menge SS-Leute erschossen gehabt, die Amerikaner.
Wir haben uns gedacht: Recht geschieht euch! Dann ging es vielleicht noch 25 Meter weiter. Da haben sie uns an die Mauer hingestellt, mit dem Gesicht zur Mauer, den Händen über dem Kopf zusammen. Wir haben uns gedacht jetzt machen sie es gleich wie wir die anderen vorher gesehen haben. Wir sind eine Zeit lang gestanden.
Da sind zwei-drei amerikanische Offiziere gewesen und ein paar Soldaten. Es hat geheißen: “Hände herunter und umdrehen!” Sie haben beraten was sie mit uns machen. Wir sind halb SS-bekleidet gewesen und halb Sträfling. Wir sind dann davon gekommen mit dem Leben. Dann haben sie uns nicht ins Lager zurück, sondern zu den Gefangenen, den deutschen Soldaten. Da haben wir am sechsten Tag das erste Essen bekommen.
Da habe ich noch einmal aufgegeben. Ich habe meine Kollegen verloren, die Passeirer. Da hat es geregnet und geschneit. “So” tief war Kot gewesen. Man hat sich nicht können hinlegen. Am 5. Tag habe ich mir gedacht ich packe es nicht mehr, ich lasse mich fallen, einschlafen und nicht mehr aufwachen. Die Passeirer haben mich gesehen, haben gesagt: “Franz, steh auf! Da gehst du zu Grund!” Ich habe gesagt: “Es geht nicht mehr.”
Sie haben mir aufgeholfen: “Doch, es wird schon gehen!” Ich habe mir gedacht nach Hause käme ich gern wieder. Ich glaube nicht mehr recht. Die anderen: “Doch. Das werden wir schon. Jetzt sind wir soweit.” Dann hat es geheißen morgen bekommen wir bestimmt etwas zum Essen. Ich habe mich gefreut: Vielleicht stimmt es, dass wir etwas zu essen bekommen.
Ja, es ist dann gegangen. Am nächsten Tag haben wir gesehen Lastwagen vor dem Lager herum, es war alles im Freien, haben Kartons abgeladen, haben angefangen auszuteilen, zwei kleine Dosen. In einer waren Bohnen, ein bisschen Öl und in der anderen Dose waren ein paar Kekse, ein paar Bonbons. Ich war der Letzte. Ich habe immer geschaut. Vielleicht reicht es für mich nicht mehr?
Doch! Es hat gereicht. Ich habe mich hingesetzt im Schneidersitz, angefangen zu essen, geweint. Dann ist es wieder aufwärts gegangen. Ich bin noch vier Monate in amerikanischer Gefangenschaft gewesen. Wir haben wenig zu essen bekommen, aber was wir bekommen haben war gut.
FRAGE: In welchen Lagern, in welchen Städten wurden Sie in diesen vier Monaten…
ANTWORT: Zuerst ein Monat in Deutschland in verschiedenen Lagern, immer im Freien, nachher in Frankreich in einem großen Gefangenenlager. Dort haben sie diejenigen, die krank oder schwach waren, separat ein Zelt… Dort waren große Zelte. Ich kam dort in ein Krankenzelt hinein.
Da ging es ein bisschen besser dann.
FRAGE: Die letzte Frage. Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: Am 19. August.
FRAGE: Des Jahres?
ANTWORT: 1945.
FRAGE: Haben Sie sich gewogen?
ANTWORT: Als ich vom Lager herauskam habe ich mich bald einmal gewogen. Da wog ich noch ganz wenig über 30 Kg, vielleicht 31 Kg ungefähr.

Bocchetta Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Nato a Sassari il 15.11.1918. Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti. Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino a Verona, dove sono stato interrogato e torturato. Poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle Carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo, e dove ho subìto altri interrogatori dalle SS. Da lì, insieme ai miei compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD. Dalle celle di quel sotterraneo, insieme ad altri prigionieri che ho trovato già lì, e che erano stati torturati, sono stato condotto al Campo di concentramento di Bolzano; insieme con questi compagni, considerati pericolosi, siamo stati chiusi nel blocco E. Dal blocco uscivamo solo per un’ora al giorno, a prendere aria; vi siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi è stata fucilata. Un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dal blocco: insieme ad altri circa 450 detenuti a Bolzano siamo stati caricati su un vagone, su cui eravamo in circa 130/150 ed era uno di quei famosi carri bestiame delle ferrovie tedesche che ci ha condotti in Germania, al Campo di Flossenbürg. Alla stazione di Flossenürg siamo usciti e ci siamo incamminati verso questo famoso campo, di circa 75.000 prigionieri; siamo stati consegnati alle torture e alle note sevizie dei campi di sterminio nazisti, a Flossenbürg.

D: Lungo il tuo tragitto sul vagone piombato è successo qualcosa di particolare a te e ai tuoi compagni?

R: Sì, nel pavimento del vagone io ed un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per poter scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri prigionieri, dagli anziani, che ci hanno impedito la fuga, o meglio il tentativo di fuga, perché si poteva anche morire, visto che si doveva scendere in mezzo alle ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, ed accettare le sorti imposte adesso non dalle SS ma dagli stessi compagni. Da lì, dopo un paio di giorni, il treno si è fermato: noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo non aveva niente, eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, e non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso. Il treno si è fermato un paio di giorni dopo la partenza, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua, l’unica cosa che abbiamo visto. Dopo non so quanto tempo, dopo 2 o 3 giorni, siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per 5 fino al piazzale del Campo, dove abbiamo visto la grande caserma della SS, tuttora esistente, e dove si apriva il Campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non un campo di sterminio. Infatti sul pilone sinistro del cancello d’entrata, c’era una placca con scritto “Arbeit macht frei”. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino ma siccome il nostro gruppo era già stato condannato a morte, il nostro destino sembrava migliorare con queste parole; andare a lavorare voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte perché sono morti ugualmente di stenti e di percosse e di sevizie nei primi 2 mesi. Io mi sono salvato con un altro, per la mia età e anche per una serie di circostanze. La delusione della speranza dell’Arbeit macht frei viene stroncata subito, perché alla sinistra del campo ho visto una colonna di sciagurati vestiti malamente, erano di stracci quei vestiti, se si vogliono chiamare vestiti, questi indumenti zebrati, a righe; caricavano delle grosse pietre. La scena è stata forte, anche se poi abbiamo visto molto di peggio. Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Da lì siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, con una scala di ferro che scendeva. Prima di scendere queste scale, che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti. Con me c’erano persone che stimavo molto: c’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni e molto austere, e questa austerità è stata, credo, eliminata con un colpo di spugna, solamente con la spoliazione e con la rasatura di tutti i nostri peli, in tutte le parti del corpo, e con l’ispezione fisica. E poi, una volta nudi e puliti, siamo stati spinti lungo queste scalette e siamo entrati nella cantina, che era uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di dèmoni, che avevano dei pezzi di gomma, Schläger o Gummi si chiamavano e li usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate le grida furibonde di questa gente che non diceva parole ma urlava, urlava in una maniera sconnessa, ci terrorizzava. Siamo stati spinti come anime dell’inferno, e questo provocò panico e caos tra di noi.

Ecco già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza: l’uno contro l’altro, una grande confusione, le grida che continuavano finché non si sono aperte le docce; le percosse sono continuate, completamente irrazionali, senza nessuna logica in apparenza, perché in realtà la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a farci scrollare di dosso la nostra personalità e la comunione tra di noi, quello di disorganizzarci, e soprattutto di spaventarci e di annullare la nostra volontà. Cosa che è avvenuta puntualmente. Finalmente chiusa l’acqua, siamo stati spinti in un altro capannone dove abbiamo avuto il primo silenzio dopo queste grida, questa cosa terribile tra l’acqua e le nostre stesse grida. Nel secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultimo possesso che avevamo e che erano la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, ci hanno dato un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini, cosa molto strana perché era roba italiana, poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli: erano una specie di ciabatte con la suola di legno. Abbiamo avuto la nuova personalità, abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo. Eravamo circa in 450 dal Campo di Bolzano. Siamo partiti anche con le donne, ma siamo stati separati appena arrivati al campo, quindi non sappiamo che sorte loro abbiano avuto. Con la perdita della nostra persona abbiamo cominciato ad avere anche i primi soprusi, cioè i capricci del kapò, che era un caporale. Il primo kapo che abbiamo avuto era un caporale, non so se era delle SS; aveva l’uniforme militare tedesca, ed era, credo, un caso patetico di pazzo, perché ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata baracca di quarantena. E’ una cosa molto strana che si faccia la quarantena in un campo dove tutti sono destinati a morire in breve tempo; credo che la morte violenta arrivasse molto prima della morte per epidemia. Questo forsennato non ci diede possibilità per giorni e giorni di dormire. Noi venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove eravamo circa 400/450, adesso il numero non lo so, ma eravamo in soprannumero. I posti nella baracca saranno stati un centinaio, intendo i posti per dormire, cioè questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche il fatto di non destinarci con ordine, anche questo era studiato perché serviva proprio alla lotta tra di noi, all’istinto di occupare il posto non si sa contro chi o per chi. In queste cuccette poi, una volta riempite e pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare non dico riposo ma quiete, tornava dopo qualche minuto il caporale: “Raus!” e ci faceva uscire. Poi restavamo fuori, faceva molto freddo, ed eravamo appena in settembre. Abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni, stavamo fuori mezz’ora, un’ora, al freddo, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e ci faceva uscire. Così per diversi giorni.

Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro: un paio di giorni dopo il nostro arrivo, il caporale ci ha fatto uscire, ci ha fatto mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che li avevano il dente o i denti d’oro, poi raccolti in una latta. In quelle occasioni c’è stata un’altra vicenda interessante e nuova per me, quella che poi si chiamò, non so come si chiamava allora, la “stufa umana”. Avevamo avuto una bufera di neve, un freddo intenso, e non so se per istinto, visto che eravamo tutti “nuovi”, o perché qualcuno lo abbia indicato o che altro, ma quando ci buttavano fuori dalla baracca, e dovevamo correre e formare un circolo, intorno a questo circolo dal centro ancora ancora e ancora, formavamo tutti un circolo – come di buoi muschiati – per ripararci dal freddo. Quindi “stufe umane” in quanto quelli che stavano nel centro si proteggevano dal freddo. E lì ho visto i primi morti, morti di freddo; i più anziani sono caduti lì. In questa quarantena, che è durata poi solo 20 giorni, ho visto la peggiore delle esperienze che si possa avere nell’anima, diciamo così, perché mi sono reso conto dell’assuefazione alla morte della gente del campo, e parlo non solo dei kapò e del caporale, ma di tutti. La baracca di quarantena era su una specie di altopiano, chiusa su tre lati, mentre il quarto lato dava su una scarpata: sotto la scarpata c’era quello che sapevamo chiamarsi il crematorio. Nella nostra cultura il crematorio allora non era concepito, e ci sono voluti molti anni, ed anche questioni religiose, per capirlo, ma non è stato tanto il crematorio di per sé a spaventarci quanto l’odore costante, il fumo che ci entrava nelle narici e che a me è rimasto per moltissimi anni, questo odore di carne bruciata. Queste sono state le prime emozioni.

Ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo, entravano di continuo degli “zebrati puliti”: così chiamavamo quelli che erano addetti a lavori non sporchi, ed erano coloro che abbiamo poi chiamato “monatti” ovvero 2 che portavano delle barelle. Entravano con delle barelle vuote, accompagnati da questi spettri, figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne, scheletri coperti di pelle, teschi non morti ma ancora vivi, però non vivi, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria, occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, ma non vedevano, erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti, ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente – anzi quasi sicuramente – incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina. E’ un eufemismo per quello che era considerata una latrina: era una buca scavata per una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera. Nel mezzo di questa buca c’era un sostegno, e bisognava appoggiarvisi per non caderci dentro; qui si gettavano le nostre viscere. Vicino a questa latrina venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surreali, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi. Poi veniva un monatto specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quella che era la gerarchia del campo: c’erano “i puliti” e “gli sporchi”. Pigliavano una manichetta di acqua gelata e irroravano di continuo questi corpi. Insomma molti morivano lì, anche se la morte cerebrale era già sopravvenuta in precedenza. Poi, quando dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo camminare su questi corpi e, per evacuare, dovevamo attaccarci a questa trave. E’ lì che ci siamo abituati alla morte, perché abbiamo cominciato ad ancorarci, per non cascare nella buca, ai piedi o sulle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti, sempre con le lettighe vuote, le riempivano di 2/3 corpi e vedevamo che li portavano lungo questa specie di sentiero serpeggiante dall’orlo della scarpata verso il crematorio. Qualcuno l’ho visto che aveva ancora dei movimenti, però non credo che fosse vivo; forse erano le ultime contrazioni, o forse erano davvero ancora vivi. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati sul pavimento del crematorio; c’erano delle vasche in cui venivano preparati, spogliati, quelli che non erano già spogliati, e poi messi nel forno. Di forno ce n’era uno solo, e lavorava continuamente, notte e giorno, con esalazioni terribili; serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75.000 anime, se anime si possono chiamare. Questo è stato il battesimo del KZ tedesco, nazista. La quarantena si ridusse ad una ventina di giorni. Dopo una ventina di giorni di tortura – perché questo “Raus, weg, raus” – dentro fuori dentro fuori – è continuato per 20 giorni, abbiamo perduto i primi compagni.

Finalmente, un giorno siamo chiamati all’appello e portati nella piazza dell’appello con una nuova, chiamiamola se vogliamo, vita. Ora, mi domando: che cosa c’entra la quarantena in una città di morti, in una città di gente destinata a morire il più presto possibile? Non solo la gente è destinata a morire ma la stessa morte è calcolata in maniera scientifica perché la vita duri 3 mesi. A noi era dato cibo corrispondente a 180 calorie giornaliere, calcolato esattamente per 90 giorni, 90 giorni di vita e di lavoro d’inferno; quindi non era più una questione né di punizione né di condanna, era già tutto un calcolo di eliminazione.

Ecco la parola “sterminio”.

Io mi sono domandato molte volte: questa che noi chiamiamo morte, e che ancora costituisce la principale ragione del nostro muoverci e del nostro pensare, questa paura della morte cosa era arrivata a costituire – non dico per il popolo tedesco che vedeva la morte tutti i giorni dagli aerei dai bombardamenti, dai figli che morivano su tutti i fronti – ma per i nazisti che custodivano questo campo? Arriviamo all’assuefazione alla morte; il concetto della morte è stato superato così da arrivare a concepire qualcosa che potesse compensare questo concetto della morte; mancava un brivido, mancava un’emozione. Questa gente era veramente senza anima, e questa emozione veniva probabilmente ricreata con la tortura, con questi 3 mesi di vita. Infatti noi sapevamo che eravamo stati condannati a morte e che la morte era il nostro destino: perché allora non ucciderci subito? Perché quei 3 mesi erano il concetto massimo della punizione: dovevamo essere non eliminati ma puniti, perché eravamo i loro nemici. Questo è stato il programma dei campi di concentramento nazisti.

D: Vittore, dopo la quarantena a Flossenbürg, cosa succede?

R: La mattina di cui ho parlato siamo usciti dalla quarantena, siamo entrati in questo piazzale, dove ci hanno radunato; ci hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, visto che si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra – cioè sembrava che ci venisse offerta una via di scampo. Sono stato io – ed anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire al nostro gruppo del CLN di Verona di non piegarci, di non andare a costruire le bombe che bombardavano e le munizioni che uccidevano i nostri concittadini e i nostri paesi. Abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi c’era Guglielmo Bravo, un geniale meccanico che poi mi morì tra le braccia un paio di mesi dopo. In quel momento poteva essere un atto di protesta, che però pian pianino svanì, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata al punto di superare le persone e le amicizie; l’amicizia ad un certo momento veniva tolta. Comunque, su questa piazza ci hanno denudato e ci hanno attribuito, a seconda del nostro fisico, ad una di 3 categorie (1, 2, 3), scrivendo i numeri sul petto, con un inchiostro rosso. Da lì hanno portato noi che avevamo il numero 3 – tra cui io ed un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte – a Hersbruck. Hersbruck era un qualche cosa che la stessa Germania sta scoprendo ora. Hersbruck era un campo di lavoro. Hersbruck era un campo aperto nell’agosto del 1944 che ha avuto 8 mesi di vita perché è stato chiuso nel marzo del 1945; era un campo fatto per ospitare – diciamo ospitare – 5.000 individui. La forza del campo non ha mai raggiunto il numero di 4.000. Nel giro di 8 mesi sono morti circa 20 mila uomini: 10 mila sono morti a Hersbruck, e altri 10 mila, se non di più, moribondi non ancora morti, venivano portati al crematorio di Flossenbürg, poiché Hersbruck non aveva crematorio. Quindi i corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto; rimasero congelati per l’intenso freddo dell’inverno, e vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, cioè poco prima dell’evacuazione del campo: vennero bruciati nei boschi di Happurg, vicino a Hersbruck. A Happurg c’era appunto il lavoro, che consisteva nello scavo di enormi gallerie, che non sappiamo a cosa sarebbero servite; perlomeno certamente noi non potevamo saperlo. L’inferno di Hersbruck non è indicato solo dalla morte di 10 mila persone, da questo avvicendarsi continuo, da questa morte costante che era come una mitragliatrice di morti. Anche lì l’assuefazione era totale, non c’era più differenza tra vita e morte; anche fra noi, quando moriva un nostro compagno, una volta morto non esisteva più. Forse qualcuno rimaneva oggetto anche utilitario di scambio di speranze, di cose fra di noi. La grande imperatrice, la grande torturatrice era la fame, una fame che non si può descrivere, una fame, come una malattia. La fame era diventata padrona assoluta di tutte le parti del nostro corpo, anche del pensiero: la fame era fisiologica, il desiderio di vivere era psicologico, se si può chiamare desiderio perché c’era addirittura indifferenza; però non ho mai assistito a dei suicidi. Si vede che la spes ultima dea fa parte del processo biologico della nostra vitalità. Qui ho visto morire ad uno ad uno i miei compagni: per la maggior parte mi sono morti nelle braccia. La fame con le torture, ma più che le torture l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, mors tua vita mea, le torture fatte da questi che erano in maggioranza polacchi, ucraini, da questi kapo, il cui bisogno di sopravvivere arrivava ad estremi di crudeltà inenarrabili; poi ognuno di loro a sua volta soccombeva davanti a uno più crudele. Come dico e come ho detto, ho visto morire personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia, migliaia di persone.

Appena arrivati al campo di Hersbruck, subito siamo stati messi in colonna; ci hanno dato la baracca 14, quella degli italiani; poche ore dopo ci hanno fatto mettere in colonna, uscire dal campo, attraversare con gli zoccoli – con questa specie di zoccoli – seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo come due file di case. I tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, soldati che abitavano fuori del campo, e insieme a loro c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due, tre cani. I cani venivano allenati con queste marce; lo posso dire con certezza perché venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa 6/7 chilometri, accompagnati da questi cani che erano delle bestie feroci, ed arrivavamo in un luogo in cui ci aspettava un altro dei soliti treni. Salivamo su questi vagoni; ci stipavano in maniera che non si poteva mettere un capello fra di noi, tant’è vero che ho imparato a dormire in piedi nel corso di quei circa 40 minuti del tragitto del treno, per 7/8 km. Questa era la distanza – una quindicina di chilometri tra Hersbruck e Happurg. A Happurg c’era il lavoro. Bisognava scendere dal vagone, salire o meglio inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi; si arrivava su spiazzi, su specie di terrazze, dove c’erano gli ingressi delle gallerie. In questi spiazzi ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: BMW, Siemens, Junker ed altre marche che ora non ricordo, scritte sulle gru, macchine enormi. E lì c’erano ingegneri tedeschi; ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre manciare niente lavorare”, secondo il concetto che avevano dell’Italia. Infatti ci riconoscevano appunto dalla “I” che avevamo sopra il triangolo rosso.

Qui ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto l’opportunità di scegliere tra prendere picco e pala oppure il Transport; stupidamente ho scelto il Transport. Non mi ero reso conto che ero un po’ troppo alto per quel lavoro: dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle. Ricordo che il primo peso è stato un’enorme bombola di gas. A 3 di noi hanno ordinato di portare questa bombola; io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate perché gli altri si abbassavano a loro volta, e così il peso ricadeva su di me; era una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo. Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck. C’è un particolare molto interessante: nessuno – che io abbia visto – dal campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. In testa avevamo la Lagerstrasse, ci rasavano una volta alla settimana, ogni 10 giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli con una striscia in mezzo alla testa che noi chiamammo Lagerstrasse. Serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti ed anche in caso di fuga. Tre prigionieri russi tentarono la fuga, furono sorpresi e presi, condannati all’impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck: noi siamo stati obbligati ad assistere per garantire che non saremmo scappati. Tutto il sistema era terrore, e anche questo ne faceva parte. Ho visto morire i 3 russi con un’indifferenza che aveva colpito anche me, che avevo già assorbito cose orribili; tuttavia in questi 3 russi c’era una specie di scherno; pensavo che non fossero spaventati solo per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati e poi hanno fatto diverse altre esecuzioni. Dicevo che i corpi dei morti venivano accatastati in una baracca. Verso la fine di questa odissea, io ricordo che, in un giorno d’inverno, sono riuscito ad avvicinarmi ad una di queste baracche. Ho avuto la malasorte, in questi miei 7/8 mesi nel campo di Hersbruck, di vedere le vicende più importanti di questo campo, tanto è vero che ero diventato un esperto del campo: sono stato uno di quelli che ha resistito di più. Ho visto appunto il trasporto di questi morti, accatastati, levati da questa baracca, messi su dei camion. Coprivano il camion, li portavano nel bosco, proprio vicino ad Happurg, dove c’erano le gallerie. Ho saputo molto tempo dopo – era una cosa completamente segreta – che lì facevano delle fosse comuni e li bruciavano, facevano cioè delle pire, perché non c’era crematorio. Nel corso di un mio viaggio circa un paio di anni fa, mi è stato riferito che due contadini avevano visto l’operazione, e che sono stati scoperti, uccisi e bruciati: erano tedeschi. Questo ce lo hanno detto gli stessi tedeschi, quindi non c’è ragione che non sia vero, perché ci sono i loro nomi.

