De Walderstein Nerina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono la Nerina De Walderstein, un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz.

Sono stata arrestata a Trieste il 23 marzo 1944 dalla “polizia Collotti” alle 11,35 di sera, lo stesso giorno in cui ero ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico. Sono entrati un casa mia sette poliziotti della questura di Trieste di via Bellosguardo, la Villa Triste di Trieste, con i mitra puntati verso la mia famiglia; eravamo in casa il papà la mamma ed io. Fortunatamente hanno preso soltanto me ma cercavano mio fratello; i genitori sono rimasti a casa. Così inizia la mia triste storia.

R: Diciotto anni e mezzo.

D: Perché cercavano tuo fratello?

R: Perché mio fratello, a Venezia alla scuola Foscari, con un gruppo di studenti del gruppo GAP di Venezia, cercava il materiale bellico e altro da mandare al gruppo dei partigiani della zona di Trieste. Io ero stata là per prendere questo materiale ed ero ritornata a casa con la valigia piena. Loro cercavano mio fratello e non me ma il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia che sono fuggiti, saputo del mio arresto, e sono andati col gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia.

D: Ti hanno portato in Via Bellosguardo, a Villa Triste?

R: Sì, direttamente a Villa Triste. All’arrivo ho preso due ceffoni fenomenali. Durante l’interrogatorio sono stata picchiata, mi hanno rotto tre costole, mi hanno appesa per le mani a un palo e là non so quanto sono rimasta perché sono svenuta. Mi sono svegliata dentro una cella, tutta bagnata. Là mi hanno lasciata tutta la notte; di sera venivo interrogata e sempre bastonata, sempre col dolore alle mani dalla prima sera, quando mi hanno appesa al palo con le mani dietro la schiena. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate, non ho più forza nelle mani; è la conseguenza delle torture subite.

D: A Villa Triste fino a quando sei rimasta?

R: Otto giorni.

D: E poi cosa è successo?

R: Da Villa Triste mi hanno portato alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata, a suon di scappellotti. Io non ho parlato mai, mi sono assunta tutte le responsabilità.

Là sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste. Là, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. L’interrogatorio fu nel Bunker del Coroneo, una cosa tremenda; anche là altre botte, altro tormento. Intanto il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per 42 giorni con la polizia che li controllava. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me, perciò sono stata 42 giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno in cui siamo partite dal Coroneo per il trasporto. La mia mamma non la riconoscevo più: l’ho cercata, era dietro a me, ma aveva fatto un cambiamento totale, invecchiata di vent’anni: per il mio arresto e perché di mio fratello non sapeva più niente.

Al Coroneo sono stata da sola nella cella 68 fino al giorno del trasporto. Fino al periodo in cui sono stata nelle carceri non sapevo che esistesse la Risiera a Trieste, sapevo che c’era una risiera ma… del tutto differente. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella 68 sono morte tutte alla Risiera. Nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi due giorni prima che partissi mi hanno detto che non mi avrebbero finito là ma che la mia morte sarebbe stata altrove, in un posto in cui sarei morta lentamente.

D: Poi  ti hanno portato al Transport ?

R: Si, due giorni dopo sono partita per Auschwitz; ci avevano detto che ci avrebbero portato a lavorare. Noi convinte di andare a lavorare. La mamma mi ha portato quel giorno tutto quello che poteva per andare a lavorare, ma… non era così. Comunque, ti dico che la mamma che mi ha portato la roba alla stazione non era più la mia mamma.

D: Parlaci del Transport, eravate tante donne?

R: Sì, non potrei dire il numero preciso, credo oltre 50.

D: C’erano anche uomini?

R: C’erano gli uomini. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due, e mi sono trovata in un grande giardino nelle carceri del Coroneo e là ho visto tantissima gente e ho detto: non mi succederà qualcosa di tremendo, perché tutta questa gente è impossibile che la possano sterminare. Quando ho chiesto dove si andasse mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo, non si sa”. Verso, credo, le 4 e mezza del mattino ci hanno messo in colonna davanti alle carceri e in colonna siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari che erano stati avvisati in qualche maniera. Ci siamo salutati perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici. Devo premettere che alla stazione dovevamo partire immediatamente ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto sì che rimanessimo ancora due ore con i nostri familiari, poi siamo partite. Non ho pianto lasciando i miei genitori, ero dura impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza del quartiere di Bàrcola, quando ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male e sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte, non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Da allora non ho più pianto, non so perché.

Poi siamo partite; siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz, nel frattempo nel trasporto io stavo veramente male. Uno dei carabinieri mi ha portato nel vagone con sé e là sono rimasta per due giorni fintanto che mi sono sentita meglio. Quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non avevo mangiato più dal giorno della partenza. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere.

Quando ci si avvicinava ad Auschwitz  ci hanno raccontato un pochino che cosa era, ma non bene, non avevamo capito niente. Ci hanno detto: “Dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve”; noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente quando siamo arrivate ad Auschwitz l’orchestrina c’era, ma prima di entrare logicamente c’era il campo. Abbiamo visto certe persone, chine a terra e abbiamo chiesto: “Chi sono quelle persone? Sono come dei mussulmani …” “Sì, sono mussulmani” Ho detto: “Tutti mussulmani venuti qui a lavorare?” “Capirai, capirai, vedrai che tra un po’ di tempo sarai mussulmana pure tu”.  Io gli ho detto: “No, sono cattolica” “Va bene, va bene, capirai più in là”.

D: Nerina , quando dici Auschwitz intendi Auschwitz 1 o Birkenau?

R: Per Auschwitz intendo tutti e due, sia l’uno che l’altro.

D: Sei stata portata ad Auschwitz 1, prima?

R: Prima siamo state portate tutte ad Auschwitz 1 e poi nell’altro. Il primo impatto è stato tremendo, spaventoso perché ci hanno scacciate giù dalle tradotte, proprio gettate giù. Le cosa più brutte che ho subito nell’entrata ad Auschwitz erano di aver visto i mussulmani e poi il fatto che ci hanno denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per un giorno intero e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude.

D: Ti ricordi che giorno era, più o meno?

R: No.

D: Il mese?

R: Sì, il 21 giugno siamo arrivate là. Era una cosa tremenda. Durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità, eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva l’una con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane e con me c’erano tantissime giovani ma c’erano anche tante persone anziane. Vedere quelle povere nonne, per me erano nonne, lì nude, disperate; si nascondevano, cercavano di proteggere le parti che non dovevano essere viste. Dopo l’attesa fuori ci hanno portato nei blocchi, nelle baracche. Tutte nude ci hanno portate nella baracca detta “Sauna” dove ti tagliavano i capelli, ti rasavano e poi ti spedivano avanti. Avevo i capelli lunghi, biondi, i miei capelli erano belli, un po’ ondulati, ero giovane e il polacco che tagliava i capelli mi ha preso una ciocca di capelli, me l’ha tagliata poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti: là coi capelli ero l’unica. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano Ciocchina.

Di là ci hanno mandato in un’altra stanza dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziano i tatuaggi. Sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicessero: il tedesco lo capivo poco, solo quello della scuola. Quando era quasi il mio turno di entrare sento che dice all’altra compagna: “Da ora in avanti tu non sei più la tal dei tali ma sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sul braccio la matricola. Io ho il numero 82.132 e con questo numero ho passato tutto il periodo sapendo di essere soltanto il numero 82.132; il nome l’ho dimenticato.

Poi nuovamente in fila per gli indumenti. Davanti a me c’era una compagna partita da Trieste che aveva avuto la sventura come me di essere stata presa per una spiata; aveva il numero 82.131. Lei era una bella figura ma aveva già i suoi anni, aveva 30 anni, io ero una bambina di fronte a lei: a me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto che non le copriva neanche le ginocchia. Volevo scambiarlo con lei ma quando abbiamo fatto il gesto abbiamo ricevuto botte tutte e due, perciò ci siamo messe nuovamente in fila per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera, non è un campo di lavoro. Come mai queste baracche, che cosa ci succede?” Entrando abbiamo visto altre prigioniere fra le quali delle ragazze che avevamo conosciuto alle carceri del Coroneo. Quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro piangendo ci hanno raccontato cosa ci sarebbe successo. Più che essere tatuate non credevo ci potesse succedere altro. Invece è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento.

D: L’abbigliamento che ti hanno dato in cosa consisteva?

R: Una veste e le scarpe, meravigliose! Io indossavo a sinistra una ghetta e a destra uno zoccolo olandese grande che perdevo man mano.

D: Biancheria intima niente?

R: Come no! Mutande, reggiseno tutto era in quella veste meravigliosa. Oltre ad essere immatricolate, si portava il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Col triangolo rosso perché eravamo politiche. C’erano moltissimi triangoli. Avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia. Ci siamo messe a ridere quando ci siamo viste l’una con l’altra … si piangeva e si rideva perché eravamo talmente ridicole, poi tutte quelle zucche pelate! Non ci si riconosceva più, quando ci siamo viste ci si guardava: “Ma chi sei tu?” Ci chiedevamo e tutte mi dicevano: “Come mai a te non li hanno tagliati?” “Non lo so!” Quello era il minimo di fronte a tutto quello che ci aspettava. Nel blocco abbiamo visto i castelletti dove si dormiva sei per sei, come le sardine; noi giovani dormivamo a terra. Io ho dormito per quasi un mese sulla terra nuda. Eravamo tante dentro il blocco e non ci si poteva stare, non ci si poteva girare, quando ci si girava, stanche di essere su un fianco, si svegliava una di noi: “Ti prego, ci si gira dalla parte opposta”. Le ossa facevano male. Appena arrivata eri grassa, eri in carne, e dove ti mettevi? Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere perché era talmente basso; per poterti sedere dovevi scendere e sedere in terra. E poi la notte, le cimici. Quando spegnevano la luce, in pochi secondi le sentivi camminare su di te, facevi una retata di cimici, spaventoso; era una puzza tremenda, impossibile potere addormentarsi. Poi ci si è abituati ma non del tutto. Ogni notte era la corsa alle cimici perché altrimenti ti mangiavano, avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccato dalle cimici. Erano grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fossero le cimici, ma là ho imparato bene.

D: Nerina, ad Auschwitz 1 fino a quando sei rimasta?

R: Non potrei dirti il tempo perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che ti alzavi la mattina verso le tre e mezza, logicamente attendevi la miska che ti davano, sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare uscendo dal blocco: metterti in fila per cinque, guai se non eri diritta in fila per cinque, allora partivano le botte. Se un momentino ti distraevi quando eri in fila… altre botte; quando arrivava la kapo e ti contava, sempre sull’attenti; quante poverine sono rimaste là perché cadevano, non resistevano più, perdevano i sensi e poi finivano come non si sa. La tortura più grande era quella di tenerci all’aperto anche se pioveva, nevicava, faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con lo stesso indumento; se era tutto zuppo di acqua dovevi tenertelo e rimanere là perché non c’era da cambiarsi. Chi aveva una buona costituzione e un fisico forte ha resistito, le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e una cadeva, era morta… in piedi.

D: Poi da Auschwitz 1 ti hanno mandato ad Auschwitz2 – Birkenau

R: A Birkenau. Ti prendevano all’appello per andare a lavorare; lavori nei campi a piantare le patate e pulire, e il lavoro all’interno del campo di concentramento: pulire i blocchi, pulire il gabinetto notturno. Non potevi uscire, dovevi venire davanti al blocco e uno ti controllava mentre facevi i tuoi bisogni, davanti a tutte, era tremendo. Noi per un periodo avevamo una carriola. E’ molto difficile poter andare … e poter farlo; una persona anziana si sbilanciava e cadeva: quante sono cadute dentro la carriola, tutte sporche e sudice dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, non si sa neanche come visto che non avevamo niente. Ci si doveva accontentare; quando si poteva andare al mattino due minuti a lavarsi nel Waschraum dove c’era uno zampillino d’acqua – non riuscivi neanche a lavarti gli occhi – cercavi al meglio possibile di lavarti con l’acqua ruggine. C’era la corsa per arrivare a pulirti, a lavarti un pochino, non riuscivi tante volte, eravamo tante e ci richiamavano. Eravamo tutte sporche, senza la possibilità di potersi un po’ lavare;  senza vergogna a quel riguardo andavi in quel gabinetto tremendo e se non ti abituavi erano botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere addetta alla pulizia dei gabinetti. C’era un carro dove vuotavi tutte le cose e poi quel carro lo portavi lungo il campo fino a che non arrivavi nei gabinetti, dove lo lasciavi. Penso che quello fosse uno dei peggio lavori nel campo, era veramente umiliante, ti chiamavano la Merdastrasse, scusate l’espressione, noi la chiamavamo così; purtroppo ognuna aveva il suo turno. Poi quando non facevi quello dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, e poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora del mangiare. O ti portavano in un altro blocco dove ti facevano portare delle pietre.

Quando non ne potevi più cadevi per terra esausta: o ti rialzavi o bastonate. Poi è successo il fatto delle due sorelle francesi. La tedesca ha ordinato alla nostra kapo di fare alzare quella che era caduta, ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Lei è caduta a terra, logicamente ferita, e l’altra sorella le è corsa in aiuto. Noi sempre a camminare intorno, sempre portando pietre, non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella, la seconda è corsa per aiutarla ma è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due.

Non ho mai saputo l’ora perché l’orologio non esisteva; che ora è, che giorno è, tutti i giorni erano uguali, si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Ma forse era meglio perché non soffrivi più tanto, mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dirti se era un’abitudine o veramente eravamo un morto che camminava. Tante volte ci si chiedeva: ma si cammina, siamo ferme? Qualche volta qualcuna mi pizzicava, mi diceva: “Ah, sei ancora viva”, io mi mettevo in un mutismo, eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di fare quattro passi sempre con la testa rivolta al cielo: non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finire. Tante volte dicevi: “Quella è morta, ha finito di soffrire”, questa era la risposta.

Malgrado tutto si aveva sempre una speranza; io sempre dicevo di dover tornare  a casa. C’era come un ritornello nella mia testa, e mi seguiva. Quando ero nei momenti più pesanti cominciavo: “Devo ritornare a casa perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”, poi lo dicevo alle altre allora si iniziava a portarci nei ricordi verso casa, ci aiutavano a vivere, quella era una via – come potrei dire – un aiuto per poter continuare a lottare per ritornare. E poi sai, le risate quando avevamo fame. Quando col gruppo davanti al blocco non ci permettevano di andare da nessuna parte si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare: “Cosa mangeresti tu? adesso che faresti?” Allora si facevano ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di pensare al famoso pane col quadratino di margarina, alla fine ci accontentavamo di quello. E quando era l’ora di mettersi in fila sempre sull’appello per prendere quel pezzetto di pane, che bello! Quello era l’ora più bella.

Così le giornate passavano, ci si raccontavano tante cose. C’erano tantissimi blocchi, io ne ho passato soltanto tre, però sapevo che ce n’erano tanti. Si sapeva ben poco di quello che succedeva nel campo. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni. Quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria perché i treni fischiavano, fischiavano le sirene, poi c’era il rientro nei blocchi tutti chiusi perché non si doveva vedere quello che succedeva con chi usciva dai vagoni: il famoso Blocksperre cioè la chiusura di tutti i blocchi. Il fatto è che quando eri là da un po’ di tempo capivi tutto, da ogni fischiata sapevi cosa sarebbe successo. Le sirene squillavano, c’era sempre qualcuno che voleva scappare ma scappato non è nessuno.

Mentre ero là c’è stata l’impiccagione di una polacca che aveva tentato un’evasione dal campo. L’hanno torturata davanti a tutto il gruppo delle donne in campo, e quando le hanno rotto tutte le ossa l’hanno impiccata moribonda.

D: Parlavi prima dell’alimentazione: cosa vi davano ogni giorno?

R: Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e dei bidoni con l’acqua bollente: le spaccavano sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino e galleggiavano i semi e l’interno della buccia, limoso. Poi quando era l’ora del pranzo chiamavano – si sapeva che era l’ora del pranzo perché c’era un fischio particolare – e andavi a prendertelo. Se eri forte di stomaco lo mangiavi se no rimandavi, poi cercavi di mandare giù qualche cosa per poter sopravvivere. Io ho molto sofferto perché il mio stomaco era debolissimo, veramente non so dirti come sono rimasta viva, comunque era il mio destino. Mangiavo pochissimo. Sai, c’erano le rape grattugiate secche, le gettavano dentro in questa Kübel di acqua bollente, se riuscivi a procurarti  un recipiente le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio; col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiarle. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano meglio. La festa grande era la domenica: ti mettevi in fila e ti davano una patata con un pochino di margarina, un triangolino di margarina. Loro non guardavano se la patata era grande o piccolina, te ne davano una e basta, spesso succedeva che ricevessi la piccolina ma non la grande. Quando una riceveva la grande tutte le eravamo attorno: “Un pezzetto anche a me sai? Guarda che me lo avevi promesso”. Era un po’ d’allegria nella grande tristezza nella disperazione.

D: Nerina, ti è mai capitato di sognare?

R: Un’unica volta ho fatto un sogno lungo però ho pianto tutta la notte… Ho fatto un sogno e l’ho raccontato a una signora di Maribor, slovena. Sono andata fuori per fare i miei bisogni, l’ho trovata e le ho raccontato. Avevo visto mia nonna nel sogno, mi aveva toccata ed era fuggita.  La donna slovena mi guardò e mi disse: “Guarda le stelle, ti racconto cos’è la tua vita. La tua mamma e il tuo papà sono osti, vero?” Sì, avevamo una trattoria prima che ce la distruggessero”. “Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Le avevo detto il giorno del mio compleanno e mi disse: “Mi hai detto che sei nata il 9 luglio, oggi è il tuo compleanno”.

D: Scusa Nerina, il problema delle mestruazioni?

R: Non ho mai capito, anche adesso che ho rivisto le mie compagne ci siamo chieste: ma cosa è successo? Appena siamo arrivate …. bloccato in pieno, nessuna sa cosa fosse. Forse era l’acqua nera che ci davano da bere la mattina, calda. Pagherei per sapere cosa ci davano.

D: A Birkenau fino a quando sei rimasta?

R: Poco, forse un mese.

D: E poi cos’è successo?

R: Mi hanno portato nel Lager B. Il Lager B era il Lager dove lavoravi proprio. Quando arrivavi là se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla, e questo ho fatto anch’io nel ritorno, mi sono abbassata per prendere un ciuffetto però… sai le botte. Per strada mi hanno schiaffeggiato e la testa mi è girata da tutte le parti, ancora adesso sento schiaffi, poi quando siamo ritornate mi hanno messo in punizione davanti al blocco inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata e una pera cotta appoggiata sulla mano. Tante volte mi sembrava di cadere, cercavo di raddrizzarmi per farmi forza. Quando mi sono alzata le ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto carne non c’era, c’era la pelle; è passato del tempo prima che mi si rimarginassero le ginocchia, quante volte mi si aprivano perché dovevo inginocchiarmi per altre cose, ma finalmente sono guarita. C’erano polacche che erano peggio delle SS; se una cosa non sopporto sono le polacche, perdonami Polonia. Parla con chiunque sia stata là; tutte hanno subito angherie dalle blockowe e dalle stubowe. La notte loro mangiavano, si divertivano, bevevano: noi si sentiva il mangiare, il bere e noi piene di fame a languire. Loro erano pasciute, nessuna era magrolina, erano tutte tonde. Non puoi immaginare che nel blocco di un campo di concentramento ci fossero tipi così perversi, così cattivi. Se loro rubavano incolpavano le politiche.

D: Poi da lì sei stata ancora trasferita

R: Sì, mi hanno portata via da Auschwitz perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila per il trasporto, hanno detto che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello.

Quando si era in fila pronte per partire ci consegnarono pane per il viaggio, una pagnotta di quel famoso pane acido, cattivo, duro: era come mangiare segatura.

C’erano vicino a me due bambine, io per loro ero una mamma, una di 12 e una di 13 anni, del Goriziano. Venne rubata una pagnotta – erano contate – le ebree e le polacche facevano le parti: una di loro accusò le due piccole, ma non era vero perché erano con me. Lo dissero al militare tedesco che ci accompagnava nel trasporto, allora lui infuriato inveì contro di loro e si misero a piangere perché erano bambine. Piangere non dovevi: se là ti vedevano piangere ti picchiavano. Era pronto a picchiarle duro col calcio del moschetto. Ho preso le loro difese e il colpo che dovevano subire loro l’ho preso io: sono caduta in svenimento, ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne che mi hanno sollevato e portata di peso, non mi hanno voluto lasciare là a terra; sul vagone mi sono ripresa, ma sulla testa avevo un segno che anche ora si vede. Il colpo col tempo ha fatto suppurazione perché dentro si è formata un’infezione;  i medici mi hanno detto che il mio osso stava andando in cancrena.

Ci hanno portato a Flossenbürg, io non lo ricordo; mi sono ripresa in treno ma per me è un vuoto colmo. Io ricordo di essere stata in fila, di essere saltata in mezzo alle due bambine e di avere preso le loro difese ma poi è una parentesi chiusa: sono passata per il campo di Flossenbürg ma non so di esserci stata.

Mi sono ritrovata il 14 dicembre nella fabbrica di lampadine Osram a Plauen. Non so come sono arrivata, mi sono guardata intorno e ho detto: dove siamo? Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze.

Nessuna si era accorta che io non sapevo niente. 

D: Ti hanno portato in fabbrica?

R: Sì, mi sono trovata in fabbrica. Ho avuto la fortuna di avere un direttore di fabbrica meraviglioso con tutto il nostro gruppo, eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato come fossimo lavoratrici; era sempre gentile con noi, se si aveva bisogno di qualche cosa si chiedeva, se qualcuna era malata la curò.

Noi si abitava nel soffitto della fabbrica, là avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno, non per fare la doccia, ma il rubinetto. Ognuna aveva il suo letto, ognuna dormiva sul suo castelletto, io ero il terzo piano perché ero una fra le più giovani, ero su in alto. La mattina ci davano il solito tè e si andava al lavoro alle 6; ognuna aveva un lavoro; gli operai ci insegnavano i lavori della fabbrica delle lampadine. Si iniziava dal vetro e poi facevamo le lampadine grandi enormi, molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese quel lavoro poi sono andata nel magazzino. Quando ero là mi sentivo sempre tanto male; la prima volta sarà stato verso il 20  dicembre. Così tre volte di seguito; la terza volta c’era dentro il direttore e mi ha visto, mi ha preso in braccio ed ha chiamato il soccorso che era nella fabbrica. Mi ha portato nella clinica a cui avevano diritto gli operai della fabbrica, però c’era con me anche la tedesca con il cane. Quando il medico mi ha visitata ho mostrato l’orecchio che spurgava. Mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo accadde nuovamente. Al 14 gennaio (1945) mi hanno portata ancora là, ogni tanto mi mettevano sotto il naso la melissa per tenermi sveglia. Un altro medico mi ha visitata e ha premuto la parte che faceva male, ho dato un urlo spaventoso. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto tantissime fotografie e radiografie; io ridendo ho detto: “Per andare al cinema?”

Nella fabbrica avevamo un medico interno che era un colonnello dell’aviazione russa, una prigioniera; nella fabbrica c’era una stanza chiamata Revier e là lei curava le ammalate. Il direttore della fabbrica volle che la dottoressa mi seguisse, aveva molta fiducia in lei; venne anche la tedesca. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa: mi hanno salvata. Non potevano darmi nessun medicinale, era proibito dalla tedesca. Avevo la testa fasciata, avevo soltanto un pezzettino aperto all’occhio, ero come una mummia. Il medico allora mi nascose nella garza tanti tubetti di vitamine; diede ordine alla dottoressa di darmene un po’ al giorno. La dottoressa mi seguì con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi toccasse: sarei rimasta nella fabbrica sin tanto che le cure non fossero finite, lui avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore.

Non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa un po’ seduta, quando ho potuto camminare sono andata giù in fabbrica per fare soltanto cose leggere. La notte non la facevo, facevo sempre i turni di giorno. Ho lavorato fino all’ultimo quello che ho potuto, lavori leggeri, e questo fino alla Liberazione.

D:Nerina, è in quella fabbrica che tu hai cercato di tenere un diario?

R: Sì. La notte di Natale una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco che lavorava nella fabbrica, lui l’ha aiutata a scappare. Lei quindi non ha risposto all’appello, è stata cercata per tutta la fabbrica, non c’era: ci hanno messo in castigo una giornata intera perché volevano sapere da noi ma nessuna sapeva niente. Senza mangiare abbiamo fatto il Natale. Alle 6 di sera ci hanno dato il permesso e hanno portato quel tè nero e sino al giorno dopo a mezzogiorno, niente. Il giorno dopo all’appello – era il giorno di Santo Stefano – le tedesche ubriache dentro hanno fatto festa e noi sempre fuori all’appello. Il giorno dopo abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. La dottoressa aveva prigioniera una sorella, Tania. Non ho saputo il motivo, ma le avevano gettato i cani contro al suo rientro, noi abbiamo dovuto assistere alla scena. L’hanno quasi resa a brandelli, l’hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa pian piano l’ha curata poi è rimasta a sua volta in fabbrica. E’ stato uno dei tanti tremendi giorni in cui dovevamo assistere all’annientamento. Fortunatamente è rimasta viva e la sorella l’ha curata. Nel mio diario scrivevo lettere alla mia mamma; le cose che mi venivano in mente e che scrivevo mi rilassavano un pochino, parlavo con la mamma. Ne avevo due ma purtroppo il più grande me lo hanno rubato al mio ritorno a Bolzano.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R:Triste perché le tedesche ci hanno chiuse nella fabbrica che era diroccata da una parte; noi eravamo proprio nella parte diroccata, rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse e loro sono fuggite. C’erano i russi, gli americani e gli inglesi che andavano verso Berlino, hanno quasi distrutto Plauen. Forse per due giorni siamo state al buio tale era il fumo delle bombe.  Alla finestra avevamo un’inferriata con la rete; quelle che avevano ancora un po’ di forza hanno disfatto il letto delle tedesche, era in ferro, e con quell’asta hanno picchiato sui vetri fino a fare un buco. Hanno messo sull’asta un lenzuolo con una croce rossa, fatta col nostro sangue: c’erano bottiglie e bicchieri, li abbiamo rotti e con il sangue abbiamo fatto la croce. Si gridava alla disperata, e un paio sono impazzite, specialmente le russe: poverine, avevano il numero 42.000, erano là fra le prime, erano quasi impazzite. Eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi niente, era tremendo.

Finalmente si resero conto che c’eravamo, vennero su gli americani e ci liberarono. Io ero a letto: ero talmente sfinita che non mi alzavo più, gli americani che sono venuti su hanno portato in braccio diversa gente. Quando uno mi ha sollevato mi ha detto: “Ma sei una bambina, quanti anni hai, 11  o 12?” Il militare parlava in inglese e io in sloveno; lui mi ha chiesto, in uno sloveno un po’ stentato, se ero slovena: Disse: “Anche la mia mamma è slovena. Come mai sei qua?” Lui non sapeva niente, gliel’ho raccontato, mi ha preso in braccio, mi ha stretta al petto e ha detto: “Dio mio, Dio mio ma come si può ridurre una creatura così?” Di lì i russi mi hanno portato all’ospedale da campo. Mi hanno rifocillata, credo per quindici giorni, mi hanno tirata su prima con il tè  poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato. Quando ci siamo riprese ci hanno portato in un campo di smistamento. Là sono rimasta fino a che non mi hanno portato a casa.

D:Fino a quando sei rimasta lì?

R:Pochissimo perché ci siamo trovati in diversi triestini. Ero ancora un po’ giù di corda, sempre con la testa fasciata: la testa l’ho portata a casa fasciata e mi ha curato il professor Danilo, pure lui ex deportato di Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato una di Gorizia più anziana di me; io andavo verso i 20 e lei aveva 35 anni, per me era una mamma; si è presa cura di me. Arrivarono altri tre triestini, erano militari prigionieri nei campi militari, non deportati. Quando ero là uno dei triestini mi ha portato una gonna grande; la mia compagna di Gorizia me l’ha adattata; hanno trovato una blusettina di organdis e me l’hanno messa, lei me l’ha ristretta; mi hanno vestito a festa. Un compagno milanese, poiché portavo ancora gli zoccoli, mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … bellissimi, tutti mi chiedevano dove avessi trovato il mio numero.

I ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo e hanno cercato il posto migliore per poter scappare, hanno fatto un buco. Da quel buco partivano durante il giorno e cercavano di combinare un carretto per me perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto; hanno trovato una carrozzina con le due ruote grandi, poi si sono procurati un po’ di legno, mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile. A un dato momento mi dissero: “Preparati, questa sera la fuga”. Eravamo in dieci, c’era uno della Calabria, uno del Trentino, uno milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. L’accordo è fatto, il carretto è pronto: non rimaneva che aspettare che la ronda cambiasse giro. Quando tutti dormivano ci siamo messi in carica! Io, pacifica come una patrona seduta, e loro poverini che mi spingevano. Mi hanno riportato a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi.

Durante il giorno si camminava e si chiedeva dove andare; puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava e ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’era qualche negozio aperto: si chiedeva, mostravo i miei numeri di campo, capivano subito che eravamo prigionieri, ci davano da mangiare quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente.

Una notte ci ha preso la pioggia ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito; la pioggia ci ha bagnato molto bene, ci correva lungo la schiena perché eravamo distesi per terra sul prato, era giugno, caldo. Quando ci siamo svegliati alla mattina eravamo quasi già asciutti perché il sole ci aveva asciugato, ma io avevo dei brividi. Il giorno dopo la mia temperatura è salita, farneticavo, un signore ci ha prestato una bicicletta e uno di noi è andato dal medico: broncopolmonite. Dopo otto giorni il medico è ritornato, ci ha permesso di ripartire. In un paese mi hanno vestito con una tuta olimpionica e con scarponi da montagna perché era freddo e non potevo andare coi sandali; così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che un treno portava a Vienna, lo prendemmo – era un treno che portava carbone – ma alla mattina sentimmo parlare polacco. Eravamo entrati nuovamente in Polonia!

Cosa fare? Disse uno in stazione che nel pomeriggio un treno sarebbe andato verso la Germania. Tornammo in Germania, non ricordo la stazione. Alla fine con dei camion che portavano viveri in Germania ci siamo arrivati.

Un treno portava prigionieri francesi a casa; abbiamo aspettato, a noi si sono avvicinati altri prigionieri che sono rimpatriati; abbiamo detto che noi italiani non avevamo nessun collegamento con nessuno e cercavamo di  rimpatriare meglio possibile. Loro andavano verso la Svizzera, era pur sempre vicino all’Italia. Ci portarono. Sul treno non c’era più posto perché eravamo tanti, allora misero delle travi di traverso sul vagone bestiame: lì sopra siamo saliti noi e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera.

Sul treno si sono accorti che tanti avevano il tifo: la Svizzera non ci fece entrare, dovevamo passare per il Brennero. Dal Brennero siamo arrivati in treno a Bolzano; ci hanno scaricati, gli altri hanno proseguito: noi siamo rimasti là perché a Bolzano c’era lo smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dai campi. In Svizzera ci avevano dato, prima di mandarci indietro, qualche cosa per coprirci e cibo in uno zainetto, ognuno aveva il suo zainetto. Purtroppo allo smistamento ci derubarono degli zaini. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberata, è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo che era per me la continuazione della mia vita. Avevo dentro dei libri, un bel diario. Tutto mi hanno portato via, una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia grassa, avevo due tute l’una sopra l’altra, una sciarpetta che mi copriva la testa: mi vergognavo con tutto quel bianco.

Quando siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine era un problema arrivare a casa perché era tutto bombardato, il treno da Udine non camminava.

D: Scusa, Nerina il percorso da Bolzano a Udine?

R:Da Bolzano partì un pullman su cui hanno preso tutti quelli che erano dei dintorni di Udine di Trieste.

A Udine c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere di fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto per poter scappare da Udine; è da lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. Un’altra fuga. Mi sembra che fosse un edificio militare o comunale, forse una scuola o un ricreatorio; in basso, nei gabinetti, ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto. Siamo entrati, abbiamo fatto quello che dovevamo fare e ci siamo messi in una stanzetta al pianoterra. Il gabinetto aveva un finestrino da spingere; per primo è andato Luciano di Trieste che era il più giovane. Poi è andato il più grasso, poi mi hanno sollevato e mi hanno fatta passare.

Ci  trovammo la notte a Udine, andammo alla stazione sperando in qualche treno in partenza. Si partì ma solo per un pezzetto, fino a Santa Maria la Longa. Ci incamminammo. Da una stradina di paese stava venendo un uomo coi cavalli e col carro. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi. Ci ha presi sul carro e portati a Monfalcone. Da Monfalcone i treni c’erano ma dovevamo avere i biglietti. I biglietti!!! Ma che ti sogni! A Monfalcone ci hanno ristorato con quello che potevano, un panino e una mela. Hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di lì, poi ci hanno rifocillati nuovamente perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. Il treno partì, era un treno lumaca. Su quel treno c’era gente che andava a fare la borsa nera.

Cerano due persone che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto; io avevo sempre la testa fasciata. La signora mi fissò, io la vidi e la fissai anch’io: non sarà mica Silvia? Lei mi guardò e fece un urlo: “Dio, è la Cisa che ritorna, la Cisa non è morta!”. Qualcuno aveva portato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che ero morta.

Ci ha preso una tale smania di tornare a casa, una voglia di correre. Sai cosa ho chiesto per prima cosa? Mio fratello è tornato vivo? Si, ti aspettano tutti anche la mamma e il papà.

Quando siamo entrati nella zona nostra e ho visto Miramare mi sentivo fare bububum bububum, dicevo: “Oddio, mi si ferma il cuore!” Sentivo il fuoco alla testa.

Finalmente entrammo in stazione, io camminavo su e giù per il treno e non appena hanno aperto le porte sono caduta indietro e sono svenuta. Nessuno era alla stazione ad attendere i rimpatriati in Trieste! C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente.

Arriviamo a casa, ero tutta infagottata, a metà strada c’è la casa di mia zia, mia cugina era alla finestra. Io ero là tutta imbacuccata, e lei disse: “Ma guarda quella, perfino in testa si è messa qualcosa da nascondere”. Mi guardò, la guardai, tutto a un tratto la vidi impallidire, urlò e disse: “E’ ritornata mia cugina!” Quella fu la prima volta che piansi. Quando ci siamo viste non potevo né parlare né niente. La mamma non era a casa, era uscita con un’altra signora. Quando tornò e mi vide disse: “No, questa non è mia figlia, avete sbagliato, non è lei, questa non la conosco”. Si capisce: ero tutta fasciata. Ero talmente piccola quando sono partita e piccolissima quando sono rientrata. E poi sai cosa mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto? “Amore, ti fo’ il caffè?”. Dico: “No mamma, il caffè l’ho bevuto; ti prego i fagioli, fammi dei fagioli”. E la mamma ha fatto presto, non so come ha fatto. Ho chiesto al papà del vino e ne ho bevuta mezza bottiglia. Poi sono arrivati tutti i miei zii. E abbiamo fatto la notte tutti in piedi.

Cherchi Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..

Rossetti Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io  mi chiamo Rossetti Sergio, sono nato a La Spezia il 23.12.1927.

D:  Sergio, quando ti hanno arrestato?

R: Io abitavo in un paese vicino a La Spezia, a Buonviaggio, un paese bello, anche il nome lo dice, e tutte le mattine partivo per andavo a lavorare in Arsenale, nello stabilimento militare. Si andava a piedi da Buonviaggio a Migliarina dove si pigliava il tramvai.

In un posto distante da casa mia due chilometri ad un bivio c’era un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Vidi alcuni miei conoscenti fermi sul ponte della Dorgia, ma non ci feci caso.

Al tempo avevo appena 17 anni, ero ancora ingenuo, non avevo l’esperienza dei ragazzi di oggi.

Difatti mi fermarono e mi misero insieme agli altri amici che conoscevo – Boni Alfredo, Chella Rino, Morelli Vittorio, Baroncelli Antonio e Monteverdi Giuseppe, di un paese vicino. Restammo fermi una mezz’oretta; quando videro che il gruppo si era formato, ci incolonnarono tutti lungo la statale cosiddetta della Cima, e dal ponte andammo in uno stabilimento militare distante 500 metri.

Era un deposito di mine e siluri della Marina, ci portarono là, era chiamato la Flage.

Cominciarono i primi interrogatori, ci chiamavano uno alla volta; venne il mio turno, andai dentro, c’era una scrivania, due borghesi e due militari ai lati. Vollero sapere come mi chiamavo, dove abitavo, quanti eravamo in famiglia, di che religione, la politica. Dissi che lavoravo in Arsenale, avevo anche il documento per poter entrare; quando mi chiesero gli anni dissi: “Faccio 17 anni a dicembre”.  Mi arrivò uno scappellotto sul collo e un calcio nel sedere e mi disse: “Tu sei troppo giovane, mettiti faccia al muro”. Quando anche gli altri finirono l’interrogatorio, ci caricarono su dei mezzi coperti con teloni, e ci portarono alla caserma del 21° Reggimento Fanteria.

D:  Quando ti fecero l’interrogatorio e chi lo ha conduceva?

R:  Il 21 novembre 1944, il giorno del grande rastrellamento di Migliarina.

Lo stesso giorno in cui mi fermarono subii questo primo interrogatorio alla Flage.

D: Da parte di chi?

R: Non lo so. Erano due borghesi e due militari della Guardia Nazionale Repubblicana, non so chi fossero. Di politica non mi sono mai interessato. Andavo a lavorare, però avevo ancora il carrettino con le ruote per divertirmi, lungo la strada. E pensare che in tempo di guerra mio padre era stato richiamato, si era fatto la guerra di Grecia e d’Albania, dopo aveva fatto domanda di rimpatrio per famiglia numerosa – eravamo quattro sorelle e due fratelli in casa, un fratello nacque nel 1944. Voglio dire che non si era fascisti ma si viveva la nostra vita normale. Ci portarono sugli automezzi, non so se cinque o sei, al 21° Fanteria. Ci misero nelle celle, ricordo che ero solo in cella; dopo mi misero insieme a Baroncelli, che era con me la mattina del posto di blocco.

La sera ci chiamarono ad un altro interrogatorio, che era normale. Botte non ne presi, anzi, mi levarono sciarpa, stringhe e fazzoletto: dicevano di aver paura che ci si potesse strozzare. Stetti due giorni in caserma, si aspettava che facessero il loro lavoro, però nella notte si sentivano urla, schiamazzi, passi di scarponi: si vede che qualcuno voleva sapere i nomi di partigiani, si sentiva urlare, sbattere le porte e tutto. Finito al 21° Fanteria, il giorno 22 o 23 novembre, ci caricarono su automezzi coperti e ci portarono al ponte Pirelli, un ponte militare; lì caricavano e scaricavano munizioni, vicino c’era il binario che andava alla polveriera Vallegrande. Tutti in fila; una motozattera ci aspettava. Insieme a noi c’erano un certo Vigilante Giuseppe, commissario di pubblica sicurezza, e un certo Carrè, che era un becchino dell’ospedale; l’avevano accusato di nascondere armi sotto le tombe, invece non era vero. A loro non interessava niente, volevano che dicesse dei nomi per andarli a prendere e far loro confessare certe cose. Ricordo il povero Vigilante, che era un uomo sulla sessantina, entrare nella motozattera su una scaletta; io avevo 17 anni e cercavo di evitare le botte che davano mentre si passava sulla scaletta, ma il poveretto rimase con la gamba tra la scaletta e la parete. Si rovinò la gamba, alla bell’e meglio lo sdraiammo nella motozattera. Partimmo di sera, verso le cinque, ed arrivammo via mare al porto di Genova. A Genova ci caricarono sugli automezzi e ci portarono alle carceri di Marassi. Ci portarono subito nelle celle, ricordo che ero sempre con Baroncelli, un vicino di casa, eravamo cresciuti insieme. A Marassi stemmo dal 23 / 24 novembre fino al 12 / 13 gennaio (1945). Una mia sorella mi portò il corredo, un baule di roba con cappotto, giacche, scarpe, magliette, tutto l’occorrente, perché si diceva di andare a lavorare in Germania. Nelle carceri di Marassi davano una sbroda e il pane, si tirava avanti. Dopo arrivò il momento dell’interrogatorio; siccome andavano in ordine alfabetico, vidi portare su due o tre che per le botte prese tornavano gonfi. Tanti non volevano confessare, ma loro imponevano: “Tu hai fatto questo, hai fatto quest’altro”. Come potevo confessare cose che non avevo fatto? Ti picchiavano per poter cavar qualcosa. Dopo capitò il mio turno: andai dentro, c’erano Battisti e Morelli, due della polizia giudiziaria che picchiavano davvero; poi c’era un tedesco che scriveva a macchina e un altro militare, non so di che rango né se fosse italiano o tedesco. Ero in piedi e ai lati c’erano questi due con due nervi in mano, mi ricordo.

Vollero sapere nome e cognome, dove lavoravo, la famiglia, la religione, il solito interrogatorio che avevo fatto la prima volta, era già tutto predisposto e programmato. Dietro me c’erano gli accusatori: poveracci, anche loro erano stati picchiati, facevano il doppiogioco. Quando ti fanno delle torture dire di no costa ancora di più, è così che ti accusavano. Mi accusarono di questo: il prete di Migliarina mi avrebbe dato un fucile, avrei lanciato dei manifestini,  sabotato i magazzini di Ceparana ed ucciso uno della Guardia Nazionale dietro una batteria dove vivevo. Insomma mi diedero sette condanne. Quando dissi: “Ma io sono un ragazzo, vado a lavorare in Arsenale, cerco di fare il mio dovere”, mi arrivò un calcio negli stinchi. Dico la verità, non dico che mi hanno bastonato, mi è arrivato un calcio negli stinchi e basta. Dovetti firmare il foglio, la mia condanna a morte, come fecero tutti. 99 su 100 firmarono: sotto tortura, chi non firma? Così finì l’interrogatorio e ci riportarono in cella. Certi giorni si stava in due in cella, dopo ci cambiarono cella e si stava in quattro, dopo in otto. Arrivarono il giorno di Natale, il primo dell’anno, l’Epifania e il momento della partenza. Tornando indietro, devo dire che Marassi era una riserva: quando ammazzavano qualcuno lo pigliavano da lì, come dalla Casa dello Studente; a noi andò bene.

Arrivò l’ora della partenza; una mattina ci misero in colonna tutti quanti, riempirono due corriere, ammanettati sinistro con destro come tanti briganti, legati con la catena. Tutti avevano le valigie, chi ne aveva due chi una, ma più o meno avevano tutti due valigie. Povere donne: le mogli, le sorelle, le fidanzate, che avevano fatto a piedi La Spezia – Genova sotto la galleria, col treno, perché sulla strada non potevano passare, cercando di portare la roba ai familiari.

Sulla corriera noi si era accompagnati da tedeschi in licenza, sempre con il fucile puntato alla schiena; lungo il percorso, al Passo dei Giovi, il camion si fermò perché ce n’era un altro che impicciava; allora due dei nostri scapparono: un certo Moscatelli di Migliarina e un certo Taddei e non li ripresero.

Ripartimmo ed arrivammo a Trento. A Trento ci fermammo per fare i nostri bisogni, legati insieme. E’ vero che si era tutti uomini, però un po’ di pudore ci vuole anche tra uomini.

Un certo Tosetti del Filettino e un altro tentarono la fuga ma li presero e diedero loro tante di quelle botte!

Quando arrivammo a Bolzano li misero nelle celle di rigore; li picchiarono forte davvero! Dopo li portarono con noi a Bolzano.

Arrivati a Bolzano, fummo scaricati. Avevo il numero, mi sembra 8.800 e tanti, non mi ricordo di preciso, e il triangolo rosso. Per prima cosa ci fecero i capelli da zucca pelata. A Bolzano si viveva, non c’era pericolo, ci passavano poco mangiare e stavamo lì, aspettando la manna dal cielo. Anche lì arrivò il giorno della partenza. Ricordo che era il 31 gennaio 1945, tutti in fila eravamo mi pare 640 o 650, con le valigie in mano, guardati sempre dai tedeschi e dai cani al guinzaglio; il cane per loro era familiare, era la base principale. A Bolzano sembrava di costeggiare la ferrovia, distante abbiamo visto un treno merci; ricordo che sopra il tetto di una grande fabbrica ho visto la scritta Lama Bolzano. Mi ricordo che era il 31 gennaio 1945, era tutto bianco di neve.

D:  Quando eri nel campo di Bolzano ricordi di aver visto delle donne?

R:  Sì, c’era un muro divisorio di mattoni e di là c’erano le donne.

D:  Hai visto se c’erano dei religiosi, nel campo?

R: Tornando indietro a Genova, c’erano 8 preti, tra cui padre Pio di Mazzetta, don Mori de La Scorza, don Scarpato di Fossa Mastra, don Casabianca di Ceparana e don Bertoni, non so di che parrocchia. Al povero padre Pio, che era un frate di quelli bianchi, un omone così, mettevano i morsetti ai polsi per farlo confessare, e cercavano di stringergli le braccia per farlo parlare. Non so se parlò perché i religiosi erano divisi da noi.

D: A Bolzano invece non ricordi di averne visti?

R: A Bolzano quelli che ho nominato non sono venuti, forse sono venuti dopo nell’ultimo trasporto, però con noi non c’erano. A Bolzano per dire la verità li avrò visti, però non mi ricordo.

D:  Quindi ti hanno portato dove c’erano i vagoni?

R: Per farci salire sul vagone fecero uno scalone di legno, però ai lati c’erano sempre gli aguzzini che cercavano di picchiare coi calci, con il moschetto, con le mani, con tutto. Io avevo 17 anni e cercavo di … però c’era gente anziana, malata, zoppa, che purtroppo subì quello che subì. Dentro il vagone trovammo tanta paglia; penso che fossimo una settantina, e nel nostro vagone c’era Vigilante, poverino, con la gamba menomata e l’altro, Carrè il becchino, che è morto durante il percorso ed era già moribondo alla partenza. Ci caricarono e via. Vedevi neve, neve, tutto neve. Facemmo quattro giorni e quattro notti senza mangiare e senza bere; si mangiava la neve attaccata al treno; in quei quattro giorni e quattro notti io non mangiai niente. Dentro il vagone, in un angolo, c’era un mastello per i nostri bisogni. La nostra destinazione era ignota, andavamo a lavorare ma dove precisamente non si sapeva. A forza di camminare il treno arrivò alla stazione. Ricordo che prima che il treno si fermasse, si iniziavano già a sentire urla di cattiveria, fare presto, sbrigarsi, insomma si vedeva dai movimenti, si vedevano tedeschi e cani al guinzaglio. Arrivammo in questa stazione, uscimmo tutti. Alla stazione si vide la scritta Mauthausen, pensavo di andare in riviera come qua a Manarola, a Rio Maggiore, a Vernazza. Non si sapeva mica che Mauthausen era rinomata per quel campo. Ci misero tutti insieme, cinque con le nostre care valigie in mano; invece di fare la strada principale di Mauthausen ci fecero fare una secondaria, piena di neve, sterrata. Ai lati della strada c’erano donne, uomini, bambini, vecchi. Quello che non ci arrivò addosso … palle di neve, pezzi di sassi, sputi, Badogliani, traditori, insomma tutto quello che potevano vomitare vomitarono. Andammo su piano piano, dalla stazione al campo ci saranno 5 / 6 chilometri, tutto era coperto di neve, non si vedeva niente, alberi e basta. Lungo il percorso si vedevano uomini vestiti zebrati, però non pensavo che fossero prigionieri; man mano che si andava avanti si vedeva anche di più: spalavano, pulivano la strada, li vedevo magri, con gli occhi infossati, la zucca pelata, guardati dai tedeschi. Man mano che si avvicinavano vedevamo grandi camini fumare, un grande muraglione.

Dopo si arrivò alla porta d’ingresso del campo. Prima entrammo dai depositi dell’attrezzatura tedesca.

Una parte di noi era rimasta in quel perimetro grande, e una parte su una scaletta a destra entrò proprio nel campo di concentramento. Si entrò dalla porta, girando a destra; dopo andammo verso il muro del pianto.

Entrando nel campo girai la testa e vidi attaccato alla catena dell’ingresso un uomo ma non vidi se era legato; pensai che fosse fermo lì, invece poi vidi che era legato con una catena. Lo avevano messo come esempio: se uno non fosse stato agli ordini del campo sarebbe andato a finire lì per punizione! Arrivati nel piazzale c’erano 30 / 40 centimetri di neve, un manto bianco; penso che saremmo stati in 300, una parte rimase sotto ad aspettare il turno.  Venne il tedesco a parlare con l’interprete e ci fece depositare tutte le valigie.

Pensa quanta roba rubarono! Ognuno aveva una valigia o due, il vestiario, la biancheria, può darsi anche soldi, roba da mangiare, tanti la tenevano. Vedevano che c’era gente che non mangiava però – fa parte dell’egoismo – se la tenevano, ma quando arrivammo al campo ci portarono via tutto.

Depositammo le valigie, seguì un altro ordine: spogliarsi tutti nudi, levarsi gli indumenti, tutti. Uomini, grandi, piccoli, vidi scene un po’ commoventi. Recentemente, quando il Papa è andato in Israele ha visitato il Muro del Pianto: ma era quello di Mauthausen il vero muro del pianto!

Ho visto uomini anziani depositare catenine, anelli, portafogli, volevano tenersi una fotografia della moglie o del figlio, niente, lasciare lì. Guai se trovavano qualcosa addosso, erano punizioni tremende, infatti lasciarono tutto. Fatto questo andammo tutti in fila giù per una scaletta senza sapere dove, sempre destinazione ignota; ai lati della scaletta c’erano non militari ma borghesi, prigionieri come noi, e cominciammo ad assaggiare le botte del campo. Infatti entrammo, c’erano i barbieri con le macchinette, testa pelata, a me fecero la Strasse in mezzo, tutti i peli sulle braccia rasati; dopo le docce, acqua calda e acqua fredda. Si divertivano anche; finché era calda, bene ma quando era fredda, era pur sempre il 4 febbraio.

Finito questo programma pensai: “Ora ci daranno un asciugamano”, ma niente. A 50 metri c’erano due con dei pennelli, facevano un segno e dicevano che fosse disinfettante. Poi tornammo fuori dove ci avevano spogliati. Mi ricordo che presi un paio di pantaloni e una camicia, mutande niente, un paio di zoccoli con la striscia. Dopo mi capitarono un paio di zoccoli un po’ più robusti e li presi. Finimmo di vestirci alla bell’e meglio e ci portarono al blocco di quarantena. Io ero nella prima baracca, forse la 22; dopo c’era il muro perimetrale che divideva la quarantena. In baracca ci misero a dormire; i pagliericci avevano 3 centimetri di spessore. Alla mattina presto cominciai a sentire urlare, con i nervi in mano; prima di uscire e andare fuori all’aperto passammo sotto i lavandini tondi tipo militare con tanti rubinetti: a  petto nudo a bagnarsi testa, torace, schiena. Non c’erano gli asciugamani che si usano in casa, solo con la camicia e fuori all’aperto.

Dopo un po’ ci diedero il primo caffè, chiamiamolo caffè ma era acqua calda; lo bevemmo perché l’acqua calda faceva bene. Dopo fecero cominciare l’appello, tutti in fila, la mia prima volta che subii l’appello nel campo di Mauthausen, prima l’avevo subito a Bolzano. Tutti in fila, prima fecero le prove con il cappello, Mütze ab, Mütze auf dovevano sentire un colpo; un paio di volte lo ripetemmo, e dopo alla bell’e meglio lo facemmo.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: Finito l’appello, verso mezzogiorno, diedero la zuppa, tutti in fila; si cercava sul fondo dove era più densa, però a volte di capitava e a volte no. C’erano tanti prigionieri ma una gamella a testa non c’era; erano gamelle smaltate, tutte rugginose, brutte, io in tre mesi a Mauthausen il cucchiaio non l’ho mai visto, si mangiava con le mani: bisognava far presto a mangiare perché gli altri aspettavano che finissi per passargli la gamella, si doveva pulire bene perché c’era solamente quella.

Finito il mangiare di mezzogiorno arrivava la sera. Alla sera davano il pane, si mettevano fuori vicino al tavolo, tagliavano questo pane a fette, non so se era di 1 o 2 centimetri, davano un pezzetto di margarina, un po’ di marmellata o qualche pezzetto di salame, il pranzo era questo. Quando avevano finito di tagliare il pane sulla coperta la sbattevano e tutti le saltavano addosso per mangiare le briciole.

Quando racconto questi episodi nelle scuole mi guardano un po’ strano e dicono: “Ma questo cosa racconta?” A tante cose è difficile credere, magari a scuola non le hanno insegnate, però sono cose che ho visto e vissuto.

Finito di mangiare il pane si andava in branda in baracca, ma prima di entrare ci dovevamo spogliare, fare il nostro cuscino, andare dentro tutti in fila, e non mettersi con la pancia per aria, comodi sui pagliericci, ma a lisca di pesce, testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi… Non eravamo solamente tutti italiani, c’erano anche francesi, tedeschi, polacchi, russi, non ci capivamo, non si poteva dire: “Spostati un attimo”. Se urlavi era un parapiglia; lasciavamo un corridoio per chi di notte andasse a fare i bisogni. C’erano i gabinetti, con i lavandini ed anche i water, però non ci sono mai andato. Dietro c’erano i bidoni o una fossa con una tavola di traverso; i nostri bisogni li facevamo lì.

Nel blocco rimasi dal 4 febbraio fino al 5 maggio, sempre così. Fu la mia fortuna, io avrò lavorato in tutto quindici giorni, mi chiamarono a fare delle fosse con picco e pala, non so se erano delle fosse comuni o fosse che interessavano a loro.