Questa era l’assuefazione alla morte: per il tedesco di allora era indifferente uccidere o non uccidere, e forse questo più che spiegare giustifica, se giustificare si può, il concetto dello sterminio, il programma di distruzione, e questo odio, calmo e calcolatore.

Sono riuscito a salvarmi appunto perché sono diventato un esperto, e anche grazie all’alma mater, vogliamo chiamarla così? Nel campo infatti si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli, di cui oggi è in corso il processo di beatificazione, al quale sono stato chiamato per testimoniare. Era un uomo molto intelligente, sapeva parlare benissimo il tedesco ed era stato per caso – l’unico caso di un italiano – che era riuscito a diventare furiere della nostra baracca. Olivelli è stato furiere, cioè ci ha dato un po’ di sollievo per breve tempo: di solito i furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori. Olivelli fu poi ucciso da loro, ma nel breve periodo in cui è vissuto, mi ha presentato al Doktor cioè al medico. Il medico era un gobbetto ucraino, era del Revier, cioè dell’infermeria o quel che sia. Olivelli disse a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico, e che parlava il francese: “Questo è un giovane professore”, e il gobbetto rispose: “Professore di cosa?”, “Di filosofia”. Il gobbetto rispose semplicemente “Ah!” e cominciò a parlare in francese, accennando a qualche teoria filosofica. particolarmente mi chiese se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscessi Voltaire. Risposi “Naturalmente!”, e poi mi chiese se avevo letto Le Candide di Voltaire. Tutto qui, questa è stata la nostra conversazione. Qualche giorno dopo hanno “sostituito” Olivelli, e io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber, perché mi avevano rubato gli zoccoli e dovevo andare a lavorare scalzo: allora decisi di sfidarli e di darmi ammalato. Senza sapere che in quel Revier dove sono andato a farmi visitare c’era il gobbetto, l’ho trovato, guarda le coincidenze!. Ha fatto finta di trovarmi febbricitante, mi ha regalato un termometro, cioè me lo ha dato e non me lo ha ripreso – quasi fosse un messaggio. E io per 2 mesi e mezzo o 3 sono rimasto ricoverato in questa infermeria truccando il termometro, scaldandolo, quando una volta alla settimana venivamo controllati. Così ho potuto resistere fin a quando non mi hanno scoperto. Questo lo devo forse all’alma mater o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare nei momenti più disperati delle àncore di salvezza. E’ stato il dono che ho avuto da Voltaire. Mi hanno scoperto proprio nel momento in cui qualcuno mi ha visto, ed avrebbe potuto tacere perché non c’era nessun bisogno di dirlo, ma la solidarietà era sparita. La prima cosa era rivelare quello che faceva l’altro, anche per distogliere l’attenzione da sé: un polacco mi vide e mi fece subito la spia, così mi “pescarono” mentre scaldavo il termometro, mi presero, mi diedero la punizione solita – che consisteva in 50 gommate sul sedere, che è una cosa terribile – e mi mandarono allo Strafkommando o Compagnia di punizione. La compagnia di punizione di un campo di sterminio!! E che altro poteva essere? si chiamava Scheissekommando ed era la “compagnia degli escrementi”: si doveva riempire una botte a ruote, prelevando con un bussolotto dai pozzi neri e dai depositi delle latrine. Poi io ed altri due dovevamo spingere la botte sui pendii per concimare: vendevano le nostre feci ai contadini per i loro crauti!

E’ durato poco tempo perché eravamo già al mese di marzo (1945), e un giorno hanno smesso i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, e si è rilassata un po’ la disciplina del campo.

Finalmente si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito ad evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro. Praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di 15 giorni, con le colonne che uscivano dal campo.

Io sono rimasto nel campo perché ero molto malridotto e sono stato spedito con l’ultimo gruppo, non so quanti saremo stati, eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa “marcia della morte“. Io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese durante uno di questi Transport.

E così sono qui.

De Walderstein Nerina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono la Nerina De Walderstein, un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz.

Sono stata arrestata a Trieste il 23 marzo 1944 dalla “polizia Collotti” alle 11,35 di sera, lo stesso giorno in cui ero ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico. Sono entrati un casa mia sette poliziotti della questura di Trieste di via Bellosguardo, la Villa Triste di Trieste, con i mitra puntati verso la mia famiglia; eravamo in casa il papà la mamma ed io. Fortunatamente hanno preso soltanto me ma cercavano mio fratello; i genitori sono rimasti a casa. Così inizia la mia triste storia.

R: Diciotto anni e mezzo.

D: Perché cercavano tuo fratello?

R: Perché mio fratello, a Venezia alla scuola Foscari, con un gruppo di studenti del gruppo GAP di Venezia, cercava il materiale bellico e altro da mandare al gruppo dei partigiani della zona di Trieste. Io ero stata là per prendere questo materiale ed ero ritornata a casa con la valigia piena. Loro cercavano mio fratello e non me ma il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia che sono fuggiti, saputo del mio arresto, e sono andati col gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia.

D: Ti hanno portato in Via Bellosguardo, a Villa Triste?

R: Sì, direttamente a Villa Triste. All’arrivo ho preso due ceffoni fenomenali. Durante l’interrogatorio sono stata picchiata, mi hanno rotto tre costole, mi hanno appesa per le mani a un palo e là non so quanto sono rimasta perché sono svenuta. Mi sono svegliata dentro una cella, tutta bagnata. Là mi hanno lasciata tutta la notte; di sera venivo interrogata e sempre bastonata, sempre col dolore alle mani dalla prima sera, quando mi hanno appesa al palo con le mani dietro la schiena. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate, non ho più forza nelle mani; è la conseguenza delle torture subite.

D: A Villa Triste fino a quando sei rimasta?

R: Otto giorni.

D: E poi cosa è successo?

R: Da Villa Triste mi hanno portato alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata, a suon di scappellotti. Io non ho parlato mai, mi sono assunta tutte le responsabilità.

Là sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste. Là, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. L’interrogatorio fu nel Bunker del Coroneo, una cosa tremenda; anche là altre botte, altro tormento. Intanto il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per 42 giorni con la polizia che li controllava. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me, perciò sono stata 42 giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno in cui siamo partite dal Coroneo per il trasporto. La mia mamma non la riconoscevo più: l’ho cercata, era dietro a me, ma aveva fatto un cambiamento totale, invecchiata di vent’anni: per il mio arresto e perché di mio fratello non sapeva più niente.

Al Coroneo sono stata da sola nella cella 68 fino al giorno del trasporto. Fino al periodo in cui sono stata nelle carceri non sapevo che esistesse la Risiera a Trieste, sapevo che c’era una risiera ma… del tutto differente. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella 68 sono morte tutte alla Risiera. Nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi due giorni prima che partissi mi hanno detto che non mi avrebbero finito là ma che la mia morte sarebbe stata altrove, in un posto in cui sarei morta lentamente.

D: Poi  ti hanno portato al Transport ?

R: Si, due giorni dopo sono partita per Auschwitz; ci avevano detto che ci avrebbero portato a lavorare. Noi convinte di andare a lavorare. La mamma mi ha portato quel giorno tutto quello che poteva per andare a lavorare, ma… non era così. Comunque, ti dico che la mamma che mi ha portato la roba alla stazione non era più la mia mamma.

D: Parlaci del Transport, eravate tante donne?

R: Sì, non potrei dire il numero preciso, credo oltre 50.

D: C’erano anche uomini?

R: C’erano gli uomini. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due, e mi sono trovata in un grande giardino nelle carceri del Coroneo e là ho visto tantissima gente e ho detto: non mi succederà qualcosa di tremendo, perché tutta questa gente è impossibile che la possano sterminare. Quando ho chiesto dove si andasse mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo, non si sa”. Verso, credo, le 4 e mezza del mattino ci hanno messo in colonna davanti alle carceri e in colonna siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari che erano stati avvisati in qualche maniera. Ci siamo salutati perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici. Devo premettere che alla stazione dovevamo partire immediatamente ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto sì che rimanessimo ancora due ore con i nostri familiari, poi siamo partite. Non ho pianto lasciando i miei genitori, ero dura impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza del quartiere di Bàrcola, quando ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male e sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte, non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Da allora non ho più pianto, non so perché.

Poi siamo partite; siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz, nel frattempo nel trasporto io stavo veramente male. Uno dei carabinieri mi ha portato nel vagone con sé e là sono rimasta per due giorni fintanto che mi sono sentita meglio. Quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non avevo mangiato più dal giorno della partenza. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere.

Quando ci si avvicinava ad Auschwitz  ci hanno raccontato un pochino che cosa era, ma non bene, non avevamo capito niente. Ci hanno detto: “Dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve”; noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente quando siamo arrivate ad Auschwitz l’orchestrina c’era, ma prima di entrare logicamente c’era il campo. Abbiamo visto certe persone, chine a terra e abbiamo chiesto: “Chi sono quelle persone? Sono come dei mussulmani …” “Sì, sono mussulmani” Ho detto: “Tutti mussulmani venuti qui a lavorare?” “Capirai, capirai, vedrai che tra un po’ di tempo sarai mussulmana pure tu”.  Io gli ho detto: “No, sono cattolica” “Va bene, va bene, capirai più in là”.

D: Nerina , quando dici Auschwitz intendi Auschwitz 1 o Birkenau?

R: Per Auschwitz intendo tutti e due, sia l’uno che l’altro.

D: Sei stata portata ad Auschwitz 1, prima?

R: Prima siamo state portate tutte ad Auschwitz 1 e poi nell’altro. Il primo impatto è stato tremendo, spaventoso perché ci hanno scacciate giù dalle tradotte, proprio gettate giù. Le cosa più brutte che ho subito nell’entrata ad Auschwitz erano di aver visto i mussulmani e poi il fatto che ci hanno denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per un giorno intero e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude.

D: Ti ricordi che giorno era, più o meno?

R: No.

D: Il mese?

R: Sì, il 21 giugno siamo arrivate là. Era una cosa tremenda. Durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità, eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva l’una con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane e con me c’erano tantissime giovani ma c’erano anche tante persone anziane. Vedere quelle povere nonne, per me erano nonne, lì nude, disperate; si nascondevano, cercavano di proteggere le parti che non dovevano essere viste. Dopo l’attesa fuori ci hanno portato nei blocchi, nelle baracche. Tutte nude ci hanno portate nella baracca detta “Sauna” dove ti tagliavano i capelli, ti rasavano e poi ti spedivano avanti. Avevo i capelli lunghi, biondi, i miei capelli erano belli, un po’ ondulati, ero giovane e il polacco che tagliava i capelli mi ha preso una ciocca di capelli, me l’ha tagliata poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti: là coi capelli ero l’unica. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano Ciocchina.

Di là ci hanno mandato in un’altra stanza dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziano i tatuaggi. Sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicessero: il tedesco lo capivo poco, solo quello della scuola. Quando era quasi il mio turno di entrare sento che dice all’altra compagna: “Da ora in avanti tu non sei più la tal dei tali ma sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sul braccio la matricola. Io ho il numero 82.132 e con questo numero ho passato tutto il periodo sapendo di essere soltanto il numero 82.132; il nome l’ho dimenticato.

Poi nuovamente in fila per gli indumenti. Davanti a me c’era una compagna partita da Trieste che aveva avuto la sventura come me di essere stata presa per una spiata; aveva il numero 82.131. Lei era una bella figura ma aveva già i suoi anni, aveva 30 anni, io ero una bambina di fronte a lei: a me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto che non le copriva neanche le ginocchia. Volevo scambiarlo con lei ma quando abbiamo fatto il gesto abbiamo ricevuto botte tutte e due, perciò ci siamo messe nuovamente in fila per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera, non è un campo di lavoro. Come mai queste baracche, che cosa ci succede?” Entrando abbiamo visto altre prigioniere fra le quali delle ragazze che avevamo conosciuto alle carceri del Coroneo. Quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro piangendo ci hanno raccontato cosa ci sarebbe successo. Più che essere tatuate non credevo ci potesse succedere altro. Invece è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento.

D: L’abbigliamento che ti hanno dato in cosa consisteva?

R: Una veste e le scarpe, meravigliose! Io indossavo a sinistra una ghetta e a destra uno zoccolo olandese grande che perdevo man mano.

D: Biancheria intima niente?

R: Come no! Mutande, reggiseno tutto era in quella veste meravigliosa. Oltre ad essere immatricolate, si portava il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Col triangolo rosso perché eravamo politiche. C’erano moltissimi triangoli. Avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia. Ci siamo messe a ridere quando ci siamo viste l’una con l’altra … si piangeva e si rideva perché eravamo talmente ridicole, poi tutte quelle zucche pelate! Non ci si riconosceva più, quando ci siamo viste ci si guardava: “Ma chi sei tu?” Ci chiedevamo e tutte mi dicevano: “Come mai a te non li hanno tagliati?” “Non lo so!” Quello era il minimo di fronte a tutto quello che ci aspettava. Nel blocco abbiamo visto i castelletti dove si dormiva sei per sei, come le sardine; noi giovani dormivamo a terra. Io ho dormito per quasi un mese sulla terra nuda. Eravamo tante dentro il blocco e non ci si poteva stare, non ci si poteva girare, quando ci si girava, stanche di essere su un fianco, si svegliava una di noi: “Ti prego, ci si gira dalla parte opposta”. Le ossa facevano male. Appena arrivata eri grassa, eri in carne, e dove ti mettevi? Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere perché era talmente basso; per poterti sedere dovevi scendere e sedere in terra. E poi la notte, le cimici. Quando spegnevano la luce, in pochi secondi le sentivi camminare su di te, facevi una retata di cimici, spaventoso; era una puzza tremenda, impossibile potere addormentarsi. Poi ci si è abituati ma non del tutto. Ogni notte era la corsa alle cimici perché altrimenti ti mangiavano, avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccato dalle cimici. Erano grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fossero le cimici, ma là ho imparato bene.

D: Nerina, ad Auschwitz 1 fino a quando sei rimasta?

R: Non potrei dirti il tempo perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che ti alzavi la mattina verso le tre e mezza, logicamente attendevi la miska che ti davano, sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare uscendo dal blocco: metterti in fila per cinque, guai se non eri diritta in fila per cinque, allora partivano le botte. Se un momentino ti distraevi quando eri in fila… altre botte; quando arrivava la kapo e ti contava, sempre sull’attenti; quante poverine sono rimaste là perché cadevano, non resistevano più, perdevano i sensi e poi finivano come non si sa. La tortura più grande era quella di tenerci all’aperto anche se pioveva, nevicava, faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con lo stesso indumento; se era tutto zuppo di acqua dovevi tenertelo e rimanere là perché non c’era da cambiarsi. Chi aveva una buona costituzione e un fisico forte ha resistito, le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e una cadeva, era morta… in piedi.

D: Poi da Auschwitz 1 ti hanno mandato ad Auschwitz2 – Birkenau

R: A Birkenau. Ti prendevano all’appello per andare a lavorare; lavori nei campi a piantare le patate e pulire, e il lavoro all’interno del campo di concentramento: pulire i blocchi, pulire il gabinetto notturno. Non potevi uscire, dovevi venire davanti al blocco e uno ti controllava mentre facevi i tuoi bisogni, davanti a tutte, era tremendo. Noi per un periodo avevamo una carriola. E’ molto difficile poter andare … e poter farlo; una persona anziana si sbilanciava e cadeva: quante sono cadute dentro la carriola, tutte sporche e sudice dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, non si sa neanche come visto che non avevamo niente. Ci si doveva accontentare; quando si poteva andare al mattino due minuti a lavarsi nel Waschraum dove c’era uno zampillino d’acqua – non riuscivi neanche a lavarti gli occhi – cercavi al meglio possibile di lavarti con l’acqua ruggine. C’era la corsa per arrivare a pulirti, a lavarti un pochino, non riuscivi tante volte, eravamo tante e ci richiamavano. Eravamo tutte sporche, senza la possibilità di potersi un po’ lavare;  senza vergogna a quel riguardo andavi in quel gabinetto tremendo e se non ti abituavi erano botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere addetta alla pulizia dei gabinetti. C’era un carro dove vuotavi tutte le cose e poi quel carro lo portavi lungo il campo fino a che non arrivavi nei gabinetti, dove lo lasciavi. Penso che quello fosse uno dei peggio lavori nel campo, era veramente umiliante, ti chiamavano la Merdastrasse, scusate l’espressione, noi la chiamavamo così; purtroppo ognuna aveva il suo turno. Poi quando non facevi quello dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, e poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora del mangiare. O ti portavano in un altro blocco dove ti facevano portare delle pietre.

Quando non ne potevi più cadevi per terra esausta: o ti rialzavi o bastonate. Poi è successo il fatto delle due sorelle francesi. La tedesca ha ordinato alla nostra kapo di fare alzare quella che era caduta, ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Lei è caduta a terra, logicamente ferita, e l’altra sorella le è corsa in aiuto. Noi sempre a camminare intorno, sempre portando pietre, non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella, la seconda è corsa per aiutarla ma è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due.

Non ho mai saputo l’ora perché l’orologio non esisteva; che ora è, che giorno è, tutti i giorni erano uguali, si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Ma forse era meglio perché non soffrivi più tanto, mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dirti se era un’abitudine o veramente eravamo un morto che camminava. Tante volte ci si chiedeva: ma si cammina, siamo ferme? Qualche volta qualcuna mi pizzicava, mi diceva: “Ah, sei ancora viva”, io mi mettevo in un mutismo, eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di fare quattro passi sempre con la testa rivolta al cielo: non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finire. Tante volte dicevi: “Quella è morta, ha finito di soffrire”, questa era la risposta.

Malgrado tutto si aveva sempre una speranza; io sempre dicevo di dover tornare  a casa. C’era come un ritornello nella mia testa, e mi seguiva. Quando ero nei momenti più pesanti cominciavo: “Devo ritornare a casa perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”, poi lo dicevo alle altre allora si iniziava a portarci nei ricordi verso casa, ci aiutavano a vivere, quella era una via – come potrei dire – un aiuto per poter continuare a lottare per ritornare. E poi sai, le risate quando avevamo fame. Quando col gruppo davanti al blocco non ci permettevano di andare da nessuna parte si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare: “Cosa mangeresti tu? adesso che faresti?” Allora si facevano ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di pensare al famoso pane col quadratino di margarina, alla fine ci accontentavamo di quello. E quando era l’ora di mettersi in fila sempre sull’appello per prendere quel pezzetto di pane, che bello! Quello era l’ora più bella.

Così le giornate passavano, ci si raccontavano tante cose. C’erano tantissimi blocchi, io ne ho passato soltanto tre, però sapevo che ce n’erano tanti. Si sapeva ben poco di quello che succedeva nel campo. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni. Quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria perché i treni fischiavano, fischiavano le sirene, poi c’era il rientro nei blocchi tutti chiusi perché non si doveva vedere quello che succedeva con chi usciva dai vagoni: il famoso Blocksperre cioè la chiusura di tutti i blocchi. Il fatto è che quando eri là da un po’ di tempo capivi tutto, da ogni fischiata sapevi cosa sarebbe successo. Le sirene squillavano, c’era sempre qualcuno che voleva scappare ma scappato non è nessuno.

Mentre ero là c’è stata l’impiccagione di una polacca che aveva tentato un’evasione dal campo. L’hanno torturata davanti a tutto il gruppo delle donne in campo, e quando le hanno rotto tutte le ossa l’hanno impiccata moribonda.

D: Parlavi prima dell’alimentazione: cosa vi davano ogni giorno?

R: Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e dei bidoni con l’acqua bollente: le spaccavano sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino e galleggiavano i semi e l’interno della buccia, limoso. Poi quando era l’ora del pranzo chiamavano – si sapeva che era l’ora del pranzo perché c’era un fischio particolare – e andavi a prendertelo. Se eri forte di stomaco lo mangiavi se no rimandavi, poi cercavi di mandare giù qualche cosa per poter sopravvivere. Io ho molto sofferto perché il mio stomaco era debolissimo, veramente non so dirti come sono rimasta viva, comunque era il mio destino. Mangiavo pochissimo. Sai, c’erano le rape grattugiate secche, le gettavano dentro in questa Kübel di acqua bollente, se riuscivi a procurarti  un recipiente le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio; col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiarle. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano meglio. La festa grande era la domenica: ti mettevi in fila e ti davano una patata con un pochino di margarina, un triangolino di margarina. Loro non guardavano se la patata era grande o piccolina, te ne davano una e basta, spesso succedeva che ricevessi la piccolina ma non la grande. Quando una riceveva la grande tutte le eravamo attorno: “Un pezzetto anche a me sai? Guarda che me lo avevi promesso”. Era un po’ d’allegria nella grande tristezza nella disperazione.

D: Nerina, ti è mai capitato di sognare?

R: Un’unica volta ho fatto un sogno lungo però ho pianto tutta la notte… Ho fatto un sogno e l’ho raccontato a una signora di Maribor, slovena. Sono andata fuori per fare i miei bisogni, l’ho trovata e le ho raccontato. Avevo visto mia nonna nel sogno, mi aveva toccata ed era fuggita.  La donna slovena mi guardò e mi disse: “Guarda le stelle, ti racconto cos’è la tua vita. La tua mamma e il tuo papà sono osti, vero?” Sì, avevamo una trattoria prima che ce la distruggessero”. “Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Le avevo detto il giorno del mio compleanno e mi disse: “Mi hai detto che sei nata il 9 luglio, oggi è il tuo compleanno”.

D: Scusa Nerina, il problema delle mestruazioni?

R: Non ho mai capito, anche adesso che ho rivisto le mie compagne ci siamo chieste: ma cosa è successo? Appena siamo arrivate …. bloccato in pieno, nessuna sa cosa fosse. Forse era l’acqua nera che ci davano da bere la mattina, calda. Pagherei per sapere cosa ci davano.

D: A Birkenau fino a quando sei rimasta?

R: Poco, forse un mese.

D: E poi cos’è successo?