D: La tua immatricolazione?

R: L’immatricolazione non ricordo come sia andata; era una striscia bianca col numero, io avevo il 126.404 con il triangolo rosso e la sigla IT; davano una piastrina di ferro legata col filo che mi rimase per ricordo, ce l’ho nella borsa se dopo la volete vedere. Nel periodo della quarantena una volta ci portarono sotto un grande tendone in fondo al campo; c’era una porticina di legno, sulla destra ora c’è il museo.

Una volta vennero i tedeschi coi cani dietro a questa porticina del tendone grande come i tendoni da circo. Non so per quale motivo, ma stemmo due giorni lì dentro, e dopo ci riportarono nel blocco.

A volte mi dicono: “Ma tu sei ritornato a casa!” Ragazzi, che ci posso fare? Ci sono diverse cose da raccontare. Nel blocco di quarantena un giorno mancavano due deportati all’appello. Erano due come noi e stemmo quasi tre o quattro ore fermi all’appello; girarono dappertutto e li trovarono. Li portarono dentro: la porta dove adesso c’è un cancello una volta era chiusa e di legno, vedevi solamente baracche e cielo, baracche e cielo.  Li presero per il petto, li buttarono contro il muro perimetrale del campo, rimasero un giorno e mezzo lì, morti così.

Quando vado là porto i ragazzi e racconto loro questo particolare che mi è rimasto impresso, e tutte le volte metto un paio di fiori nel campo, perché erano deportati come noi.

D: Dicevi di essere uscito alcune volte per andare a fare dei lavori; uscivi dal campo?

R: Sì, però non sapevo dove andassi, andavamo a circa 100 / 200 metri, sempre guardati dai tedeschi in divisa, non sapevamo dove ma eravamo proprio fuori dal campo.

D: Il momento della Liberazione dove ti trovavi?

R: Voglio raccontare un altro particolare. Quando ero nel blocco di quarantena, ogni tanto venivano i tedeschi a cavallo coi cani, ci facevano girare intorno al perimetro della baracca, lo facevano apposta per eliminare noi deportati. Nella mia baracca c’erano diversi italiani tra cui diversi spezzini che man mano andavano a lavorare fuori o cambiavano baracca o morivano. Rimasi l’unico spezzino con un certo Bonati Fabio di vicino Migliarina, che aveva 24 anni ed era ben messo. Ciononostante cominciò ad ammalarsi, lo vedevo tutti giorni deperire; quando facevamo l’appello cercavo di stargli vicino e di aiutarlo per quello che potevo fare. Vedevo però che non ce la faceva, vedevo che ormai era sfinito; ad un certo punto cascò vicino a me e mi disse: “Vai via che io non ce la faccio più”:  lo lasciai e non lo rividi più.

Sono due cose che mi sono rimaste impresse.

D: La Liberazione te la ricordi?

R: La ricordo perché un paio di giorni prima qualcosa era migliorato, non si vedevano più le solite angherie. Vedevo che i morti aumentavano, e ogni tanto alla mattina cinque o sei erano morti, si portavano su e poi arrivava il carretto che li portava via. Non si sapeva dove li portassero, perché noi il crematoio l’abbiamo visto quando ci hanno liberato: si vedeva il camino fumare ma non si pensava ai cadaveri, era tutto misterioso. Prima della Liberazione erano cambiate anche le sentinelle, non si vedevano più le SS bensì le cosiddette guardie territoriali; non c’era più la cattiveria di prima.

La Liberazione fu il 5 maggio (1945), lo sapemmo dopo che era il 5 maggio; lì si perdeva anche il nome dei mesi e non si sapevano i giorni della settimana. Sentivamo le grandi urla della folla, tutti i deportati andavano nella piazza principale del campo. Vedemmo una camionetta militare con sei soldati a bordo con l’elmetto, non con le divise marziali dei tedeschi. Avevano lanciato roba da mangiare, sigarette, scatolette, caramelle.

Io qualcosa arraffai ma c’erano migliaia di persone, come facevi?

Al giorno della Liberazione tutti i deportati si radunarono: incontrai Vasoli, Tartarini e Carassale, questi tre. Uscimmo dal campo ed andammo nelle cascine dei contadini: c’era una cascina che si vede ora dal museo, mi feci anche una foto, la vedi se ti arrampichi sul muretto. Parlavano tedesco ma i gesti … 

Iniziai a mangiare, portarono pane, uova, una zuppiera di carne di maiale. La notte dormimmo nel fienile ed alla mattina andammo in un’altra cascina. Mentre facevamo questo percorso si sentivano gli altoparlanti in diverse lingue: “Tutti i prigionieri sono pregati di ritornare nel campo perché presto ci sarà il rimpatrio”.

Tornammo. Avevo un fagottino con della roba, non ricordo se pane o uova: all’entrata del campo c’era un Militar Police con casco e fucile: mi portò da due o tre militari che mi buttarono in cella di rigore. Ci stetti  un quarto d’ora e poi mi lasciarono andare. Tornammo al nostro blocco, sempre con questi tre amici di Migliarina. Ci diedero pacchi americani con tanta roba, minestra in scatola, noccioline, cioccolate, sigarette, latte in scatola ma l’istinto della fame! Tutti i deportati che erano usciti, dopo che il campo era stato liberato, entravano con le mucche alla corda, con pecore, conigli, galline, tutto. Però non potevano entrare nel campo, i militari li fermavano, dopo chiamavano i contadini che venissero a prendersi la roba. Diedero due o tre giorni di carta bianca, vidi scene terribili.

D: Sergio, quando e come sei rientrato in Italia?

R: Siamo partiti il 2 giugno 1945, quanti ne abbiamo oggi? 55 anni fa ero per strada che stavo ritornando. Un po’ sui camions militari americani con la pedana a destra e a sinistra, un po’ in treno, un po’ a piedi. Ricordo che arrivammo in un posto di ristoro, era un campo francese, dissi a Vasoli: “Ma guarda un po’, dopo sei mesi si dorme in un lenzuolo bianco”. Ci trattarono bene, si mangiava, ci stemmo un giorno e dopo ripartimmo. Ci fermavamo nei posti di ristoro; a Innsbruck ci misero in un campo pieno di pulci e pidocchi, ma non c’era altro posto.  Venivano gli americani con le pompe a disinfettare. Dopo ripartimmo per l’Italia, su questi camion militari. Si vedevano la bandiera italiana e la bandiera austriaca e l’autista disse: “Siamo arrivati in Italia”. Allora scendemmo tutti a baciare la bandiera italiana.

A raccontarle sono cose molto tristi. Arrivammo a Bolzano, ricordo che dove ci eravamo fermati col camion c’era un ciliegio, strappammo i frutti e li mangiammo. Prima di ripartire ci portarono in ospedale, ci visitarono. Mi avrebbero dovuto trattenere perché ero molto deperito ma dissi di voler andare a casa a trovare i miei. A camminare facevo fatica perché ero debole, però volevo andare a casa mia.

Da Bolzano partimmo in treno, che ad un certo punto si fermò perché non poteva più andare avanti. Allora siamo andati con le corriere fino alla stazione centrale di  Milano. A Milano andammo in un punto di ristoro, ci fecero mangiare e bere; poi arrivammo a Genova alla Curia vescovile: io, Vasoli, Tartarini e Carassale, girammo per la città e arrivammo a Prè. Vedendo il nostro aspetto tutti dicevano: “Ma da dove venite così mal ridotti?” “Veniamo dalla prigionia, veniamo dal campo di Mauthausen”. Fecero una colletta che ci siamo divisa un po’ per uno. Da Genova a La Spezia abbiamo preso un camion che andava verso Livorno. Siamo arrivati a La Spezia nella Piazza del mercato, davanti al bar chiamato “Bar Spezia”. Siamo scesi lì verso mezzanotte, abbiamo diviso il nostro gruzzoletto di soldi e ci siamo salutati dirigendoci verso le nostre case.

Desandrè Ida

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre 1922.

Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, e in seguito deportata in Germania. Prima di essere deportata sono stata rinchiusa nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino nelle carceri nuove, di passaggio al carcere di San Vittore a Milano, e poi sono stata trasferita a Bolzano. A Bolzano sono rimasta circa una ventina di giorni.

D: Ida, dove sei stata portata a Bolzano?

R: Nel campo di concentramento di Bolzano, e in seguito da Bolzano sono partita per la Germania. Il primo posto in cui sono stata è il campo di Ravensbrück. Nel campo di Ravensbrück ho fatto la quarantena; in seguito sono stata trasferita in un campo di lavoro, sempre alle dipendenze del campo di Ravensbrück. Questo campo era situato nella località di Salzgitter e vi sono rimasta sino verso la metà di aprile (1945): dalla metà di aprile sono stata trasferita un’altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen.

D: Questo è stato il tuo percorso di deportazioni; iniziamo col campo di Bolzano.  Quando sei arrivata nel campo di Bolzano dove ti hanno messo, te lo ricordi? 

R: Sì, ricordo perfettamente l’ingresso nel campo di Bolzano: ricordo un grande capannone

modo da una rete metallica. Ricordo perfettamente dove erano situate le cucine, le toilettes.

La mia permanenza a Bolzano non è stata troppo malvagia perché ci portavano a lavorare dentro a caserme, dove c’erano diverse mansioni, non per tutti uguali. Con il mio gruppo attaccavamo bottoni ai telo-tenda dei militari. Poi alla sera si rientrava nel campo.

D: Con te c’erano molte altre donne?

R: Sì tante, tante donne. Con il gruppo con cui sono partita dalle carceri di Torino e anche da Milano siamo quasi sempre rimaste unite. Erano donne che provenivano da diverse località, c’era anche una compagna di deportazione della Valle d’Aosta, e operaie delle fabbriche di Torino, donne di Milano, di Cremona, di Imperia; insomma, da parecchie zone del Piemonte, della Liguria …

D: Poi da Bolzano sei partita; tu ricordi in maniera precisa il giorno della tua partenza.

R: Sì, ricordo in modo perfetto il giorno della mia partenza perché era il 10 di ottobre (1944), il giorno del mio compleanno.

D: Ti ricordi da dove siete partite? 

R: Siamo partite appunto dal campo, adesso non so ricordarmi con precisione, se siamo state caricate su dei camion oppure se abbiamo fatto la strada a piedi verso il binario dal quale partivano tutti i treni che ci portavano in Germania. Questo binario esiste tuttora, sono tornata tempo fa a rivederlo.

D: In quanti eravate più o meno sul tuo vagone?

R: Il mio vagone poteva al massimo contenere 40 persone: eravamo invece più di 100.

D: Tutte donne?

R: Tutte donne, anche anziane, chi più chi meno.

D: Avevate dei vettovagliamenti, del cibo?

R: Aveva dei vettovagliamenti chi aveva avuto la possibilità di ricevere ancora qualcosa nel campo di Bolzano. Io per esempio sono stata tra una di quelle che aveva anche ricevuto dei soldi dai familiari e dagli amici che mi avevano anche fatto arrivare dei pacchi. Siamo partite per la Germania con un po’ di mele, un po’ di zucchero, qualche tavoletta di cioccolato, qualche pezzo di pane, non tanta roba.

D: Il trasporto ha fatto qualche fermata?

R: Il trasporto si è fermato alla stazione di Innsbruck verso sera, al calar del sole: ricordo perfettamente i raggi di sole che sparivano dietro la montagna. A Innsbruck ci hanno fatto scendere più che altro per mandarci alla toilette, poi immediatamente ci hanno fatto risalire sul treno.

D: Il treno si è più fermato?

R: Il treno non si è più fermato, almeno che io ricordi, e sono passati tanti anni. Dopo 5 giorni e 5 notti di viaggio siamo arrivate a Ravensbrück.

D: Come avete provveduto ai vostri bisogni fisiologici, se il treno non si è più fermato?

R: Questa è stata veramente una cosa molto penosa, non soltanto per me, ma certamente anche per

tutte quelle che erano sul vagone. Abbiamo dovuto in qualche modo risolvere questo problema facendo un buco tra le tavole del vagone. Queste cose si svolgevano così, con grande umiliazione … trovarsi così di fronte anche a persone sconosciute. Questa è stata, posso dire, la prima grande umiliazione che abbiamo subìto.

D: Poi siete arrivate a Ravensbrück. Cosa è successo quando hanno aperto il vostro vagone?

R: Arrivammo a Ravensbrück su un binario morto, cioè il binario arrivava sino lì. Ci hanno fatte scendere e ci hanno incolonnate 5 per 5. Ci hanno contate ed era un grosso problema per le guardie che ci accompagnavano questo contare: non doveva mai mancare nessuno in rapporto alle cifre che loro avevano. Purtroppo anche durante il viaggio qualcuna è morta.

Ricordo in modo particolare la presenza del lago (nel campo di Ravensbrück); non so di averlo visto con precisione, comunque sentivo la presenza del lago e soprattutto ho il ricordo dolcissimo del suono di una campana. Quando si arriva in questi luoghi anche soltanto il suono della campana ti dà la sensazione di non essere in un posto sperduto, cioè ti fa sperare che ci sia la presenza di qualcuno vicino a te.

D: Come ricordi l’arrivo al campo?

R: Dopo che ci hanno contate e ricontate ci siamo avviate lungo un viale circondato da aiuole ben curate, con casette in stile tirolese, molto belle, con i gerani fioriti alle finestre nonostante che fossimo già nel mese di ottobre. Più che altro guardavo le tendine. Quando siamo partite per la Germania eravamo convinte di andare in Germania a lavorare, anzi in un certo senso era come una liberazione partire per la Germania, perché non sapevamo nulla di ciò che ci aspettava. Pensavamo di andare a lavorare; e questo era il nostro pensiero vedendo queste aiuole, tutte queste casette, che poi erano le case dei nostri aguzzini. Dicevamo: “Qui ci faranno lavorare”, speravamo che la nostra vita si sarebbe svolta in questo modo sino alla fine della guerra. Invece purtroppo le cose poi si sono presentate in un altro modo: finito il viale, ci siamo trovate di fronte un grande ingresso, un grande portone, abbiamo cominciato a vedere le torrette con le guardie sopra, con le armi puntate, il filo spinato, si è spalancato il grande ingresso.

Cosa abbiamo visto entrando nel campo? Abbiamo visto le prime prigioniere incolonnate. C’erano colonne di donne vestite a righe, qualcuna coi capelli rasati e con gli attrezzi agricoli, e le facevano sfilare cantando, le facevano anche cantare. Altre invece trascinavano misere carrette su cui erano andate a raccogliere le morte nel campo, destinate al forno crematorio. A Ravensbrück funzionava giorno e notte il forno crematorio.

D: E l’ingresso nel campo?

R: Per prima cosa non siamo state guardate subito perché siamo state due giorni fuori, dormendo all’addiaccio sul piazzale del campo. Fortunatamente avevamo ancora con noi i nostri indumenti e quel poco da mangiare che era rimasto nei nostri fagotti; li tenevamo ben cari questi fagotti perché le poverine, le prigioniere che erano già lì prima di noi anche di notte cercavano di rubare quel poco che noi ci eravamo portate appresso. Fortunatamente io avevo con me il cappotto, mi ci sono coperta e non ho sofferto

eccessivamente il freddo. Dopo due giorni siamo state chiamate dentro la baracca adibita alla vestizione; ci hanno fatto spogliare nude e abbiamo dovuto lasciare tutto; tutto ciò che avevamo con noi ci è stato preso, non ci è rimasto neanche un ago per cucire né uno spazzolino da denti, niente. Tutto ci è stato portato via, tutti gli oggetti cari, le fotografie, tutto tutto tutto, siamo rimaste nude. E poi siamo state anche notevolmente depilate, visitate nelle parti più intime del nostro corpo: pensavano che qualche oggetto avrebbe potuto essere nascosto. Dicendo oggetto intendo una catenina d’oro, un anellino che sarebbe servito come merce di  scambio nel campo per qualche miska di zuppa.

D: Dopo la spoliazione, la depilazione, la rasatura e le visite corporali, è la volta delle docce.

R: Sì, la doccia e poi la vestizione, cioè dopo la doccia ci hanno consegnato i vestiti. Allora c’era chi otteneva il vestito zebrato e chi no, ed è ciò che per esempio è successo a me: mi è stato dato un vestito nero con una croce di stoffa di diverso colore cucita davanti e dietro. Sul braccio era cucito il triangolo già col mio numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio era rosso; il triangolo rosso era per le deportate politiche. C’erano anche altri colori: il triangolo giallo per gli ebrei, il triangolo verde non ricordo … insomma, c’erano parecchi colori.

D: Poi il blocco di quarantena.

R: Ci hanno assegnato il posto nelle baracche. C’è da precisare che il campo di Ravensbrück era stato costruito per, non so, 9.000 / 10.000 persone circa, ma purtroppo verso la fine della guerra eravamo già più di 50.000, e il campo non si è ingrandito nel frattempo. Il campo è rimasto quello che era, le baracche sono rimaste quelle, perciò  eravamo pigiate dentro queste baracche. Mi è stato dato un posto per dormire, c’erano i letti a castello, chiamiamoli letti ma erano semplicemente dei tavolacci con un po’ di paglia e una coperta. Il mio posto è stato assegnato al quarto castello, ma questo posticino era occupato da 3 prigioniere polacche; le poverine erano già da un po’ di tempo nel campo; vedendosi arrivare un’intrusa ad occupare una parte di questo piccolo posticino mi riempirono di botte. Io non capivo perché mi picchiassero così; non avevo colpa se mi avevano rifilata in questo angolino.

Voglio raccontare un particolare: entrando nella baracca in attesa appunto che ci venisse assegnato il posto, io mi sono appoggiata sul primo lettino del castello, che era ricoperto da una copertina a quadretti bianchi e blu, tutta diversa dagli altri letti. Era il letto di una kapo: non pensavo di fare qualcosa di male, ma lei senza dirmi niente mi allungò un ceffone. E mentre mi picchiava mi chiamava “Badoglio”. Tutte noi italiane eravamo chiamate “Badoglio”. Perché? Perché in fondo in fondo la considerazione che i tedeschi avevano delle prigioniere italiane era doppiamente terribile: noi non eravamo il nemico, noi eravamo i traditori, e questo certamente ha influito molto sulle punizioni e sul comportamento che loro avevano nei nostri riguardi.

D: Quanto tempo sei rimasta a Ravensbrück?

R: Io penso grossomodo di avervi fatto la quarantena, adesso dire con precisione non lo so, ricordo

vagamente. Nei giorni in cui siamo rimaste a Ravensbrück – io parlo sempre al plurale perché siamo quasi sempre rimaste assieme noi del gruppo partito da Torino e da Milano, noi che provenivamo dal Piemonte e dalla Liguria – ci portavano a lavorare. Andavamo a lavorare dalle parti in cui c’era il laghetto; ci facevano caricare sabbia su grandi carrelli sistemati su rotaie: dovevamo caricare, riempire questi carrelli, spingerli e svuotarli. Certamente era un lavoro inutile ma era un modo anche questo per toglierci le forze, per debilitarci e per farci capire che eravamo là per soffrire, ecco.

D: Lo specifico di Ravensbrück è quello di essere un campo tutto femminile.

R: Sì, nel campo di Ravensbrück c’erano tutte donne.

D: Solo donne.

R: Giovani, vecchie, anziane, insomma c’era un po’ di tutto.

D: Tu hai subìto esperimenti in questo campo?

R: Sì, in questo campo sono stati fatti degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre, consisteva nel toglierci il ciclo mestruale: a qualcuna mettevano qualcosa nel mangiare, invece tante altre venivano messe su un tavolo e veniva iniettato direttamente nella salpinge un liquido molto irritante; questo liquido ci ha tolto le mestruazioni. Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi anche per un periodo di tempo successivo al mio rientro a casa, non ho più avuto le mestruazioni.

D: E il vostro corpo si è riempito di che cosa?

R: Togliere il ciclo mestruale era un problema molto grave per la donna, ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo: loro dicevano che noi eravamo degli schiavi e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi. Certamente anche in questo senso cercavano il modo di eliminare il più possibile le persone, e così anche con noi, che non avremmo potuto magari più avere figli. Questo penso sia stato lo scopo di questo esperimento, e forse anche vedere l’effetto che poteva fare sulla donna togliere il ciclo mestruale. L’effetto è stato che i nostri corpi si sono riempiti di grossi foruncoli sempre pieni di pus, e i  pidocchi  si accompagnavano benissimo coi foruncoli ….

D: Durante il periodo che tu sei rimasta a Ravensbrück hai subìto anche una selezione. Te la ricordi?

R: La selezione è stata quando ci hanno scelte per portarci fuori dal campo di Ravensbrück, perché il campo aveva dei campi satellite, dei campi di lavoro. Sono arrivati degli industriali tedeschi e ci hanno scelte, cioè individuavano tra le prigioniere quelle che più o meno avrebbero potuto rendere nella loro fabbrica e nel lavoro. Ci guardavano soprattutto, mi ricordo, le mani: chi aveva anche le mani callose era evidente che fosse una persona già abituata a lavorare e senz’altro avrebbe reso in fabbrica. Io fortunatamente avevo già i calli alle mani perché abituata a lavorare, ho lavorato sin da piccola.

Prima di tutto questo però diciamo dell’appello al mattino a Ravensbrück. Alle 5 dovevamo uscire fuori dalle baracche per l’appello, qualunque fosse stato il tempo, qualunque fosse stato il modo in cui potevamo uscire; tante volte dovevamo uscire anche nude, e l’appello durava tante ore, a seconda se durante la notte qualcuna era morta oppure se qualcuna era assente per qualche altra cosa. Contavano, contavano e ricontavano; l’appello durava fin a quando i conti non tornavano. A Ravensbrück succedeva anche questo. Cosa posso dire? Tra tante altre sempre del mio gruppo, siamo state scelte per andare a lavorare in una fabbrica in un campo di lavoro che si chiama Salzgitter. Ci hanno caricati su dei treni un’altra volta e ci hanno portato in questo posto. Non abbiamo viaggiato tanto perché Salzgitter non era tanto lontano da Ravensbrück. In questo campo di lavoro c’erano parecchie baracche, adesso ricordo vagamente quante baracche c’erano, ma c’erano donne di tutte le nazionalità: greche, polacche, russe, francesi, italiane.

D: E lì a Salzgitter cosa facevate?

R: A Salzgitter ci portavano a lavorare dentro delle fabbriche. Noi andavamo a lavorare in una fabbrica in cui si costruivano i cerchi di rivestimenti per le bombe. Ci davano della polvere tipo polvere di alluminio, non so bene di che cosa fosse composta questa polvere, e si cominciava a costruire dal piccolo cerchio via via sempre più in grande, fino a quando la forma della bomba veniva data da tutti questi cerchi l’uno sopra l’altro. Questo era il lavoro che si svolgeva nella nostra fabbrica; si facevano i 3 turni, si lavorava dalle 6 del mattino alle 2, o dalle 2 alle 10 di sera; poi c’era il turno di notte. Questo è stato il lavoro di Salzgitter.

D: Poi anche da Salzgitter sei stata trasferita.

R: Sì, da Salzgitter siamo state trasferite perché il fronte stava avanzando. In una notte tremenda ci hanno fatto uscire dalle baracche, con urla tremende, e bastonandoci ci hanno caricate su dei camion e ci hanno portate via: la nostra destinazione era nuovamente Ravensbrück. Purtroppo durante il viaggio il nostro convoglio è stato bombardato, e naturalmente il treno non ha più potuto proseguire per Ravensbrück. Allora abbiamo camminato, ma non quella notte, che abbiamo passato nel bosco. Il giorno dopo abbiamo camminato, e dopo tanti chilometri siamo arrivate nel campo di Bergen Belsen.

D: Quando siete state trasportate da Salzgitter a Bergen Belsen siete state bombardate nella stazione di Celle, te lo ricordi?

R: Siamo state bombardate nella stazione di Celle presso Hannover; abbiamo subìto un bombardamento terribile, e in seguito a questo bombardamento abbiamo dovuto proseguire sulla strada a piedi. Facendo tutti questi chilometri a piedi per arrivare nel campo di Bergen Belsen avevamo tanta sete, tantissima sete, e soffrire la sete è una cosa molto brutta. E poi anche fame, perché non ci è stato distribuito più niente da mangiare. Io avevo con me un pezzo di pane, un piccolo pezzo del pane che ci veniva distribuito nel campo. Non so con che farina fosse fatto, se ci fosse almeno un po’ di farina ma forse non c’era neppure. Questo pezzo di pane me l’aveva dato una compagna di deportazione che era riuscita a rubarne un po’ e che aveva distribuito tra noi compagne; io, per non mangiarlo e perché mi durasse di più, ho continuato a leccarlo tutto il tempo che abbiamo camminato; tra l’altro eravamo anche mitragliate. Quando arrivavano gli apparecchi aerei si lasciava la strada e si correva a ripararsi nei boschi. Dopo tanti chilometri finalmente arrivammo a Bergen Belsen. Io avevo sempre in mano questo pane che si era ridotto ormai ad una palla a furia di leccarlo, era una piccola palla. E non appena sono entrata nel campo di Bergen Belsen, sono stata avvicinata da una prigioniera che aveva un po’ d’acqua dentro il recipiente che chiamavamo miska: mi ha fatto segno che se le avessi dato il pezzo di pane lei mi avrebbe lasciato bere un sorso d’acqua: ecco, ho rinunciato al pane per bere un po’ d’acqua, perché la sete era stata talmente grande.

Del campo di Bergen Belsen cosa possiamo dire? La nostra prima impressione nel vedere tutto ciò che c’era attorno a noi, un inferno dantesco, è stata: “Qui è finito, qui loro hanno vinto, noi abbiamo senz’altro perso”, vedendo tutto il disastro che c’era. Nel campo non c’era più nulla che funzionasse, non c’era acqua, non davano più da mangiare. I cadaveri erano tutti sparsi nel campo, erano cadaveri accatastati, mucchi e mucchi di cadaveri che la notte buttavano fuori dalle baracche. Vedere questi cadaveri così, con le membra tutte storte, con gli occhi aperti, le bocche aperte, con le piaghe da decubito, è stata una cosa terribile, una cosa che ancora io non ho dimenticato, nonostante siano passati tantissimi anni. Il mio pensiero va sempre a questa povera gente che è morta in un modo così terribile.

D: Ida, perché sei stata portata nei campi di concentramento?

R: Io sono stata portata nel campo di concentramento perché mio marito era militare ad Aosta; l’8 settembre (1943) c’è stata la disfatta dell’esercito italiano, e anche lui, come tutti gli altri, dopo 8 anni di servizio militare è scappato assieme agli altri. Ha fatto parte della Resistenza in un modo abbastanza blando, ma non ci voleva tanto per essere arrestati; anche se non si partecipava alla Resistenza, in quel periodo bastava una frase fuori luogo, oppure un’imprecazione per il pane che non ci davano o per la fame che si pativa e si poteva benissimo essere arrestati.