R: Mi hanno portato nel Lager B. Il Lager B era il Lager dove lavoravi proprio. Quando arrivavi là se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla, e questo ho fatto anch’io nel ritorno, mi sono abbassata per prendere un ciuffetto però… sai le botte. Per strada mi hanno schiaffeggiato e la testa mi è girata da tutte le parti, ancora adesso sento schiaffi, poi quando siamo ritornate mi hanno messo in punizione davanti al blocco inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata e una pera cotta appoggiata sulla mano. Tante volte mi sembrava di cadere, cercavo di raddrizzarmi per farmi forza. Quando mi sono alzata le ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto carne non c’era, c’era la pelle; è passato del tempo prima che mi si rimarginassero le ginocchia, quante volte mi si aprivano perché dovevo inginocchiarmi per altre cose, ma finalmente sono guarita. C’erano polacche che erano peggio delle SS; se una cosa non sopporto sono le polacche, perdonami Polonia. Parla con chiunque sia stata là; tutte hanno subito angherie dalle blockowe e dalle stubowe. La notte loro mangiavano, si divertivano, bevevano: noi si sentiva il mangiare, il bere e noi piene di fame a languire. Loro erano pasciute, nessuna era magrolina, erano tutte tonde. Non puoi immaginare che nel blocco di un campo di concentramento ci fossero tipi così perversi, così cattivi. Se loro rubavano incolpavano le politiche.

D: Poi da lì sei stata ancora trasferita

R: Sì, mi hanno portata via da Auschwitz perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila per il trasporto, hanno detto che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello.

Quando si era in fila pronte per partire ci consegnarono pane per il viaggio, una pagnotta di quel famoso pane acido, cattivo, duro: era come mangiare segatura.

C’erano vicino a me due bambine, io per loro ero una mamma, una di 12 e una di 13 anni, del Goriziano. Venne rubata una pagnotta – erano contate – le ebree e le polacche facevano le parti: una di loro accusò le due piccole, ma non era vero perché erano con me. Lo dissero al militare tedesco che ci accompagnava nel trasporto, allora lui infuriato inveì contro di loro e si misero a piangere perché erano bambine. Piangere non dovevi: se là ti vedevano piangere ti picchiavano. Era pronto a picchiarle duro col calcio del moschetto. Ho preso le loro difese e il colpo che dovevano subire loro l’ho preso io: sono caduta in svenimento, ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne che mi hanno sollevato e portata di peso, non mi hanno voluto lasciare là a terra; sul vagone mi sono ripresa, ma sulla testa avevo un segno che anche ora si vede. Il colpo col tempo ha fatto suppurazione perché dentro si è formata un’infezione;  i medici mi hanno detto che il mio osso stava andando in cancrena.

Ci hanno portato a Flossenbürg, io non lo ricordo; mi sono ripresa in treno ma per me è un vuoto colmo. Io ricordo di essere stata in fila, di essere saltata in mezzo alle due bambine e di avere preso le loro difese ma poi è una parentesi chiusa: sono passata per il campo di Flossenbürg ma non so di esserci stata.

Mi sono ritrovata il 14 dicembre nella fabbrica di lampadine Osram a Plauen. Non so come sono arrivata, mi sono guardata intorno e ho detto: dove siamo? Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze.

Nessuna si era accorta che io non sapevo niente. 

D: Ti hanno portato in fabbrica?

R: Sì, mi sono trovata in fabbrica. Ho avuto la fortuna di avere un direttore di fabbrica meraviglioso con tutto il nostro gruppo, eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato come fossimo lavoratrici; era sempre gentile con noi, se si aveva bisogno di qualche cosa si chiedeva, se qualcuna era malata la curò.

Noi si abitava nel soffitto della fabbrica, là avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno, non per fare la doccia, ma il rubinetto. Ognuna aveva il suo letto, ognuna dormiva sul suo castelletto, io ero il terzo piano perché ero una fra le più giovani, ero su in alto. La mattina ci davano il solito tè e si andava al lavoro alle 6; ognuna aveva un lavoro; gli operai ci insegnavano i lavori della fabbrica delle lampadine. Si iniziava dal vetro e poi facevamo le lampadine grandi enormi, molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese quel lavoro poi sono andata nel magazzino. Quando ero là mi sentivo sempre tanto male; la prima volta sarà stato verso il 20  dicembre. Così tre volte di seguito; la terza volta c’era dentro il direttore e mi ha visto, mi ha preso in braccio ed ha chiamato il soccorso che era nella fabbrica. Mi ha portato nella clinica a cui avevano diritto gli operai della fabbrica, però c’era con me anche la tedesca con il cane. Quando il medico mi ha visitata ho mostrato l’orecchio che spurgava. Mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo accadde nuovamente. Al 14 gennaio (1945) mi hanno portata ancora là, ogni tanto mi mettevano sotto il naso la melissa per tenermi sveglia. Un altro medico mi ha visitata e ha premuto la parte che faceva male, ho dato un urlo spaventoso. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto tantissime fotografie e radiografie; io ridendo ho detto: “Per andare al cinema?”

Nella fabbrica avevamo un medico interno che era un colonnello dell’aviazione russa, una prigioniera; nella fabbrica c’era una stanza chiamata Revier e là lei curava le ammalate. Il direttore della fabbrica volle che la dottoressa mi seguisse, aveva molta fiducia in lei; venne anche la tedesca. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa: mi hanno salvata. Non potevano darmi nessun medicinale, era proibito dalla tedesca. Avevo la testa fasciata, avevo soltanto un pezzettino aperto all’occhio, ero come una mummia. Il medico allora mi nascose nella garza tanti tubetti di vitamine; diede ordine alla dottoressa di darmene un po’ al giorno. La dottoressa mi seguì con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi toccasse: sarei rimasta nella fabbrica sin tanto che le cure non fossero finite, lui avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore.

Non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa un po’ seduta, quando ho potuto camminare sono andata giù in fabbrica per fare soltanto cose leggere. La notte non la facevo, facevo sempre i turni di giorno. Ho lavorato fino all’ultimo quello che ho potuto, lavori leggeri, e questo fino alla Liberazione.

D:Nerina, è in quella fabbrica che tu hai cercato di tenere un diario?

R: Sì. La notte di Natale una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco che lavorava nella fabbrica, lui l’ha aiutata a scappare. Lei quindi non ha risposto all’appello, è stata cercata per tutta la fabbrica, non c’era: ci hanno messo in castigo una giornata intera perché volevano sapere da noi ma nessuna sapeva niente. Senza mangiare abbiamo fatto il Natale. Alle 6 di sera ci hanno dato il permesso e hanno portato quel tè nero e sino al giorno dopo a mezzogiorno, niente. Il giorno dopo all’appello – era il giorno di Santo Stefano – le tedesche ubriache dentro hanno fatto festa e noi sempre fuori all’appello. Il giorno dopo abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. La dottoressa aveva prigioniera una sorella, Tania. Non ho saputo il motivo, ma le avevano gettato i cani contro al suo rientro, noi abbiamo dovuto assistere alla scena. L’hanno quasi resa a brandelli, l’hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa pian piano l’ha curata poi è rimasta a sua volta in fabbrica. E’ stato uno dei tanti tremendi giorni in cui dovevamo assistere all’annientamento. Fortunatamente è rimasta viva e la sorella l’ha curata. Nel mio diario scrivevo lettere alla mia mamma; le cose che mi venivano in mente e che scrivevo mi rilassavano un pochino, parlavo con la mamma. Ne avevo due ma purtroppo il più grande me lo hanno rubato al mio ritorno a Bolzano.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R:Triste perché le tedesche ci hanno chiuse nella fabbrica che era diroccata da una parte; noi eravamo proprio nella parte diroccata, rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse e loro sono fuggite. C’erano i russi, gli americani e gli inglesi che andavano verso Berlino, hanno quasi distrutto Plauen. Forse per due giorni siamo state al buio tale era il fumo delle bombe.  Alla finestra avevamo un’inferriata con la rete; quelle che avevano ancora un po’ di forza hanno disfatto il letto delle tedesche, era in ferro, e con quell’asta hanno picchiato sui vetri fino a fare un buco. Hanno messo sull’asta un lenzuolo con una croce rossa, fatta col nostro sangue: c’erano bottiglie e bicchieri, li abbiamo rotti e con il sangue abbiamo fatto la croce. Si gridava alla disperata, e un paio sono impazzite, specialmente le russe: poverine, avevano il numero 42.000, erano là fra le prime, erano quasi impazzite. Eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi niente, era tremendo.

Finalmente si resero conto che c’eravamo, vennero su gli americani e ci liberarono. Io ero a letto: ero talmente sfinita che non mi alzavo più, gli americani che sono venuti su hanno portato in braccio diversa gente. Quando uno mi ha sollevato mi ha detto: “Ma sei una bambina, quanti anni hai, 11  o 12?” Il militare parlava in inglese e io in sloveno; lui mi ha chiesto, in uno sloveno un po’ stentato, se ero slovena: Disse: “Anche la mia mamma è slovena. Come mai sei qua?” Lui non sapeva niente, gliel’ho raccontato, mi ha preso in braccio, mi ha stretta al petto e ha detto: “Dio mio, Dio mio ma come si può ridurre una creatura così?” Di lì i russi mi hanno portato all’ospedale da campo. Mi hanno rifocillata, credo per quindici giorni, mi hanno tirata su prima con il tè  poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato. Quando ci siamo riprese ci hanno portato in un campo di smistamento. Là sono rimasta fino a che non mi hanno portato a casa.

D:Fino a quando sei rimasta lì?

R:Pochissimo perché ci siamo trovati in diversi triestini. Ero ancora un po’ giù di corda, sempre con la testa fasciata: la testa l’ho portata a casa fasciata e mi ha curato il professor Danilo, pure lui ex deportato di Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato una di Gorizia più anziana di me; io andavo verso i 20 e lei aveva 35 anni, per me era una mamma; si è presa cura di me. Arrivarono altri tre triestini, erano militari prigionieri nei campi militari, non deportati. Quando ero là uno dei triestini mi ha portato una gonna grande; la mia compagna di Gorizia me l’ha adattata; hanno trovato una blusettina di organdis e me l’hanno messa, lei me l’ha ristretta; mi hanno vestito a festa. Un compagno milanese, poiché portavo ancora gli zoccoli, mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … bellissimi, tutti mi chiedevano dove avessi trovato il mio numero.

I ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo e hanno cercato il posto migliore per poter scappare, hanno fatto un buco. Da quel buco partivano durante il giorno e cercavano di combinare un carretto per me perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto; hanno trovato una carrozzina con le due ruote grandi, poi si sono procurati un po’ di legno, mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile. A un dato momento mi dissero: “Preparati, questa sera la fuga”. Eravamo in dieci, c’era uno della Calabria, uno del Trentino, uno milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. L’accordo è fatto, il carretto è pronto: non rimaneva che aspettare che la ronda cambiasse giro. Quando tutti dormivano ci siamo messi in carica! Io, pacifica come una patrona seduta, e loro poverini che mi spingevano. Mi hanno riportato a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi.

Durante il giorno si camminava e si chiedeva dove andare; puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava e ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’era qualche negozio aperto: si chiedeva, mostravo i miei numeri di campo, capivano subito che eravamo prigionieri, ci davano da mangiare quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente.

Una notte ci ha preso la pioggia ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito; la pioggia ci ha bagnato molto bene, ci correva lungo la schiena perché eravamo distesi per terra sul prato, era giugno, caldo. Quando ci siamo svegliati alla mattina eravamo quasi già asciutti perché il sole ci aveva asciugato, ma io avevo dei brividi. Il giorno dopo la mia temperatura è salita, farneticavo, un signore ci ha prestato una bicicletta e uno di noi è andato dal medico: broncopolmonite. Dopo otto giorni il medico è ritornato, ci ha permesso di ripartire. In un paese mi hanno vestito con una tuta olimpionica e con scarponi da montagna perché era freddo e non potevo andare coi sandali; così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che un treno portava a Vienna, lo prendemmo – era un treno che portava carbone – ma alla mattina sentimmo parlare polacco. Eravamo entrati nuovamente in Polonia!

Cosa fare? Disse uno in stazione che nel pomeriggio un treno sarebbe andato verso la Germania. Tornammo in Germania, non ricordo la stazione. Alla fine con dei camion che portavano viveri in Germania ci siamo arrivati.

Un treno portava prigionieri francesi a casa; abbiamo aspettato, a noi si sono avvicinati altri prigionieri che sono rimpatriati; abbiamo detto che noi italiani non avevamo nessun collegamento con nessuno e cercavamo di  rimpatriare meglio possibile. Loro andavano verso la Svizzera, era pur sempre vicino all’Italia. Ci portarono. Sul treno non c’era più posto perché eravamo tanti, allora misero delle travi di traverso sul vagone bestiame: lì sopra siamo saliti noi e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera.

Sul treno si sono accorti che tanti avevano il tifo: la Svizzera non ci fece entrare, dovevamo passare per il Brennero. Dal Brennero siamo arrivati in treno a Bolzano; ci hanno scaricati, gli altri hanno proseguito: noi siamo rimasti là perché a Bolzano c’era lo smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dai campi. In Svizzera ci avevano dato, prima di mandarci indietro, qualche cosa per coprirci e cibo in uno zainetto, ognuno aveva il suo zainetto. Purtroppo allo smistamento ci derubarono degli zaini. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberata, è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo che era per me la continuazione della mia vita. Avevo dentro dei libri, un bel diario. Tutto mi hanno portato via, una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia grassa, avevo due tute l’una sopra l’altra, una sciarpetta che mi copriva la testa: mi vergognavo con tutto quel bianco.

Quando siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine era un problema arrivare a casa perché era tutto bombardato, il treno da Udine non camminava.

D: Scusa, Nerina il percorso da Bolzano a Udine?

R:Da Bolzano partì un pullman su cui hanno preso tutti quelli che erano dei dintorni di Udine di Trieste.

A Udine c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere di fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto per poter scappare da Udine; è da lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. Un’altra fuga. Mi sembra che fosse un edificio militare o comunale, forse una scuola o un ricreatorio; in basso, nei gabinetti, ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto. Siamo entrati, abbiamo fatto quello che dovevamo fare e ci siamo messi in una stanzetta al pianoterra. Il gabinetto aveva un finestrino da spingere; per primo è andato Luciano di Trieste che era il più giovane. Poi è andato il più grasso, poi mi hanno sollevato e mi hanno fatta passare.

Ci  trovammo la notte a Udine, andammo alla stazione sperando in qualche treno in partenza. Si partì ma solo per un pezzetto, fino a Santa Maria la Longa. Ci incamminammo. Da una stradina di paese stava venendo un uomo coi cavalli e col carro. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi. Ci ha presi sul carro e portati a Monfalcone. Da Monfalcone i treni c’erano ma dovevamo avere i biglietti. I biglietti!!! Ma che ti sogni! A Monfalcone ci hanno ristorato con quello che potevano, un panino e una mela. Hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di lì, poi ci hanno rifocillati nuovamente perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. Il treno partì, era un treno lumaca. Su quel treno c’era gente che andava a fare la borsa nera.

Cerano due persone che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto; io avevo sempre la testa fasciata. La signora mi fissò, io la vidi e la fissai anch’io: non sarà mica Silvia? Lei mi guardò e fece un urlo: “Dio, è la Cisa che ritorna, la Cisa non è morta!”. Qualcuno aveva portato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che ero morta.

Ci ha preso una tale smania di tornare a casa, una voglia di correre. Sai cosa ho chiesto per prima cosa? Mio fratello è tornato vivo? Si, ti aspettano tutti anche la mamma e il papà.

Quando siamo entrati nella zona nostra e ho visto Miramare mi sentivo fare bububum bububum, dicevo: “Oddio, mi si ferma il cuore!” Sentivo il fuoco alla testa.

Finalmente entrammo in stazione, io camminavo su e giù per il treno e non appena hanno aperto le porte sono caduta indietro e sono svenuta. Nessuno era alla stazione ad attendere i rimpatriati in Trieste! C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente.

Arriviamo a casa, ero tutta infagottata, a metà strada c’è la casa di mia zia, mia cugina era alla finestra. Io ero là tutta imbacuccata, e lei disse: “Ma guarda quella, perfino in testa si è messa qualcosa da nascondere”. Mi guardò, la guardai, tutto a un tratto la vidi impallidire, urlò e disse: “E’ ritornata mia cugina!” Quella fu la prima volta che piansi. Quando ci siamo viste non potevo né parlare né niente. La mamma non era a casa, era uscita con un’altra signora. Quando tornò e mi vide disse: “No, questa non è mia figlia, avete sbagliato, non è lei, questa non la conosco”. Si capisce: ero tutta fasciata. Ero talmente piccola quando sono partita e piccolissima quando sono rientrata. E poi sai cosa mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto? “Amore, ti fo’ il caffè?”. Dico: “No mamma, il caffè l’ho bevuto; ti prego i fagioli, fammi dei fagioli”. E la mamma ha fatto presto, non so come ha fatto. Ho chiesto al papà del vino e ne ho bevuta mezza bottiglia. Poi sono arrivati tutti i miei zii. E abbiamo fatto la notte tutti in piedi.

Cherchi Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..

Rossetti Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io  mi chiamo Rossetti Sergio, sono nato a La Spezia il 23.12.1927.

D:  Sergio, quando ti hanno arrestato?

R: Io abitavo in un paese vicino a La Spezia, a Buonviaggio, un paese bello, anche il nome lo dice, e tutte le mattine partivo per andavo a lavorare in Arsenale, nello stabilimento militare. Si andava a piedi da Buonviaggio a Migliarina dove si pigliava il tramvai.

In un posto distante da casa mia due chilometri ad un bivio c’era un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Vidi alcuni miei conoscenti fermi sul ponte della Dorgia, ma non ci feci caso.

Al tempo avevo appena 17 anni, ero ancora ingenuo, non avevo l’esperienza dei ragazzi di oggi.

Difatti mi fermarono e mi misero insieme agli altri amici che conoscevo – Boni Alfredo, Chella Rino, Morelli Vittorio, Baroncelli Antonio e Monteverdi Giuseppe, di un paese vicino. Restammo fermi una mezz’oretta; quando videro che il gruppo si era formato, ci incolonnarono tutti lungo la statale cosiddetta della Cima, e dal ponte andammo in uno stabilimento militare distante 500 metri.

Era un deposito di mine e siluri della Marina, ci portarono là, era chiamato la Flage.

Cominciarono i primi interrogatori, ci chiamavano uno alla volta; venne il mio turno, andai dentro, c’era una scrivania, due borghesi e due militari ai lati. Vollero sapere come mi chiamavo, dove abitavo, quanti eravamo in famiglia, di che religione, la politica. Dissi che lavoravo in Arsenale, avevo anche il documento per poter entrare; quando mi chiesero gli anni dissi: “Faccio 17 anni a dicembre”.  Mi arrivò uno scappellotto sul collo e un calcio nel sedere e mi disse: “Tu sei troppo giovane, mettiti faccia al muro”. Quando anche gli altri finirono l’interrogatorio, ci caricarono su dei mezzi coperti con teloni, e ci portarono alla caserma del 21° Reggimento Fanteria.

D:  Quando ti fecero l’interrogatorio e chi lo ha conduceva?

R:  Il 21 novembre 1944, il giorno del grande rastrellamento di Migliarina.

Lo stesso giorno in cui mi fermarono subii questo primo interrogatorio alla Flage.

D: Da parte di chi?

R: Non lo so. Erano due borghesi e due militari della Guardia Nazionale Repubblicana, non so chi fossero. Di politica non mi sono mai interessato. Andavo a lavorare, però avevo ancora il carrettino con le ruote per divertirmi, lungo la strada. E pensare che in tempo di guerra mio padre era stato richiamato, si era fatto la guerra di Grecia e d’Albania, dopo aveva fatto domanda di rimpatrio per famiglia numerosa – eravamo quattro sorelle e due fratelli in casa, un fratello nacque nel 1944. Voglio dire che non si era fascisti ma si viveva la nostra vita normale. Ci portarono sugli automezzi, non so se cinque o sei, al 21° Fanteria. Ci misero nelle celle, ricordo che ero solo in cella; dopo mi misero insieme a Baroncelli, che era con me la mattina del posto di blocco.

La sera ci chiamarono ad un altro interrogatorio, che era normale. Botte non ne presi, anzi, mi levarono sciarpa, stringhe e fazzoletto: dicevano di aver paura che ci si potesse strozzare. Stetti due giorni in caserma, si aspettava che facessero il loro lavoro, però nella notte si sentivano urla, schiamazzi, passi di scarponi: si vede che qualcuno voleva sapere i nomi di partigiani, si sentiva urlare, sbattere le porte e tutto. Finito al 21° Fanteria, il giorno 22 o 23 novembre, ci caricarono su automezzi coperti e ci portarono al ponte Pirelli, un ponte militare; lì caricavano e scaricavano munizioni, vicino c’era il binario che andava alla polveriera Vallegrande. Tutti in fila; una motozattera ci aspettava. Insieme a noi c’erano un certo Vigilante Giuseppe, commissario di pubblica sicurezza, e un certo Carrè, che era un becchino dell’ospedale; l’avevano accusato di nascondere armi sotto le tombe, invece non era vero. A loro non interessava niente, volevano che dicesse dei nomi per andarli a prendere e far loro confessare certe cose. Ricordo il povero Vigilante, che era un uomo sulla sessantina, entrare nella motozattera su una scaletta; io avevo 17 anni e cercavo di evitare le botte che davano mentre si passava sulla scaletta, ma il poveretto rimase con la gamba tra la scaletta e la parete. Si rovinò la gamba, alla bell’e meglio lo sdraiammo nella motozattera. Partimmo di sera, verso le cinque, ed arrivammo via mare al porto di Genova. A Genova ci caricarono sugli automezzi e ci portarono alle carceri di Marassi. Ci portarono subito nelle celle, ricordo che ero sempre con Baroncelli, un vicino di casa, eravamo cresciuti insieme. A Marassi stemmo dal 23 / 24 novembre fino al 12 / 13 gennaio (1945). Una mia sorella mi portò il corredo, un baule di roba con cappotto, giacche, scarpe, magliette, tutto l’occorrente, perché si diceva di andare a lavorare in Germania. Nelle carceri di Marassi davano una sbroda e il pane, si tirava avanti. Dopo arrivò il momento dell’interrogatorio; siccome andavano in ordine alfabetico, vidi portare su due o tre che per le botte prese tornavano gonfi. Tanti non volevano confessare, ma loro imponevano: “Tu hai fatto questo, hai fatto quest’altro”. Come potevo confessare cose che non avevo fatto? Ti picchiavano per poter cavar qualcosa. Dopo capitò il mio turno: andai dentro, c’erano Battisti e Morelli, due della polizia giudiziaria che picchiavano davvero; poi c’era un tedesco che scriveva a macchina e un altro militare, non so di che rango né se fosse italiano o tedesco. Ero in piedi e ai lati c’erano questi due con due nervi in mano, mi ricordo.