Io ho visto persone arrestate perché trovandosi in un luogo pubblico, in un bar o in una cantina, con la radio che trasmetteva il giornale radio, non si alzavano in piedi e non si toglievano il cappello, come invece si doveva fare. Ebbene, bastava che ci fosse un fascista dentro al locale, e potevano arrestarti per questo.

Essere arrestati non significava aver fatto qualche cosa, essere arrestati significava questo: il governo italiano doveva consegnare al governo tedesco un certo numero di prigionieri, e per raggiungere la cifra tutto andava bene: quelli presi nel rastrellamento e quelli presi per delle sciocchezze.

Ripeto, mio marito ha lasciato l’esercito e siamo stati arrestati tutti e due, lui è finito in Germania prima di me, perché ha fatto tutto il mio viaggio sino a Bolzano, e poi è partito per la Germania qualche giorno prima di me, inviato in un campo di lavoro vicino a Lipsia, non in un campo di sterminio, ed è rientrato in Italia nel mese di agosto (1945), mentre io sono rientrata in Italia nel mese di settembre del 1945.

D: Ritorniamo ancora a Bergen Belsen, che è l’ultimo campo in cui sei stata deportata e dove sei stata liberata. Ci stavi descrivendo le immagini del tuo arrivo; quanto tempo vi sei rimasta?

R: Noi siamo stati liberati dalle truppe inglesi il 5 di maggio (1945), non mi vorrei sbagliare ma mi sembra tanto che fosse il 5 di maggio. E poi siamo rimasti ancora parecchi giorni dentro a questo campo, perché la situazione era caotica e doveva essere organizzata anche l’evacuazione del campo. Le prime persone che sono state portate fuori dal campo sono stati i prigionieri che quasi quasi erano all’ultimo stadio. Sono stati portati via i bambini, perché c’erano anche bambini e delle giovanette, lì dentro. Non bisogna dimenticare che nel campo di Bergen Belsen è morta Anne Frank e tantissime ragazzine.

Quando hanno potuto, gli inglesi ci hanno portate via, ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno disinfettate tutte con il DDT, spargendo sui nostri corpi nudi, un’altra volta nudi, tutta la polvere di DDT. Siamo state portate via e ci hanno di nuovo, non tutti, sparsi in questa regione; noi siamo ritornate a Celle dove eravamo state bombardate, e siamo state messe dentro delle caserme, precisamente nella scuderia delle caserme, a dormire un’altra volta per terra sulla paglia. Così per un paio di giorni; io ero già abbastanza malata, avevo sempre la febbre. Fortuna volle che incontrassimo dei prigionieri militari che avevano requisito una casa tedesca, dove forse c’era un laboratorio perché c’erano dei letti a castello. In attesa del rimpatrio l’avevano requisita e ci diedero una camera, per tutte tranne la mia carissima compagna di deportazione di Imperia, che purtroppo è stata portata in ospedale perché era gravemente ammalata; gli inglesi infatti l’avevano portata via dal campo di Bergen Belsen, quasi subito.

D: A Celle fino a quando sei rimasta?

R: Lì siamo rimaste fino a settembre, quando ci hanno rimpatriate. Tante volte ci chiamavano, ci radunavano perché si doveva partire, e poi invece il convoglio non c’era. Ci sono stati dei grossi problemi in quel momento, perché eravamo talmente tanti e le ferrovie funzionavano non in modo tanto buono. La Germania era anche distrutta nelle ferrovie, nei ponti, nei treni e tutte queste cose. Per organizzare il rimpatrio c’è voluto tanto tempo. Primo Levi nel suo libro “La tregua” descrive molto bene le fasi del rimpatrio. Non tutti siamo stati fortunati da avere subito un convoglio che ci portasse a casa. E poi, ripeto, io ero già ammalata; sono stata poi ricoverata in una clinica tedesca, dove bene o male sono stata curata dalla febbre, diciamo, intestinale; avevo anche la scabbia in tutto il corpo, soprattutto sulle mani, dove si vedeva un po’ di più e questo mi tormentava un po’ di più.

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia verso la fine di settembre (1945).

D: Attraverso quale percorso?

R: Sono passata di nuovo dal Brennero, come quando sono partita, e sono ritornata a Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano quando spuntava l’alba; bellissimo questo ingresso a Bolzano, dove la Croce Rossa ci ha accolti. La prima cosa che ci è stata data è stato un pezzo di pane, un panino bello grande, molto bianco, che forse era fatto anche con farina di riso. Eravamo talmente commosse, in modo particolare, nel ricevere questo pezzo di pane dopo tanto tempo che non riuscivo neanche a mangiarlo, me lo baciavo.

Salmoni Gilberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.

Sono stato arrestato dalla milizia della Repubblica di Salò alla frontiera svizzera, il 17 aprile 1944, in alta montagna. Eravamo partiti da Bormio, tutta la famiglia: papà, mamma, mio fratello, mia sorella e mio cognato, cioè suo marito.

Con due guide di Bormio, Pedrazzini e Fumagalli, abbiamo camminato tutta la notte; è piovuto in bassa quota ed ha nevicato in alta quota. Eravamo arrivati al passo, che mi hanno detto dopo chiamarsi Passo della Forcola, sui 2.770 metri di altitudine. A quel punto le guide ci hanno detto che potevamo riposarci qualche  minuto, c’era una capanna; invece siamo stati sorpresi dalla milizia. Eravamo ormai alla fine della salita, non avevamo che da scendere.

Siamo stati portati alla caserma della milizia confinaria di Cancano poi al carcere di Bormio. Alla caserma di Cancano siamo stati interrogati, ci hanno sequestrato gli orologi e i soldi, che poi abbiamo trovato, ci hanno fatto firmare, una cosa del tutto regolare. Siamo stati anche interrogati nel senso che uno aveva una specie di pugnale, ma insomma non è stata una cosa tremenda, si vedeva che voleva darsi delle arie. Poi ci hanno portato al carcere di Bormio. Il carcere di Bormio è un carcere di paese; c’era un ladro con le catene ai piedi e la palla, quella delle vignette. Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e lì siamo stati consegnati alla gendarmeria tedesca. Il giorno dopo, accompagnati dai carabinieri, sul treno e ammanettati siamo andati a Como, e lì consegnati alle SS.

A Como siamo stati 5 giorni, grossomodo; poi siamo stati portati a Milano al carcere di San Vittore.

Non so come si chiamassero le carceri di Como, so che ci siamo arrivati il 21 aprile, Natale di Roma. Dicevano che era l’unica giornata in cui davano la pastasciutta invece della minestra, ma noi l’abbiamo saltata, abbiamo avuto la sbobba.

D: Poi a Milano, San Vittore.

R:Poi San Vittore. A San Vittore c’era un’organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri.

Io non ho detto fino a questo momento che eravamo stati arrestati come ebrei, anche se a rigore la mia famiglia era mista. In realtà c’era soltanto una nonna cattolica, però poi con dei documenti saltavano fuori due non cattolici. Noi eravamo battezzati, però al momento non abbiamo tirato fuori questa cosa. A San Vittore abbiam passato un bel po’ di tempo, una decina di giorni almeno.

Tra l’altro ci han portato a scavare bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti: eravamo stati caricati su un camion, tutti incatenati, una ventina di persone, e portati là con questa consegna: “Il buchetto che vedete bisogna allargarlo fino a trovare la bomba, mi raccomando non picchiateci sopra.” Ci abbiamo picchiato sopra ma non è esplosa, perché ci davano un piccone.

Di lì siamo andati a Fossoli. A Fossoli ha giocato la documentazione che avevamo, difatti gli altri ebrei son partiti per Auschwitz, noi invece siamo rimasti a Fossoli per un periodo abbastanza lungo, cioè fino allo sgombero del campo. In realtà quelli giudicati misti erano trattenuti.

D: Con voi c’erano delle donne della tua famiglia?

R: Certo.

D: Vi hanno separati?

R:Separati, però ci si vedeva, mentre a San Vittore si era insieme, non facevano separazione. Noi eravamo all’ultimo piano del raggio, adesso non ricordo se il raggio era il 5 o il 6. Le celle erano aperte, quindi si poteva circolare nel corridoio.

A Fossoli in realtà si lavorava poco, era un campo di transito, non era organizzato per seviziare. Era organizzato per trasferire quelli che poi venivano trasferiti. Comunque nel periodo in cui siamo stati lì c’è stata la chiamata per un trasporto mi pare di 70 persone, che poi in realtà sono state fucilate al poligono di Carpi. Prima di loro sono stati chiamati quelli che hanno scavato la fossa. La cosa è risultata subito evidente perché i bagagli dei 70 erano partiti e son tornati indietro. Si capiva anche perché quelli che avevano scavato la fossa ci han detto: “Non chiedeteci niente, non possiamo parlare.”

Ho dimenticato di dire che a San Vittore abbiamo avuto un interrogatorio abbastanza duro ma non tremendo, duro per mio fratello e mio cognato: mio fratello aveva 15 anni più di me, mio cognato, che è cattolico e avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di Salò, ebbe due denti rotti perché gli tirarono una pistola in bocca. Mio fratello si è preso degli schiaffoni; io ero lì fuori a vedere, a me non hanno fatto un granché. Il nostro timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno, però non abbiamo avuto torture particolari, minacce ed urla sì, ma insomma …

Fossoli è un campo in cui c’era anche uno spaccio che completava l’alimentazione che passava l’SS; era un campo relativamente tranquillo, relativamente perché vi dico c’è stata la fucilazione. Un prigioniero politico che era riuscito a scappare è stato poi ritrovato e massacrato dalle botte, in faccia a tutti sulla piazza dell’appello, apposta, chiaramente. E poi ci è stato detto che eravamo stati abbastanza in villeggiatura e che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.

D: A Fossoli sei stato immatricolato?

R: No. 

D: Ricordi se a Fossoli c’erano dei religiosi?

R:No, non lo ricordo, so che forse don Gaggero c’era. La parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello era medico ma andava nell’infermeria dove c’era Ottorino Balduzzi. E’ risultato dopo che Balduzzi era il comandante dell’organizzazione Otto che teneva i contatti radio con gli alleati. Con mio fratello si conoscevano già, Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata. Ad ogni modo noi circolavamo nella parte ebraica del campo. C’erano invece dei prigionieri olandesi ed inglesi che avevano un trattamento migliore sicuramente e non erano chiamati a lavorare. Io invece lavoravo.

D: A Fossoli lavoravi?

R: A Fossoli lavoravo, non sistematicamente, però; facevo la cernita della spazzatura, quella che adesso chiamiamo la spazzatura differenziata: noi andavamo sul mucchio della spazzatura a separare la parte metallica dalla parte non metallica. Cioè le scatolette dal resto.

D: All’interno del campo?

R:All’interno del campo. Nei primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, non ero molto bravo; poi una volta c’è stata una visita di Buffarini Guidi, che era il ministro degli interni italiano, e ci hanno organizzato un trasporto pietre, cioè c’era un mucchio di sassi e ci facevano fare la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa: una buffonata, insomma.

D: Poi hanno organizzato il vostro trasporto per l’altro campo.

R:Siamo stati portati a Verona. Allora si passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti, quindi una corriera arrivava fino ad una riva e un’altra corriera sull’altra riva ci portava a Verona.

D: Durante il tuo periodo di Fossoli hai potuto comunicare con l’esterno del campo, scrivere o ricevere?

R:Io avevo un amico di Modena, o lì vicino, non so come gli ho scritto che ero lì, se poteva mandarci qualche genere alimentare e ci ha mandato un pacco con pane e uova, adesso non ricordo esattamente. Erano i conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, bravissime persone che abitavano a Genova, e poi erano arrivati a Bogliasco dove eravamo sfollati per i bombardamenti, quindi li conoscevo bene. Eravamo molto amici con uno che aveva un anno o due più di me. Ho scritto e molto gentilmente loro l’hanno mandato. A differenza della Germania dove noi potevamo scrivere al massimo tra un campo e l’altro, ma nessuno sapeva dove fossimo.

D: Quindi vi hanno trasportato a Verona …

R:A Verona ci hanno fatto salire su un treno a Porta Vescovo, su dei vagoni, separandoci.

La separazione era già stata stabilita a Fossoli, con determinati criteri loro che poi ho cercato di ricostruire. Quindi mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due guide invece erano già state mandate a Mauthausen, però una scappò durante il viaggio e andò coi partigiani della zona di Bormio. Io e mio fratello siamo stati fatti scendere a Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto che sul vagone dove c’erano i miei c’era scritto “Auschwitz”.

Già si sapeva che non c’era da aspettarsi niente di buono. Invece sul nostro abbiamo visto scritto “Buchenwald”, che per noi era un nome sconosciuto.

D:Dici di aver visto le scritte all’esterno o nel vagone?

R:Dove mettevano le spedizioni, credo che fosse quello. Era scritto molto chiaramente “Auschwitz”, e già sapevamo bene. E’ un’informazione che non so come e quando ci sia arrivata, però io so che quando siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, dicevamo: “Vediamo se esce il gas”, quindi … erano già informazioni acquisite.

D: Da Innsbruck poi il convoglio procede.

R:Da Innsbruck i vagoni sono stati separati; noi abbiamo continuato per circa 4 / 500 chilometri più a nord, non li ho misurati. Si passa da Monaco, da Norimberga, da Weimar, e sei subito vicino a Buchenwald. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald, ci han fatto scendere dal vagone con il nostro vicecapocampo Haage, che risulta ancora  vivo ed ha circa 90 anni – su di lui c’è una pratica pendente, mi hanno chiamato in agosto i carabinieri a fare una deposizione 3 anni fa poi non se ne è più saputo niente. Ci han svegliato, probabilmente era primo mattino, ci hanno rinchiuso in una baracca buia, già pieno di gente e non si respirava, non avevamo il coraggio di aprire porte, era una situazione già di dramma. Alla mattina invece siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo. Quindi: spoliazione, doccia, depilazione, venivano buttati a caso i generi di abbigliamento che consistevano – allora era agosto – in una camicia, una giacca, un paio di calzoni, si infilava un paio di zoccoli, poi veniva dato il numero, che in qualche modo abbiamo cucito, e si veniva mandati al blocco di quarantena.

D: Ricordi il tuo numero?

R:44.573. Quello di mio fratello era 44.529. Erano numeri sparsi, e quindi per noi era un mistero fino a quando dopo la liberazione siamo andati a vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva riciclato. Quindi si tappavano dei buchi, in un certo senso, contabili.

Erano accurati, ci chiedevano quante lingue sapevamo, qual era la nostra professione, qualcuno diceva che faceva il cuoco sperando di essere mandato in cucina, ma sono assolutamente certo che l’unica ripartizione che potevano fare era per operaio specializzato.

Pochi giorni dopo che eravamo nel blocco di quarantena c’è stato un bombardamento molto forte di 5 squadriglie da 12 fortezze volanti. Avevamo una paura da matti perché sembrava che le bombe arrivassero sempre più vicine, si vedeva legname e cose varie che volavano per aria.

In quel momento mio fratello, che appunto era medico, dice: “Usciamo a vedere cosa è successo, tanto c’è  confusione, io dico che sono medico e che tu sei infermiere e vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che certamente ci saranno.” Infatti i feriti c’erano perché le baracche in cui si dormiva erano rimaste intatte, ma i deportati durante il giorno, abbiam visto dopo quando siamo entrati, erano tutti  a lavorare fuori del campo, all’interno di un secondo recinto dove c’erano fabbriche, caserme, garages di camion, macchine, motociclette, un territorio molto vasto. C’erano feriti dappertutto, feriti che si lamentavano, però non abbiamo trovato nessun responsabile identificato cui dire questa qualifica ipotetica, per mio fratello no per me sì. Allora non si poteva stare troppo fuori, rischiavamo troppo ad essere usciti dalla baracca, a rigore avremmo dovuto stare all’interno della baracca, quindi siamo rientrati.

Finita la quarantena prima del tempo, ci hanno assegnato a una baracca dove poi ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c’era lo sgombero delle macerie, e come secondo lavoro la ricostruzione.

D: Quando siete arrivati, il treno dove vi ha portato rispetto al campo di  Buchenwald?

R: Ci ha portato ad un binario morto, e avremo fatto circa 200 metri a piedi per entrare dalla porta principale, che era il comando. C’era una specie di vignetta, un quadretto con un prigioniero col vestito a righe, altri con altri vestiti, io allora ho letto “Caracoveg”, che poi era Karachoweg, perché in russo Karacho vuol dire “”grazie” e quindi era una sfottitura per i deportati che arrivavano.

D: Quando ti hanno completato la vestizione?

R:La vestizione è stata completata, si fa per dire, d’inverno. Con l’avvicinarsi dell’inverno ci hanno dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano. Poi non so come siamo riusciti a recuperare qualche cosa del nostro bagaglio. Mio fratello ad un certo momento ha iniziato a far parte dell’organizzazione clandestina del campo di Buchenwald, che evidentemente aveva del potere; le SS se ne fregavano, purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro. Quindi qualcuno poteva essere spostato, poteva avere accesso a certi posti e qualcun altro no; può essere che mio fratello, entrando a far parte del comitato, abbia avuto qualche privilegio.

D:Il tuo numero del blocco dopo la quarantena te lo ricordi?

R:Mi pare che siamo stati al blocco 43 o 48 o forse in tutti e due; erano dei blocchi a 2 piani, di mattoni o di cemento armato non lo so. Lì abbiamo passato la maggior parte del tempo e siam passati poi al blocco 14, con un certo vantaggio: nell’altro blocco c’erano in polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, i polacchi non so come mai risultavano antipatici a molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata però capita di farla, ed effettivamente con alcuni che abbiamo incontrato non ci si stava bene.

Non c’era una lingua, si parlava in tedesco, credo che una volta uno abbia provato a parlarmi in latino. Invece il blocco 14 era il blocco di francesi e belgi. Allora io il francese lo sapevo bene e mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera di Genova; quando non ho potuto andare nelle scuole statali sono andato alla scuola svizzera e lì la lingua ufficiale era il francese, ho dovuto impararlo per forza. Coi francesi ci si trovava molto bene: c’era una solidarietà fortissima, loro ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, e molto di rado, il proprietario del pacco prendeva il sapone e le sigarette e divideva in 6 parti ogni genere di alimentazione. Questa era una cosa che mi aveva veramente molto sorpreso. A me è capitato per pochi giorni di far parte di una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS e di solito lavoravo all’aperto. Quella volta mi hanno chiamato a levare le pietruzze dalle lenticchie, e ho diviso, mi è sembrato giusto dividere: le ho rubate a rischio. Immaginatevi che quando siamo arrivati c’erano credo 4 impiccati sulla piazza dell’appello per furto di patate, però siccome eravamo convinti di essere morti, cioè di non sopravvivere, non ci si faceva proprio caso, era una cosa a cui non si pensava nemmeno.

D: Quale è statoil tuo primo lavoro?

R:Il mio primo lavoro  è stato sgombrare le macerie, trasferire le travi di legno che ci dicevano di ammucchiare da una parte, i mattoni da un’altra parte, poi recuperarli, cioè levare la calce che era dei mattoni, batterli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta un deportato ha preso il numero a uno dei due, a me o a mio fratello, e l’altro ha detto: “Prendi anche il mio”. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione di Weimar a levare i binari e a sostituirli; era un lavoro tremendo.

La regola per noi, e l’avevamo capito, era cercare di lavorare il meno possibile. Siccome le SS erano abbastanza poche, limitatamente al territorio che dovevano coprire, noi si cercava di fermarci e poi si veniva avvertiti in qualche modo quando  arrivavano e ci si metteva subito a trafficare; non andava mai bene lo stesso ma insomma facevamo qualcosa. Invece lavorare nella stazione di Weimar significava essere guardati a vista da un cordone di SS sempre lì con i cani lupi, non ci mollavano un attimo. Se non smetteva questo lavoro, non so se abbiamo finito di sostituire i binari che erano usurati, o ci hanno spostato di lavoro, sarebbe stata una fine rapida, per quel poco mangiare che ci davano.

D: Con cosa andavate dal campo?

R: In treno, sul vagone, ma son pochi minuti.

D:Ricordi se a Buchenwald hai visto baracche per donne?

R:A Buchenwald c’era il postribolo, questo si sapeva, era una cosa che mi poneva tanti interrogativi; chi era in condizioni di andare al postribolo? Posso immaginare che gli anziani del campo che avevano oramai preso posti di comando potessero usufruirne, comunque donne non ne ho mai visto circolare, ho visto forse qualche moglie di SS.

D: Bambini o ragazzi?

R:Bambini no, il più bambino ero io, grossomodo il meno adulto. C’è stato quel caso che ho letto, non so se avete visto il film di Benigni: un ebreo americano è uscito dal silenzio, ha detto che era riuscito a portare in campo suo figlio. Insomma alle volte proprio ci si sorprende perché non è che si possa capire tutta la realtà del campo, ma la nostra era la prassi: doccia, lasci tutti gli indumenti ecc. ecc.;. Evidentemente è arrivato da una marcia della morte, di quelle degli ultimi tempi, quando cominciava ad esserci un po’ di calo nell’organizzazione.

D:E il lavoro alla stazione?

R:Adesso non ricordo bene se sono rientrato come aiuto muratore; abbiamo fatto un periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni, io poi andavo a prendere con la carriola la calce, facevamo la malta per i muratori veri e propri, che erano persone che sapevano mettere i mattoni; costruivano le fabbriche che erano state bombardate. 

D: Che tipo di fabbriche erano, te le ricordi?

R:Erano fabbriche di armi, questo si è saputo, non è che si vedessero le armi. Io poi ci sono stato perché un capannone era ancora in piedi e c’erano delle macchine che lavoravano; non so come ma sono andato a vederle. Si è saputo che erano fabbriche di armi perché i deportati durante il bombardamento sono riusciti a portare armi all’interno del campo. Quindi c’è stata una storia che è venuta fuori soltanto all’ultimo e che io ignoravo. Ci sono stati appunto degli interrogativi, anch’io con mio fratello non è che si parlasse volentieri di queste cose, in famiglia ci dicevano di stare zitti e di lasciar perdere.

Io non ho mai chiesto per esempio a mio fratello come mai lui dal lavoro esterno fosse rientrato prima di me; mio fratello è andato in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? mettere le pezze. Infatti una minoranza di noi aveva il vestito a righe, standard; per lo più si trattava di vestiti nostri che venivano tagliati, fatta una finestrella sui calzoni e sulla giacca e sulla finestrella cucita dell’altra stoffa; poi venivano  fatte due righe di vernice rossa pesante.

Lo stesso tipo di precauzione c’era per la capigliatura, inesistente, cioè con delle rotaie oppure con la cresta: soltanto la prima volta eri pelato, poi, come ti crescevano, ti lasciavano la crestina o ti facevano la rotaia la volta dopo. Questo immagino per evitare fughe che tra l’altro credo non si pensavano possibili: era possibile fuggire ma non era possibile resistere, ti facevano la spiata subito.

Successivamente sono andato al lavoro interno, ma questa è un’altra storia perché tutte le sere succedeva che chiamassero dei numeri per il trasporto nei campi satellite. Io sono stato chiamato a un trasporto, mio fratello era già in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? essere all’interno del campo, non dover uscire con la squadra e quindi un po’ più di libertà di azione. Io dovevo presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, mio fratello è venuto con me e con le poche parole in tedesco che sapeva si è rivolto al medico dicendo: “Sono un medico di Genova, vorrei partire assieme a mio fratello, vogliamo restare assieme”. Invece di dargli una scarica di botte, questo ha  preso nota del mio numero e del suo, e io sono stato trasferito in cucina. Quindi la cosa ha funzionato, era una di quelle cose per cui o ti ammazzano o funzionano, è stata una botta di fortuna.

Tra l’altro questo medico conosceva un professore di Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni, uno dice: “Conosci mica il professor Caterina?” “Sì, ho operato a Villa Albertani – che era una clinica privata – ho aiutato, davo i ferri”.

In cucina effettivamente sei al coperto, però era un lavoro massacrante, avrei dovuto pelare 20 cassette di patate in un giorno. Al secondo giorno avevo un polso così, e quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Era un’altra cosa: uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca, con la buccia e tutto. Ho dimenticato di dire che io ho avuto lo scorbuto, incominciavano a sanguinare le gengive, mio fratello mi ha detto: “Questo qui è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che tu trovi della vitamina C”.  Lui conosceva un medico cecoslovacco, e nonostante gradualmente le cose andassero peggio dal punto di vista della posta, i cecoslovacchi ricevevano dei pacchi; questo medico aveva della vitamina C, me l’ha data, per fortuna; io sono stato due settimane grossomodo in una situazione quasi impossibile, mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Cercavo di fare dei mucchi, ma con la roba brodosa era difficile fare dei mucchi, metterla sulla lingua e buttarla in fondo per riuscire ad ingurgitare qualche cosa. Con la vitamina C è andato tutto a posto, non ho più sofferto; ecco quanto giocò mio fratello che aveva 15 anni più di me, aveva fatto l’alpino, e continuava a dire che il motto degli alpini è “arrangiarsi”, quindi si è arrangiato.

Questa è stata un po’ la nostra storia, che ha avuto i momenti più acuti negli ultimi giorni, quando vedevamo arrivare colonne di persone dai campi satelliti o da Auschwitz. Qualcuno era arrivato da Auschwitz, e ci dicevano che erano marce tremende, che chi cadeva per terra veniva finito; noi pigliavamo atto di questa cosa. La convinzione circolante era che il campo fosse minato, che ci avrebbero fatto saltare per aria, però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per portarci in qualche altro campo, perché noi eravamo al centro della Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte. Ad un certo momento abbiamo sentito  le cannonate, abbiamo visto gli aerei che volavano più basso, quindi si è capito che dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata Weimar, e per quello che abbiamo capito il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassimo la popolazione colpita dai bombardamenti offrendo non so bene che cosa: nella pazzia non c’è limite!

Poco dopo il comitato  di liberazione internazionale che si era formato uscì allo scoperto, pur non dicendolo chiaramente; c’erano però degli incaricati che davano indirizzi del tipo: “Andate al magazzino delle scarpe e cercate di prendere le scarpe”, perché negli ultimi giorni il controllo era molto sballato. Credo che 4 o 5 giorni prima della liberazione non si uscisse più a lavorare, non funzionava più il crematorio, per cui ammazzavano i deportati e facevano le cataste di cadaveri. Le scarpe servivano in caso di marce, bisognava essere in condizione di camminare non con gli zoccoli ma con una calzatura. E poi il comitato chiamava una baracca a fare resistenza passiva, e quindi a non presentarsi in piazza d’appello.

Questa è stato la parola d’ordine, e in questo modo circa la metà del campo è stata sgombrata; hanno portato via circa 20 mila persone e circa 20 mila persone sono rimaste dentro il campo, ritardando la partenza, opponendosi non violentemente ma non presentandosi.