Vollero sapere nome e cognome, dove lavoravo, la famiglia, la religione, il solito interrogatorio che avevo fatto la prima volta, era già tutto predisposto e programmato. Dietro me c’erano gli accusatori: poveracci, anche loro erano stati picchiati, facevano il doppiogioco. Quando ti fanno delle torture dire di no costa ancora di più, è così che ti accusavano. Mi accusarono di questo: il prete di Migliarina mi avrebbe dato un fucile, avrei lanciato dei manifestini,  sabotato i magazzini di Ceparana ed ucciso uno della Guardia Nazionale dietro una batteria dove vivevo. Insomma mi diedero sette condanne. Quando dissi: “Ma io sono un ragazzo, vado a lavorare in Arsenale, cerco di fare il mio dovere”, mi arrivò un calcio negli stinchi. Dico la verità, non dico che mi hanno bastonato, mi è arrivato un calcio negli stinchi e basta. Dovetti firmare il foglio, la mia condanna a morte, come fecero tutti. 99 su 100 firmarono: sotto tortura, chi non firma? Così finì l’interrogatorio e ci riportarono in cella. Certi giorni si stava in due in cella, dopo ci cambiarono cella e si stava in quattro, dopo in otto. Arrivarono il giorno di Natale, il primo dell’anno, l’Epifania e il momento della partenza. Tornando indietro, devo dire che Marassi era una riserva: quando ammazzavano qualcuno lo pigliavano da lì, come dalla Casa dello Studente; a noi andò bene.

Arrivò l’ora della partenza; una mattina ci misero in colonna tutti quanti, riempirono due corriere, ammanettati sinistro con destro come tanti briganti, legati con la catena. Tutti avevano le valigie, chi ne aveva due chi una, ma più o meno avevano tutti due valigie. Povere donne: le mogli, le sorelle, le fidanzate, che avevano fatto a piedi La Spezia – Genova sotto la galleria, col treno, perché sulla strada non potevano passare, cercando di portare la roba ai familiari.

Sulla corriera noi si era accompagnati da tedeschi in licenza, sempre con il fucile puntato alla schiena; lungo il percorso, al Passo dei Giovi, il camion si fermò perché ce n’era un altro che impicciava; allora due dei nostri scapparono: un certo Moscatelli di Migliarina e un certo Taddei e non li ripresero.

Ripartimmo ed arrivammo a Trento. A Trento ci fermammo per fare i nostri bisogni, legati insieme. E’ vero che si era tutti uomini, però un po’ di pudore ci vuole anche tra uomini.

Un certo Tosetti del Filettino e un altro tentarono la fuga ma li presero e diedero loro tante di quelle botte!

Quando arrivammo a Bolzano li misero nelle celle di rigore; li picchiarono forte davvero! Dopo li portarono con noi a Bolzano.

Arrivati a Bolzano, fummo scaricati. Avevo il numero, mi sembra 8.800 e tanti, non mi ricordo di preciso, e il triangolo rosso. Per prima cosa ci fecero i capelli da zucca pelata. A Bolzano si viveva, non c’era pericolo, ci passavano poco mangiare e stavamo lì, aspettando la manna dal cielo. Anche lì arrivò il giorno della partenza. Ricordo che era il 31 gennaio 1945, tutti in fila eravamo mi pare 640 o 650, con le valigie in mano, guardati sempre dai tedeschi e dai cani al guinzaglio; il cane per loro era familiare, era la base principale. A Bolzano sembrava di costeggiare la ferrovia, distante abbiamo visto un treno merci; ricordo che sopra il tetto di una grande fabbrica ho visto la scritta Lama Bolzano. Mi ricordo che era il 31 gennaio 1945, era tutto bianco di neve.

D:  Quando eri nel campo di Bolzano ricordi di aver visto delle donne?

R:  Sì, c’era un muro divisorio di mattoni e di là c’erano le donne.

D:  Hai visto se c’erano dei religiosi, nel campo?

R: Tornando indietro a Genova, c’erano 8 preti, tra cui padre Pio di Mazzetta, don Mori de La Scorza, don Scarpato di Fossa Mastra, don Casabianca di Ceparana e don Bertoni, non so di che parrocchia. Al povero padre Pio, che era un frate di quelli bianchi, un omone così, mettevano i morsetti ai polsi per farlo confessare, e cercavano di stringergli le braccia per farlo parlare. Non so se parlò perché i religiosi erano divisi da noi.

D: A Bolzano invece non ricordi di averne visti?

R: A Bolzano quelli che ho nominato non sono venuti, forse sono venuti dopo nell’ultimo trasporto, però con noi non c’erano. A Bolzano per dire la verità li avrò visti, però non mi ricordo.

D:  Quindi ti hanno portato dove c’erano i vagoni?

R: Per farci salire sul vagone fecero uno scalone di legno, però ai lati c’erano sempre gli aguzzini che cercavano di picchiare coi calci, con il moschetto, con le mani, con tutto. Io avevo 17 anni e cercavo di … però c’era gente anziana, malata, zoppa, che purtroppo subì quello che subì. Dentro il vagone trovammo tanta paglia; penso che fossimo una settantina, e nel nostro vagone c’era Vigilante, poverino, con la gamba menomata e l’altro, Carrè il becchino, che è morto durante il percorso ed era già moribondo alla partenza. Ci caricarono e via. Vedevi neve, neve, tutto neve. Facemmo quattro giorni e quattro notti senza mangiare e senza bere; si mangiava la neve attaccata al treno; in quei quattro giorni e quattro notti io non mangiai niente. Dentro il vagone, in un angolo, c’era un mastello per i nostri bisogni. La nostra destinazione era ignota, andavamo a lavorare ma dove precisamente non si sapeva. A forza di camminare il treno arrivò alla stazione. Ricordo che prima che il treno si fermasse, si iniziavano già a sentire urla di cattiveria, fare presto, sbrigarsi, insomma si vedeva dai movimenti, si vedevano tedeschi e cani al guinzaglio. Arrivammo in questa stazione, uscimmo tutti. Alla stazione si vide la scritta Mauthausen, pensavo di andare in riviera come qua a Manarola, a Rio Maggiore, a Vernazza. Non si sapeva mica che Mauthausen era rinomata per quel campo. Ci misero tutti insieme, cinque con le nostre care valigie in mano; invece di fare la strada principale di Mauthausen ci fecero fare una secondaria, piena di neve, sterrata. Ai lati della strada c’erano donne, uomini, bambini, vecchi. Quello che non ci arrivò addosso … palle di neve, pezzi di sassi, sputi, Badogliani, traditori, insomma tutto quello che potevano vomitare vomitarono. Andammo su piano piano, dalla stazione al campo ci saranno 5 / 6 chilometri, tutto era coperto di neve, non si vedeva niente, alberi e basta. Lungo il percorso si vedevano uomini vestiti zebrati, però non pensavo che fossero prigionieri; man mano che si andava avanti si vedeva anche di più: spalavano, pulivano la strada, li vedevo magri, con gli occhi infossati, la zucca pelata, guardati dai tedeschi. Man mano che si avvicinavano vedevamo grandi camini fumare, un grande muraglione.

Dopo si arrivò alla porta d’ingresso del campo. Prima entrammo dai depositi dell’attrezzatura tedesca.

Una parte di noi era rimasta in quel perimetro grande, e una parte su una scaletta a destra entrò proprio nel campo di concentramento. Si entrò dalla porta, girando a destra; dopo andammo verso il muro del pianto.

Entrando nel campo girai la testa e vidi attaccato alla catena dell’ingresso un uomo ma non vidi se era legato; pensai che fosse fermo lì, invece poi vidi che era legato con una catena. Lo avevano messo come esempio: se uno non fosse stato agli ordini del campo sarebbe andato a finire lì per punizione! Arrivati nel piazzale c’erano 30 / 40 centimetri di neve, un manto bianco; penso che saremmo stati in 300, una parte rimase sotto ad aspettare il turno.  Venne il tedesco a parlare con l’interprete e ci fece depositare tutte le valigie.

Pensa quanta roba rubarono! Ognuno aveva una valigia o due, il vestiario, la biancheria, può darsi anche soldi, roba da mangiare, tanti la tenevano. Vedevano che c’era gente che non mangiava però – fa parte dell’egoismo – se la tenevano, ma quando arrivammo al campo ci portarono via tutto.

Depositammo le valigie, seguì un altro ordine: spogliarsi tutti nudi, levarsi gli indumenti, tutti. Uomini, grandi, piccoli, vidi scene un po’ commoventi. Recentemente, quando il Papa è andato in Israele ha visitato il Muro del Pianto: ma era quello di Mauthausen il vero muro del pianto!

Ho visto uomini anziani depositare catenine, anelli, portafogli, volevano tenersi una fotografia della moglie o del figlio, niente, lasciare lì. Guai se trovavano qualcosa addosso, erano punizioni tremende, infatti lasciarono tutto. Fatto questo andammo tutti in fila giù per una scaletta senza sapere dove, sempre destinazione ignota; ai lati della scaletta c’erano non militari ma borghesi, prigionieri come noi, e cominciammo ad assaggiare le botte del campo. Infatti entrammo, c’erano i barbieri con le macchinette, testa pelata, a me fecero la Strasse in mezzo, tutti i peli sulle braccia rasati; dopo le docce, acqua calda e acqua fredda. Si divertivano anche; finché era calda, bene ma quando era fredda, era pur sempre il 4 febbraio.

Finito questo programma pensai: “Ora ci daranno un asciugamano”, ma niente. A 50 metri c’erano due con dei pennelli, facevano un segno e dicevano che fosse disinfettante. Poi tornammo fuori dove ci avevano spogliati. Mi ricordo che presi un paio di pantaloni e una camicia, mutande niente, un paio di zoccoli con la striscia. Dopo mi capitarono un paio di zoccoli un po’ più robusti e li presi. Finimmo di vestirci alla bell’e meglio e ci portarono al blocco di quarantena. Io ero nella prima baracca, forse la 22; dopo c’era il muro perimetrale che divideva la quarantena. In baracca ci misero a dormire; i pagliericci avevano 3 centimetri di spessore. Alla mattina presto cominciai a sentire urlare, con i nervi in mano; prima di uscire e andare fuori all’aperto passammo sotto i lavandini tondi tipo militare con tanti rubinetti: a  petto nudo a bagnarsi testa, torace, schiena. Non c’erano gli asciugamani che si usano in casa, solo con la camicia e fuori all’aperto.

Dopo un po’ ci diedero il primo caffè, chiamiamolo caffè ma era acqua calda; lo bevemmo perché l’acqua calda faceva bene. Dopo fecero cominciare l’appello, tutti in fila, la mia prima volta che subii l’appello nel campo di Mauthausen, prima l’avevo subito a Bolzano. Tutti in fila, prima fecero le prove con il cappello, Mütze ab, Mütze auf dovevano sentire un colpo; un paio di volte lo ripetemmo, e dopo alla bell’e meglio lo facemmo.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: Finito l’appello, verso mezzogiorno, diedero la zuppa, tutti in fila; si cercava sul fondo dove era più densa, però a volte di capitava e a volte no. C’erano tanti prigionieri ma una gamella a testa non c’era; erano gamelle smaltate, tutte rugginose, brutte, io in tre mesi a Mauthausen il cucchiaio non l’ho mai visto, si mangiava con le mani: bisognava far presto a mangiare perché gli altri aspettavano che finissi per passargli la gamella, si doveva pulire bene perché c’era solamente quella.

Finito il mangiare di mezzogiorno arrivava la sera. Alla sera davano il pane, si mettevano fuori vicino al tavolo, tagliavano questo pane a fette, non so se era di 1 o 2 centimetri, davano un pezzetto di margarina, un po’ di marmellata o qualche pezzetto di salame, il pranzo era questo. Quando avevano finito di tagliare il pane sulla coperta la sbattevano e tutti le saltavano addosso per mangiare le briciole.

Quando racconto questi episodi nelle scuole mi guardano un po’ strano e dicono: “Ma questo cosa racconta?” A tante cose è difficile credere, magari a scuola non le hanno insegnate, però sono cose che ho visto e vissuto.

Finito di mangiare il pane si andava in branda in baracca, ma prima di entrare ci dovevamo spogliare, fare il nostro cuscino, andare dentro tutti in fila, e non mettersi con la pancia per aria, comodi sui pagliericci, ma a lisca di pesce, testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi… Non eravamo solamente tutti italiani, c’erano anche francesi, tedeschi, polacchi, russi, non ci capivamo, non si poteva dire: “Spostati un attimo”. Se urlavi era un parapiglia; lasciavamo un corridoio per chi di notte andasse a fare i bisogni. C’erano i gabinetti, con i lavandini ed anche i water, però non ci sono mai andato. Dietro c’erano i bidoni o una fossa con una tavola di traverso; i nostri bisogni li facevamo lì.

Nel blocco rimasi dal 4 febbraio fino al 5 maggio, sempre così. Fu la mia fortuna, io avrò lavorato in tutto quindici giorni, mi chiamarono a fare delle fosse con picco e pala, non so se erano delle fosse comuni o fosse che interessavano a loro.

D: La tua immatricolazione?

R: L’immatricolazione non ricordo come sia andata; era una striscia bianca col numero, io avevo il 126.404 con il triangolo rosso e la sigla IT; davano una piastrina di ferro legata col filo che mi rimase per ricordo, ce l’ho nella borsa se dopo la volete vedere. Nel periodo della quarantena una volta ci portarono sotto un grande tendone in fondo al campo; c’era una porticina di legno, sulla destra ora c’è il museo.

Una volta vennero i tedeschi coi cani dietro a questa porticina del tendone grande come i tendoni da circo. Non so per quale motivo, ma stemmo due giorni lì dentro, e dopo ci riportarono nel blocco.

A volte mi dicono: “Ma tu sei ritornato a casa!” Ragazzi, che ci posso fare? Ci sono diverse cose da raccontare. Nel blocco di quarantena un giorno mancavano due deportati all’appello. Erano due come noi e stemmo quasi tre o quattro ore fermi all’appello; girarono dappertutto e li trovarono. Li portarono dentro: la porta dove adesso c’è un cancello una volta era chiusa e di legno, vedevi solamente baracche e cielo, baracche e cielo.  Li presero per il petto, li buttarono contro il muro perimetrale del campo, rimasero un giorno e mezzo lì, morti così.

Quando vado là porto i ragazzi e racconto loro questo particolare che mi è rimasto impresso, e tutte le volte metto un paio di fiori nel campo, perché erano deportati come noi.

D: Dicevi di essere uscito alcune volte per andare a fare dei lavori; uscivi dal campo?

R: Sì, però non sapevo dove andassi, andavamo a circa 100 / 200 metri, sempre guardati dai tedeschi in divisa, non sapevamo dove ma eravamo proprio fuori dal campo.

D: Il momento della Liberazione dove ti trovavi?

R: Voglio raccontare un altro particolare. Quando ero nel blocco di quarantena, ogni tanto venivano i tedeschi a cavallo coi cani, ci facevano girare intorno al perimetro della baracca, lo facevano apposta per eliminare noi deportati. Nella mia baracca c’erano diversi italiani tra cui diversi spezzini che man mano andavano a lavorare fuori o cambiavano baracca o morivano. Rimasi l’unico spezzino con un certo Bonati Fabio di vicino Migliarina, che aveva 24 anni ed era ben messo. Ciononostante cominciò ad ammalarsi, lo vedevo tutti giorni deperire; quando facevamo l’appello cercavo di stargli vicino e di aiutarlo per quello che potevo fare. Vedevo però che non ce la faceva, vedevo che ormai era sfinito; ad un certo punto cascò vicino a me e mi disse: “Vai via che io non ce la faccio più”:  lo lasciai e non lo rividi più.

Sono due cose che mi sono rimaste impresse.

D: La Liberazione te la ricordi?

R: La ricordo perché un paio di giorni prima qualcosa era migliorato, non si vedevano più le solite angherie. Vedevo che i morti aumentavano, e ogni tanto alla mattina cinque o sei erano morti, si portavano su e poi arrivava il carretto che li portava via. Non si sapeva dove li portassero, perché noi il crematoio l’abbiamo visto quando ci hanno liberato: si vedeva il camino fumare ma non si pensava ai cadaveri, era tutto misterioso. Prima della Liberazione erano cambiate anche le sentinelle, non si vedevano più le SS bensì le cosiddette guardie territoriali; non c’era più la cattiveria di prima.

La Liberazione fu il 5 maggio (1945), lo sapemmo dopo che era il 5 maggio; lì si perdeva anche il nome dei mesi e non si sapevano i giorni della settimana. Sentivamo le grandi urla della folla, tutti i deportati andavano nella piazza principale del campo. Vedemmo una camionetta militare con sei soldati a bordo con l’elmetto, non con le divise marziali dei tedeschi. Avevano lanciato roba da mangiare, sigarette, scatolette, caramelle.

Io qualcosa arraffai ma c’erano migliaia di persone, come facevi?

Al giorno della Liberazione tutti i deportati si radunarono: incontrai Vasoli, Tartarini e Carassale, questi tre. Uscimmo dal campo ed andammo nelle cascine dei contadini: c’era una cascina che si vede ora dal museo, mi feci anche una foto, la vedi se ti arrampichi sul muretto. Parlavano tedesco ma i gesti … 

Iniziai a mangiare, portarono pane, uova, una zuppiera di carne di maiale. La notte dormimmo nel fienile ed alla mattina andammo in un’altra cascina. Mentre facevamo questo percorso si sentivano gli altoparlanti in diverse lingue: “Tutti i prigionieri sono pregati di ritornare nel campo perché presto ci sarà il rimpatrio”.

Tornammo. Avevo un fagottino con della roba, non ricordo se pane o uova: all’entrata del campo c’era un Militar Police con casco e fucile: mi portò da due o tre militari che mi buttarono in cella di rigore. Ci stetti  un quarto d’ora e poi mi lasciarono andare. Tornammo al nostro blocco, sempre con questi tre amici di Migliarina. Ci diedero pacchi americani con tanta roba, minestra in scatola, noccioline, cioccolate, sigarette, latte in scatola ma l’istinto della fame! Tutti i deportati che erano usciti, dopo che il campo era stato liberato, entravano con le mucche alla corda, con pecore, conigli, galline, tutto. Però non potevano entrare nel campo, i militari li fermavano, dopo chiamavano i contadini che venissero a prendersi la roba. Diedero due o tre giorni di carta bianca, vidi scene terribili.

D: Sergio, quando e come sei rientrato in Italia?

R: Siamo partiti il 2 giugno 1945, quanti ne abbiamo oggi? 55 anni fa ero per strada che stavo ritornando. Un po’ sui camions militari americani con la pedana a destra e a sinistra, un po’ in treno, un po’ a piedi. Ricordo che arrivammo in un posto di ristoro, era un campo francese, dissi a Vasoli: “Ma guarda un po’, dopo sei mesi si dorme in un lenzuolo bianco”. Ci trattarono bene, si mangiava, ci stemmo un giorno e dopo ripartimmo. Ci fermavamo nei posti di ristoro; a Innsbruck ci misero in un campo pieno di pulci e pidocchi, ma non c’era altro posto.  Venivano gli americani con le pompe a disinfettare. Dopo ripartimmo per l’Italia, su questi camion militari. Si vedevano la bandiera italiana e la bandiera austriaca e l’autista disse: “Siamo arrivati in Italia”. Allora scendemmo tutti a baciare la bandiera italiana.

A raccontarle sono cose molto tristi. Arrivammo a Bolzano, ricordo che dove ci eravamo fermati col camion c’era un ciliegio, strappammo i frutti e li mangiammo. Prima di ripartire ci portarono in ospedale, ci visitarono. Mi avrebbero dovuto trattenere perché ero molto deperito ma dissi di voler andare a casa a trovare i miei. A camminare facevo fatica perché ero debole, però volevo andare a casa mia.

Da Bolzano partimmo in treno, che ad un certo punto si fermò perché non poteva più andare avanti. Allora siamo andati con le corriere fino alla stazione centrale di  Milano. A Milano andammo in un punto di ristoro, ci fecero mangiare e bere; poi arrivammo a Genova alla Curia vescovile: io, Vasoli, Tartarini e Carassale, girammo per la città e arrivammo a Prè. Vedendo il nostro aspetto tutti dicevano: “Ma da dove venite così mal ridotti?” “Veniamo dalla prigionia, veniamo dal campo di Mauthausen”. Fecero una colletta che ci siamo divisa un po’ per uno. Da Genova a La Spezia abbiamo preso un camion che andava verso Livorno. Siamo arrivati a La Spezia nella Piazza del mercato, davanti al bar chiamato “Bar Spezia”. Siamo scesi lì verso mezzanotte, abbiamo diviso il nostro gruzzoletto di soldi e ci siamo salutati dirigendoci verso le nostre case.

Desandrè Ida

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre 1922.

Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, e in seguito deportata in Germania. Prima di essere deportata sono stata rinchiusa nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino nelle carceri nuove, di passaggio al carcere di San Vittore a Milano, e poi sono stata trasferita a Bolzano. A Bolzano sono rimasta circa una ventina di giorni.

D: Ida, dove sei stata portata a Bolzano?

R: Nel campo di concentramento di Bolzano, e in seguito da Bolzano sono partita per la Germania. Il primo posto in cui sono stata è il campo di Ravensbrück. Nel campo di Ravensbrück ho fatto la quarantena; in seguito sono stata trasferita in un campo di lavoro, sempre alle dipendenze del campo di Ravensbrück. Questo campo era situato nella località di Salzgitter e vi sono rimasta sino verso la metà di aprile (1945): dalla metà di aprile sono stata trasferita un’altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen.

D: Questo è stato il tuo percorso di deportazioni; iniziamo col campo di Bolzano.  Quando sei arrivata nel campo di Bolzano dove ti hanno messo, te lo ricordi? 

R: Sì, ricordo perfettamente l’ingresso nel campo di Bolzano: ricordo un grande capannone

modo da una rete metallica. Ricordo perfettamente dove erano situate le cucine, le toilettes.

La mia permanenza a Bolzano non è stata troppo malvagia perché ci portavano a lavorare dentro a caserme, dove c’erano diverse mansioni, non per tutti uguali. Con il mio gruppo attaccavamo bottoni ai telo-tenda dei militari. Poi alla sera si rientrava nel campo.

D: Con te c’erano molte altre donne?

R: Sì tante, tante donne. Con il gruppo con cui sono partita dalle carceri di Torino e anche da Milano siamo quasi sempre rimaste unite. Erano donne che provenivano da diverse località, c’era anche una compagna di deportazione della Valle d’Aosta, e operaie delle fabbriche di Torino, donne di Milano, di Cremona, di Imperia; insomma, da parecchie zone del Piemonte, della Liguria …

D: Poi da Bolzano sei partita; tu ricordi in maniera precisa il giorno della tua partenza.

R: Sì, ricordo in modo perfetto il giorno della mia partenza perché era il 10 di ottobre (1944), il giorno del mio compleanno.

D: Ti ricordi da dove siete partite? 

R: Siamo partite appunto dal campo, adesso non so ricordarmi con precisione, se siamo state caricate su dei camion oppure se abbiamo fatto la strada a piedi verso il binario dal quale partivano tutti i treni che ci portavano in Germania. Questo binario esiste tuttora, sono tornata tempo fa a rivederlo.

D: In quanti eravate più o meno sul tuo vagone?

R: Il mio vagone poteva al massimo contenere 40 persone: eravamo invece più di 100.

D: Tutte donne?

R: Tutte donne, anche anziane, chi più chi meno.

D: Avevate dei vettovagliamenti, del cibo?

R: Aveva dei vettovagliamenti chi aveva avuto la possibilità di ricevere ancora qualcosa nel campo di Bolzano. Io per esempio sono stata tra una di quelle che aveva anche ricevuto dei soldi dai familiari e dagli amici che mi avevano anche fatto arrivare dei pacchi. Siamo partite per la Germania con un po’ di mele, un po’ di zucchero, qualche tavoletta di cioccolato, qualche pezzo di pane, non tanta roba.

D: Il trasporto ha fatto qualche fermata?

R: Il trasporto si è fermato alla stazione di Innsbruck verso sera, al calar del sole: ricordo perfettamente i raggi di sole che sparivano dietro la montagna. A Innsbruck ci hanno fatto scendere più che altro per mandarci alla toilette, poi immediatamente ci hanno fatto risalire sul treno.

D: Il treno si è più fermato?

R: Il treno non si è più fermato, almeno che io ricordi, e sono passati tanti anni. Dopo 5 giorni e 5 notti di viaggio siamo arrivate a Ravensbrück.

D: Come avete provveduto ai vostri bisogni fisiologici, se il treno non si è più fermato?

R: Questa è stata veramente una cosa molto penosa, non soltanto per me, ma certamente anche per

tutte quelle che erano sul vagone. Abbiamo dovuto in qualche modo risolvere questo problema facendo un buco tra le tavole del vagone. Queste cose si svolgevano così, con grande umiliazione … trovarsi così di fronte anche a persone sconosciute. Questa è stata, posso dire, la prima grande umiliazione che abbiamo subìto.

D: Poi siete arrivate a Ravensbrück. Cosa è successo quando hanno aperto il vostro vagone?

R: Arrivammo a Ravensbrück su un binario morto, cioè il binario arrivava sino lì. Ci hanno fatte scendere e ci hanno incolonnate 5 per 5. Ci hanno contate ed era un grosso problema per le guardie che ci accompagnavano questo contare: non doveva mai mancare nessuno in rapporto alle cifre che loro avevano. Purtroppo anche durante il viaggio qualcuna è morta.

Ricordo in modo particolare la presenza del lago (nel campo di Ravensbrück); non so di averlo visto con precisione, comunque sentivo la presenza del lago e soprattutto ho il ricordo dolcissimo del suono di una campana. Quando si arriva in questi luoghi anche soltanto il suono della campana ti dà la sensazione di non essere in un posto sperduto, cioè ti fa sperare che ci sia la presenza di qualcuno vicino a te.

D: Come ricordi l’arrivo al campo?

R: Dopo che ci hanno contate e ricontate ci siamo avviate lungo un viale circondato da aiuole ben curate, con casette in stile tirolese, molto belle, con i gerani fioriti alle finestre nonostante che fossimo già nel mese di ottobre. Più che altro guardavo le tendine. Quando siamo partite per la Germania eravamo convinte di andare in Germania a lavorare, anzi in un certo senso era come una liberazione partire per la Germania, perché non sapevamo nulla di ciò che ci aspettava. Pensavamo di andare a lavorare; e questo era il nostro pensiero vedendo queste aiuole, tutte queste casette, che poi erano le case dei nostri aguzzini. Dicevamo: “Qui ci faranno lavorare”, speravamo che la nostra vita si sarebbe svolta in questo modo sino alla fine della guerra. Invece purtroppo le cose poi si sono presentate in un altro modo: finito il viale, ci siamo trovate di fronte un grande ingresso, un grande portone, abbiamo cominciato a vedere le torrette con le guardie sopra, con le armi puntate, il filo spinato, si è spalancato il grande ingresso.

Cosa abbiamo visto entrando nel campo? Abbiamo visto le prime prigioniere incolonnate. C’erano colonne di donne vestite a righe, qualcuna coi capelli rasati e con gli attrezzi agricoli, e le facevano sfilare cantando, le facevano anche cantare. Altre invece trascinavano misere carrette su cui erano andate a raccogliere le morte nel campo, destinate al forno crematorio. A Ravensbrück funzionava giorno e notte il forno crematorio.

D: E l’ingresso nel campo?

R: Per prima cosa non siamo state guardate subito perché siamo state due giorni fuori, dormendo all’addiaccio sul piazzale del campo. Fortunatamente avevamo ancora con noi i nostri indumenti e quel poco da mangiare che era rimasto nei nostri fagotti; li tenevamo ben cari questi fagotti perché le poverine, le prigioniere che erano già lì prima di noi anche di notte cercavano di rubare quel poco che noi ci eravamo portate appresso. Fortunatamente io avevo con me il cappotto, mi ci sono coperta e non ho sofferto

eccessivamente il freddo. Dopo due giorni siamo state chiamate dentro la baracca adibita alla vestizione; ci hanno fatto spogliare nude e abbiamo dovuto lasciare tutto; tutto ciò che avevamo con noi ci è stato preso, non ci è rimasto neanche un ago per cucire né uno spazzolino da denti, niente. Tutto ci è stato portato via, tutti gli oggetti cari, le fotografie, tutto tutto tutto, siamo rimaste nude. E poi siamo state anche notevolmente depilate, visitate nelle parti più intime del nostro corpo: pensavano che qualche oggetto avrebbe potuto essere nascosto. Dicendo oggetto intendo una catenina d’oro, un anellino che sarebbe servito come merce di  scambio nel campo per qualche miska di zuppa.

D: Dopo la spoliazione, la depilazione, la rasatura e le visite corporali, è la volta delle docce.

R: Sì, la doccia e poi la vestizione, cioè dopo la doccia ci hanno consegnato i vestiti. Allora c’era chi otteneva il vestito zebrato e chi no, ed è ciò che per esempio è successo a me: mi è stato dato un vestito nero con una croce di stoffa di diverso colore cucita davanti e dietro. Sul braccio era cucito il triangolo già col mio numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio era rosso; il triangolo rosso era per le deportate politiche. C’erano anche altri colori: il triangolo giallo per gli ebrei, il triangolo verde non ricordo … insomma, c’erano parecchi colori.

D: Poi il blocco di quarantena.

R: Ci hanno assegnato il posto nelle baracche. C’è da precisare che il campo di Ravensbrück era stato costruito per, non so, 9.000 / 10.000 persone circa, ma purtroppo verso la fine della guerra eravamo già più di 50.000, e il campo non si è ingrandito nel frattempo. Il campo è rimasto quello che era, le baracche sono rimaste quelle, perciò  eravamo pigiate dentro queste baracche. Mi è stato dato un posto per dormire, c’erano i letti a castello, chiamiamoli letti ma erano semplicemente dei tavolacci con un po’ di paglia e una coperta. Il mio posto è stato assegnato al quarto castello, ma questo posticino era occupato da 3 prigioniere polacche; le poverine erano già da un po’ di tempo nel campo; vedendosi arrivare un’intrusa ad occupare una parte di questo piccolo posticino mi riempirono di botte. Io non capivo perché mi picchiassero così; non avevo colpa se mi avevano rifilata in questo angolino.

Voglio raccontare un particolare: entrando nella baracca in attesa appunto che ci venisse assegnato il posto, io mi sono appoggiata sul primo lettino del castello, che era ricoperto da una copertina a quadretti bianchi e blu, tutta diversa dagli altri letti. Era il letto di una kapo: non pensavo di fare qualcosa di male, ma lei senza dirmi niente mi allungò un ceffone. E mentre mi picchiava mi chiamava “Badoglio”. Tutte noi italiane eravamo chiamate “Badoglio”. Perché? Perché in fondo in fondo la considerazione che i tedeschi avevano delle prigioniere italiane era doppiamente terribile: noi non eravamo il nemico, noi eravamo i traditori, e questo certamente ha influito molto sulle punizioni e sul comportamento che loro avevano nei nostri riguardi.

D: Quanto tempo sei rimasta a Ravensbrück?

R: Io penso grossomodo di avervi fatto la quarantena, adesso dire con precisione non lo so, ricordo

vagamente. Nei giorni in cui siamo rimaste a Ravensbrück – io parlo sempre al plurale perché siamo quasi sempre rimaste assieme noi del gruppo partito da Torino e da Milano, noi che provenivamo dal Piemonte e dalla Liguria – ci portavano a lavorare. Andavamo a lavorare dalle parti in cui c’era il laghetto; ci facevano caricare sabbia su grandi carrelli sistemati su rotaie: dovevamo caricare, riempire questi carrelli, spingerli e svuotarli. Certamente era un lavoro inutile ma era un modo anche questo per toglierci le forze, per debilitarci e per farci capire che eravamo là per soffrire, ecco.

D: Lo specifico di Ravensbrück è quello di essere un campo tutto femminile.

R: Sì, nel campo di Ravensbrück c’erano tutte donne.

D: Solo donne.

R: Giovani, vecchie, anziane, insomma c’era un po’ di tutto.

D: Tu hai subìto esperimenti in questo campo?

R: Sì, in questo campo sono stati fatti degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre, consisteva nel toglierci il ciclo mestruale: a qualcuna mettevano qualcosa nel mangiare, invece tante altre venivano messe su un tavolo e veniva iniettato direttamente nella salpinge un liquido molto irritante; questo liquido ci ha tolto le mestruazioni. Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi anche per un periodo di tempo successivo al mio rientro a casa, non ho più avuto le mestruazioni.

D: E il vostro corpo si è riempito di che cosa?

R: Togliere il ciclo mestruale era un problema molto grave per la donna, ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo: loro dicevano che noi eravamo degli schiavi e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi. Certamente anche in questo senso cercavano il modo di eliminare il più possibile le persone, e così anche con noi, che non avremmo potuto magari più avere figli. Questo penso sia stato lo scopo di questo esperimento, e forse anche vedere l’effetto che poteva fare sulla donna togliere il ciclo mestruale. L’effetto è stato che i nostri corpi si sono riempiti di grossi foruncoli sempre pieni di pus, e i  pidocchi  si accompagnavano benissimo coi foruncoli ….

D: Durante il periodo che tu sei rimasta a Ravensbrück hai subìto anche una selezione. Te la ricordi?

R: La selezione è stata quando ci hanno scelte per portarci fuori dal campo di Ravensbrück, perché il campo aveva dei campi satellite, dei campi di lavoro. Sono arrivati degli industriali tedeschi e ci hanno scelte, cioè individuavano tra le prigioniere quelle che più o meno avrebbero potuto rendere nella loro fabbrica e nel lavoro. Ci guardavano soprattutto, mi ricordo, le mani: chi aveva anche le mani callose era evidente che fosse una persona già abituata a lavorare e senz’altro avrebbe reso in fabbrica. Io fortunatamente avevo già i calli alle mani perché abituata a lavorare, ho lavorato sin da piccola.

Prima di tutto questo però diciamo dell’appello al mattino a Ravensbrück. Alle 5 dovevamo uscire fuori dalle baracche per l’appello, qualunque fosse stato il tempo, qualunque fosse stato il modo in cui potevamo uscire; tante volte dovevamo uscire anche nude, e l’appello durava tante ore, a seconda se durante la notte qualcuna era morta oppure se qualcuna era assente per qualche altra cosa. Contavano, contavano e ricontavano; l’appello durava fin a quando i conti non tornavano. A Ravensbrück succedeva anche questo. Cosa posso dire? Tra tante altre sempre del mio gruppo, siamo state scelte per andare a lavorare in una fabbrica in un campo di lavoro che si chiama Salzgitter. Ci hanno caricati su dei treni un’altra volta e ci hanno portato in questo posto. Non abbiamo viaggiato tanto perché Salzgitter non era tanto lontano da Ravensbrück. In questo campo di lavoro c’erano parecchie baracche, adesso ricordo vagamente quante baracche c’erano, ma c’erano donne di tutte le nazionalità: greche, polacche, russe, francesi, italiane.

D: E lì a Salzgitter cosa facevate?

R: A Salzgitter ci portavano a lavorare dentro delle fabbriche. Noi andavamo a lavorare in una fabbrica in cui si costruivano i cerchi di rivestimenti per le bombe. Ci davano della polvere tipo polvere di alluminio, non so bene di che cosa fosse composta questa polvere, e si cominciava a costruire dal piccolo cerchio via via sempre più in grande, fino a quando la forma della bomba veniva data da tutti questi cerchi l’uno sopra l’altro. Questo era il lavoro che si svolgeva nella nostra fabbrica; si facevano i 3 turni, si lavorava dalle 6 del mattino alle 2, o dalle 2 alle 10 di sera; poi c’era il turno di notte. Questo è stato il lavoro di Salzgitter.

D: Poi anche da Salzgitter sei stata trasferita.

R: Sì, da Salzgitter siamo state trasferite perché il fronte stava avanzando. In una notte tremenda ci hanno fatto uscire dalle baracche, con urla tremende, e bastonandoci ci hanno caricate su dei camion e ci hanno portate via: la nostra destinazione era nuovamente Ravensbrück. Purtroppo durante il viaggio il nostro convoglio è stato bombardato, e naturalmente il treno non ha più potuto proseguire per Ravensbrück. Allora abbiamo camminato, ma non quella notte, che abbiamo passato nel bosco. Il giorno dopo abbiamo camminato, e dopo tanti chilometri siamo arrivate nel campo di Bergen Belsen.

D: Quando siete state trasportate da Salzgitter a Bergen Belsen siete state bombardate nella stazione di Celle, te lo ricordi?

R: Siamo state bombardate nella stazione di Celle presso Hannover; abbiamo subìto un bombardamento terribile, e in seguito a questo bombardamento abbiamo dovuto proseguire sulla strada a piedi. Facendo tutti questi chilometri a piedi per arrivare nel campo di Bergen Belsen avevamo tanta sete, tantissima sete, e soffrire la sete è una cosa molto brutta. E poi anche fame, perché non ci è stato distribuito più niente da mangiare. Io avevo con me un pezzo di pane, un piccolo pezzo del pane che ci veniva distribuito nel campo. Non so con che farina fosse fatto, se ci fosse almeno un po’ di farina ma forse non c’era neppure. Questo pezzo di pane me l’aveva dato una compagna di deportazione che era riuscita a rubarne un po’ e che aveva distribuito tra noi compagne; io, per non mangiarlo e perché mi durasse di più, ho continuato a leccarlo tutto il tempo che abbiamo camminato; tra l’altro eravamo anche mitragliate. Quando arrivavano gli apparecchi aerei si lasciava la strada e si correva a ripararsi nei boschi. Dopo tanti chilometri finalmente arrivammo a Bergen Belsen. Io avevo sempre in mano questo pane che si era ridotto ormai ad una palla a furia di leccarlo, era una piccola palla. E non appena sono entrata nel campo di Bergen Belsen, sono stata avvicinata da una prigioniera che aveva un po’ d’acqua dentro il recipiente che chiamavamo miska: mi ha fatto segno che se le avessi dato il pezzo di pane lei mi avrebbe lasciato bere un sorso d’acqua: ecco, ho rinunciato al pane per bere un po’ d’acqua, perché la sete era stata talmente grande.

Del campo di Bergen Belsen cosa possiamo dire? La nostra prima impressione nel vedere tutto ciò che c’era attorno a noi, un inferno dantesco, è stata: “Qui è finito, qui loro hanno vinto, noi abbiamo senz’altro perso”, vedendo tutto il disastro che c’era. Nel campo non c’era più nulla che funzionasse, non c’era acqua, non davano più da mangiare. I cadaveri erano tutti sparsi nel campo, erano cadaveri accatastati, mucchi e mucchi di cadaveri che la notte buttavano fuori dalle baracche. Vedere questi cadaveri così, con le membra tutte storte, con gli occhi aperti, le bocche aperte, con le piaghe da decubito, è stata una cosa terribile, una cosa che ancora io non ho dimenticato, nonostante siano passati tantissimi anni. Il mio pensiero va sempre a questa povera gente che è morta in un modo così terribile.

D: Ida, perché sei stata portata nei campi di concentramento?

R: Io sono stata portata nel campo di concentramento perché mio marito era militare ad Aosta; l’8 settembre (1943) c’è stata la disfatta dell’esercito italiano, e anche lui, come tutti gli altri, dopo 8 anni di servizio militare è scappato assieme agli altri. Ha fatto parte della Resistenza in un modo abbastanza blando, ma non ci voleva tanto per essere arrestati; anche se non si partecipava alla Resistenza, in quel periodo bastava una frase fuori luogo, oppure un’imprecazione per il pane che non ci davano o per la fame che si pativa e si poteva benissimo essere arrestati.

Io ho visto persone arrestate perché trovandosi in un luogo pubblico, in un bar o in una cantina, con la radio che trasmetteva il giornale radio, non si alzavano in piedi e non si toglievano il cappello, come invece si doveva fare. Ebbene, bastava che ci fosse un fascista dentro al locale, e potevano arrestarti per questo.

Essere arrestati non significava aver fatto qualche cosa, essere arrestati significava questo: il governo italiano doveva consegnare al governo tedesco un certo numero di prigionieri, e per raggiungere la cifra tutto andava bene: quelli presi nel rastrellamento e quelli presi per delle sciocchezze.

Ripeto, mio marito ha lasciato l’esercito e siamo stati arrestati tutti e due, lui è finito in Germania prima di me, perché ha fatto tutto il mio viaggio sino a Bolzano, e poi è partito per la Germania qualche giorno prima di me, inviato in un campo di lavoro vicino a Lipsia, non in un campo di sterminio, ed è rientrato in Italia nel mese di agosto (1945), mentre io sono rientrata in Italia nel mese di settembre del 1945.

D: Ritorniamo ancora a Bergen Belsen, che è l’ultimo campo in cui sei stata deportata e dove sei stata liberata. Ci stavi descrivendo le immagini del tuo arrivo; quanto tempo vi sei rimasta?

R: Noi siamo stati liberati dalle truppe inglesi il 5 di maggio (1945), non mi vorrei sbagliare ma mi sembra tanto che fosse il 5 di maggio. E poi siamo rimasti ancora parecchi giorni dentro a questo campo, perché la situazione era caotica e doveva essere organizzata anche l’evacuazione del campo. Le prime persone che sono state portate fuori dal campo sono stati i prigionieri che quasi quasi erano all’ultimo stadio. Sono stati portati via i bambini, perché c’erano anche bambini e delle giovanette, lì dentro. Non bisogna dimenticare che nel campo di Bergen Belsen è morta Anne Frank e tantissime ragazzine.

Quando hanno potuto, gli inglesi ci hanno portate via, ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno disinfettate tutte con il DDT, spargendo sui nostri corpi nudi, un’altra volta nudi, tutta la polvere di DDT. Siamo state portate via e ci hanno di nuovo, non tutti, sparsi in questa regione; noi siamo ritornate a Celle dove eravamo state bombardate, e siamo state messe dentro delle caserme, precisamente nella scuderia delle caserme, a dormire un’altra volta per terra sulla paglia. Così per un paio di giorni; io ero già abbastanza malata, avevo sempre la febbre. Fortuna volle che incontrassimo dei prigionieri militari che avevano requisito una casa tedesca, dove forse c’era un laboratorio perché c’erano dei letti a castello. In attesa del rimpatrio l’avevano requisita e ci diedero una camera, per tutte tranne la mia carissima compagna di deportazione di Imperia, che purtroppo è stata portata in ospedale perché era gravemente ammalata; gli inglesi infatti l’avevano portata via dal campo di Bergen Belsen, quasi subito.

D: A Celle fino a quando sei rimasta?

R: Lì siamo rimaste fino a settembre, quando ci hanno rimpatriate. Tante volte ci chiamavano, ci radunavano perché si doveva partire, e poi invece il convoglio non c’era. Ci sono stati dei grossi problemi in quel momento, perché eravamo talmente tanti e le ferrovie funzionavano non in modo tanto buono. La Germania era anche distrutta nelle ferrovie, nei ponti, nei treni e tutte queste cose. Per organizzare il rimpatrio c’è voluto tanto tempo. Primo Levi nel suo libro “La tregua” descrive molto bene le fasi del rimpatrio. Non tutti siamo stati fortunati da avere subito un convoglio che ci portasse a casa. E poi, ripeto, io ero già ammalata; sono stata poi ricoverata in una clinica tedesca, dove bene o male sono stata curata dalla febbre, diciamo, intestinale; avevo anche la scabbia in tutto il corpo, soprattutto sulle mani, dove si vedeva un po’ di più e questo mi tormentava un po’ di più.

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia verso la fine di settembre (1945).

D: Attraverso quale percorso?