Allora sì si sentivano delle scariche; lo dico nel senso che noi eravamo abituati all’idea che ci facessero fuori, per prima cosa; per seconda cosa, effettivamente c’erano stati dei punti di cedimento delle SS: io avevo visto una SS che ad un prigioniero russo ha offerto sigarette, e il prigioniero russo con molta dignità gli ha risposto di non capire. Era una cosa che ti faceva svenire, dicevi: “Ma cosa sta succedendo? incomincia ad avere paura questa gente?”  E allora che cosa è successo? E’ successo che ad un certo momento abbiamo visto dei deportati, i Lagerschützer, cioè la polizia del campo costituita da deportati, con i fucili. Allora abbiam pensato di essere liberi, veramente. In effetti SS non se ne vedevano più, e questo è capitato non potrei dire quante ore prima che vedessi la prima jeep e il primo soldato americano che mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. E quindi questa è stata la liberazione del campo, in 2 fasi, ogni zona del campo era una zona a sé.

Torno indietro, perché mi avevi chiesto se avevo visto donne nel campo. Qualche deportato aveva visto Mafalda di Savoia prima del bombardamento, era in una specie di villetta esterna al recinto dove vivevamo noi dopo il lavoro, interna invece al secondo recinto dove si andava a lavorare. D’altra parte quasi interne al secondo recinto c’erano anche le villette degli ufficiali SS e le caserme.

La liberazione è stata in due fasi, in due momenti, certo è stato un momento di gioia, quasi a toccarci se eravamo vivi.

Tra l’altro 2 o 3 giorni dopo che erano arrivati gli americani, c’è stata una, non la posso chiamare incursione aerea perché non c’è stato niente, però le mitragliere americane hanno sparato per un bel po’ di tempo. Quindi non c’era neanche da stare proprio tranquilli.

D: Le date di queste liberazioni?

R: Io ho la data dell’11 aprile mentalmente, poi può essere l’11 o il 12. Gli americani erano molto ben organizzati, ci hanno dato molto rapidamente un documento di identità con l’impronta digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo. Poi si sono scoperte cose che neppure noi sapevamo, e cioè che sotto il crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio, ricordo, un mucchio di ganci, con le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato in quel modo. Poi le cose per picchiare, per torturare.

Io mi ero chiesto, come mai in un Lager ci fosse anche la prigione, di fianco c’era la prigione.  Una volta sono stato chiamato da una SS che non so che cosa volesse farmi trasportare, mi sono presentato, non mi sono levato il berretto – ecco l’indumento che mi son dimenticato di nominare – allora mi ha tirato uno schiaffone e mi ha segnato il numero. Io sono stato per un paio di giorni a vedere. E invece non ha fatto niente, o l’ha perso. Quindi questi episodi c’erano, si sapeva che qualcuno ad un certo momento spariva.

Tra l’altro abbiamo avuto nella baracca la simpatica compagnia di due fratelli inglesi, che erano dei servizi segreti, e che sono stati dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in perfetto italiano: il marchese di Roccapelosa e l’altro non lo ricordo. Ci hanno raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano deciso di arruolarsi, erano stati paracadutati in Francia, e ci raccontavano qualcosa dell’addestramento: sapevano le parole francesi in dialetto, i giochi a carte che si facevano nei posti in cui li avrebbero paracadutati, e quando hanno saputo che eravamo di Genova ci han detto “belin”. Un paio di notti prima della liberazione sono spariti, e a ragion veduta, perché anche un aviatore americano che era stato paracadutato fu impiccato un paio di giorni prima della Liberazione; anch’egli era dei servizi segreti.

Poi abbiam saputo che era stato ucciso anche il capo del partito comunista tedesco: era stato ammazzato pochi giorni prima della Liberazione. E penso altri come lui.

Dopo la Liberazione abbiamo visto una realtà del campo di cui avevamo sospetto perché il piccolo campo era un posto temuto, però non pensavamo che fosse un ammasso tale di cadaveri con gente praticamente viva, non erano ammucchiati ma stavano nello stesso letto, non si alzavano più e cercavano di prendere ancora la razione del morto. Non si muovevano più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, li abbiamo aiutati a portarli fuori, il comando americano li aveva destinati a un ospedale, ma non credo che ne siano sopravvissuti tanti.

D: Gilberto, quando tu e tuo fratello eravate a Buchenwald avete potuto scrivere qualche biglietto, qualche lettera?

R:No, noi abbiamo scritto a un altro campo, sperando che mia madre e  mia sorella fossero andate a Ravensbrück. Correvano delle voci: magari da Auschwitz le hanno trasportate a Ravensbrück. Allora abbiamo  provato a  scrivere in tedesco, non si poteva scrivere in un’altra lingua.

D:Buchenwald è stato uno dei pochissimi esempi in cui l’esercito liberatore ha portato la popolazione nel campo; tu eri presente?

R: Sì, abbiamo visto venire la colonna della popolazione.

D:  Allo stesso tempo dicevi che hai scoperto molte realtà del campo.

R:Certo. Ho scoperto in particolare il piccolo campo. Poi era venuta fuori una cosa che io lì per lì ho detto: “E’ una storia esagerata, ne han combinate abbastanza, inutile aggiungerne”, mi riferisco alle lampade con la pelle tatuata. Poi invece si è rivelata vera, come poi è venuta fuori la documentazione dell’esecuzione dei prigionieri russi.

D:Il ritorno quando è avvenuto?

R: Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere la leader della disorganizzazione; gli inglesi non se ne parla neanche, 2 giorni dopo la Liberazione son venuti a prendersi i loro connazionali. Anche i francesi, i cecoslovacchi. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano che ha preso il dottor Pecorari, che poi è stato vicepresidente della Costituente, democristiano, e arrivederci e grazie, noi neanche ci han guardati in faccia!

La cosa è andata così: mio fratello aveva un amico deportato tedesco, socialdemocratico. Era di Monaco di Baviera, e in qualche modo era riuscito a mettere insieme una Mercedes e a farsi dare dagli americani dei buoni benzina. Aveva 4 posti, quindi ci ha chiesto se volevamo andare  a Monaco. Noi, figurati! contenti e felici di andarcene, e con l’elenco di tutti i prigionieri italiani di Buchenwald sopravvissuti battuto a macchina, un foglio che ho ancora, e che poi abbiamo consegnato agli americani. E’ stato un viaggio tormentato perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva guidare. Mio fratello che sapeva guidare era veramente terrorizzato, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo diceva: “No, il documento è intestato a me, devo guidare io”. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche se siamo scesi per l’attraversamento del Danubio, che abbiamo preferito fare a piedi sul ponte di barche. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo elenco al comando americano, ma c’era un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo fatto il giro del palazzo e siamo entrati da un finestra nel retro, siamo andati al comando, abbiam dato il nostro elenco, e pochi giorni dopo mi è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava che stavo rientrando in Italia.

A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito dalla interprete che c’era a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la prima selezione, subito appena arrivati. Poi ci siamo arrangiati a cercare di rientrare in Italia, siamo andati alla stazione, abbiamo preso un treno fino a Rosenheim; era il primo treno che partiva e faceva quei pochi chilometri verso l’Austria; abbiamo avuto delle difficoltà con un americano, che ha sgridato un contadino tedesco perché non voleva caricarci sul carro e farci fare un po’ di strada verso il confine.

Finalmente siamo arrivati a Bolzano dove c’era un campo di accoglienza abbastanza organizzato.

A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio compleanno; io compio gli anni il 15 giugno, siamo arrivati forse il 10, 12 giugno (1945). Quindi 2 mesi dopo la Liberazione.

A quelli che sono rimasti là gli americani han detto di trovarsi un camion, perché quella sarebbe diventata zona russa e gli americani l’avrebbero abbandonata. Allora qualcuno è andato a Erfurt, è riuscito a fare una trattativa per avere un prestito di più camion per rientrare.

D: Una volta rientrati a Genova avete ritrovato la vostra casa?

R: Sì, la casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. La casa era abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi, e sono sparite abbastanza rapidamente. Avevano comunque lasciato subito una stanza, era una casa piuttosto grande perché eravamo una famiglia numerosa, e abbiamo dormito in camera nostra.

Paganini Bianca

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.

De Maria Vanes

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Io mi chiamo De Maria Vanes, abito a Casalecchio di Reno in Via Garibaldi 9.

D: Quando sei nato?

R: Sono nato il 7.9.1921.

D: Dove sei nato?

R: A Casalecchio di Reno. Ho vissuto sempre a Casalecchio di Reno. Dopo sono stato chiamato alle armi e sono andato al sesto genio di Banne, marconisti. Sono diventato un marconista.
Poi un bel giorno ci hanno mandato in Jugoslavia a combattere contro i partigiani. Dopo, verso la liberazione, fummo disarmati dai partigiani a Carlopago, perché non ce l’aspettavamo, stava già per finire la guerra.
Io avevo già ricevuto dal comando, siccome ero collegato con la stazione radio del comando a Fiume, mi dissero in forma amichevole che loro stavano chiudendo, cioè noi non eravamo più collegati con nessuno.
Mi sono premurato di andare dal comandante del campo, un certo capitano di Roma, non mi ricordo più il nome.
Gli ho detto che non eravamo più collegati con nessuno, perciò se doveva prendere dei provvedimenti era meglio che li prendesse perché non potevo più trasmettere, non potevo più ricevere. Non fece niente, sa cosa vuol dire niente?
Così di notte non mise neanche le guardie sufficienti, le solite cose, il solito tran tran. La notte vennero i partigiani, neanche uno sparo, niente. Ci disarmarono, ci spogliarono e ci misero in una scuola in attesa.

D: Questo quando accade più o meno?

R: Questo accadde prima che finisse la guerra in Jugoslavia, nel 43.

D: Cos’era, nel settembre del 43?

R: Un po’ prima, perché io nel settembre del 43 sono stato portato a Dachau, un po’ prima. In giugno mi sembra che fosse. Poi ci dissero: “Se volete andare, potete andare”.
Cominciarono a chiedere, ci avevano dato delle scarpine di pecora, ci avevano preso i nostri scarponi e ci avevano dato le scarpine di pecora. Dissero: “Voi non è che siete liberi, se volete andare in Italia andate a piedi per Fiume, quella è la strada”.
Cominciammo a marciare, dico con quelle strade che erano tutte di sassi arrivare vicino a Bolzano alla frontiera è stata una tragedia.

D: Scusa, Vanes. Tu eri in Jugoslavia?

R: Ero in Jugoslavia.

D: Vi hanno fatto marciare?

R: Verso Fiume.

D: Verso Fiume?

R: Perché era possibile andare…

D: Sì, ma arrivare vicino a Fiume?

R: Sì, vicino a Fiume, non a Fiume.

D: Hai detto a Bolzano prima.

R: Ho detto Bolzano? Chiedo scusa.

D: No, niente.

R: A Fiume siamo arrivati nel punto dove si poteva attraversare la ferrovia e si era già in Italia praticamente. Ma lì c’era il guaio, c’erano mitraglie da una parte e dall’altra di tedeschi che aspettavano il nostro passaggio.
Allora c’erano tentativi, di notte qualcheduno ci riusciva. Io ho provato una volta, ma sono arrivato a metà, poi dico: “No”, si cominciarono a sentire i colpi di mitraglia, sono tornato indietro.
Allora dico: “Cosa faccio?”, di là non si può andare. Chiesi di andare per mare a Punta Silo, all’isola di Veglia con i partigiani. “Guardate”, dico, “io vengo con voi, mi allego al vostro gruppo, però io voglio andare a combattere in Italia. Se dall’isola di Veglia è possibile dopo con un piroscafo andare ad Ancona…”.
Detto fatto, mi portarono lì a Cerquiriz, che era dove eravamo proprio prima noi, e da lì c’era il passaggio per andare, un battello, una barca dei partigiani. Nel mare c’erano già i sottomarini tedeschi.
Riuscii ad andare all’isola di Veglia, ero con la stazione radio, sono stato là parecchi mesi. Avevo anche la fidanzata là, detto fra noi, una fidanzata per modo di dire, perché se ve la racconto… Non so se lo posso dire, è una cosa un po’…

D: Personale?

R: Sì, è personale, ma le dico. Non è successo niente, quello che posso dire. Ero fidanzato, ma niente, in casa nella sua camera per dei mesi con permesso dei genitori niente, non è successo niente. Basta.
Avevo una grande amica in quel punto, difatti quando arrivai di là mi accolse, mi diede tante cose da mangiare, però non potei stare lì perché i partigiani mi portarono al Carlopago, dove c’era il comando. Lì facevamo un po’ di tran tran, un po’ di guardia, perché era un porto, un porticciolo.
Poi un bel giorno dissero: “Stanno per arrivare i tedeschi”, i tedeschi hanno già i sottomarini, stanno arrivando i tedeschi. “Bisogna che noi ce ne andiamo”. Dove andiamo? Ci portarono all’isola di Lussino, che era un’isola dove c’era una montagna e da quella montagna mare, mare, mare, mare.
Arrivammo lassù e fortunatamente niente, non ci capitò niente, perché c’erano già parecchi tedeschi che giravano e hanno cominciato a mitragliare. Allora noi in quelle stradine con tutti i sassi giravamo e ci siamo difesi. Non ci è successo niente.
Siamo arrivati in cima. In cima c’era un negozio nel quale ci hanno dato un po’ di formaggio, perché eravamo sprovvisti. Poi il comandante dice: “Dobbiamo andare nel bosco e poi resistere”. Siamo andati nel bosco, poi abbiamo cominciato a ragionare.
Che resistenza facciamo? Guardiamo di qua, c’erano già le barche coi tedeschi che stavano sbarcando. Guardiamo di là, stessa cosa, in tutti i punti era così. Cosa stiamo a fare? Stiamo facendo la morte del topo qui.
Dice: “Comunque noi stiamo qui, ognuno faccia il suo dovere”. Va bene. Allora mi misero di guardia in un punto, io e uno jugoslavo e in tanti altri punti. Durante la notte il mio compagno si addormentò secco, proprio secco. Io lì: “Cosa faccio qui?”. Dico: “L’unica cosa è andare giù e vedere come stanno le cose, andare giù dove c’è la strada, perché qui è proprio la morte del topo”.
Difatti io andai giù, trovai la strada, passai lungo la strada e c’era una casina, bussai a questa casina. Venne una signora, dico: “Signora, non ha mica niente da darmi?”, perché qui non si mangiava. Dice: “Guardi, stanno passando i tedeschi. Cerco di prepararle qualcosa, ma mi raccomando, vada via subito”.
Arrivò poco dopo con un pezzo di polenta e un bicchiere di latte. Non so dirle quanto erano buoni quella polenta e quel latte, me lo ricordo ancora. Poi da lì ci portarono a Pola.
Arrivò un camion dove c’erano un tedesco e un ufficiale italiano, uno di quei camion con la tenda. Io ero lì che giravo, mi ero messo a sedere su un pilastrino. Feci il cenno di fermarsi, non credevo. Da lontano poi non si vedeva il carro con anche un tedesco, pensavo fosse italiano.
Invece era un tedesco. Il tedesco disse: “Tu partigiano?”, “Non partigiano, no. Io sono un militare italiano, i partigiani mi hanno disarmato e vorrei andare in Italia. Mi hanno preso tutto, ho i documenti”. E’ arrivato l’ufficiale italiano, cominciò ad aiutarmi.
Però l’ufficiale tedesco non ne volle sapere, “Tu sei partigiano”, mi voleva mandare nel bosco per spararmi. L’ufficiale ha insistito tanto, non è riuscito, ce l’ho fatta. Mi hanno fatto caricare sul camion. Sul camion c’erano almeno il cinquanta per cento di quelli che erano lassù.
Da lì ci hanno portato a Pola. A Pola ci hanno messo in una camera dove hanno incominciato a prendere tutti i dati. A un certo momento vengono dentro quelli della SS, tutti in riga per dieci. Arrivarono fino a dieci, “Weg, andiamo, andate fuori”. Io ero nella tredicesima fila.
Abbiamo saputo il giorno dopo che sono stati tutti fucilati perché i partigiani avevano ammazzato due tedeschi. A me è andata bene. Passano due giorni e poi ci caricano nel carro bestiame e ci portano a Dachau, in Germania.

D: Scusa, Vanes. Vi caricano, lì a Pola questo?

R: A Pola, sì.

D: Alla stazione. Oltre a te chi altri hanno caricato?

R: Tutti quelli che c’erano dentro a questo. Non eravamo soltanto noi di lassù, ce n’erano altri.

D: C’erano anche gli jugoslavi con te?

R: Sì, c’era qualche partigiano jugoslavo. Qualcheduno c’era.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche delle donne?

R: Solo uomini, nessuna donna. Non c’erano donne. Da lì col carro bestiame siamo arrivati a Dachau.

D: Durante il viaggio avete fatto delle soste?

R: Soste per modo di dire, alla stazione c’era il segnale di fermarsi. Non soste per darci un attimino da bere, niente, non abbiamo visto niente. Anche i bisogni si doveva farli…
Siamo arrivati finalmente a Dachau e smontati dalla stazione a piedi ci hanno portato dentro al Lager, al Lager di Dachau. L’impressione che è stata fatta era una cosa che ci ha lasciato un po’ perplessi. “Dove siamo venuti?”, perché non sapevamo ancora com’era la faccenda.
Ci hanno portato in un salone dove c’erano tante docce, poi abbiamo saputo che era il mattatoio degli ebrei. Li avevano chiusi lì dentro e invece di aprire il coso per fare la doccia hanno aperto il gas.

D: Tu sei arrivato a Dachau quando più o meno?

R: Io sono arrivato a Dachau a novembre 1943.

D: 43?

R: 43, 1943. A novembre. Il mese di novembre, la data non ricordo.

D: Lì ti hanno spogliato?

R: Lì hanno spogliato. Non solo spogliato, ma disinfettato con il pennello nei punti più delicati. Ci hanno spogliato da fare dei salti alti così. Poi dovevamo vestirci con i vestiti di quella carta pressata.
Arrivammo all’ultimo gruppo, io ero in mezzo a questo gruppo, e non c’erano più vestiti. Dovevamo andarli a prendere in un magazzino, il quale era di là di una gran piazza. C’era un freddo cane, eravamo nudi.
Da lì di corsa dovevamo andare in quel magazzino. Non so che velocità avessi, non ho preso neanche il raffreddore. Poi abbiamo preso i vestiti, ci hanno vestiti. Poi ci hanno messi in un Lager, in una baracca, la venticinquesima baracca.
Lì ci siamo stati trenta giorni. Poi arrivò il giorno…

D: Scusa, Vanes. Ti hanno immatricolato anche?

R: Certo, non era segnato ma ci hanno dato un numero di matricola. Nel vestito c’era il numero di matricola.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero era 25…58343.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No. Lo davano solo agli ebrei quel triangolo. Io, siccome ero stato preso come partigiano jugoslavo, pur essendo italiano io ero jugoslavo. Gli italiani li hanno tosati qui con una macchinetta, gli avevano fatto una riga che quando crescevano i capelli, questo se scappava crescevano i capelli, ma chiunque tedesco per strada lo poteva riconoscere perché vedeva questo.
A me questo non l’hanno fatto perché ero jugoslavo. Difatti nel coso qui avevo J, non I di italiano.

D: Quindi qui tu avevi il numero..

R: Il numero.

D: E la J e basta?

R: Basta.

D: Non avevi nessun triangolo?

R: Nessun triangolo. Il triangolo era ebreo, da quello che ricordo. Io non avevo il triangolo.

D: Dopo il periodo di quarantena nel blocco…

R: E’ chiamata quarantena, non sono quaranta giorni. Ci riunirono in questo famoso bagno per il lavoro. C’erano tutti i mestieri, tutti gli internati. C’erano le commissioni, i vari banchetti dove c’erano industriali tedeschi…

D: Scusa un secondo.

R: In questa sala c’erano imprenditori tedeschi, guardie da tutte le parti e a ogni banchetto che c’era interrogavano. Dicevano: chi è un falegname alzi la mano. Chi era muratore, poi ci era meccanico. Quando arrivò il mio turno mi chiamarono, alzai la mano. Mi interrogarono.
Mi chiesero cosa facevo. Dico: “Io facevo il disegnatore meccanico, ero disegnatore meccanico progettista. Lavoravo alla Fiat”. Ho detto la Fiat ma era una fabbrica qui di Bologna, facevamo le macchine utensili.
Sentendo Fiat faceva un certo effetto. Allora mi diedero un alberino, non so a cosa servisse. Oltre al disegnatore io ho fatto il tornitore, ho fatto altre cose. Però prima di fare il disegnatore ho fatto il tornitore.
Allora mi diedero questo alberino e mi chiesero: “Quanto tempo ci metti per fare questo lavoro al tornio?”. Io avevo lavorato al tornio a scuola, quando ho preso la laurea di disegnatore, meccanico, all’Aldini qui di Bologna.
Chiesi un pezzo di carta e una matita, poi cominciai a schizzare quali potevano essere le operazioni che facevo in questo alberino. Stavo disegnando, ero un disegnatore, facevo vedere anche qualcosa. Allora sentivo sempre un industriale che diceva: Gut, gut, gut.
Poi alla fine disse: Ja, gut. Mi misero in un angolo, solo. Poi vennero tutti gli altri, ne vennero altri due nell’angolo con me. Dico: come mai gli altri andavano tutti da un’altra parte? Si vede che a noi tre ci avevano scelto perché le risposte che avevamo dato secondo l’industriale andavano bene.
Ci caricò nella sua macchina con le guardie, con due guardie e ci portarono a Kempten. Durante il viaggio disse: “Andiamo a lavorare alla fabbrica”. Quando arrivammo a Kempten la fabbrica non c’era. Ci scaricarono e ci misero non in una baracca, ma sopra in un ambiente c’era una gran sala dove c’erano tutti i lettini.
Era il nostro domicilio dove ci davano da mangiare, pochissimo, qualche cucchiaiata di minestra, e una fetta di pane nero. Quello è stato il nostro coso. Però non durò molto, perché dopo pochi giorni sapendo che la fabbrica non era ancora pronta dovemmo andare fuori e fare i muratori per tirare su i muri.
Tre mesi ho fatto il muratore, pioveva. Però lavoravamo. Se volevamo scaldarci un pochettino bisognava lavorare. Finì questa tragedia, finalmente arrivarono le macchine per la fabbrica. Un bel giorno cominciarono a entrare prima i civili, perché c’erano anche dei civili, poi entrammo anche noi a lavorare.
“Adesso voglio vedere se mi mettono a fare quell’alberino che ho disegnato”. Mi trovai già in difficoltà, invece no. Fui fortunato perché mi misero a una retifica. Questa retifica era una cosa facilissima, basta che lasci avanti e indietro.
Però da lontano vidi una vetrata dove c’erano dei disegni e dove c’erano dei tracciatori, perché i pezzi che arrivavano a noi delle macchine erano soltanto segnati, noi dovevamo fare su quelle righe.
Allora io vedendo quell’affare, lì si stava male, invece là dentro era più intimo. Poi ho visto che c’era anche un italiano là dentro, in borghese. Allora io dissi col mio comandante, i nostri comandanti erano i criminali tedeschi presi fuori dalla prigione per comandare noi, guardare noi.
Gli dissi: “Guarda che io so lavorare bene come tracciatore”, veramente era il mio mestiere che facevo qui a Bologna. Parlò, si vede, con qualcuno e un bel giorno mi trasferirono là. Io il disegno lo conoscevo molto bene, il lavoro era quello che facevo io a casa.
Cominciarono ad arrivare disegni, vidi cosa dovevamo fare in realtà e cominciai a lavorare.

D: Cos’è che producevate lì?

R: Progettavamo degli stampi per tranciare i supporti delle ali degli Stukes, gli Stukes avevano la robustezza dell’ala, ogni tanto c’era qualche cosa. Noi facevamo gli stampi per tranciare quelle cose.
Venivano giù dei disegni disegnati da tedeschi e io conoscevo molto bene, mi trovavo bene. Ho imparato anche un mestiere, gli stampi che facevamo là dove lavoravo io in Italia, dove ho lavorato dopo, quando sono venuto a casa finita la Germania, sono andato a lavorare alla Ducati e quegli stampi che facevamo là qui certi pezzi li facevano in tre stampi.
Là era uno solo, perciò io ho avuto un’esperienza enorme in quel senso. Mi ha aiutato dopo, quando sono venuto a casa. Però Le dico, finiti gli orari andare su era una cosa… Poi specialmente al sabato e alla domenica, si volevano divertire e se la prendevano con noi.
Ci facevano fare delle cose che… Se non le facevamo bene erano frustate, culo scoperto, sopra a un cavalletto fatto così, frustate. E chi dava le frustate era il tuo collega, era un italiano.
Poi finalmente passa il tempo e cominciano ad arrivare i bombardamenti. Speravamo che arrivasse qualche bomba. Noi eravamo vicino alla Svizzera, c’erano dieci chilometri circa per arrivare alla frontiera svizzera.
Speravamo sempre che qualche bomba capitasse lì. Lì hanno bombardato la cittadina, Kempten, e noi niente. Poi finalmente un bel giorno la bomba venne, cacciarono giù la fabbrica. I tedeschi ci portarono…
Cambiarono anche il Lager, il campo dove eravamo prima era sopra, le bombe l’avevano cacciato giù. Loro poco distante avevano fatto già un campo, già tutto recintato, con le baracche come era Dachau. Lì invece prima era già un’altra cosa.
Ci portarono in questo nuovo campo, dopo pochi giorni c’era già la voce che gli americani stavano arrivando. Difatti tutte le mattine ci prendevano in fila, ci davano pala e piccone e ci portavano alla stazione per portarci in trincea per fare le trincee.
Non siamo mai partiti da quel treno, su quel treno non siamo mai partiti perché i bombardieri erano continuamente sopra di noi. Ci riportavano al campo. In quei giorni non c’era niente da mangiare, niente.
Per la strada raccoglievamo l’erba per mangiarla. Finito questo finalmente decisero, perché gli americani erano già a pochi chilometri, decisero di farci partire per Innsbruck.
Io, che cominciavo già a sentire qualche parola di tedesco, ho capito che restavano lì solo gli ammalati. Come faccio? Incominciai a correre per il campo come un matto, proprio correre, ero diventato rosso.
Le dico, la temperatura era salita parecchio. Poi mi presentai in questa infermeria, “Io sono malato”. Loro erano talmente indaffarati per la partenza che mi dissero: “Vai in quel letto là”. Mi misi nel letto, poi stetti in attesa.
C’era già un’altra decina. Mentre stavano facendo questo lavoro, dopo arrivò uno con gli stivaloni e parlò con gli ufficiali che erano lì dentro. Voleva fare la visita di quelli che dovevano ritornare, cominciò dal primo, ecc.
Siamo rimasti?

D: Dicevi che eravate stati portati alla stazione per fare le trincee.

R: La trincea, niente.

D: Non siete mai partiti.