R: Sono passata di nuovo dal Brennero, come quando sono partita, e sono ritornata a Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano quando spuntava l’alba; bellissimo questo ingresso a Bolzano, dove la Croce Rossa ci ha accolti. La prima cosa che ci è stata data è stato un pezzo di pane, un panino bello grande, molto bianco, che forse era fatto anche con farina di riso. Eravamo talmente commosse, in modo particolare, nel ricevere questo pezzo di pane dopo tanto tempo che non riuscivo neanche a mangiarlo, me lo baciavo.

Salmoni Gilberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.

Sono stato arrestato dalla milizia della Repubblica di Salò alla frontiera svizzera, il 17 aprile 1944, in alta montagna. Eravamo partiti da Bormio, tutta la famiglia: papà, mamma, mio fratello, mia sorella e mio cognato, cioè suo marito.

Con due guide di Bormio, Pedrazzini e Fumagalli, abbiamo camminato tutta la notte; è piovuto in bassa quota ed ha nevicato in alta quota. Eravamo arrivati al passo, che mi hanno detto dopo chiamarsi Passo della Forcola, sui 2.770 metri di altitudine. A quel punto le guide ci hanno detto che potevamo riposarci qualche  minuto, c’era una capanna; invece siamo stati sorpresi dalla milizia. Eravamo ormai alla fine della salita, non avevamo che da scendere.

Siamo stati portati alla caserma della milizia confinaria di Cancano poi al carcere di Bormio. Alla caserma di Cancano siamo stati interrogati, ci hanno sequestrato gli orologi e i soldi, che poi abbiamo trovato, ci hanno fatto firmare, una cosa del tutto regolare. Siamo stati anche interrogati nel senso che uno aveva una specie di pugnale, ma insomma non è stata una cosa tremenda, si vedeva che voleva darsi delle arie. Poi ci hanno portato al carcere di Bormio. Il carcere di Bormio è un carcere di paese; c’era un ladro con le catene ai piedi e la palla, quella delle vignette. Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e lì siamo stati consegnati alla gendarmeria tedesca. Il giorno dopo, accompagnati dai carabinieri, sul treno e ammanettati siamo andati a Como, e lì consegnati alle SS.

A Como siamo stati 5 giorni, grossomodo; poi siamo stati portati a Milano al carcere di San Vittore.

Non so come si chiamassero le carceri di Como, so che ci siamo arrivati il 21 aprile, Natale di Roma. Dicevano che era l’unica giornata in cui davano la pastasciutta invece della minestra, ma noi l’abbiamo saltata, abbiamo avuto la sbobba.

D: Poi a Milano, San Vittore.

R:Poi San Vittore. A San Vittore c’era un’organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri.

Io non ho detto fino a questo momento che eravamo stati arrestati come ebrei, anche se a rigore la mia famiglia era mista. In realtà c’era soltanto una nonna cattolica, però poi con dei documenti saltavano fuori due non cattolici. Noi eravamo battezzati, però al momento non abbiamo tirato fuori questa cosa. A San Vittore abbiam passato un bel po’ di tempo, una decina di giorni almeno.

Tra l’altro ci han portato a scavare bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti: eravamo stati caricati su un camion, tutti incatenati, una ventina di persone, e portati là con questa consegna: “Il buchetto che vedete bisogna allargarlo fino a trovare la bomba, mi raccomando non picchiateci sopra.” Ci abbiamo picchiato sopra ma non è esplosa, perché ci davano un piccone.

Di lì siamo andati a Fossoli. A Fossoli ha giocato la documentazione che avevamo, difatti gli altri ebrei son partiti per Auschwitz, noi invece siamo rimasti a Fossoli per un periodo abbastanza lungo, cioè fino allo sgombero del campo. In realtà quelli giudicati misti erano trattenuti.

D: Con voi c’erano delle donne della tua famiglia?

R: Certo.

D: Vi hanno separati?

R:Separati, però ci si vedeva, mentre a San Vittore si era insieme, non facevano separazione. Noi eravamo all’ultimo piano del raggio, adesso non ricordo se il raggio era il 5 o il 6. Le celle erano aperte, quindi si poteva circolare nel corridoio.

A Fossoli in realtà si lavorava poco, era un campo di transito, non era organizzato per seviziare. Era organizzato per trasferire quelli che poi venivano trasferiti. Comunque nel periodo in cui siamo stati lì c’è stata la chiamata per un trasporto mi pare di 70 persone, che poi in realtà sono state fucilate al poligono di Carpi. Prima di loro sono stati chiamati quelli che hanno scavato la fossa. La cosa è risultata subito evidente perché i bagagli dei 70 erano partiti e son tornati indietro. Si capiva anche perché quelli che avevano scavato la fossa ci han detto: “Non chiedeteci niente, non possiamo parlare.”

Ho dimenticato di dire che a San Vittore abbiamo avuto un interrogatorio abbastanza duro ma non tremendo, duro per mio fratello e mio cognato: mio fratello aveva 15 anni più di me, mio cognato, che è cattolico e avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di Salò, ebbe due denti rotti perché gli tirarono una pistola in bocca. Mio fratello si è preso degli schiaffoni; io ero lì fuori a vedere, a me non hanno fatto un granché. Il nostro timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno, però non abbiamo avuto torture particolari, minacce ed urla sì, ma insomma …

Fossoli è un campo in cui c’era anche uno spaccio che completava l’alimentazione che passava l’SS; era un campo relativamente tranquillo, relativamente perché vi dico c’è stata la fucilazione. Un prigioniero politico che era riuscito a scappare è stato poi ritrovato e massacrato dalle botte, in faccia a tutti sulla piazza dell’appello, apposta, chiaramente. E poi ci è stato detto che eravamo stati abbastanza in villeggiatura e che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.

D: A Fossoli sei stato immatricolato?

R: No. 

D: Ricordi se a Fossoli c’erano dei religiosi?

R:No, non lo ricordo, so che forse don Gaggero c’era. La parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello era medico ma andava nell’infermeria dove c’era Ottorino Balduzzi. E’ risultato dopo che Balduzzi era il comandante dell’organizzazione Otto che teneva i contatti radio con gli alleati. Con mio fratello si conoscevano già, Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata. Ad ogni modo noi circolavamo nella parte ebraica del campo. C’erano invece dei prigionieri olandesi ed inglesi che avevano un trattamento migliore sicuramente e non erano chiamati a lavorare. Io invece lavoravo.

D: A Fossoli lavoravi?

R: A Fossoli lavoravo, non sistematicamente, però; facevo la cernita della spazzatura, quella che adesso chiamiamo la spazzatura differenziata: noi andavamo sul mucchio della spazzatura a separare la parte metallica dalla parte non metallica. Cioè le scatolette dal resto.

D: All’interno del campo?

R:All’interno del campo. Nei primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, non ero molto bravo; poi una volta c’è stata una visita di Buffarini Guidi, che era il ministro degli interni italiano, e ci hanno organizzato un trasporto pietre, cioè c’era un mucchio di sassi e ci facevano fare la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa: una buffonata, insomma.

D: Poi hanno organizzato il vostro trasporto per l’altro campo.

R:Siamo stati portati a Verona. Allora si passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti, quindi una corriera arrivava fino ad una riva e un’altra corriera sull’altra riva ci portava a Verona.

D: Durante il tuo periodo di Fossoli hai potuto comunicare con l’esterno del campo, scrivere o ricevere?

R:Io avevo un amico di Modena, o lì vicino, non so come gli ho scritto che ero lì, se poteva mandarci qualche genere alimentare e ci ha mandato un pacco con pane e uova, adesso non ricordo esattamente. Erano i conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, bravissime persone che abitavano a Genova, e poi erano arrivati a Bogliasco dove eravamo sfollati per i bombardamenti, quindi li conoscevo bene. Eravamo molto amici con uno che aveva un anno o due più di me. Ho scritto e molto gentilmente loro l’hanno mandato. A differenza della Germania dove noi potevamo scrivere al massimo tra un campo e l’altro, ma nessuno sapeva dove fossimo.

D: Quindi vi hanno trasportato a Verona …

R:A Verona ci hanno fatto salire su un treno a Porta Vescovo, su dei vagoni, separandoci.

La separazione era già stata stabilita a Fossoli, con determinati criteri loro che poi ho cercato di ricostruire. Quindi mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due guide invece erano già state mandate a Mauthausen, però una scappò durante il viaggio e andò coi partigiani della zona di Bormio. Io e mio fratello siamo stati fatti scendere a Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto che sul vagone dove c’erano i miei c’era scritto “Auschwitz”.

Già si sapeva che non c’era da aspettarsi niente di buono. Invece sul nostro abbiamo visto scritto “Buchenwald”, che per noi era un nome sconosciuto.

D:Dici di aver visto le scritte all’esterno o nel vagone?

R:Dove mettevano le spedizioni, credo che fosse quello. Era scritto molto chiaramente “Auschwitz”, e già sapevamo bene. E’ un’informazione che non so come e quando ci sia arrivata, però io so che quando siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, dicevamo: “Vediamo se esce il gas”, quindi … erano già informazioni acquisite.

D: Da Innsbruck poi il convoglio procede.

R:Da Innsbruck i vagoni sono stati separati; noi abbiamo continuato per circa 4 / 500 chilometri più a nord, non li ho misurati. Si passa da Monaco, da Norimberga, da Weimar, e sei subito vicino a Buchenwald. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald, ci han fatto scendere dal vagone con il nostro vicecapocampo Haage, che risulta ancora  vivo ed ha circa 90 anni – su di lui c’è una pratica pendente, mi hanno chiamato in agosto i carabinieri a fare una deposizione 3 anni fa poi non se ne è più saputo niente. Ci han svegliato, probabilmente era primo mattino, ci hanno rinchiuso in una baracca buia, già pieno di gente e non si respirava, non avevamo il coraggio di aprire porte, era una situazione già di dramma. Alla mattina invece siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo. Quindi: spoliazione, doccia, depilazione, venivano buttati a caso i generi di abbigliamento che consistevano – allora era agosto – in una camicia, una giacca, un paio di calzoni, si infilava un paio di zoccoli, poi veniva dato il numero, che in qualche modo abbiamo cucito, e si veniva mandati al blocco di quarantena.

D: Ricordi il tuo numero?

R:44.573. Quello di mio fratello era 44.529. Erano numeri sparsi, e quindi per noi era un mistero fino a quando dopo la liberazione siamo andati a vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva riciclato. Quindi si tappavano dei buchi, in un certo senso, contabili.

Erano accurati, ci chiedevano quante lingue sapevamo, qual era la nostra professione, qualcuno diceva che faceva il cuoco sperando di essere mandato in cucina, ma sono assolutamente certo che l’unica ripartizione che potevano fare era per operaio specializzato.

Pochi giorni dopo che eravamo nel blocco di quarantena c’è stato un bombardamento molto forte di 5 squadriglie da 12 fortezze volanti. Avevamo una paura da matti perché sembrava che le bombe arrivassero sempre più vicine, si vedeva legname e cose varie che volavano per aria.

In quel momento mio fratello, che appunto era medico, dice: “Usciamo a vedere cosa è successo, tanto c’è  confusione, io dico che sono medico e che tu sei infermiere e vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che certamente ci saranno.” Infatti i feriti c’erano perché le baracche in cui si dormiva erano rimaste intatte, ma i deportati durante il giorno, abbiam visto dopo quando siamo entrati, erano tutti  a lavorare fuori del campo, all’interno di un secondo recinto dove c’erano fabbriche, caserme, garages di camion, macchine, motociclette, un territorio molto vasto. C’erano feriti dappertutto, feriti che si lamentavano, però non abbiamo trovato nessun responsabile identificato cui dire questa qualifica ipotetica, per mio fratello no per me sì. Allora non si poteva stare troppo fuori, rischiavamo troppo ad essere usciti dalla baracca, a rigore avremmo dovuto stare all’interno della baracca, quindi siamo rientrati.

Finita la quarantena prima del tempo, ci hanno assegnato a una baracca dove poi ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c’era lo sgombero delle macerie, e come secondo lavoro la ricostruzione.

D: Quando siete arrivati, il treno dove vi ha portato rispetto al campo di  Buchenwald?

R: Ci ha portato ad un binario morto, e avremo fatto circa 200 metri a piedi per entrare dalla porta principale, che era il comando. C’era una specie di vignetta, un quadretto con un prigioniero col vestito a righe, altri con altri vestiti, io allora ho letto “Caracoveg”, che poi era Karachoweg, perché in russo Karacho vuol dire “”grazie” e quindi era una sfottitura per i deportati che arrivavano.

D: Quando ti hanno completato la vestizione?

R:La vestizione è stata completata, si fa per dire, d’inverno. Con l’avvicinarsi dell’inverno ci hanno dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano. Poi non so come siamo riusciti a recuperare qualche cosa del nostro bagaglio. Mio fratello ad un certo momento ha iniziato a far parte dell’organizzazione clandestina del campo di Buchenwald, che evidentemente aveva del potere; le SS se ne fregavano, purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro. Quindi qualcuno poteva essere spostato, poteva avere accesso a certi posti e qualcun altro no; può essere che mio fratello, entrando a far parte del comitato, abbia avuto qualche privilegio.

D:Il tuo numero del blocco dopo la quarantena te lo ricordi?

R:Mi pare che siamo stati al blocco 43 o 48 o forse in tutti e due; erano dei blocchi a 2 piani, di mattoni o di cemento armato non lo so. Lì abbiamo passato la maggior parte del tempo e siam passati poi al blocco 14, con un certo vantaggio: nell’altro blocco c’erano in polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, i polacchi non so come mai risultavano antipatici a molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata però capita di farla, ed effettivamente con alcuni che abbiamo incontrato non ci si stava bene.

Non c’era una lingua, si parlava in tedesco, credo che una volta uno abbia provato a parlarmi in latino. Invece il blocco 14 era il blocco di francesi e belgi. Allora io il francese lo sapevo bene e mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera di Genova; quando non ho potuto andare nelle scuole statali sono andato alla scuola svizzera e lì la lingua ufficiale era il francese, ho dovuto impararlo per forza. Coi francesi ci si trovava molto bene: c’era una solidarietà fortissima, loro ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, e molto di rado, il proprietario del pacco prendeva il sapone e le sigarette e divideva in 6 parti ogni genere di alimentazione. Questa era una cosa che mi aveva veramente molto sorpreso. A me è capitato per pochi giorni di far parte di una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS e di solito lavoravo all’aperto. Quella volta mi hanno chiamato a levare le pietruzze dalle lenticchie, e ho diviso, mi è sembrato giusto dividere: le ho rubate a rischio. Immaginatevi che quando siamo arrivati c’erano credo 4 impiccati sulla piazza dell’appello per furto di patate, però siccome eravamo convinti di essere morti, cioè di non sopravvivere, non ci si faceva proprio caso, era una cosa a cui non si pensava nemmeno.

D: Quale è statoil tuo primo lavoro?

R:Il mio primo lavoro  è stato sgombrare le macerie, trasferire le travi di legno che ci dicevano di ammucchiare da una parte, i mattoni da un’altra parte, poi recuperarli, cioè levare la calce che era dei mattoni, batterli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta un deportato ha preso il numero a uno dei due, a me o a mio fratello, e l’altro ha detto: “Prendi anche il mio”. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione di Weimar a levare i binari e a sostituirli; era un lavoro tremendo.

La regola per noi, e l’avevamo capito, era cercare di lavorare il meno possibile. Siccome le SS erano abbastanza poche, limitatamente al territorio che dovevano coprire, noi si cercava di fermarci e poi si veniva avvertiti in qualche modo quando  arrivavano e ci si metteva subito a trafficare; non andava mai bene lo stesso ma insomma facevamo qualcosa. Invece lavorare nella stazione di Weimar significava essere guardati a vista da un cordone di SS sempre lì con i cani lupi, non ci mollavano un attimo. Se non smetteva questo lavoro, non so se abbiamo finito di sostituire i binari che erano usurati, o ci hanno spostato di lavoro, sarebbe stata una fine rapida, per quel poco mangiare che ci davano.

D: Con cosa andavate dal campo?

R: In treno, sul vagone, ma son pochi minuti.

D:Ricordi se a Buchenwald hai visto baracche per donne?

R:A Buchenwald c’era il postribolo, questo si sapeva, era una cosa che mi poneva tanti interrogativi; chi era in condizioni di andare al postribolo? Posso immaginare che gli anziani del campo che avevano oramai preso posti di comando potessero usufruirne, comunque donne non ne ho mai visto circolare, ho visto forse qualche moglie di SS.

D: Bambini o ragazzi?

R:Bambini no, il più bambino ero io, grossomodo il meno adulto. C’è stato quel caso che ho letto, non so se avete visto il film di Benigni: un ebreo americano è uscito dal silenzio, ha detto che era riuscito a portare in campo suo figlio. Insomma alle volte proprio ci si sorprende perché non è che si possa capire tutta la realtà del campo, ma la nostra era la prassi: doccia, lasci tutti gli indumenti ecc. ecc.;. Evidentemente è arrivato da una marcia della morte, di quelle degli ultimi tempi, quando cominciava ad esserci un po’ di calo nell’organizzazione.

D:E il lavoro alla stazione?

R:Adesso non ricordo bene se sono rientrato come aiuto muratore; abbiamo fatto un periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni, io poi andavo a prendere con la carriola la calce, facevamo la malta per i muratori veri e propri, che erano persone che sapevano mettere i mattoni; costruivano le fabbriche che erano state bombardate. 

D: Che tipo di fabbriche erano, te le ricordi?

R:Erano fabbriche di armi, questo si è saputo, non è che si vedessero le armi. Io poi ci sono stato perché un capannone era ancora in piedi e c’erano delle macchine che lavoravano; non so come ma sono andato a vederle. Si è saputo che erano fabbriche di armi perché i deportati durante il bombardamento sono riusciti a portare armi all’interno del campo. Quindi c’è stata una storia che è venuta fuori soltanto all’ultimo e che io ignoravo. Ci sono stati appunto degli interrogativi, anch’io con mio fratello non è che si parlasse volentieri di queste cose, in famiglia ci dicevano di stare zitti e di lasciar perdere.

Io non ho mai chiesto per esempio a mio fratello come mai lui dal lavoro esterno fosse rientrato prima di me; mio fratello è andato in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? mettere le pezze. Infatti una minoranza di noi aveva il vestito a righe, standard; per lo più si trattava di vestiti nostri che venivano tagliati, fatta una finestrella sui calzoni e sulla giacca e sulla finestrella cucita dell’altra stoffa; poi venivano  fatte due righe di vernice rossa pesante.

Lo stesso tipo di precauzione c’era per la capigliatura, inesistente, cioè con delle rotaie oppure con la cresta: soltanto la prima volta eri pelato, poi, come ti crescevano, ti lasciavano la crestina o ti facevano la rotaia la volta dopo. Questo immagino per evitare fughe che tra l’altro credo non si pensavano possibili: era possibile fuggire ma non era possibile resistere, ti facevano la spiata subito.

Successivamente sono andato al lavoro interno, ma questa è un’altra storia perché tutte le sere succedeva che chiamassero dei numeri per il trasporto nei campi satellite. Io sono stato chiamato a un trasporto, mio fratello era già in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? essere all’interno del campo, non dover uscire con la squadra e quindi un po’ più di libertà di azione. Io dovevo presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, mio fratello è venuto con me e con le poche parole in tedesco che sapeva si è rivolto al medico dicendo: “Sono un medico di Genova, vorrei partire assieme a mio fratello, vogliamo restare assieme”. Invece di dargli una scarica di botte, questo ha  preso nota del mio numero e del suo, e io sono stato trasferito in cucina. Quindi la cosa ha funzionato, era una di quelle cose per cui o ti ammazzano o funzionano, è stata una botta di fortuna.

Tra l’altro questo medico conosceva un professore di Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni, uno dice: “Conosci mica il professor Caterina?” “Sì, ho operato a Villa Albertani – che era una clinica privata – ho aiutato, davo i ferri”.

In cucina effettivamente sei al coperto, però era un lavoro massacrante, avrei dovuto pelare 20 cassette di patate in un giorno. Al secondo giorno avevo un polso così, e quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Era un’altra cosa: uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca, con la buccia e tutto. Ho dimenticato di dire che io ho avuto lo scorbuto, incominciavano a sanguinare le gengive, mio fratello mi ha detto: “Questo qui è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che tu trovi della vitamina C”.  Lui conosceva un medico cecoslovacco, e nonostante gradualmente le cose andassero peggio dal punto di vista della posta, i cecoslovacchi ricevevano dei pacchi; questo medico aveva della vitamina C, me l’ha data, per fortuna; io sono stato due settimane grossomodo in una situazione quasi impossibile, mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Cercavo di fare dei mucchi, ma con la roba brodosa era difficile fare dei mucchi, metterla sulla lingua e buttarla in fondo per riuscire ad ingurgitare qualche cosa. Con la vitamina C è andato tutto a posto, non ho più sofferto; ecco quanto giocò mio fratello che aveva 15 anni più di me, aveva fatto l’alpino, e continuava a dire che il motto degli alpini è “arrangiarsi”, quindi si è arrangiato.

Questa è stata un po’ la nostra storia, che ha avuto i momenti più acuti negli ultimi giorni, quando vedevamo arrivare colonne di persone dai campi satelliti o da Auschwitz. Qualcuno era arrivato da Auschwitz, e ci dicevano che erano marce tremende, che chi cadeva per terra veniva finito; noi pigliavamo atto di questa cosa. La convinzione circolante era che il campo fosse minato, che ci avrebbero fatto saltare per aria, però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per portarci in qualche altro campo, perché noi eravamo al centro della Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte. Ad un certo momento abbiamo sentito  le cannonate, abbiamo visto gli aerei che volavano più basso, quindi si è capito che dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata Weimar, e per quello che abbiamo capito il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassimo la popolazione colpita dai bombardamenti offrendo non so bene che cosa: nella pazzia non c’è limite!

Poco dopo il comitato  di liberazione internazionale che si era formato uscì allo scoperto, pur non dicendolo chiaramente; c’erano però degli incaricati che davano indirizzi del tipo: “Andate al magazzino delle scarpe e cercate di prendere le scarpe”, perché negli ultimi giorni il controllo era molto sballato. Credo che 4 o 5 giorni prima della liberazione non si uscisse più a lavorare, non funzionava più il crematorio, per cui ammazzavano i deportati e facevano le cataste di cadaveri. Le scarpe servivano in caso di marce, bisognava essere in condizione di camminare non con gli zoccoli ma con una calzatura. E poi il comitato chiamava una baracca a fare resistenza passiva, e quindi a non presentarsi in piazza d’appello.