R: Non siamo mai partiti, poi ci hanno portato nuovamente nel coso, ci hanno portato nel nuovo Lager che avevano costruito loro con tutti i recinti. Lì andai in infermeria perché sapevo che rimanevano lì solo i malati.
A un certo momento mi capitò come a Pola, cominciò a contare: uno, due, tre, quattro, cinque. Anzi, visitò, non contare, visitò il primo, il secondo, poi il terzo. Era là già vicino al mio. Dico: “Porca miseria”.
Aveva dato un termometro e levato il termometro mette su il termometro, l’aveva messo quasi a trent’otto e mezzo, trentanove. Dico: “Troppo”. Lavorava in quel senso lì, dico: “Se arriva, cosa succede?”
Non fui visitato, perché erano talmente presi dalla fuga che io rimasi lì con tutti gli altri, loro scapparono, vuotarono il campo e andarono verso Innsbruck.
Lì rimase una guardia, anche lui si spogliò come noi, ci diede da mangiare, ce n’era lì un pochettino. Poi stemmo lì ad aspettare, sapevamo già che gli americani erano molto vicini.
Siccome gli americani sparavano, i tedeschi sparavano, noi eravamo nel punto giusto per prenderle tutte. Allora anche lì dico: “Qui bisogna che prendiamo una decisione, bisogna che cerchiamo di andare verso Kempten, verso il paese. Se troviamo qualcheduno, qualche civile, qualche militare dentro una casa che ci spara, cosa facciamo?”
Andammo via una mattina, erano le quattro e mezza, le cinque, anche un po’ prima, a gattoni nei fossi arrivammo nei pressi del paese. Qui non possiamo più andare avanti, il fosso non c’era più. Qui bisogna andare in strada.
Siamo andati in strada con una paura da matti, pensavamo che nelle case dove passavamo da una finestra, da una porta, da qualche cosa ci fosse qualcheduno che sparava. Nessuno, nessuno sparava.
Finalmente in lontananza vedemmo un carro armato che avanzava, americano. La nostra felicità era… Arrivato vicino al camion, si apre e viene fuori un negraccio che me lo ricordo ancora, era più nero che il carbone.
Buttò cioccolatini e caramelle, neanche una sigaretta. Caramelle e cioccolatini. Andavano verso Kempten, verso Kempten c’erano già gli altri, la truppa. Noi praticamente eravamo liberi, liberi di fare tutto quello che volevamo.
Poi sono arrivati anche tanti altri, non solo noi tre ma tanti altri che non so da che buco siano entrati. C’erano russi, specialmente russi. Hanno svaligiato tutte le botteghe che potevano esserci, oreficerie. Hanno fatto manbassa di tutte le cose.
Dopo gli americani ci hanno tutti chiesto le cose, fatto i documenti, tutto quanto, ci hanno consegnato i posti dove potevamo andare a dormire. Noi avevamo una villettina dove c’era il comando tedesco, eravamo in dieci o dodici.
Eravamo liberi, proprio liberi. Il problema era quello di andare a cercare, lo sapevamo, però con tutti i bombardamenti i magazzini tedeschi erano pieni di viveri ed erano stati bombardati.
Quando andavamo in cerca di mangiare si vedevano proprio le gran pozze, perché aveva piovuto, come dei laghi dove affluivano le scatolette, c’era di tutto, Le dico, di tutto. C’erano delle scatolette con della carne di primissima qualità, in una quantità enorme proprio.

D: Allora, c’era questo ben di Dio che veniva fuori.

R: Noi ci siamo riforniti, non solo in quei magazzini che c’erano lì fuori, anche dentro. Dentro potevamo andare da tutte le parti. Anche alla stazione c’erano dei carri pieni di roba, dei treni fermi pieni di roba. Roba che veniva dalla Svizzera.
Abbiamo trovato di tutto, trovato delle forme di emmenthal intere. C’erano degli strumenti meccanici, dei calibri, degli strumenti meccanici. Difatti io trovai un calibro che ho ancora.
Portammo via quei formaggi, dovevamo soltanto trovare un mezzo per poter caricare la roba e portarla in questa villetta. Con tutto quello che avevamo potevamo star là altri due anni che avevamo da mangiare.

D: Scusa, Vanes. Quando tu dici la stazione…

R: La stazione, la stazione di Kempten. Gli americani erano lì, noi eravamo lì, il nostro ambiente era Kempten.

D: Due anni non siete rimasti lì?

R: No. Pochi mesi. Tutti c’eravamo riforniti di sci, di tutte le cose. Però noi non siamo mai andati a rubare nei negozi come hanno fatto russi, ecc. Si sono vendicati con la moglie del capo ingegnere della fabbrica.
Ci sono state parecchie cose, io non ho fatto niente. L’unica cosa che mi sono un po’ divertito era che un giorno ero dentro a un magazzino per prendere qualcosa di quelle scatolette, abbiamo visto che c’era un tedesco là, un civile che stava insaccando della farina in un sacchetto.
Andammo là vicino, abbiamo visto proprio che era un tedesco, era un tedesco civile di lì. L’abbiamo preso, l’abbiamo messo con la testa dentro la farina, tanto per… Poi siamo venuti via, non abbiamo fatto niente. L’unica cosa.

D: Scusa, Vanes. A proposito dei civili, nella fabbrica…

R: Sì, c’erano anche dei civili.

D: Voi eravate a contatto con quei civili?

R: In quell’ambiente dove io lavoravo c’erano due civili, uno francese e uno italiano che era proprio mio amico. E’ diventato un mio amico, l’ho conosciuto lì.
Veniva dall’Italia a lavorare ed era pagato, andava fuori ed era libero. Era venuto lì per lavorare. Chi ci comandava era un civile di Kempten. Eravamo mescolati, noi abbiamo integrato il lavoro della fabbrica con quello che facevano i civili.
Noi eravamo in certe zone, in certe macchine solo e in certi ambienti non eravamo proprio… C’era un mio amico che faceva l’elettricista, lui andava dappertutto e andava anche dalla parte civile perché riparava i motori, per esempio, delle macchine.
Io sono stato lì e me la sono cavata un pochettino meglio. Il capo che ci comandava lì dentro… Alle dieci c’era il bruzai, era chiamato, davano una birra e una fetta di pane a loro, a noi niente. Noi non ci fermavamo neanche un momentino da loro.
Però un giorno ad un certo momento vedevi questo civile che lasciava un po’ di birra e un pezzettino di pane, poi faceva segno, facendo anche presente di non fare vedere perché c’erano le guardie che giravano.
Arrivavano fino lì e guardavano dentro. Tra quello, un pochettino lì, un po’ qualche vitamina che mi portava quell’italiano da fuori e così me la sono passata.
Poi un bel giorno mi sono ammalato, ma di brutto, con un male da tutto il corpo, i reumatismi totali, la febbre che era più di quaranta. Urlavo come un ossesso perché non sopportavo il male. Mi portarono su in branda e ci sono stato dieci giorni buoni.
Non ho visto né un dottore né un medicinale, niente. Urlare, urlare, urlare, urlare. C’era un italiano lì vicino, era con me, che mi incoraggiava, mi massaggiava, mi faceva qualcosa, ma non c’era niente da fare.
Il dolore era talmente forte, poi la febbre sempre che straparlavo anche. Poi visto così un bel giorno si vede che il comando decise e mi mandarono all’ospedale non di Kempten, di Dachau. Mi portarono all’ospedale di Dachau.
Lì come sono arrivato mi diedero un letto, poi venne uno con degli stivaloni alti fin qui a passare la visita. Viste le mie condizioni disse: “Liberare il letto”, in tedesco, dopo me l’hanno detto. “Liberare il letto e portare al crematorio”, perché avevo la febbre che era a più di quaranta, urlavo come un ossesso, disturbavo tutto quanto.
“Liberare il letto, qui ci deve essere un letto per uno che può lavorare dopo”. Fui fortunato che alla sera in quel giro lì di medici c’era un olandese coatto, che lavorava coatto. Lo vidi arrivare dopo al mio capezzale una notte, era verso le nove e mezza, le dieci.
Mi disse: “Tu italiano?”, sentiva che io parlavo qualche cosa, dicevo in italiano. Siccome aveva lavorato a Bologna, conosceva bene l’Italia, conosceva bene i nostri, mi prese a ben volere. Sparì un momento, tornò dopo con delle medicine.
Mi cominciò a fare delle punture endovenose, è stato lì fino alle due di notte circa, dico degli orari per dire perché non avevo l’orologio per poterli vedere.
Alla mattina quando passarono con la visita io ero sempre in quel letto, c’era lo stesso comandante. Appena arrivò lì disse: “Perché è ancora qui questo?”. Allora il dottorino saltò fuori da dietro, gli fece vedere che attaccata al letto c’era la cartella con tutto il grafico.
Era stato modificato il grafico, perché la mia febbre era andata a trent’otto, un pochino meno di trent’otto. Allora lui rimase lì un po’ buio, “Ja, gut” e rimasi. Invece di andare al crematorio rimasi lì settantacinque giorni.
Non so che cure mi abbiano fatto, mi passò piano piano il dolore, non lo so, non mi ricordo niente.

D: Vanes, magari non te lo ricordi, ma il Revier di Dachau era in una baracca?

R: Il?

D: Il Revier, l’ospedale di Dachau.

R: Sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: Ma era una baracca?

R: Era una baracca.

D: Non ti ricordi se era una baracca delle prime, visto che tu sei stato alla venticinque, o era una delle baracche…

R: No, era una cosa apposta. Al di fuori della mia baracca, la mia baracca l’avevo lasciata.

D: Ma era una delle prime baracche lungo la Lagerstrasse?

R: No, era in mezzo forse. Mi ricordo che quando cominciai a stare meglio, convalescente, avevo la possibilità di andare a fare una passeggiatina lungo la passeggiata del campo.
So che da una parte e dall’altra c’erano le baracche, perciò non era in principio o alla fine, credo fosse in mezzo. Anzi, fui fortunato, fortunato per modo di dire, perché una volta siccome c’era l’ordine che quando incontravamo un ufficiale tedesco dovevamo toglierci il cappellino un metro prima, io ero in compagnia con un altro e non me ne sono accorto.
Passammo, il mio amico, siccome io parlavo con lui, lui l’ha fatto, io parlando ero voltato, non me n’accorsi. Andò avanti qualche metro, poi disse: “Tu”, mi chiamò, “Komm”, mi chiamò. Mi portò con lui, mi portò alla mensa ufficiali.
Dico: “Finalmente si mangia”. No. C’era un piccolo giardinetto con un piccolo sentierino dove c’era ghiaia, ma ghiaia come? C’erano dei mattoni, dei sassi col martellino e c’era rimasto un mucchiettino lì da finire.
Mi diedero il martellino, io ho dovuto rompere i sassi, finire tutta la faccenda. Poi finite le cose era il momento che avevano finito di mangiare, venivano fuori gli ufficiali a fumare una sigarettina e guardandomi lì che stavo finendo il lavoro venne uno.
Dovevo fare tutto il giro dei sassi, sai, quando si rompe un sasso ha delle punte. Ho dovuto farlo coi gomiti e in ginocchio, ho dovuto fare tutta la strada in quella maniera.
Quando arrivai ero tutto insanguinato. Finita la cosa mi portarono finalmente a mangiare. Se io avessi mangiato quello che mi avevano dato sarei crepato. Per fortuna che durante la prigionia in quel Lager 25 c’era anche un dottore di Amsterdam che c’insegnava.
“Guardate che quando saremo liberati troveremo questo e quell’altro. Non dobbiamo mangiare molto perché il nostro fisico…”. Ci aveva dato già una linea, ci ha fatto molto bene perché già cominciavo da quel momento ad applicarmi.
Finito quel lavoro mi diedero un po’ da mangiare, poi mi portarono nuovamente al Lager. Io mangiai poco, presi qualche cosa in tasca con me, però mi andò bene. Mi venne un po’ di mal di pancia, qualche cosa mi venne.

D: Scusa, Vanes. Dopo i 75 giorni che tu sei stato lì al Revier a Dachau sei ritornato ancora a Kempten?

R: Ci sono ritornato perché durante la passeggiata un bel giorno incontrai un militare che era venuto da Kempten per prendere materiale e portarlo a Kempten. Ci siamo incontrati, mi riconobbe e disse: “Tu De Mario!”, perché mi chiamavano De Mario, non De Maria, De Mario.
“Sì, sono De Mario”. Io lo conoscevo, di vista mi sembrava di averlo visto prima. “Ma tu nicht kaput?”, “No”, dico, “nicht kaput”, là pensavano che io ero già morto. “No, io nicht kaput”. “Ja, Ja, gut…”.
Si vede che quando è tornato al campo l’ha detto al capofabbrica, all’ingegnere che mi conosceva, quest’ingegnere fece domanda al campo di Dachau di farmi tornare là. Questa è stata la mia fortuna, perché tornando là io sono tornato in quell’ambiente dove stavo molto meglio degli altri.
Era il mio toccasana quello. A parte qualche frustata che prendevo quando andavo su, ma avevamo già fatto l’abitudine. Si poteva tirare avanti, l’importante è che un po’ di mangiare in più di quella brodaglia che ti davano io potevo averlo.
Inoltre ho avuto anche l’intelligenza di chiedere a questo mio amico che riparava i motori che mi portasse due carboncini e un po’ di plexiglas e vetri, qualche materiale, delle viti, perché io potessi fare una cosa.
Là c’erano molti che avevano le patate, andavano a rubare le patate, prigionieri, e non sapevano come fare a cuocerle. Allora dico: “Aspetta, aiuto loro, se riesco a fare questa cosa”.
Difatti riuscì questo a portarmi tutto questo materiale, due carboncini, due pezzettini di coso già forati con due viti, i suoi dadi con del filo elettrico. Io ho messo i carboncini a una certa distanza, li ho messi nell’acqua, c’era un pentolone lì con un coperchio, riuscivo a bollire in dieci minuti.
Io ho cotto tante di quelle patate, un po’ a noi, un po’ a loro, era già un qualche cosa. Non tanto, ma un qualche cosa che riusciva ad avere il modo per poter respirare un po’ meglio.

D: Riprendiamo dalla liberazione.

R: Venne la liberazione.

D: Le scatolette che tu hai trovato, ecc.

R: Venne il giorno che dissero, credo che fossero due mesi che erano stati là, un po’ meno, venne il giorno che dissero: “Ragazzi, qui si va in Italia, però o voi o la roba che avete con voi”, perché tutti eravamo carichi.
Io avevo tanta altra roba che avevo immagazzinato, tutti avevamo un mucchietto. Lasciammo là, perché erano tutti alimentari. Prendemmo le uniche cose, il nostro zainetto, chiuso.

D: Il calibro.

R: Il calibro, sì. E non solo, là trovai due scatole di medicinali che non sapevo cos’erano. Erano due scatole di medicinali, c’erano dei medicinali e da questi medicinali io presi due scatole di quelle punture e le portai con me. Quelle le ho portate in Italia.
Quando arrivai in Italia mi vennero dei bugni da tutte le parti, il mio dottore mi fece le punture con quelle e guarii in un momento. Non lo so, non lo so dire, non so neanche che medicina mi hanno dato per passare settantacinque giorni e riuscire a non crepare. Non lo so.
Non so se hanno fatto degli esperimenti, non posso dirlo perché ero…

D: Vanes, ti ricordi più o meno quando sei rientrato in Italia?

R: Dal camion sono salito su con quello che avevo, scoperto, un viaggio un po’ difficoltoso. Però si veniva a casa, tutto andava bene. Arrivammo a Bolzano e lì ci mandarono al Car di Bolzano. Al Car di Bolzano cominciarono a interrogarci, nome e cognome, dove stavi, da dove vieni.
C’era anche la visita. La visita consisteva in questo: cosa hai avuto te? Hai avuto qualche malattia? “Io sono stato male, ho avuto malattie”. Scriva, qui c’è la carta che loro mi hanno dato a Bolzano.
Io ce l’ho da morto, perché se mi visitavano sentivano cosa avevo avuto, non solo i reumatismi. Qui, calibro ottavo, reumatismi. E’ l’unica carta di rimpatrio che avevo. Se mi visitavano sentivano che avevo avuto la pleurite da tutte e due le parti.
Quando l’ho scoperto, l’ho scoperto non so quanti anni dopo, avevo sempre bronchite continuamente, forse il male era passato. Un bel giorno ho deciso di farmi, avevo male, non mi andava via la febbre, farmi una lastra.
Da quella lastra scoprii dove l’ho avuto, non potevo averlo che da quel punto. Da lì cos’è venuto? E’ venuto che ho cercato di avere il certificato per avere… Perché un bel giorno un carabiniere mi disse: “Ma tu che sei stato lì, sei stato malato, perché non fai domanda della pensione di guerra?”.
Allora cominciai a fare tutti i documenti dopo anni.

D: Ma quando sei arrivato in Italia? Che mese era te lo ricordi?

R: Maggio.

D: A maggio?

R: Sì. Era maggio. Era già la buona stagione.

D: Ho capito. L’importante era avere una indicazione di data. Era maggio?

R: Sì, era maggio.

Tedeschi Natalia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno 1922.

Sono di famiglia ebrea. Una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti a Torino. I miei fratelli quando è il momento delle leggi razziali erano tutti e tre all’università e io nel 1938 – avevo 16 anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi con tutte le varie vicissitudini della guerra siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte.

Lì abitava una sorella di mia nonna e allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli e anche di evitare i bombardamenti sulla città.

Dei miei fratelli uno era andato con i partigiani al momento delle leggi razziali, uno era nascosto a Torino e l’altro era andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna, convinte però di essere abbastanza in una botte di ferro in quanto mio fratello che era nei partigiani, e che era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci, aveva detto: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa dovesse capitare, noi veniamo a prendervi!” Non è potuta succedere e non è successa.

E un giorno che eravamo a Saluzzo in albergo io sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo e sono arrivate due SS italiane. Sento che dicono: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente a avvisare mia mamma e mia nonna, e ancora adesso penso che forse, sapendo che eravamo lì, penso ma con molto ottimismo solo adesso, che forse han voluto darci tempo di metterci in salvo: forse, perché essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scala e ci avrebbero preso. In questo albergo proprio minuscolo c’era una seconda uscita che dava sulle scale: abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo salite fin su al quarto piano occupato dalla gente del posto che ci aveva dato ospitalità, però solo per certe ore, non potevano darci ospitalità per sempre. Allora si sono poi convinti, compreso l’albergatore che era venuto in aiuto, a chiamarci un taxi e a farci accompagnare a Sampeyre, in Valle Varaita, sempre in Piemonte. Solo che, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi dopo, ci hanno messo un po’ nella trappola dei topi, perché essendo in valle si poteva eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.

D: Quando è successo?

R: Questo è successo nel febbraio del 1944. Noi siamo stati a Sampeyre con mia mamma e mia nonna – anche lì in un piccolo alberghetto – per un periodo di tempo, poi sono arrivati i partigiani e noi più che mai ci sentivamo tranquilli, perché ce n’erano anche tanti ben armati e ben attrezzati; eravamo tranquillissimi. Solo che purtroppo invece da valle sono arrivati i tedeschi e hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, ma lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di finanza, che ci aveva visti a Saluzzo e ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di lire 5.000, ci ha denunciati ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi non avevamo mica niente da nascondere noi; siamo stati un po’ presi anche alla sprovvista perché appena arrivato il comando tedesco, ha detto: “Tenetevi a disposizione ché all’una di questa notte veniamo a prendervi.”

Allora sono venuti a prenderci; eravamo a Casteldelfino, sopra, vicino al confine, e avevano anche detto che io facevo parte dei partigiani. Allora sarebbe stato ancora più grave per me, perché forse mi avrebbero potuto passare alle armi subito. Lì ci hanno caricati e portati sotto a valle a Venasca dove siamo stati per 3 o 4 giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca; di notte dormivamo sui tavolacci.

Abbiamo dormito sui tavolacci delle celle di sicurezza, in promiscuità con tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Poi una mattina ci hanno caricati in treno e ci hanno portati all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo – ben poco – e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino.

D: L’Albergo Nazionale era sede di qualcosa?

R: Era sede del comando delle SS. Lì ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c’era poco da chiedere: eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, eravamo ebree e non sapevamo, per fortuna forse, cosa il destino ci avrebbe ancora procurato. Siamo poi passate alle Carceri Nuove di Torino, dove siamo state per 20 giorni; io ero in cella con mia mamma e mia nonna – io sottoscritta e due altre persone – in quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in carcere stretto e con solo la compagnia delle cimici: ce n’erano a profusione, specialmente di notte. Avevamo un’ora di aria, e io, tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me la messa non è che interessasse molto, era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle carceri c’erano piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, con piccole finestrelle ovali dove tu potevi stare unicamente inginocchiata su un’asse di legno. Così sono passati 20 giorni sino a quando un mattino ci hanno caricato su un pullman, non era un pullman era un camion, ci hanno portate a Porta Nuova, a Porta Nuova su un treno e siamo scesi a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.

D: Questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto, io penso, ai primissimi di marzo (1944). A Fossoli siano stati 20 giorni, senza naturalmente sapere assolutamente – con un’incoscienza unica – cosa sarebbe stato di noi, senza avere notizie dei miei fratelli, assolutamente non sapevo niente. Non sapevamo niente. Vivevamo proprio in una specie di torpore, di incoscienza, ma non solo noi tre, la mia mamma e la mia nonna, ma tutti, senza sapere cosa ci aspettava domani, così: non dico neanche con filosofia ma proprio con incoscienza.

D: A Fossoli vi hanno messo nel reparto delle baracche o nel reparto tende?

R: No no, nelle baracche, eravamo nelle baracche.

D: Vi hanno immatricolato a Fossoli?

R: No no, nessuna immatricolazione. So che c’erano campi dei politici, noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo stati lì 20 giorni. Se si pensa adesso, a distanza di tempo, naturalmente era non dico proprio un paradiso ma, in confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere non so, una pensione, una buona pensioncina. Siamo stati lì altri 25 giorni, con un certo trattamento; non si lavorava, da mangiare ce n’era a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose; una mattina ci hanno caricati sui carri bestiame, partenza con destinazione ignota: non si sapeva assolutamente. Però da quel poco che avevamo saputo si pensava di andare in Germania in un campo di lavoro, perché tutti dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.

D: Dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: Io penso di sì, perché lì non c’erano mica le rotaie, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna. Mia nonna da sposata faceva Sacerdote, noi invece Tedeschi: è salita nel vagone prima e non l’ho più vista, io ero con la mia mamma.

D: Cioè, venivate divise?

R: Per ordine alfabetico. Ci chiamavano per ordine alfabetico.

D: E questo “Transport” quando è avvenuto?

R: Il 16 maggio (1944), ed è stato il “Transport” più lungo che c’è stato: io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, è stato il più lungo di tutti, non so per quale motivo. Ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben 8 notti e 7 giorni.

D: In quanti eravate sul tuo vagone, se ti ricordi?

R: Più o meno saremmo stati una ottantina, tutti stipati.

D: Tutte donne?

R: Io penso di sì, di quello ho un ricordo un po’ vago. Quello che rimpiango molto è che tutte queste cose, se avessimo potuto dirle appena tornate, con la memoria più fresca, e con tutti i ricordi più freschi, sarebbero state diverse. Io rimpiango moltissimo che questo interessamento per noi sia arrivato quando noi siamo proprio ormai al lumicino. Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi che noi non sappiamo. Anche per il viaggio che ho fatto ad Auschwitz, le carissime insegnanti di Moncalieri ed i loro allievi han dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente niente; sono stati bravissimi perché hanno fatto delle dispense, cose eccezionali, ma a loro volta non sapevano niente, perché a scuola finiva tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda guerra mondiale assolutamente niente.

D: Allora il tuo “Transport” dopo 8 giorni.

R: 8 notti e 7 giorni; sono arrivata a Birkenau di notte.

D: Il vagone è entrato dentro?

R: Io direi che è entrato dentro, sulla banchina, e siamo arrivati di notte. Siamo stati nei vagoni fino al mattino dopo, quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame. Siamo scesi, tutti questi ordini in tedesco che non si capivano, abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì abbiamo creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, quelli che potevano entrare in campo o meno. Io sono sotto braccio a mia mamma, la mia mamma che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è proprio stata strappata dal braccio: è una sensazione che ho ancora adesso, sento il suo braccio che trema. Mi è stata staccata e io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto … ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A 5404, e siamo entrati in campo.

Io appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo mia cugina Giuliana Tedeschi. Era stata deportata con mio fratello Vittorio; mio fratello era nei partigiani ed era stato denunciato da un amico suo che era nei partigiani con lui: e l’ha denunciato come ebreo. Poi il destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione, a Mauthausen e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.

Ad ogni modo, entrando in campo vedo mia cugina che era venuta a Birkenau col marito e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, mio fratello che oltretutto aveva anche un braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando mi dice: “Ma sei sola?” io ho detto: “No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono andate in un altro campo”. E lei mi ha detto subito: “Toglitelo dalla testa perché di altri campi non ce ne sono”. Allora sono entrata in campo.

D: Quando tu dici che sei entrata nel campo, era il campo femminile?

R: Il campo femminile di Birkenau.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: Io penso che sia la baracca numero 10, che c’è tuttora. Però tu capisci che a distanza di tanti anni, di tanti anni, tante immagini si sovrappongono, e poi dei ricordi che ti sembrano nitidissimi, per me qualcuno lo è senz’altro, invece non lo sono. Appunto perché sono passati troppi anni.

D: Natalia, l’immatricolazione: ti ricordi come ti hanno tatuato il numero?

R: Sì, me lo ricordo benissimo. C’era una addetta a questo lavoro che aveva una piccola penna in mano con un pennino che finiva con uno spillo, e questo spillo era intinto in un inchiostro speciale; veniva tatuato il braccio in quel modo.

D: Lo facevate in piedi o sedute?

R: In piedi, non c’erano mica sedie, eravamo messe così su questa specie di scrivania, di tavolo che c’era, figurati se sedute! Le sedie in campo non sapevamo cosa fossero.

D: E veniva registrato il vostro numero?

R: Io penso di sì, però non ne sono sicurissima. Penso che se la Croce Rossa di Arolsen riporta il numero del tatuaggio è perché ha trovato dei registri, qualcosa con segnalate e registrate queste numerazioni.

D: Quando ti hanno tatuato c’era qualcuno che aveva in mano un elenco? vi chiamavano per nome? te lo ricordi?

R: Non ricordo; io credo che entrassimo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro li hanno dimenticati completamente. No, io credo che siccome eravamo tutti incolonnati, man mano che si passava davanti a questa che faceva i tatuaggi poi si andava alle docce.

D: E dopo, la vestizione?

R: La vestizione è stata una cosa tragica per i vestiti stracci; noi non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo che sono stata a Birkenau ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. Poi dirò dopo. Poi degli stracci addosso, proprio stracci; siccome ci veniva tolta tutta la roba che arrivava con noi, veniva tutta mandata in Germania, proprio gli stracci, quelli che erano inservibili, servivano per coprire noi. Io mi ricordo una mia amica – si finiva persino a ridere in quella tragedia – che, poveretta era del mio trasporto mi pare, no no l’ho trovata lì, aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.