Questa è stato la parola d’ordine, e in questo modo circa la metà del campo è stata sgombrata; hanno portato via circa 20 mila persone e circa 20 mila persone sono rimaste dentro il campo, ritardando la partenza, opponendosi non violentemente ma non presentandosi.

Allora sì si sentivano delle scariche; lo dico nel senso che noi eravamo abituati all’idea che ci facessero fuori, per prima cosa; per seconda cosa, effettivamente c’erano stati dei punti di cedimento delle SS: io avevo visto una SS che ad un prigioniero russo ha offerto sigarette, e il prigioniero russo con molta dignità gli ha risposto di non capire. Era una cosa che ti faceva svenire, dicevi: “Ma cosa sta succedendo? incomincia ad avere paura questa gente?”  E allora che cosa è successo? E’ successo che ad un certo momento abbiamo visto dei deportati, i Lagerschützer, cioè la polizia del campo costituita da deportati, con i fucili. Allora abbiam pensato di essere liberi, veramente. In effetti SS non se ne vedevano più, e questo è capitato non potrei dire quante ore prima che vedessi la prima jeep e il primo soldato americano che mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. E quindi questa è stata la liberazione del campo, in 2 fasi, ogni zona del campo era una zona a sé.

Torno indietro, perché mi avevi chiesto se avevo visto donne nel campo. Qualche deportato aveva visto Mafalda di Savoia prima del bombardamento, era in una specie di villetta esterna al recinto dove vivevamo noi dopo il lavoro, interna invece al secondo recinto dove si andava a lavorare. D’altra parte quasi interne al secondo recinto c’erano anche le villette degli ufficiali SS e le caserme.

La liberazione è stata in due fasi, in due momenti, certo è stato un momento di gioia, quasi a toccarci se eravamo vivi.

Tra l’altro 2 o 3 giorni dopo che erano arrivati gli americani, c’è stata una, non la posso chiamare incursione aerea perché non c’è stato niente, però le mitragliere americane hanno sparato per un bel po’ di tempo. Quindi non c’era neanche da stare proprio tranquilli.

D: Le date di queste liberazioni?

R: Io ho la data dell’11 aprile mentalmente, poi può essere l’11 o il 12. Gli americani erano molto ben organizzati, ci hanno dato molto rapidamente un documento di identità con l’impronta digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo. Poi si sono scoperte cose che neppure noi sapevamo, e cioè che sotto il crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio, ricordo, un mucchio di ganci, con le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato in quel modo. Poi le cose per picchiare, per torturare.

Io mi ero chiesto, come mai in un Lager ci fosse anche la prigione, di fianco c’era la prigione.  Una volta sono stato chiamato da una SS che non so che cosa volesse farmi trasportare, mi sono presentato, non mi sono levato il berretto – ecco l’indumento che mi son dimenticato di nominare – allora mi ha tirato uno schiaffone e mi ha segnato il numero. Io sono stato per un paio di giorni a vedere. E invece non ha fatto niente, o l’ha perso. Quindi questi episodi c’erano, si sapeva che qualcuno ad un certo momento spariva.

Tra l’altro abbiamo avuto nella baracca la simpatica compagnia di due fratelli inglesi, che erano dei servizi segreti, e che sono stati dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in perfetto italiano: il marchese di Roccapelosa e l’altro non lo ricordo. Ci hanno raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano deciso di arruolarsi, erano stati paracadutati in Francia, e ci raccontavano qualcosa dell’addestramento: sapevano le parole francesi in dialetto, i giochi a carte che si facevano nei posti in cui li avrebbero paracadutati, e quando hanno saputo che eravamo di Genova ci han detto “belin”. Un paio di notti prima della liberazione sono spariti, e a ragion veduta, perché anche un aviatore americano che era stato paracadutato fu impiccato un paio di giorni prima della Liberazione; anch’egli era dei servizi segreti.

Poi abbiam saputo che era stato ucciso anche il capo del partito comunista tedesco: era stato ammazzato pochi giorni prima della Liberazione. E penso altri come lui.

Dopo la Liberazione abbiamo visto una realtà del campo di cui avevamo sospetto perché il piccolo campo era un posto temuto, però non pensavamo che fosse un ammasso tale di cadaveri con gente praticamente viva, non erano ammucchiati ma stavano nello stesso letto, non si alzavano più e cercavano di prendere ancora la razione del morto. Non si muovevano più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, li abbiamo aiutati a portarli fuori, il comando americano li aveva destinati a un ospedale, ma non credo che ne siano sopravvissuti tanti.

D: Gilberto, quando tu e tuo fratello eravate a Buchenwald avete potuto scrivere qualche biglietto, qualche lettera?

R:No, noi abbiamo scritto a un altro campo, sperando che mia madre e  mia sorella fossero andate a Ravensbrück. Correvano delle voci: magari da Auschwitz le hanno trasportate a Ravensbrück. Allora abbiamo  provato a  scrivere in tedesco, non si poteva scrivere in un’altra lingua.

D:Buchenwald è stato uno dei pochissimi esempi in cui l’esercito liberatore ha portato la popolazione nel campo; tu eri presente?

R: Sì, abbiamo visto venire la colonna della popolazione.

D:  Allo stesso tempo dicevi che hai scoperto molte realtà del campo.

R:Certo. Ho scoperto in particolare il piccolo campo. Poi era venuta fuori una cosa che io lì per lì ho detto: “E’ una storia esagerata, ne han combinate abbastanza, inutile aggiungerne”, mi riferisco alle lampade con la pelle tatuata. Poi invece si è rivelata vera, come poi è venuta fuori la documentazione dell’esecuzione dei prigionieri russi.

D:Il ritorno quando è avvenuto?

R: Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere la leader della disorganizzazione; gli inglesi non se ne parla neanche, 2 giorni dopo la Liberazione son venuti a prendersi i loro connazionali. Anche i francesi, i cecoslovacchi. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano che ha preso il dottor Pecorari, che poi è stato vicepresidente della Costituente, democristiano, e arrivederci e grazie, noi neanche ci han guardati in faccia!

La cosa è andata così: mio fratello aveva un amico deportato tedesco, socialdemocratico. Era di Monaco di Baviera, e in qualche modo era riuscito a mettere insieme una Mercedes e a farsi dare dagli americani dei buoni benzina. Aveva 4 posti, quindi ci ha chiesto se volevamo andare  a Monaco. Noi, figurati! contenti e felici di andarcene, e con l’elenco di tutti i prigionieri italiani di Buchenwald sopravvissuti battuto a macchina, un foglio che ho ancora, e che poi abbiamo consegnato agli americani. E’ stato un viaggio tormentato perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva guidare. Mio fratello che sapeva guidare era veramente terrorizzato, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo diceva: “No, il documento è intestato a me, devo guidare io”. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche se siamo scesi per l’attraversamento del Danubio, che abbiamo preferito fare a piedi sul ponte di barche. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo elenco al comando americano, ma c’era un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo fatto il giro del palazzo e siamo entrati da un finestra nel retro, siamo andati al comando, abbiam dato il nostro elenco, e pochi giorni dopo mi è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava che stavo rientrando in Italia.

A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito dalla interprete che c’era a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la prima selezione, subito appena arrivati. Poi ci siamo arrangiati a cercare di rientrare in Italia, siamo andati alla stazione, abbiamo preso un treno fino a Rosenheim; era il primo treno che partiva e faceva quei pochi chilometri verso l’Austria; abbiamo avuto delle difficoltà con un americano, che ha sgridato un contadino tedesco perché non voleva caricarci sul carro e farci fare un po’ di strada verso il confine.

Finalmente siamo arrivati a Bolzano dove c’era un campo di accoglienza abbastanza organizzato.

A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio compleanno; io compio gli anni il 15 giugno, siamo arrivati forse il 10, 12 giugno (1945). Quindi 2 mesi dopo la Liberazione.

A quelli che sono rimasti là gli americani han detto di trovarsi un camion, perché quella sarebbe diventata zona russa e gli americani l’avrebbero abbandonata. Allora qualcuno è andato a Erfurt, è riuscito a fare una trattativa per avere un prestito di più camion per rientrare.

D: Una volta rientrati a Genova avete ritrovato la vostra casa?

R: Sì, la casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. La casa era abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi, e sono sparite abbastanza rapidamente. Avevano comunque lasciato subito una stanza, era una casa piuttosto grande perché eravamo una famiglia numerosa, e abbiamo dormito in camera nostra.

Paganini Bianca

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.

De Maria Vanes

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Io mi chiamo De Maria Vanes, abito a Casalecchio di Reno in Via Garibaldi 9.

D: Quando sei nato?

R: Sono nato il 7.9.1921.

D: Dove sei nato?

R: A Casalecchio di Reno. Ho vissuto sempre a Casalecchio di Reno. Dopo sono stato chiamato alle armi e sono andato al sesto genio di Banne, marconisti. Sono diventato un marconista.
Poi un bel giorno ci hanno mandato in Jugoslavia a combattere contro i partigiani. Dopo, verso la liberazione, fummo disarmati dai partigiani a Carlopago, perché non ce l’aspettavamo, stava già per finire la guerra.
Io avevo già ricevuto dal comando, siccome ero collegato con la stazione radio del comando a Fiume, mi dissero in forma amichevole che loro stavano chiudendo, cioè noi non eravamo più collegati con nessuno.
Mi sono premurato di andare dal comandante del campo, un certo capitano di Roma, non mi ricordo più il nome.
Gli ho detto che non eravamo più collegati con nessuno, perciò se doveva prendere dei provvedimenti era meglio che li prendesse perché non potevo più trasmettere, non potevo più ricevere. Non fece niente, sa cosa vuol dire niente?
Così di notte non mise neanche le guardie sufficienti, le solite cose, il solito tran tran. La notte vennero i partigiani, neanche uno sparo, niente. Ci disarmarono, ci spogliarono e ci misero in una scuola in attesa.

D: Questo quando accade più o meno?

R: Questo accadde prima che finisse la guerra in Jugoslavia, nel 43.

D: Cos’era, nel settembre del 43?

R: Un po’ prima, perché io nel settembre del 43 sono stato portato a Dachau, un po’ prima. In giugno mi sembra che fosse. Poi ci dissero: “Se volete andare, potete andare”.
Cominciarono a chiedere, ci avevano dato delle scarpine di pecora, ci avevano preso i nostri scarponi e ci avevano dato le scarpine di pecora. Dissero: “Voi non è che siete liberi, se volete andare in Italia andate a piedi per Fiume, quella è la strada”.
Cominciammo a marciare, dico con quelle strade che erano tutte di sassi arrivare vicino a Bolzano alla frontiera è stata una tragedia.

D: Scusa, Vanes. Tu eri in Jugoslavia?

R: Ero in Jugoslavia.

D: Vi hanno fatto marciare?

R: Verso Fiume.

D: Verso Fiume?

R: Perché era possibile andare…

D: Sì, ma arrivare vicino a Fiume?

R: Sì, vicino a Fiume, non a Fiume.

D: Hai detto a Bolzano prima.

R: Ho detto Bolzano? Chiedo scusa.

D: No, niente.

R: A Fiume siamo arrivati nel punto dove si poteva attraversare la ferrovia e si era già in Italia praticamente. Ma lì c’era il guaio, c’erano mitraglie da una parte e dall’altra di tedeschi che aspettavano il nostro passaggio.
Allora c’erano tentativi, di notte qualcheduno ci riusciva. Io ho provato una volta, ma sono arrivato a metà, poi dico: “No”, si cominciarono a sentire i colpi di mitraglia, sono tornato indietro.
Allora dico: “Cosa faccio?”, di là non si può andare. Chiesi di andare per mare a Punta Silo, all’isola di Veglia con i partigiani. “Guardate”, dico, “io vengo con voi, mi allego al vostro gruppo, però io voglio andare a combattere in Italia. Se dall’isola di Veglia è possibile dopo con un piroscafo andare ad Ancona…”.
Detto fatto, mi portarono lì a Cerquiriz, che era dove eravamo proprio prima noi, e da lì c’era il passaggio per andare, un battello, una barca dei partigiani. Nel mare c’erano già i sottomarini tedeschi.
Riuscii ad andare all’isola di Veglia, ero con la stazione radio, sono stato là parecchi mesi. Avevo anche la fidanzata là, detto fra noi, una fidanzata per modo di dire, perché se ve la racconto… Non so se lo posso dire, è una cosa un po’…

D: Personale?

R: Sì, è personale, ma le dico. Non è successo niente, quello che posso dire. Ero fidanzato, ma niente, in casa nella sua camera per dei mesi con permesso dei genitori niente, non è successo niente. Basta.
Avevo una grande amica in quel punto, difatti quando arrivai di là mi accolse, mi diede tante cose da mangiare, però non potei stare lì perché i partigiani mi portarono al Carlopago, dove c’era il comando. Lì facevamo un po’ di tran tran, un po’ di guardia, perché era un porto, un porticciolo.
Poi un bel giorno dissero: “Stanno per arrivare i tedeschi”, i tedeschi hanno già i sottomarini, stanno arrivando i tedeschi. “Bisogna che noi ce ne andiamo”. Dove andiamo? Ci portarono all’isola di Lussino, che era un’isola dove c’era una montagna e da quella montagna mare, mare, mare, mare.
Arrivammo lassù e fortunatamente niente, non ci capitò niente, perché c’erano già parecchi tedeschi che giravano e hanno cominciato a mitragliare. Allora noi in quelle stradine con tutti i sassi giravamo e ci siamo difesi. Non ci è successo niente.
Siamo arrivati in cima. In cima c’era un negozio nel quale ci hanno dato un po’ di formaggio, perché eravamo sprovvisti. Poi il comandante dice: “Dobbiamo andare nel bosco e poi resistere”. Siamo andati nel bosco, poi abbiamo cominciato a ragionare.
Che resistenza facciamo? Guardiamo di qua, c’erano già le barche coi tedeschi che stavano sbarcando. Guardiamo di là, stessa cosa, in tutti i punti era così. Cosa stiamo a fare? Stiamo facendo la morte del topo qui.
Dice: “Comunque noi stiamo qui, ognuno faccia il suo dovere”. Va bene. Allora mi misero di guardia in un punto, io e uno jugoslavo e in tanti altri punti. Durante la notte il mio compagno si addormentò secco, proprio secco. Io lì: “Cosa faccio qui?”. Dico: “L’unica cosa è andare giù e vedere come stanno le cose, andare giù dove c’è la strada, perché qui è proprio la morte del topo”.
Difatti io andai giù, trovai la strada, passai lungo la strada e c’era una casina, bussai a questa casina. Venne una signora, dico: “Signora, non ha mica niente da darmi?”, perché qui non si mangiava. Dice: “Guardi, stanno passando i tedeschi. Cerco di prepararle qualcosa, ma mi raccomando, vada via subito”.
Arrivò poco dopo con un pezzo di polenta e un bicchiere di latte. Non so dirle quanto erano buoni quella polenta e quel latte, me lo ricordo ancora. Poi da lì ci portarono a Pola.
Arrivò un camion dove c’erano un tedesco e un ufficiale italiano, uno di quei camion con la tenda. Io ero lì che giravo, mi ero messo a sedere su un pilastrino. Feci il cenno di fermarsi, non credevo. Da lontano poi non si vedeva il carro con anche un tedesco, pensavo fosse italiano.
Invece era un tedesco. Il tedesco disse: “Tu partigiano?”, “Non partigiano, no. Io sono un militare italiano, i partigiani mi hanno disarmato e vorrei andare in Italia. Mi hanno preso tutto, ho i documenti”. E’ arrivato l’ufficiale italiano, cominciò ad aiutarmi.
Però l’ufficiale tedesco non ne volle sapere, “Tu sei partigiano”, mi voleva mandare nel bosco per spararmi. L’ufficiale ha insistito tanto, non è riuscito, ce l’ho fatta. Mi hanno fatto caricare sul camion. Sul camion c’erano almeno il cinquanta per cento di quelli che erano lassù.
Da lì ci hanno portato a Pola. A Pola ci hanno messo in una camera dove hanno incominciato a prendere tutti i dati. A un certo momento vengono dentro quelli della SS, tutti in riga per dieci. Arrivarono fino a dieci, “Weg, andiamo, andate fuori”. Io ero nella tredicesima fila.
Abbiamo saputo il giorno dopo che sono stati tutti fucilati perché i partigiani avevano ammazzato due tedeschi. A me è andata bene. Passano due giorni e poi ci caricano nel carro bestiame e ci portano a Dachau, in Germania.

D: Scusa, Vanes. Vi caricano, lì a Pola questo?

R: A Pola, sì.

D: Alla stazione. Oltre a te chi altri hanno caricato?

R: Tutti quelli che c’erano dentro a questo. Non eravamo soltanto noi di lassù, ce n’erano altri.

D: C’erano anche gli jugoslavi con te?

R: Sì, c’era qualche partigiano jugoslavo. Qualcheduno c’era.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche delle donne?

R: Solo uomini, nessuna donna. Non c’erano donne. Da lì col carro bestiame siamo arrivati a Dachau.

D: Durante il viaggio avete fatto delle soste?

R: Soste per modo di dire, alla stazione c’era il segnale di fermarsi. Non soste per darci un attimino da bere, niente, non abbiamo visto niente. Anche i bisogni si doveva farli…
Siamo arrivati finalmente a Dachau e smontati dalla stazione a piedi ci hanno portato dentro al Lager, al Lager di Dachau. L’impressione che è stata fatta era una cosa che ci ha lasciato un po’ perplessi. “Dove siamo venuti?”, perché non sapevamo ancora com’era la faccenda.
Ci hanno portato in un salone dove c’erano tante docce, poi abbiamo saputo che era il mattatoio degli ebrei. Li avevano chiusi lì dentro e invece di aprire il coso per fare la doccia hanno aperto il gas.

D: Tu sei arrivato a Dachau quando più o meno?

R: Io sono arrivato a Dachau a novembre 1943.

D: 43?

R: 43, 1943. A novembre. Il mese di novembre, la data non ricordo.

D: Lì ti hanno spogliato?

R: Lì hanno spogliato. Non solo spogliato, ma disinfettato con il pennello nei punti più delicati. Ci hanno spogliato da fare dei salti alti così. Poi dovevamo vestirci con i vestiti di quella carta pressata.
Arrivammo all’ultimo gruppo, io ero in mezzo a questo gruppo, e non c’erano più vestiti. Dovevamo andarli a prendere in un magazzino, il quale era di là di una gran piazza. C’era un freddo cane, eravamo nudi.
Da lì di corsa dovevamo andare in quel magazzino. Non so che velocità avessi, non ho preso neanche il raffreddore. Poi abbiamo preso i vestiti, ci hanno vestiti. Poi ci hanno messi in un Lager, in una baracca, la venticinquesima baracca.
Lì ci siamo stati trenta giorni. Poi arrivò il giorno…

D: Scusa, Vanes. Ti hanno immatricolato anche?

R: Certo, non era segnato ma ci hanno dato un numero di matricola. Nel vestito c’era il numero di matricola.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero era 25…58343.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No. Lo davano solo agli ebrei quel triangolo. Io, siccome ero stato preso come partigiano jugoslavo, pur essendo italiano io ero jugoslavo. Gli italiani li hanno tosati qui con una macchinetta, gli avevano fatto una riga che quando crescevano i capelli, questo se scappava crescevano i capelli, ma chiunque tedesco per strada lo poteva riconoscere perché vedeva questo.
A me questo non l’hanno fatto perché ero jugoslavo. Difatti nel coso qui avevo J, non I di italiano.

D: Quindi qui tu avevi il numero..

R: Il numero.

D: E la J e basta?

R: Basta.

D: Non avevi nessun triangolo?

R: Nessun triangolo. Il triangolo era ebreo, da quello che ricordo. Io non avevo il triangolo.

D: Dopo il periodo di quarantena nel blocco…

R: E’ chiamata quarantena, non sono quaranta giorni. Ci riunirono in questo famoso bagno per il lavoro. C’erano tutti i mestieri, tutti gli internati. C’erano le commissioni, i vari banchetti dove c’erano industriali tedeschi…

D: Scusa un secondo.

R: In questa sala c’erano imprenditori tedeschi, guardie da tutte le parti e a ogni banchetto che c’era interrogavano. Dicevano: chi è un falegname alzi la mano. Chi era muratore, poi ci era meccanico. Quando arrivò il mio turno mi chiamarono, alzai la mano. Mi interrogarono.
Mi chiesero cosa facevo. Dico: “Io facevo il disegnatore meccanico, ero disegnatore meccanico progettista. Lavoravo alla Fiat”. Ho detto la Fiat ma era una fabbrica qui di Bologna, facevamo le macchine utensili.
Sentendo Fiat faceva un certo effetto. Allora mi diedero un alberino, non so a cosa servisse. Oltre al disegnatore io ho fatto il tornitore, ho fatto altre cose. Però prima di fare il disegnatore ho fatto il tornitore.
Allora mi diedero questo alberino e mi chiesero: “Quanto tempo ci metti per fare questo lavoro al tornio?”. Io avevo lavorato al tornio a scuola, quando ho preso la laurea di disegnatore, meccanico, all’Aldini qui di Bologna.
Chiesi un pezzo di carta e una matita, poi cominciai a schizzare quali potevano essere le operazioni che facevo in questo alberino. Stavo disegnando, ero un disegnatore, facevo vedere anche qualcosa. Allora sentivo sempre un industriale che diceva: Gut, gut, gut.
Poi alla fine disse: Ja, gut. Mi misero in un angolo, solo. Poi vennero tutti gli altri, ne vennero altri due nell’angolo con me. Dico: come mai gli altri andavano tutti da un’altra parte? Si vede che a noi tre ci avevano scelto perché le risposte che avevamo dato secondo l’industriale andavano bene.
Ci caricò nella sua macchina con le guardie, con due guardie e ci portarono a Kempten. Durante il viaggio disse: “Andiamo a lavorare alla fabbrica”. Quando arrivammo a Kempten la fabbrica non c’era. Ci scaricarono e ci misero non in una baracca, ma sopra in un ambiente c’era una gran sala dove c’erano tutti i lettini.
Era il nostro domicilio dove ci davano da mangiare, pochissimo, qualche cucchiaiata di minestra, e una fetta di pane nero. Quello è stato il nostro coso. Però non durò molto, perché dopo pochi giorni sapendo che la fabbrica non era ancora pronta dovemmo andare fuori e fare i muratori per tirare su i muri.
Tre mesi ho fatto il muratore, pioveva. Però lavoravamo. Se volevamo scaldarci un pochettino bisognava lavorare. Finì questa tragedia, finalmente arrivarono le macchine per la fabbrica. Un bel giorno cominciarono a entrare prima i civili, perché c’erano anche dei civili, poi entrammo anche noi a lavorare.
“Adesso voglio vedere se mi mettono a fare quell’alberino che ho disegnato”. Mi trovai già in difficoltà, invece no. Fui fortunato perché mi misero a una retifica. Questa retifica era una cosa facilissima, basta che lasci avanti e indietro.
Però da lontano vidi una vetrata dove c’erano dei disegni e dove c’erano dei tracciatori, perché i pezzi che arrivavano a noi delle macchine erano soltanto segnati, noi dovevamo fare su quelle righe.
Allora io vedendo quell’affare, lì si stava male, invece là dentro era più intimo. Poi ho visto che c’era anche un italiano là dentro, in borghese. Allora io dissi col mio comandante, i nostri comandanti erano i criminali tedeschi presi fuori dalla prigione per comandare noi, guardare noi.
Gli dissi: “Guarda che io so lavorare bene come tracciatore”, veramente era il mio mestiere che facevo qui a Bologna. Parlò, si vede, con qualcuno e un bel giorno mi trasferirono là. Io il disegno lo conoscevo molto bene, il lavoro era quello che facevo io a casa.
Cominciarono ad arrivare disegni, vidi cosa dovevamo fare in realtà e cominciai a lavorare.

D: Cos’è che producevate lì?

R: Progettavamo degli stampi per tranciare i supporti delle ali degli Stukes, gli Stukes avevano la robustezza dell’ala, ogni tanto c’era qualche cosa. Noi facevamo gli stampi per tranciare quelle cose.
Venivano giù dei disegni disegnati da tedeschi e io conoscevo molto bene, mi trovavo bene. Ho imparato anche un mestiere, gli stampi che facevamo là dove lavoravo io in Italia, dove ho lavorato dopo, quando sono venuto a casa finita la Germania, sono andato a lavorare alla Ducati e quegli stampi che facevamo là qui certi pezzi li facevano in tre stampi.
Là era uno solo, perciò io ho avuto un’esperienza enorme in quel senso. Mi ha aiutato dopo, quando sono venuto a casa. Però Le dico, finiti gli orari andare su era una cosa… Poi specialmente al sabato e alla domenica, si volevano divertire e se la prendevano con noi.
Ci facevano fare delle cose che… Se non le facevamo bene erano frustate, culo scoperto, sopra a un cavalletto fatto così, frustate. E chi dava le frustate era il tuo collega, era un italiano.
Poi finalmente passa il tempo e cominciano ad arrivare i bombardamenti. Speravamo che arrivasse qualche bomba. Noi eravamo vicino alla Svizzera, c’erano dieci chilometri circa per arrivare alla frontiera svizzera.
Speravamo sempre che qualche bomba capitasse lì. Lì hanno bombardato la cittadina, Kempten, e noi niente. Poi finalmente un bel giorno la bomba venne, cacciarono giù la fabbrica. I tedeschi ci portarono…
Cambiarono anche il Lager, il campo dove eravamo prima era sopra, le bombe l’avevano cacciato giù. Loro poco distante avevano fatto già un campo, già tutto recintato, con le baracche come era Dachau. Lì invece prima era già un’altra cosa.
Ci portarono in questo nuovo campo, dopo pochi giorni c’era già la voce che gli americani stavano arrivando. Difatti tutte le mattine ci prendevano in fila, ci davano pala e piccone e ci portavano alla stazione per portarci in trincea per fare le trincee.
Non siamo mai partiti da quel treno, su quel treno non siamo mai partiti perché i bombardieri erano continuamente sopra di noi. Ci riportavano al campo. In quei giorni non c’era niente da mangiare, niente.
Per la strada raccoglievamo l’erba per mangiarla. Finito questo finalmente decisero, perché gli americani erano già a pochi chilometri, decisero di farci partire per Innsbruck.
Io, che cominciavo già a sentire qualche parola di tedesco, ho capito che restavano lì solo gli ammalati. Come faccio? Incominciai a correre per il campo come un matto, proprio correre, ero diventato rosso.
Le dico, la temperatura era salita parecchio. Poi mi presentai in questa infermeria, “Io sono malato”. Loro erano talmente indaffarati per la partenza che mi dissero: “Vai in quel letto là”. Mi misi nel letto, poi stetti in attesa.
C’era già un’altra decina. Mentre stavano facendo questo lavoro, dopo arrivò uno con gli stivaloni e parlò con gli ufficiali che erano lì dentro. Voleva fare la visita di quelli che dovevano ritornare, cominciò dal primo, ecc.
Siamo rimasti?

D: Dicevi che eravate stati portati alla stazione per fare le trincee.

R: La trincea, niente.

D: Non siete mai partiti.

R: Non siamo mai partiti, poi ci hanno portato nuovamente nel coso, ci hanno portato nel nuovo Lager che avevano costruito loro con tutti i recinti. Lì andai in infermeria perché sapevo che rimanevano lì solo i malati.
A un certo momento mi capitò come a Pola, cominciò a contare: uno, due, tre, quattro, cinque. Anzi, visitò, non contare, visitò il primo, il secondo, poi il terzo. Era là già vicino al mio. Dico: “Porca miseria”.
Aveva dato un termometro e levato il termometro mette su il termometro, l’aveva messo quasi a trent’otto e mezzo, trentanove. Dico: “Troppo”. Lavorava in quel senso lì, dico: “Se arriva, cosa succede?”
Non fui visitato, perché erano talmente presi dalla fuga che io rimasi lì con tutti gli altri, loro scapparono, vuotarono il campo e andarono verso Innsbruck.
Lì rimase una guardia, anche lui si spogliò come noi, ci diede da mangiare, ce n’era lì un pochettino. Poi stemmo lì ad aspettare, sapevamo già che gli americani erano molto vicini.
Siccome gli americani sparavano, i tedeschi sparavano, noi eravamo nel punto giusto per prenderle tutte. Allora anche lì dico: “Qui bisogna che prendiamo una decisione, bisogna che cerchiamo di andare verso Kempten, verso il paese. Se troviamo qualcheduno, qualche civile, qualche militare dentro una casa che ci spara, cosa facciamo?”
Andammo via una mattina, erano le quattro e mezza, le cinque, anche un po’ prima, a gattoni nei fossi arrivammo nei pressi del paese. Qui non possiamo più andare avanti, il fosso non c’era più. Qui bisogna andare in strada.
Siamo andati in strada con una paura da matti, pensavamo che nelle case dove passavamo da una finestra, da una porta, da qualche cosa ci fosse qualcheduno che sparava. Nessuno, nessuno sparava.
Finalmente in lontananza vedemmo un carro armato che avanzava, americano. La nostra felicità era… Arrivato vicino al camion, si apre e viene fuori un negraccio che me lo ricordo ancora, era più nero che il carbone.
Buttò cioccolatini e caramelle, neanche una sigaretta. Caramelle e cioccolatini. Andavano verso Kempten, verso Kempten c’erano già gli altri, la truppa. Noi praticamente eravamo liberi, liberi di fare tutto quello che volevamo.
Poi sono arrivati anche tanti altri, non solo noi tre ma tanti altri che non so da che buco siano entrati. C’erano russi, specialmente russi. Hanno svaligiato tutte le botteghe che potevano esserci, oreficerie. Hanno fatto manbassa di tutte le cose.
Dopo gli americani ci hanno tutti chiesto le cose, fatto i documenti, tutto quanto, ci hanno consegnato i posti dove potevamo andare a dormire. Noi avevamo una villettina dove c’era il comando tedesco, eravamo in dieci o dodici.
Eravamo liberi, proprio liberi. Il problema era quello di andare a cercare, lo sapevamo, però con tutti i bombardamenti i magazzini tedeschi erano pieni di viveri ed erano stati bombardati.
Quando andavamo in cerca di mangiare si vedevano proprio le gran pozze, perché aveva piovuto, come dei laghi dove affluivano le scatolette, c’era di tutto, Le dico, di tutto. C’erano delle scatolette con della carne di primissima qualità, in una quantità enorme proprio.

D: Allora, c’era questo ben di Dio che veniva fuori.

R: Noi ci siamo riforniti, non solo in quei magazzini che c’erano lì fuori, anche dentro. Dentro potevamo andare da tutte le parti. Anche alla stazione c’erano dei carri pieni di roba, dei treni fermi pieni di roba. Roba che veniva dalla Svizzera.
Abbiamo trovato di tutto, trovato delle forme di emmenthal intere. C’erano degli strumenti meccanici, dei calibri, degli strumenti meccanici. Difatti io trovai un calibro che ho ancora.
Portammo via quei formaggi, dovevamo soltanto trovare un mezzo per poter caricare la roba e portarla in questa villetta. Con tutto quello che avevamo potevamo star là altri due anni che avevamo da mangiare.

D: Scusa, Vanes. Quando tu dici la stazione…

R: La stazione, la stazione di Kempten. Gli americani erano lì, noi eravamo lì, il nostro ambiente era Kempten.

D: Due anni non siete rimasti lì?

R: No. Pochi mesi. Tutti c’eravamo riforniti di sci, di tutte le cose. Però noi non siamo mai andati a rubare nei negozi come hanno fatto russi, ecc. Si sono vendicati con la moglie del capo ingegnere della fabbrica.
Ci sono state parecchie cose, io non ho fatto niente. L’unica cosa che mi sono un po’ divertito era che un giorno ero dentro a un magazzino per prendere qualcosa di quelle scatolette, abbiamo visto che c’era un tedesco là, un civile che stava insaccando della farina in un sacchetto.
Andammo là vicino, abbiamo visto proprio che era un tedesco, era un tedesco civile di lì. L’abbiamo preso, l’abbiamo messo con la testa dentro la farina, tanto per… Poi siamo venuti via, non abbiamo fatto niente. L’unica cosa.

D: Scusa, Vanes. A proposito dei civili, nella fabbrica…

R: Sì, c’erano anche dei civili.

D: Voi eravate a contatto con quei civili?

R: In quell’ambiente dove io lavoravo c’erano due civili, uno francese e uno italiano che era proprio mio amico. E’ diventato un mio amico, l’ho conosciuto lì.
Veniva dall’Italia a lavorare ed era pagato, andava fuori ed era libero. Era venuto lì per lavorare. Chi ci comandava era un civile di Kempten. Eravamo mescolati, noi abbiamo integrato il lavoro della fabbrica con quello che facevano i civili.
Noi eravamo in certe zone, in certe macchine solo e in certi ambienti non eravamo proprio… C’era un mio amico che faceva l’elettricista, lui andava dappertutto e andava anche dalla parte civile perché riparava i motori, per esempio, delle macchine.
Io sono stato lì e me la sono cavata un pochettino meglio. Il capo che ci comandava lì dentro… Alle dieci c’era il bruzai, era chiamato, davano una birra e una fetta di pane a loro, a noi niente. Noi non ci fermavamo neanche un momentino da loro.
Però un giorno ad un certo momento vedevi questo civile che lasciava un po’ di birra e un pezzettino di pane, poi faceva segno, facendo anche presente di non fare vedere perché c’erano le guardie che giravano.
Arrivavano fino lì e guardavano dentro. Tra quello, un pochettino lì, un po’ qualche vitamina che mi portava quell’italiano da fuori e così me la sono passata.
Poi un bel giorno mi sono ammalato, ma di brutto, con un male da tutto il corpo, i reumatismi totali, la febbre che era più di quaranta. Urlavo come un ossesso perché non sopportavo il male. Mi portarono su in branda e ci sono stato dieci giorni buoni.
Non ho visto né un dottore né un medicinale, niente. Urlare, urlare, urlare, urlare. C’era un italiano lì vicino, era con me, che mi incoraggiava, mi massaggiava, mi faceva qualcosa, ma non c’era niente da fare.
Il dolore era talmente forte, poi la febbre sempre che straparlavo anche. Poi visto così un bel giorno si vede che il comando decise e mi mandarono all’ospedale non di Kempten, di Dachau. Mi portarono all’ospedale di Dachau.
Lì come sono arrivato mi diedero un letto, poi venne uno con degli stivaloni alti fin qui a passare la visita. Viste le mie condizioni disse: “Liberare il letto”, in tedesco, dopo me l’hanno detto. “Liberare il letto e portare al crematorio”, perché avevo la febbre che era a più di quaranta, urlavo come un ossesso, disturbavo tutto quanto.
“Liberare il letto, qui ci deve essere un letto per uno che può lavorare dopo”. Fui fortunato che alla sera in quel giro lì di medici c’era un olandese coatto, che lavorava coatto. Lo vidi arrivare dopo al mio capezzale una notte, era verso le nove e mezza, le dieci.
Mi disse: “Tu italiano?”, sentiva che io parlavo qualche cosa, dicevo in italiano. Siccome aveva lavorato a Bologna, conosceva bene l’Italia, conosceva bene i nostri, mi prese a ben volere. Sparì un momento, tornò dopo con delle medicine.
Mi cominciò a fare delle punture endovenose, è stato lì fino alle due di notte circa, dico degli orari per dire perché non avevo l’orologio per poterli vedere.
Alla mattina quando passarono con la visita io ero sempre in quel letto, c’era lo stesso comandante. Appena arrivò lì disse: “Perché è ancora qui questo?”. Allora il dottorino saltò fuori da dietro, gli fece vedere che attaccata al letto c’era la cartella con tutto il grafico.
Era stato modificato il grafico, perché la mia febbre era andata a trent’otto, un pochino meno di trent’otto. Allora lui rimase lì un po’ buio, “Ja, gut” e rimasi. Invece di andare al crematorio rimasi lì settantacinque giorni.
Non so che cure mi abbiano fatto, mi passò piano piano il dolore, non lo so, non mi ricordo niente.

D: Vanes, magari non te lo ricordi, ma il Revier di Dachau era in una baracca?

R: Il?

D: Il Revier, l’ospedale di Dachau.

R: Sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: Ma era una baracca?

R: Era una baracca.

D: Non ti ricordi se era una baracca delle prime, visto che tu sei stato alla venticinque, o era una delle baracche…

R: No, era una cosa apposta. Al di fuori della mia baracca, la mia baracca l’avevo lasciata.

D: Ma era una delle prime baracche lungo la Lagerstrasse?

R: No, era in mezzo forse. Mi ricordo che quando cominciai a stare meglio, convalescente, avevo la possibilità di andare a fare una passeggiatina lungo la passeggiata del campo.
So che da una parte e dall’altra c’erano le baracche, perciò non era in principio o alla fine, credo fosse in mezzo. Anzi, fui fortunato, fortunato per modo di dire, perché una volta siccome c’era l’ordine che quando incontravamo un ufficiale tedesco dovevamo toglierci il cappellino un metro prima, io ero in compagnia con un altro e non me ne sono accorto.
Passammo, il mio amico, siccome io parlavo con lui, lui l’ha fatto, io parlando ero voltato, non me n’accorsi. Andò avanti qualche metro, poi disse: “Tu”, mi chiamò, “Komm”, mi chiamò. Mi portò con lui, mi portò alla mensa ufficiali.
Dico: “Finalmente si mangia”. No. C’era un piccolo giardinetto con un piccolo sentierino dove c’era ghiaia, ma ghiaia come? C’erano dei mattoni, dei sassi col martellino e c’era rimasto un mucchiettino lì da finire.
Mi diedero il martellino, io ho dovuto rompere i sassi, finire tutta la faccenda. Poi finite le cose era il momento che avevano finito di mangiare, venivano fuori gli ufficiali a fumare una sigarettina e guardandomi lì che stavo finendo il lavoro venne uno.
Dovevo fare tutto il giro dei sassi, sai, quando si rompe un sasso ha delle punte. Ho dovuto farlo coi gomiti e in ginocchio, ho dovuto fare tutta la strada in quella maniera.
Quando arrivai ero tutto insanguinato. Finita la cosa mi portarono finalmente a mangiare. Se io avessi mangiato quello che mi avevano dato sarei crepato. Per fortuna che durante la prigionia in quel Lager 25 c’era anche un dottore di Amsterdam che c’insegnava.
“Guardate che quando saremo liberati troveremo questo e quell’altro. Non dobbiamo mangiare molto perché il nostro fisico…”. Ci aveva dato già una linea, ci ha fatto molto bene perché già cominciavo da quel momento ad applicarmi.
Finito quel lavoro mi diedero un po’ da mangiare, poi mi portarono nuovamente al Lager. Io mangiai poco, presi qualche cosa in tasca con me, però mi andò bene. Mi venne un po’ di mal di pancia, qualche cosa mi venne.

D: Scusa, Vanes. Dopo i 75 giorni che tu sei stato lì al Revier a Dachau sei ritornato ancora a Kempten?

R: Ci sono ritornato perché durante la passeggiata un bel giorno incontrai un militare che era venuto da Kempten per prendere materiale e portarlo a Kempten. Ci siamo incontrati, mi riconobbe e disse: “Tu De Mario!”, perché mi chiamavano De Mario, non De Maria, De Mario.
“Sì, sono De Mario”. Io lo conoscevo, di vista mi sembrava di averlo visto prima. “Ma tu nicht kaput?”, “No”, dico, “nicht kaput”, là pensavano che io ero già morto. “No, io nicht kaput”. “Ja, Ja, gut…”.
Si vede che quando è tornato al campo l’ha detto al capofabbrica, all’ingegnere che mi conosceva, quest’ingegnere fece domanda al campo di Dachau di farmi tornare là. Questa è stata la mia fortuna, perché tornando là io sono tornato in quell’ambiente dove stavo molto meglio degli altri.
Era il mio toccasana quello. A parte qualche frustata che prendevo quando andavo su, ma avevamo già fatto l’abitudine. Si poteva tirare avanti, l’importante è che un po’ di mangiare in più di quella brodaglia che ti davano io potevo averlo.
Inoltre ho avuto anche l’intelligenza di chiedere a questo mio amico che riparava i motori che mi portasse due carboncini e un po’ di plexiglas e vetri, qualche materiale, delle viti, perché io potessi fare una cosa.
Là c’erano molti che avevano le patate, andavano a rubare le patate, prigionieri, e non sapevano come fare a cuocerle. Allora dico: “Aspetta, aiuto loro, se riesco a fare questa cosa”.
Difatti riuscì questo a portarmi tutto questo materiale, due carboncini, due pezzettini di coso già forati con due viti, i suoi dadi con del filo elettrico. Io ho messo i carboncini a una certa distanza, li ho messi nell’acqua, c’era un pentolone lì con un coperchio, riuscivo a bollire in dieci minuti.
Io ho cotto tante di quelle patate, un po’ a noi, un po’ a loro, era già un qualche cosa. Non tanto, ma un qualche cosa che riusciva ad avere il modo per poter respirare un po’ meglio.

D: Riprendiamo dalla liberazione.

R: Venne la liberazione.

D: Le scatolette che tu hai trovato, ecc.

R: Venne il giorno che dissero, credo che fossero due mesi che erano stati là, un po’ meno, venne il giorno che dissero: “Ragazzi, qui si va in Italia, però o voi o la roba che avete con voi”, perché tutti eravamo carichi.
Io avevo tanta altra roba che avevo immagazzinato, tutti avevamo un mucchietto. Lasciammo là, perché erano tutti alimentari. Prendemmo le uniche cose, il nostro zainetto, chiuso.

D: Il calibro.

R: Il calibro, sì. E non solo, là trovai due scatole di medicinali che non sapevo cos’erano. Erano due scatole di medicinali, c’erano dei medicinali e da questi medicinali io presi due scatole di quelle punture e le portai con me. Quelle le ho portate in Italia.
Quando arrivai in Italia mi vennero dei bugni da tutte le parti, il mio dottore mi fece le punture con quelle e guarii in un momento. Non lo so, non lo so dire, non so neanche che medicina mi hanno dato per passare settantacinque giorni e riuscire a non crepare. Non lo so.
Non so se hanno fatto degli esperimenti, non posso dirlo perché ero…

D: Vanes, ti ricordi più o meno quando sei rientrato in Italia?

R: Dal camion sono salito su con quello che avevo, scoperto, un viaggio un po’ difficoltoso. Però si veniva a casa, tutto andava bene. Arrivammo a Bolzano e lì ci mandarono al Car di Bolzano. Al Car di Bolzano cominciarono a interrogarci, nome e cognome, dove stavi, da dove vieni.
C’era anche la visita. La visita consisteva in questo: cosa hai avuto te? Hai avuto qualche malattia? “Io sono stato male, ho avuto malattie”. Scriva, qui c’è la carta che loro mi hanno dato a Bolzano.
Io ce l’ho da morto, perché se mi visitavano sentivano cosa avevo avuto, non solo i reumatismi. Qui, calibro ottavo, reumatismi. E’ l’unica carta di rimpatrio che avevo. Se mi visitavano sentivano che avevo avuto la pleurite da tutte e due le parti.
Quando l’ho scoperto, l’ho scoperto non so quanti anni dopo, avevo sempre bronchite continuamente, forse il male era passato. Un bel giorno ho deciso di farmi, avevo male, non mi andava via la febbre, farmi una lastra.
Da quella lastra scoprii dove l’ho avuto, non potevo averlo che da quel punto. Da lì cos’è venuto? E’ venuto che ho cercato di avere il certificato per avere… Perché un bel giorno un carabiniere mi disse: “Ma tu che sei stato lì, sei stato malato, perché non fai domanda della pensione di guerra?”.
Allora cominciai a fare tutti i documenti dopo anni.

D: Ma quando sei arrivato in Italia? Che mese era te lo ricordi?

R: Maggio.

D: A maggio?

R: Sì. Era maggio. Era già la buona stagione.

D: Ho capito. L’importante era avere una indicazione di data. Era maggio?

R: Sì, era maggio.