I capelli li han poi tagliati dopo, perché come sono entrata in campo mi aveva detto tutte: ricordati di morire in campo se devi morire ma non passare al Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io disgraziatamente ho avuto un’infezione alla gamba, e non camminavo più, ho dovuto andare al Revier per forza, perché dico: “Tanto, per morire qui vado a morire nel Revier.” Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia e nel giro di 24 ore è diventata una cosa enorme, la gamba è diventata enorme, avevo un’infezione terribile, dico: “Camminare non posso camminare, vado in Revier“. Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio lontano su un altro mucchio, poi viceversa. Ad ogni modo io entrata in Revier ho detto: “Se è la mia ora …”. A parte il fatto che l’idea della morte non c’era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello, ho detto: “Sì, per morire vado a morire in Revier“. Non è che avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier, sono stata seduta su una specie di sedia, io con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto, e mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi tutte e due nude per 10 giorni, nude completamente, con questa che aveva il tifo che naturalmente si sporcava in continuazione, e con un’unica coperta. Quando ho chiesto, mi son fatta capire, di poter cambiare questa medicazione – chiamiamola pomposamente medicazione – era venerdì quando sono entrata in Revier, mi han detto: “Fino a martedì non si cambia”. Puoi immaginare quella carta cosa era diventata; se l’infezione c’era prima, dopo pensa cosa poteva capitare. E tu pensa che sono stata in Revier immobile per 40 giorni, e per 40 giorni tutte le mattine è entrato Mengele, tutte le mattine. Sai chi era Mengele? era l’angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo, elegantissimo col frustino in mano che segnava così nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Non penso se dietro qualche segnalazione dei più gravi, però andavano, le selezioni avvenivano così. Poi tu sai benissimo che chi doveva andare alla selezione, che doveva morire, era messo in un blocco particolare per 3 giorni, e per 3 giorni aveva un supplemento di viveri. Uno dice, perché? In campo c’erano tanti perché ma non c’era nessuna risposta a questi perché.

Quando sono uscita dopo 40 giorni miracolosamente dal Revier naturalmente non riuscivo a camminare, per via dei 40 giorni di immobilità; sono uscita ancora con una cicatrice lunga 5-6 centimetri, una ferita aperta, e mi hanno messo in un blocco di francesi dove c’erano anche delle italiane. C’era un’italiana di Venezia, Enrichetta Polacco, non so se l’avete sentita, solo che poverina adesso non può più testimoniare; era un tipo in gambissima, con una grinta, era arrivata già 2 mesi prima, sapeva come si svolgeva la vita in campo. Io mi era lasciata andare perché, uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra e quando mi alzavo tutte le ossa scricchiolavano come se fossero state senza lubrificazione. E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca che lavorava alle cucine, l’ha impietosita, era una deportata, e le ha detto: “Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me”, così mi ha lasciato andare. Lei da buona veneta mi diceva: “Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti devi far questo, muoviti, lavati”. Le devo molto perché proprio mi ha dato una scossa. Dopo entrata in campo ho saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino; quando l’ho saputo ero in Revier, non l’ho saputo subito: ho pianto un giorno e una notte consecutiva. Da allora non so più piangere, assolutamente. Mi posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più.

E allora sono andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro era un lavoro anche abbastanza fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa quelle lamiere per infilare i bastoni dentro. Portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna perché poi oltretutto non è che fosse un lavoro continuativo, si portava nelle ore dei pasti. Qualche volta, ma molto molto raramente, ci restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo.

Andando in Revier, una delle cose, un ricordo molto terribile, è che c’erano le donne che avevano partorito la notte e che c’erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di – neanche davanzale, come si può dire? – un ripiano, erano tutti lì che si muovevano, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato dopo o era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini lì davanti al Revier, diciamo.

Io sono stata lì facendo quel lavoro fino a quando un mattino c’è stato un appello particolare.

D: Un attimo Natalia, tu prima dicevi: “andare alla selezione”. Esattamente cosa vuol dire “andare alla selezione”?

R: Andare alla selezione vuol dire che tu eri segnata, eri predestinata ad andare ai forni crematori. Cioè ti mettevano in un blocco particolare, come ti ho detto ti davano il supplemento di vitto, e poi dopo c’era un … particolarmente di notte; sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire. Di Torino c’era stata una certa Vanda Maestro, non so se l’avete sentita nominare, che era ebrea e credo fosse anche partigiana, e che è morta in quel modo. La cosa tremenda è che tu sai quando sei in quel blocco per 3 giorni che devi andare ai forni crematori.

C’era questo Block… particolare, non potevi uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c’erano i contenitori e guai a te se arrivavi come ultima: dovevi prendertela e andarla poi a svuotare nel Waschraum.

D: Dicevi di quell’appello …

R: Questo appello, questa cosa particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima, ma tu capisci che lì né si aveva radio, né si aveva l’orario, un orologio che fosse un orologio non c’era, non ricevevi posta da nessuno, non avevi notizie, c’era solo una simpaticissima ungherese che era Pagni Margaret, la zia Margaret la chiamavamo, l’avete conosciuta questa Pagni Margaret ungherese? Veniva sempre a raccontarci, diceva: “Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio. Fra una settimana tutto è finito, state tranquille.” Inventava tutto tanto per tirarci su il morale, ma ci ha aiutato molto. Ad ogni modo quella mattina erano i primissimi di novembre, i Santi, e dal 23 maggio ero in campo a Birkenau.

D: Nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, oltre al numero ti hanno dato …

R: Sì, il numero da mettere sul vestito.

D: E il triangolo, ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sai che non me lo ricordo il triangolo, io ricordo il numero.

D: O la stella.

R: No, né la stella né il triangolo, però non prenderlo come oro colato perché son cose che a distanza di mezzo secolo si possono anche dimenticare.

D: Nel blocco, nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, con te c’erano solo le razziali?

R: Razziali; le capoblocco erano tutte polacche terribili, terribili le capoblocco, erano tutte razziali, c’erano francesi, c’erano italiane; sono andata dove si dormiva con le francesi, ho imparato il francese anche, e combinazione, la mia vicina posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me, era nata lo stesso giorno e lo stesso anno mio, era la mia gemella; era una certa Susanne, pensa che combinazione, avevamo la stessa età, precisa identica. Ad ogni modo sono stata lì e poi mi pare che mi abbiano cambiato di blocco: dopo eravamo – non so neanche come si dice in italiano – nelle koje, castelli dove si dormiva in 12 con un’unica coperta, dove si stava naturalmente di fianco perché non potevi star di schiena di sicuro; poi a metà notte ci si girava tutte. Con quella mia amica di Venezia di cui ti ho parlato prima eravamo sempre state vicine, sempre assieme; io le dicevo: “Guarda, ti ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come mia figlia!” perché eravamo tutte naturalmente con le ginocchia piegate infilate una dentro all’altra, poi a metà notte ci si girava; con quei pochi stracci che avevamo la sera quando si andava a letto, ci facevamo un fagottino e lo mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno rubato, una notte; la mia disperazione era terribile, dico: “Come faccio domattina, non posso mica presentarmi nuda all’appello!” Non so in quale modo l’ho recuperato, qualcuno poi me l’ha ridato.

D: Visto che stavi accennando ancora agli abiti, biancheria intima ne avevate?

R: Ah figurati! Pensa che – tanto fa parte della storia, lo posso dire – mi avevano rubato le mutande, e sono stata credo per 3 mesi senza mutande. Avevamo tutte una specie di camiciola sotto e un vestito, e basta, e queste scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero in Revier mi sono caricata di pidocchi, ma proprio da togliere a manciate, pidocchi da tutte le parti, tra le braccia, sulla testa: allora mi hanno rapata a zero. Non quando sono entrata ma dopo, perché ero piena di pidocchi.

D: Scusa Natalia, il ciclo mestruale?

R: Niente, quando ti dicevo che mi è venuta quell’infezione alla gamba, io do una versione un po’ semplicistica ma può darsi che fosse così. Quando sono entrata in campo t’ho detto era il 23 maggio, avrei dovuto avere il ciclo il 24: cessato completamente di colpo! Può darsi che questa infezione che mi è venuta alla gamba fosse, come si può dire? conseguenza di quello.

D: Anche per lo shock, probabilmente …

R: Io penso più che altro per quello, perché han cessato di colpo, io penso che sia stata una conseguenza.

D: Arriviamo a novembre.

R: Arriviamo a novembre: c’è stato un appello particolare. Naturalmente al mattino eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca, che ora fosse non so perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po’ più tardi, dunque non so, non ho idea di che ora potesse essere; fatto sta che siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non solo, ma io avevo la febbre, un febbrone, non ti so dire quanto ma avevo la febbre. Poi quando ci hanno avviate e ci han detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo, perché noi in campo si parlava sempre di un eventuale trasporto come di un miraggio, dato che non era mai avvenuto, miraggio, il miraggio è quel trasporto. E’ arrivato quel momento, però non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un carro bestiame, io mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho potuto muovermi di lì perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, 3 giorni e 4 notti, e ci hanno portato a Bergen Belsen.

A Bergen Belsen siamo arrivati, mi ricordo, che pioveva; non c’era la baracca per noi, e ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma a Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen. Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. Io sono passata davanti a questa Aufseherin, mi hanno scartata perché ero troppo magra, e sempre quella mia amica veneziana – la Aufseherin forse aveva un momento di, chi lo sa, non dico di bontà o di tenerezza, forse di comprensione non so – le ha detto: “Lascia venire mia sorella con me”. Allora mi han tolto dal gruppo e sono andata con loro. Dovete pensare che da Auschwitz-Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via, e si parlava solo e sempre di questo miraggio, di questi trasporti che non sarebbero mai avvenuti, perché noi non si sapeva.

Siamo arrivati a Bergen Belsen. A Bergen Belsen anche lì eravamo sistemati in baracche, soliti castelli, solite cose, poi ci hanno scelto per andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, bulloni, e si lavorava in 25, c’erano dei gruppi di 25. 25 di giorno e 25 di notte, dalle 6 del mattino alle 6 di sera o viceversa. Però lì non c’erano i forni crematori, se non altro. Pensate che noi andavamo a lavorare con 5 SS e i cani lupi. Immaginate in quelle condizioni cosa potevamo fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente!

D: Scusami Natalia, a Bergen Belsen ti hanno immatricolata ancora o no?

R: Niente.

D: E neanche in questo sottocampo di Buchenwald?

R: No niente, almeno, se loro avevano dei registri quello non lo so ma io ho solo avuto un’immatricolazione.

D: Un’altra cosa: il campo di concentramento era vicino o distante dalla fabbrica?

R: No, non era lontano, noi andavamo inquadrati 5 per 5, eravamo in 25; potevamo camminare 10 minuti, un quarto d’ora a piedi; era piuttosto vicino.

D: Tutte donne eravate?

R: Tutte donne sì sì, e lì ti dico si stava già leggermente meglio, appunto perché c’era poca gente e non c’erano i forni crematori. Pensa che noi si lavorava 24 ore su 24 con un intervallo di 10 minuti ogni 6 ore, no lavoravamo 12 ore non 24, 12 ore con questi turni, una settimana dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e l’altra dalle 6 di sera alle 6 del mattino. … tutto e per tutto, ci portavano da mangiare, avevamo, quando andava bene, 5 patatine, ma grosse così, e se no 4, e quello era tutto. Tu pensa che quando c’erano questi intervalli eravamo talmente sfinite che avevamo vicino a noi delle cassettine, che non so a cosa servissero, forse per del materiale, ma ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando non suonava il campanello: erano 10 minuti, 10 minuti solo.

D: Scusa Natalia, parlaci di questo campo. Era solamente un campo femminile?

R: C’erano pochissime baracche, saranno state 5, era una cosa molto piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen Belsen o Auschwitz-Birkenau, era più piccolo, non era così esteso. Il trattamento era leggermente più umano benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare; avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello. Però ti dico una cosa: la fame è terribile e chi non ha provato qualsiasi cosa non può rendersene conto, è inutile che uno dica. Ma la sete è peggio. La sete ti fa impazzire. La fame è terribile; noi sempre e solo a raccontarci e scambiarci le ricette di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Io l’ho già raccontato in varie occasioni: una mia carissima compagna di sventura, che era Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze, ha lasciato a Firenze, quando l’hanno arrestata col marito, 4 bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni, non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i 3 bambini più grandi in Israele, lei è stata deportata col marito, il marito poi non è più tornato, lui era oculista ed anche rabbino di Firenze, naturalmente una delazione anche lì. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa preferisci: un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?” Disse: “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che colmo! Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto questo, non riguarda me ma è una cosa tragica: Anna è poi riuscita ad andare in Israele, allora era ancora Palestina credo, e ha ritrovato i suoi bambini. Lavorava nell’ospedale ad Hassa, un attentato arabo nel pullman ed è saltata per aria. Pensi, portare a casa la pelle dopo quel popo’ di tragedia che c’è stata ed è morta così, poverina!

Ad ogni modo di Dessau dirò una cosa: i pezzi che facevo credo che sono serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a capire ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo del campo l’unico aiuto che ho avuto è stato uno di questo piccolo reparto che mi ha messo dentro a una specie di casco, come quelli che hanno le pettinatrici, un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice. E’ l’unica cosa che ho avuto; no, anche un’altra cosa, che poi vi dirò. Ad ogni modo lì una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già il cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz ci hanno spostati, perché c’era già l’avanzata russa. Si sentiva da lontano il cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos’era. A me è venuto sul fianco un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente quel camicino che avevo sotto il vestito era tutto appiccicato, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato, uscendo dalla fabbrica, su un camion, e anche lì abbiamo detto: “Dove andremo a finire?” Ci hanno caricato e il foruncolo, dopo un po’ che eravamo tutti in piedi su questo camion, è scoppiato: sono rimasta con quel popo’ di roba attaccata alle carni e non mi è venuta l’infezione. Ci hanno portato a Terezin, a Theresienstadt, dove sono stata liberata.

D: Quando c’è stato questo trasferimento?

R: Dunque: io sono stata liberata il 6 maggio (1945), poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale. Poteva essere aprile, metà aprile, perché non abbiamo lavorato tanto in fabbrica, praticamente 15 giorni; proprio le date adesso precise non le so, solo approssimativamente. E’ per quello che rimpiango adesso che ci facciate tutti questi interrogatori. Quando sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare – sei stato tu a Terezin? E’ una fortezza che hanno mantenuto così – ma nei miei ricordi era tutto diverso.

D: Parlaci di Terezin.

R: Posso dirvi poco di Terezin perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo di trovare. Ma su questo insisto perché Terezin è rimasto così com’era; indubbiamente, siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale e mi è successo di tutto, i ricordi si sono sovrapposti, si sono accavallati. Tu pensa che ho avuto il tifo petecchiale e un ricordo terribile di quella febbre che ho avuto: sono arrivata proprio al delirio, nel mio piccolo castello non c’ero solo io ma c’era un’altra, e quell’altra ero sempre io, uno sdoppiamento c’è stato. Io parlavo con quell’altra, l’altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Dunque puoi immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so perché lì era proprio delirio. E poi diceva, io questo non lo ricordo, chi era stato con me, che quando pregavo che mi portassero al Waschraum perché avevo bisogno di buttarmi dell’acqua addosso, han detto che ero cieca. Io questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei giorni è una cosa che non ricordo, non ricordo assolutamente. E poi lì al 6 di maggio è avvenuta la liberazione.

Io ho detto: “Ce l’ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta quando stavo leggermente meglio di fare 2 passi tutti i giorni, il terzo giorno farne 3, farne 4 … sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto: “Ci sono i russi, siamo liberi, ci sono i russi e siamo liberi.” Poi quando eravamo lì nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i belgi, ma gli italiani niente.

Allora appena stavo un pochino meglio in 4 siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andati alla Casa d’Italia. Alla Casa d’Italia a Praga dove ci hanno accolte, dove ci han dato anche credo qualche soldo – abbiamo girato un po’ per Praga – è venuta fuori tutta la nostra femminilità perché con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Puoi immaginare in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto! Guardi, l’ho raccontato alle ragazze di Moncalieri: nelle cose tragiche c’è persino una nota comica, perché è comica sì in quelle condizioni.

Poi anche di lì abbiamo lanciato degli appelli tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Un giorno abbiamo detto: “Cosa facciamo? andiamo via. Ci siamo – ho detto – andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia.” Allora siamo arrivati fino a Vienna, anche lì con mezzi di fortuna, a piedi, tutto quello che capitava, abbiamo preso un treno che andava al Brennero, solo che arrivati a Wiener Neustadt ci hanno fatti scendere dicendoci che non potevamo rientrare così alla spicciolata. Altri 40 giorni lì siamo stati, sistemate in case che erano state devastate; mangiavamo quelli che chiamavamo i “ceci imbottiti”, tutti pieni di vermi, però allora andava tutto bene. Pensi che – era estate, era maggio – cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura mica buttavo la mosca, no! continuavo a mangiare. Adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto, allora niente, tutto così. A Wiener Neustadt, anche lì, nessuno veniva a prenderci; c’erano i russi, allora noi eravamo anche molto giovani, e i russi volevano farci andare a lavorare di notte. A noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe finita. Allora abbiamo deciso: una mattina abbiamo preso la strada e ce ne siamo andate. Siamo arrivate a piedi fino a Sopron, che è in Ungheria. Ho avuto un lasciapassare che non serviva a niente, c’era solo scritto che eravamo andate a … con nome e cognome; però a quell’epoca il lasciapassare non serviva a molto.

Di lì siamo arrivati poi con un treno dei partigiani fino al confine con la Jugoslavia; arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi abbiamo chiesto perché: avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a pranzo con chi li aveva invitati! Il treno era fermo, noi sul treno, allora abbiamo detto: “E noi?” “Venite anche voi!” E siamo andate anche noi lì, però quelli poi tornavano indietro. Sempre con mezzi di fortuna che non le so dire, con camion, a piedi, siamo arrivati a, mi aiuti a dire la capitale della Jugoslavia, a Tirana, a Lubiana siamo arrivati. A Lubiana siamo andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare, c’erano dei campi di accoglienza, che allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì c’era effettivamente un altro campo di raccolta e non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati, allora abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione, siamo arrivate a Trieste. Su quel treno di Trieste un capotreno mica ci ha chiesto i biglietti, no, ci ha regalato un pomodoro! Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto.

Io mi ricordo che avevamo trovato una patata, piccolissima, e l’abbiamo mangiata così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: “Che meraviglia!” I bignè non sono mai stati buoni così. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste e siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte, ci hanno messo a disposizione delle brande: noi non eravamo più abituate a dormire sulle brande. Allora abbiamo dormito per terra.

Abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla comunità. E poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ho impiegato 8 giorni e sono arrivata a Torino. 8 giorni. E quando sono arrivata fino a Milano, allora mio fratello era fidanzato con una ragazza di Milano e mi ricordavo l’indirizzo, mi ricordavo il nome, sono andata a presentarmi. Noti che mio fratello si era sposato nel frattempo in Svizzera a Bellinzona ed erano a Torino. Io da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino dicendo che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto! Mi hanno preso per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente riconosciuto.

Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta militare che partiva da Milano alle 10, sono arrivata a Torino a mezzogiorno. I militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata deportata!” “Per carità, hai più diritto tu di un altro”. E poi è arrivata Porta Susa, qui alla stazione di Torino, ho preso un tram, non chiedetemi con quali soldi, non lo so, non mi ricordo, e sono scesa proprio alla fermata sotto casa. Qualcuno che mi ha visto in quelle condizioni mi ha detto: “Ma lei arriva da lontano!”, si vede che qualche notizia era già giunta nel frattempo. Dico: “Ma io arrivo dalla Polonia! Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri, e poi sono arrivata alla porta della mia casa senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio fratello che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, mia cognata era incinta di 3 mesi e aspettava un bambino, e mio fratello Cesare, che era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo lì che mio fratello Vittorio era mancato il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. Poi è nato il bambino che abbiamo chiamato col nome di mio fratello, e la vita ha ripreso, per forza.

D: Il sottocampo di Buchenwald, Dessau, era un campo solo per razziali quello o no?

R: Io me lo ricordo come un campo piccolino, c’erano poche baracche, io non so se dall’altra parte ce ne fossero delle altre; forni crematori lì non ne ho visti, però sono sempre stata con i miei compagni razziali, tutti ebrei: francesi, italiani o cosa ma sempre ebrei.

Quando poi sono venuta a Torino non abbiamo mai parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: “Basta con queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta!”. Ho trovato una persona che mi dice: “Ma cosa hai fatto? perché ti sei scritta il numero del telefono sul braccio?” E poi tutti in generale: “Ma basta, queste cose sono finite, sono passate, non parliamone più!” E quella è stata proprio una cosa che ha … completamente. Perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo assoluto. Proprio per queste frasi che ci venivano dette, che ci ferivano da morire.

D: Questo è durato fino a quando?

R: Sempre. Fino a pochi anni fa quando dal CDEC mi han proprio presa alle strette, mi han detto: “Devi fare queste interviste” “No” “Tu le devi fare”. E allora, come succede sempre, fatta la prima poi le altre mi son venute leggermente più leggere.

Anche se ripeto queste cose, sono convinta che nessuno potrà mai capire fino in fondo questa tragedia cosa è stata, se non quando se ne parla con i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua, e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che, con tutta la buona volontà che ci mettono per capirti, non arriveranno mai sul fondo.

D: E’ difficile testimoniare la fame, il freddo, la sete, le violenze, non solamente quelle fisiche ma anche quelle psicologiche?

R: Certo, perché hai sempre l’impressione di non essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice: “No, noi capiamo queste cose, noi ci immedesimiamo” non è possibile se uno non le ha vissute. Questa della deportazione è una cosa terribile, però qualsiasi cosa della vita se non l’hai vissuta tu gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì ma altrimenti no.

Per esempio c’è stata anche un’altra persona, quando sono tornata – sono tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono – che m’ha detto: “Sai, anche noi in fondo abbiamo patito tanto; mia mamma quando ha aperto un armadio, mancavano 2 lenzuola”.

Io arrivata a quel punto lì, ecco, io dico: “Sì, lei avrà sofferto perché le sono mancate 2 lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono mancati, 3 componenti della famiglia, la nonna la mamma e un fratello, mio fratello non aveva ancora 30 anni quando è mancato, qual è stato il nostro destino, solo perché siamo nati ebrei, tutto lì?!”

Palman Itala Tea

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Palman Tea, sono nata il 16 Aprile del 22 a Trichiana.

D: Che è in Provincia di?

R: Belluno. Perché è una Provincia Belluno.
Sono stata arrestata a casa mia l’11 Novembre del 44. 11 novembre del 44 sono stata arrestata. Chi mi ha arrestato è stata la Banda Carità di Padova, il famoso Tenente Castaldelli, mi sembra che si chiamasse.
Il mio era un recapito, allora sono entrati, io ero nel bar con tutti i clienti e c’era mio fratello Aldo, che era anche lui un organizzatore della resistenza, perché si può dire che la resistenza di Trichiana è nata a casa mia. È nata.
Vedo lui che salta, ha il cannocchiale e sta spiando in piazza perché aspettava una macchina dei partigiani di Belluno. Il Comandante aspettavano perché avevano una riunione. Salta dalla finestra ed io non so cosa succede e vedo due persone che entrano. Si avvicinano a me, ordinano qualcosa. Non so, io non so chi sono, non mi sbilancio, cerco di non parlare. Sento un colpo di pistola fuori. Sento un colpo fuori.
Mio fratello era saltato dalla finestra, era andato a vedere dal buco del portone se c’era ancora qualcuno in macchina, di fatti c’era un altro signore fuori, che sarebbe stato il terzo. Era senza… non aveva armi in mano, era là appoggiato alla macchina. Mio fratello ha fatto finta di avere la pistola, ha messo la mano sotto la giacca ed è andato a mani in alto. Questo qua si è messo con le mani in alto.
In quel preciso istante torna, arriva la macchina di Belluno che erano i Comandanti di Belluno. Ma mio fratello non li conosceva e questo neanche, allora si sono mossi tutti e due per andare a questa macchina per vedere chi fosse.
Quando mio fratello ha chiesto: chi siete, o l’altro ha chiesto: chi siete, non so quale dei due, questo si è voltato, è andato alla macchina, ha tirato fuori la pistola e si è messo a sparare. Mio fratello è riuscito a scappare, è ritornato dentro dal portone, poi è saltato dalla griglia ed è andato per i campi. È scappato.
I due che erano all’interno che hanno sentito il colpo fuori si sono lentamente avvicinati alla porta per vedere chi sparava fuori. Se era il loro amico, o se era qualcun altro. Quando si sono accorti che era il loro amico hanno sparato un colpo per aria, contro il muro dentro in sala, dentro nel bar, ed hanno detto: mani in alto tutti, non si muova nessuno, portate via la ragazza.
C’erano due ragazzi, due ragazzi che volevano entrare nelle file partigiane ed hanno portato via anche questi. Purtroppo uno era armato e li hanno uccisi subito. Li hanno uccisi. Mi hanno detto che sono stati uccisi poco dopo insomma.
Mi hanno portato subito al Distretto a Belluno. Mi hanno consegnato ai tedeschi, al maresciallo Palua, che è di Colle Santa Lucia, che parlava molto bene l’italiano perché era un italiano, di Colle Santa Lucia. Mi hanno messo nelle loro mani.
Lui ha incominciato subito l’interrogatorio, immediatamente. Ha incominciato l’interrogatorio: lei conosce Gianni. Gianni sarebbe stato l’intendente di zona, quello al quale io dovevo consegnare le lettere e dovevo riferire tutto. Lei conosce Gianni. Io faccio la tonta. Non so, perché nei momenti peggiori io riesco, riuscivo ad avere una calma tremenda, proprio, non mi scomponevo per niente. Io ho fatto la tonta ed ho detto: Gianni? Io non ho mai sentito parlare di questo Gianni, non so chi sia. Insistono: sì che lei lo conosce.
Avevo visto io che avevano aperto la porta e poi l’avevano richiusa, la porta era sulla mia destra, così. Cosa avevano fatto? Avevano aperto la porta, avevano messo la staffetta che avevano preso a Padova, e le hanno chiesto se ero io e lei ha detto di sì. Allora loro erano sicuri che ero io la responsabile.
Sì la conosce, non la conosce, ad un certo punto mi fa: vuole che le faccio vedere io chi conosce Gianni e chi conosce, e quante volte è stata a Trichiana e quante lettere le ha portato, e quante lettere sono state portate?
Me lo faccia vedere.
Mi mandano dentro questa ragazza, che è una staffetta che hanno preso a Padova. Io la guardo, non la conosco, non l’ho mai vista, può darsi che sia venuta nel bar, non dico niente perché nel bar viene tanta gente. Ma come faccio io a ricordare tutti? Non è possibile che io ricordi tutti. Sarà anche venuta, ma avrà portato delle lettere, ma chi è venuto a prendere le lettere proprio non lo so.
Così ho insistito su questa storia e mi hanno, hanno creduto per il momento, hanno creduto, poi mi hanno mandato su nelle carceri di Tabasso, e vicino c’era anche lei.
Io ho detto: ma che stupida che sei stata! Cosa ti sei sognata di andare a dire che venivi a casa mia? Non potevi trovare un posto qualsiasi? O in chiesa o dietro al cimitero? O un posto dove non succedeva niente? Ma proprio il mio nome?
Allora mi hanno…, io tutta la notte ho continuato a ripetere quello che avevo detto, per ricordarmelo bene il giorno dopo. Di fatti il giorno dopo quando mi hanno interrogata di nuovo ho ripetuto esattamente quello che avevo detto il primo giorno.
Così dopo mi hanno portato al Quinto Artiglieria. Al Quinto Artiglieria c’era una prigione dei pericolosi.

D: Ma sempre a Belluno?

R: Sempre a Belluno. Sempre a Belluno.
Era la prigione dei pericolosi. Prima di essere portata là c’era un questurino, un certo Sacchet, che pian pianino mi ha detto: attenta al n. 2. Solo così, due parole, ed io ho capito subito che era una spia. Di fatti mi mandavano al Quinto Artiglieria perché lei faceva la spia. Le carceri erano fatte con la porta di ferro, in maniera che lei poteva…, lei era quasi sempre libera, e passava per le celle.
Quando sono arrivata io ho capito subito come andava. Allora cercavo…, di giorno lasciavano aperta anche me e di notte mi chiudevano.
Ma io di giorno non potevo far controspionaggio, lo potevo fare di notte. Allora ho lavorato sulla serratura, non mi ricordo se con una forcina o con qualcosa, in maniera che non scattasse immediatamente, perché il tedesco tante volte quando passava alla sera dava il colpo alla porta e la serratura scattava. Io invece avvicinavo forte – forte, come se fosse scattata, ma non era scattata.
Quando la Paola, non potrei dire il nome della spia comunque ormai l’ho detto, quando la spia usciva, uscivo anche io e se lei andava giù da una parte io andavo dall’altra, e cercavo sempre di non vederla. Avvertivo i prigionieri, quelli che hanno portato dentro dopo di me e dicevo loro: state attente, cercate di non parlare con nessuno, solo questo io dicevo, non parlate con nessuno.
Una sera hanno portato dentro una gran retata di persone che veniva dal Mas, da quelle parti là, e c’erano tre ragazze. Erano quattro fratelli, no, due sorelle ed un fratello. Il fratello l’hanno messo nell’ultima cella in fondo nella parte, nell’altra parte di là, e sento che la Paola parla, parla… Questo qua parla, sento chiacchierare. Io ero uscita ed ero andata fino in fondo all’angolo delle celle, lei era sull’angolo per di qua e sentivo tutto quello che diceva. Sentivo parlare però non riuscivo a capire bene quello che dicevano.
Le due sorelle, io avevo avvertito tutti quelli che erano dentro, attenti, non parlate con nessuno, acqua in bocca, state zitti perché non ci si può fidare di nessuno.
Ad una delle sorelle, la più vecchia, le ho detto: non parlare con nessuno, hai capito? Stai zitta, tieni per te quello che sai e non parlare.
Non è andata a dirlo alla Paola? Quando l’ha detto alla Paola naturalmente lei il giorno dopo ha fatto la scena madre, io sono stufa di stare qua, si è messa a piangere, grida, due tedeschi l’hanno presa e l’hanno portata via. L’hanno portata giù al Comando a riferire tutto quanto, a riferire. Poi laggiù lei era di casa perché queste scene succedevano spesso insomma. Le hanno raccontato tutto quello che…
Poi c’era anche una cosa che devo dire, hanno portato dentro in cella Montagna, che era… un medico, che a forza di torturarlo aveva una cancrena alla gamba. L’hanno messo proprio alle spalle della mia cella. Avevamo la testa che si toccava, avevamo un muro ma avevamo la testa… Io sentivo tutto.
Sentivo tutto però un giorno sono passata di là, mi sono… visto che non c’era nessuno mi sono fermata e lui era steso con un fazzoletto sugli occhi, però vedeva sotto. Io gli ho fatto: che non parlavo, lui ha appena fatto la mossa con la testa.

D: Scusa, te ne sei andata?

R: Me ne sono andata.

D: Ecco, quando tu dici Montagna era il nome di battaglia?

R: Nome di battaglia Montagna, perché si chiama Mario…

D: Mario Pasi era?

R: Mario Pasi. Mario Pasi, si chiamava Mario Pasi proprio. Io l’ho conosciuto, l’ho assistito anche dentro. Per il momento io non sono andata tra i piedi, ho lasciato che la Paola si sfogasse, lei andava dentro e le faceva questo, le faceva quello, cercando sempre di… Perché lui non ha mai parlato, si è lasciato torturare ma non ha mai parlato.
Allora un giorno viene da me: guarda che io sono stanca di andare sempre da quello là, sono stanca di andare da Montagna, cerca di andare tu un pochino, perché io non ce la faccio più.
Va bene ho detto io, non è che ne abbia tanta voglia, ma va bene. Però l’ho lasciato stare ancora un giorno, ho fatto finta di niente, ed il giorno dopo sono andata da lui.
Lei non si è più interessata, visto che non è riuscita a cavare fuori niente ha lasciato che andassi tranquillamente io. Di fatti l’ho sempre curato, l’ho sempre assistito, gli davo da mangiare.
Quel biglietto che ha mandato fuori scritto con il sangue sono stata io a mandarlo fuori. Sono stata io a mandarlo fuori. Perché c’era un tedesco, uno della Wermacht, che entrava tutte le sere al Quinto Artiglieria, tutte le sere entrava in prigione. Faceva il giro di tutti i prigionieri, dava una sigaretta ad uno, una sigaretta all’altro, chiedeva se avevano fame, portava dentro del pane. Con me si è fermato tante volte a parlare questo ragazzo, non era tanto un ragazzo, sarà stato un uomo sui quarant’anni.
Mi ha detto appunto che io avevo il foglietto di scarcerazione pronto per Natale. Che sarei andata a casa a Natale.
Io gli ho detto… Poi dopo mi ha chiesto, perché ormai sentivano che la guerra andava male, e lui aveva paura. Allora mi ha chiesto, dice negli ultimi momenti, quando le cose andranno proprio male dice: lei può nascondermi? Lei può nascondermi?
Io sì la posso nascondere, però lei in cambio mi deve fare un piacere. Basta che non sia qualcosa contro la mia patria, contro i miei. No, io chiedo solo che mi porti dentro da mangiare, vestire ecc…
Allora io le davo le lettere che lui portava alla cassiera, ogni tanto la vedo ancora, la cassiera comunale del cinema, al comunale, le portava là, là c’era un’altra staffetta che andava a prenderle e le consegnava. Queste arrivavano a Trichiana, ed a Trichiana c’era mio fratello piccolo che aveva 13 anni che prendeva le lettere e le portava all’altro mio fratello che era in montagna.
È andata avanti così con questo qua. Attraverso questo qua io ho mandato fuori questo biglietto, perché non c’era modo di comunicare con l’esterno nella maniera più assoluta. Ero io che avevo il modo perché avevo… Perché questo qua sperava che io andassi a casa a Natale e che riuscissi a salvarlo. Che riuscissi a salvarlo.
Tornando a Montagna, poveretto, sono riuscita a mandare fuori questo biglietto attraverso…
Ricordo un altro particolare, c’era un certo Gazzetta di Cortina D’Ampezzo dentro, Gazzetta, ed una sera si è messo a dire il rosario, e tutti quanti hanno incominciato a voce alta, tutti quanti dicevano il rosario, era diventato un bum bum, proprio una voce. È arrivato Palua, non so era Palua che è arrivato in quel momento, è andato a far smettere subito. Hanno preso paura, c’è una rivolta, non avevano capito che era il rosario. …

D: Scusa Tea, il Distretto, quello che dicevi te, qui a Belluno, dove si trovava?

R: Qui in piazza, una facciata…, Piazza… adesso non mi ricordo il nome della piazza, mi sfuggono ogni tanto i nomi. È proprio qua, è vicino a qua, è proprio sulla piazza.

D: Lì c’era il Quinto Artiglieria?

R: No, il Quinto Artiglieria era su dove ci sono le caserme, dove sono le caserme lassù verso Mir, da quelle parti là, ci sono le caserme, il Settimo… Io ero nel Quinto Artiglieria, avevano costruito delle celle. Io penso che fosse la zona dove avevano i cavalli, dove avevano le stalle. Non so. So che là hanno costruito queste celle, e per entrare in quelle celle, prima di entrare in queste celle c’è un lungo corridoio fuori nel cortile tutto di filo spinato. Tutto un gran corridoio di filo spinato.

D: Ecco, Tea, però a Natale non ti hanno liberata?

R: No. Quando quella ragazza ha detto alla Paola che io… No, quando ho detto che stesse zitta allora lei ha capito che io dovevo sapere molte cose. Quel giorno che si è fatta portare giù al Distretto ha detto, perché ho avuto la conferma da Palua quando è stato arrestato, lei ha semplicemente detto che io dovevo sapere molte cose. Con queste tre parole sono finita in campo di concentramento.
Quando lei è tornata, dopo tre giorni, alle quattro del mattino hanno svegliato tutti, hanno chiamato tutti i nomi ed hanno fatto l’ultima partenza, sì, hanno fatto la partenza per il campo di concentramento.
Allora lei si è chiusa la porta, quella volta, l’unica volta che ha chiuso proprio la porta.

D: Quando era questo, te lo ricordi?

R: Questo non me lo ricordo quando doveva essere stato. So che Natale e Capodanno l’ho passato là al Quinto Artiglieria, l’ho passato in prigione là. Che poi quella notte, la notte dell’ultimo dell’anno erano in tre o quattro soldati tedeschi che passavano con le bottiglie, davano da bere e cantavano, ed io ho chiuso la cella, mi sono messa sotto, ho coperto la testa e non volevo neanche vederli. Non volevo. Come quando una volta ho sentito passare, ho sentito il passo di Palua, io ero seduta sul letto con i piedi contro perché lo spazio dalla schiena al muro ed i piedi contro il muro dall’altra parte, ero là e sentivo, ero dritta, ferma, e lui passa e si ferma davanti alla mia porta. Si ferma e mi fa: si vede negli occhi quanto odia i tedeschi, mi fa. Io lentamente giro la testa, guardo i suoi stivali, poi ritorno alla testa al mio posto. Ero tremenda, perché proprio… Si vede negli occhi quanto odia i tedeschi.

D: Ascolta Tea, allora l’ultimo carico quindi a gennaio probabilmente del 45?

R: Io penso a gennaio del 45, mi hanno portato al campo di concentramento.

D: Da sola o…

R: No, era un camion pieno. Da sola, la donna ero sola, unica donna, ma poi c’erano tanti uomini. Non è stato l’ultimo carico perché dopo ce ne sono stati altri.

D: Ascolta, ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno che è stato portato con te nel campo di Bolzano?

R: No. Che è stato portato con me nel campo di Bolzano non mi viene in mente il nome. Non mi vengono in mente i nomi, e neanche i volti, che strano. Perché dirò che io avevo la colite, avevo una forte colite, non stavo bene, di fatti quel giorno che mi hanno arrestata stavo parlando con il dottore. Con il freddo, perché mi hanno buttata sul camion, dietro, di notte era un sereno che si poteva infilare un ago, e di giorno nevicava tutto il giorno, tutto il giorno, con un camion a carbonella che ogni cento metri i tedeschi dovevano scendere a fare strada. Si può immaginare io che avevo mandato a casa già tutta la roba perché mi aveva detto che a Natale andavo a casa, ero con un cappottino nero, ero in lutto perché era appena morta la mamma, un cappottino nero senza guanti, senza niente, un freddo da morire.
Naturalmente mi torcevo dai dolori che avevo al ventre.
Allora un soldato ha fatto fermare il camion, ha chiesto ai Comandanti che erano in cabina se potevo andare in cabina. Gli hanno detto di no, e sono rimasta là.
Mi ricordo una cosa, abbiamo fatto Primolano, le curve di Primolano, una curva che è proprio ad esse, non si incaglia il camion proprio su quella curva là? Era di notte. Noi altri guardavamo le montagne limpide, belle, tutta questa neve in giro, e pensavamo se venissero a liberarci. Ma purtroppo il camion è ripartito.
Siamo arrivati a Bolzano. Non so se ci abbiamo messo due giorni, non mi ricordo quanto abbiamo messo, ma tanto, perché abbiamo fatto due notti in camion così.
Siamo arrivati a Bolzano che io ero proprio gelata. Poi una sete, una sete. Ci hanno fatto scendere, ci hanno allineati tutti sotto, sul muro del Comando, e dal tetto scendevano i candeloni lunghi così di ghiaccio. Io avevo una sete e guardavo questi candeloni di ghiaccio… pensi il freddo che c’era.
Poi dopo ci hanno aperto le porte, si vede che hanno preso i nomi, hanno aperto le porte di blocchi e sono entrata nel blocco.
Sono entrata nel blocco, mamma mia che impressione che ho avuto, vedere tutti questi castelli, tutte queste teste che uscivano dal castello, era tutta una testa che usciva dal castello. Questo corridoio con due file di castelli a tre piani. Insomma, io ero proprio…
Mi è venuta incontro la Maria Da Gios, la sorella di Checo Da Gios, quello che è stato impiccato con l’uncino, quello che è stato impiccato con l’uncino a Sedico, da quelle parti là.
Mi è venuta incontro lei poverina, poi là c’erano le quattro sorelle Rocco, tre sono morte, ce n’è ancora una. Mi hanno fatto posto in cima sul loro castello. Allora in cima sul castello con loro e la Maria Da Gios che faceva la spola dalla stufa, che non era nel nostro corridoio ma era nella parte di là dove c’era la Cicci, la capo blocco, la stufa.
Allora lei mi scaldava i mattoni e me li portava, e sono riuscite a scongelarmi un po’ le mani ed i piedi perché ero in condizioni… Mi hanno buttato su coperte, fatto bere un caffè.
Sì, poi sono arrivati quelli del caffè, perché io sono arrivata prima che passasse il caffè, allora ho bevuto questo caffè che era un po’ di acqua nera, sporca, così.
Dopo un po’ di tempo mi sono adattata, adattata ai gabinetti, adattata alle toilette, che era una cosa proprio esasperante.
Dopo andavo a lavorare alla galleria il Virgolo.

D: Quando ti hanno immatricolata, Tea? Hanno dato un numero a te?

R: Sì, subito. Subito, appena arrivati.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Oddio…

D: Non te lo ricordi adesso?

R: No. Ce l’ho.

D: Dopo ce lo dici. I tuoi vestiti te li hanno lasciati o te li hanno tolti?

R: No, mi hanno dato la camicia piena di pidocchi e la tuta bianca. No, mi hanno dato tutti i vestiti del campo di concentramento, mi hanno dato. Sì, per un po’ di tempo sono stata là in campo senza… Poi mi hanno detto: se vuoi vieni a lavorare, andiamo a lavorare fuori che ci danno un pezzo di pane in più.
Una mattina sento: chiusi i blocchi, chiusi i blocchi, una mattina presto, chiusi i blocchi. Ho detto: chiusi i blocchi, perché chiusi i blocchi? Ci sono gli arrivi, c’è un arrivo si vede, ho detto.
Allora io scendo, non ero andata in galleria, non ero andata a lavorare quella mattina. Quella mattina non avevo voglia di andare a lavorare e sono rimasta a dormire. Chiusi i blocchi. Io scendo, il blocco l’avevano chiuso con le catene, però la porta non chiudeva bene ed in fondo io riuscivo a guardare fuori.
Guardo fuori e vedo il primo, uno di Trichiana. Guardo il secondo, è un altro di Trichiana. Guardo il terzo ed è anche quello di Trichiana. Insomma sono quattro, tutti e quattro di Trichiana.
Faccio in modo che mi vedano, allora si sono accorti di me e con le labbra ho fatto: Aldo… mio fratello? E loro hanno fatto no.
Li stavano rapando completamente a zero. Li stavano… Era Ugo Somacal, uno si chiamava Brancher, Bertino ed Arturo Bonetta. Poi Arturo Bonetto è morto, si è preso la tisi ed è morto poverino, sì.
Pensi che questi qua sono stati chiusi, sono stati messi sui vagoni che dovevano andare in Germania, e Pippo invece aveva rovinato strade, aveva rovinato ferrovie, aveva rovinato tutto, e dopo quattro giorni li hanno riportati.
Questi ragazzi che sono tornati in campo prima di partire avevano lasciato l’acqua là, avevano lavato dei panni. Quando sono tornati hanno vuotato bevendo tutta l’acqua sporca che hanno lasciato là dalla sete che avevano. Leccavano i muri dove c’erano delle goccioline d’acqua, dell’umidità, dalla sete che avevano.

D: Tea, quando ti hanno selezionata per mandarti al Virgolo a lavorare?

R: L’ho deciso, mi sembra di averlo deciso io. Ho deciso io, sono uscita ed andata al Virgolo con tutta… Sono entrata nella fila con tutti quelli che andavano a lavorare. Non so se l’ho detto alla Cicci che andavo a lavorare, può darsi che l’avessi detto alla Cicci, che era la capo blocco.

D: E dal campo al Virgolo andavate a piedi o vi portavano?

R: In principio siamo sempre andati a piedi, in principio. Poi dopo ci portavano con i camion, ma in principio attraversavamo tutta la città di Bolzano a piedi, attraversavamo. Tutta la città di Bolzano a piedi.

D: E lì nel Virgolo cosa facevate? Cosa facevi tu?

R: Io facevo, lavoravo ai cuscinetti a sfera. Allora facevo il sabotaggio, perché quando dovevo lucidarli esternamente li lucidavo poco, in maniera che tornavano indietro, e quando dovevo lucidarli dentro li tenevo sotto la macchina tanto in maniera che poi le palline dentro le dovevano scartare per forza.
Il capo, che era uno di Ferrara, perché era una fabbrica di Ferrara, era stata portata là al Virgolo, una fabbrica di Ferrara, mi diceva il capo là: attenta Tea, stai attenta perché se ti prendono ti fucilano.
Poi al Virgolo è successo un bombardamento. Non so come mai due ebree sono riuscite, non so da chi, hanno avuto due triangolini rossi ed hanno tirato via il loro giallo, perché loro non potevano andare a lavorare, gli ebrei non potevano uscire, però non so come hanno fatto, questo, hanno messo su i triangolini rossi e sono venute fuori.
Quel giorno c’è stato un gran bombardamento su tutte e due le porte, su tutte e due. Non so se prima hanno bombardato davanti e poi hanno bombardato dietro. I tedeschi hanno una paura delle bombe tremenda.
In quel bombardamento davanti uno dei capi ha perso un braccio, che è quello del frustino, che frustava sempre tutti, e dietro sono sparite le due ebree. Erano d’accordo, si vede che il bombardamento era stato organizzato, era stato organizzato tutto, perché dopo due giorni abbiamo avuto notizie che erano già in Svizzera. Sicché loro si vede che sono andate verso la porta dietro, dietro c’era qualcuno che le aspettava, mentre bombardavano davanti, perché prima hanno bombardato dietro e poi hanno bombardato davanti, allora loro sono andate verso il dietro e sono scappate.
Quando ci hanno messe in fila si sono accorti che sono sparite due ebree, mamma mia, mamma mia non so se ci hanno tenuti senza mangiare, non mi ricordo, però una punizione ce l’hanno data.

D: Ecco, Tea, vi portavano al mattino e tornavate alla sera?

R: Sì.

D: Non stavate là a dormire al Virgolo?

R: No, il Virgolo era una galleria con dentro questa fabbrica, con tutti i macchinari, con tutti i reparti, reparti per ogni lavoro ecco. I tedeschi, c’erano i tedeschi dentro. Ci portavano alla mattina e ci portavano indietro alla sera.

D: Quanto tempo sei rimasta lì al Virgolo a lavorare tu?

R: Dunque, al Virgolo a lavorare sono rimasta fino a marzo. Dirò, per spiegare il perché mi hanno portato a…
Devo fare un passo indietro e parlare di mio fratello Aldo.
Io avevo scritto una lettera a mio fratello Aldo dal campo di concentramento, dove dicevo tante cose del campo di concentramento, della spia della Paola, tantissime cose. Dopo parlavo anche, ma scritta in maniera non esplicita, doveva esserci una spiegazione mia a tutti gli argomenti, ma mio fratello teneva conto dei principali argomenti, e poi dovevo io…
Tra l’altro io ho chiesto se il nascondiglio funzionava ancora a casa mia, so che erano dentro i tedeschi, che avevano portato quelli della Wehrmacht, cioè avevano portato quelli della Todt a dormire là, perciò il nascondiglio credo che non servisse più. Però ho parlato di questo nascondiglio su sta lettera.
Mio fratello, c’è stato un grande rastrellamento, lui alla sera, al 5 sera lui, il suo Maggiore, il Maggiore Ceppel, con il Maggiore Benucci, inglese, si sono trovati a Sant’Antonio Tortal. Benucci era accompagnato da un ragazzo di loro, e mio fratello era con il suo Maggiore. A mezzanotte mio fratello era andato a dormire, si sono ritirati, i due Maggiori sono andati insieme alla casera in cima, Cima di Mel, ed Aldo con Brancher sono andati giù alla Casera Bolenghin più giù, molto più giù.
Alle cinque del mattino sentono una voce: ragazzi, siete circondati, siete circondati, siete circondati. Allora svelti – svelti saltano giù perché questa casera era fatta in modo che qui c’è una scala, qua guarda la montagna. Il Maggiore Benucci… Quelli che li hanno svegliati alla mattina alle cinque non sanno chi siano, erano una voce che ha detto: siete circondati dai tedeschi. Loro sono scesi immediatamente e sono andati alla porta della cucina, che era di qua. Entravano dalla cucina e qui salivano per una scala ed andavano sopra a dormire.
Allora svelti sono scesi, hanno spalancato la porta e lasciato tutto aperto così giù per questa scala e sono entrati nella cucina. Mio fratello ha detto: io devo andare ad avvertire la mia missione. No, fermati qua, non muoverti, non volevano lasciarlo andare. Lui si è messo la sua tuta bianca, perché era tutto vestito di bianco perché c’era una neve spaventosa.
C’è una valle là, una valle che non saprei come definirla, dicono che bisognerebbe andarla a vedere perché è straordinaria. Ha dei massi enormi, dei cunicoli. Una cosa non saprei come dirla, perché è piena di anfratti, è strana, una cosa molto strana. In mezzo c’è questo piccolo torrente che viene giù da questa montagna.
Allora mio fratello va su, arriva esattamente nel momento in cui lassù si stanno sganciando, perché una staffetta che è arrivata da Sant’Antonio li aveva già avvertiti che erano circondati dai tedeschi. Allora viene giù e cerca di… Prende l’arma del Maggiore Ceppel, un bazooka, e corre insieme ad un altro Maresciallo, e corrono giù per questa valle. Vanno a nascondersi, cercano di scappare ai tedeschi.
Quando sono arrivati giù in una valle si sono fermati, trafelati tutti e due perché a correre per portare questa mitraglia… Allora il tedesco che si era guardato in giro, non il tedesco, il Maresciallo americano che si era guardato in giro aveva visto un posto che era come.. non so dire, un pianoro, dove c’erano degli alberi che lo coprivano. Là potevano nascondersi.
Sta dicendo a mio fratello: guarda, guarda quel posto là è il posto bellissimo dove possiamo nasconderci tutti e due. Si volta per chiamarlo e non lo vede più. Lo vede che sta risalendo la salita. Sta risalendo la salita. Lo chiama: Aldo, Brauni lo chiama, perché il nome in inglese di battaglia, il nome che aveva prima mio fratello di battaglia era Nuvolari, Nuvolari perché era…
Pensi che ha portato via un camion che con le due ruote dentro stava in cima sulla strada, e quelle fuori erano fuori dalla strada, lui riusciva a portare il camion in montagna. Riusciva a portare. Lo chiamavano Brauni.
Adesso ho perso il fio…

D: Che lui stava scappando…

R: Lui non stava scappando, stava rimontando la collina, dove in cima poco prima aveva visto passare due tedeschi. Lui stava rimontando la collina e non ha dato retta al suo Maresciallo, non ha dato retta.
Questo Maresciallo ha cercato di salire l’altra collina dall’altra parte per vedere se lo vedeva, ma non ha più visto niente, allora è andato a nascondersi sul suo nascondiglio ed è rimasto là quieto.
Dopo un po’ lui sente il colpo di bazooka. Mio fratello si era portato si vede in direzione che in linea d’aria poteva arrivare alla Casera Bolenghi dove c’erano i cinque, c’erano tre italiani e due inglesi dentro. Di fatti ha sparato un colpo di bazooka.
Dentro in questa casera uno degli italiani stava guardando fuori dal finestrino da questa parte qua, dalla parte verso Trichiana diremo. Vede i tedeschi che stanno venendo su dalla collina, stanno venendo su con il mitra, e stanno per puntare, si avvicinano alla porta, stanno per sfondare la porta, mentre arriva il colpo di bazooka.
Cosa fanno i tedeschi? Si buttano a terra ed a carponi girano la casera, si portano sul davanti per vedere da dove veniva questo colpo di bazooka. Non hanno più toccato la cucina. Non sono più andati dentro.
Questo che spiava fuori da questa parte qua pian pianino contro il muro si è portato dalla parte di qua, dove c’era un’altra feritoia, un’altra di quelle finestre da montagna, ha guardato fuori anche lui perché lui ha detto subito: questo è Elio, questo è Aldo. Questo è Aldo, sono sicuro che è Aldo. Di fatti lo vede che scende giù su una stradina scoperta, per niente nascosta, e che zoppica. Perché lassù lui aveva sentito il colpo di bazooka, l’americano, poi dopo ha sentito un altro colpo. Si vede che i due tedeschi che erano lassù gli hanno sparato sulle gambe. Di fatti aveva una gamba ferita.
Hanno visto Aldo venire giù e si è appoggiato ad un albero ed è caduto, scivolato perché si vede che non ne poteva più, poi si è rialzato ed è corso in un’altra casera che era di fronte a quella dove c’erano i cinque. Proprio quasi una di fronte all’altra, qui c’è il torrentello che passa e sono una di fronte all’altra.
Lui aveva due bombe a mano, ha tirato anche le due bombe a mano dalla parte all’altra casera per attirare l’attenzione su di sé. Poi è tornato di qua. Purtroppo sopra la sua testa c’era un nucleo di tedeschi, c’era un comando tedesco ed hanno cominciato a sparare, a sparare, ed anche lui a sparare perché aveva la sua rivoltella. Il bazooka non l’aveva più, però aveva la sua rivoltella, le rivoltelle americane.
Ha ferito un tedesco che poi è morto, abbiamo saputo che è morto. Dopo questo combattimento lui lo volevano vivo, non lo volevano morto, lo volevano vivo, e volevano che finisse le munizioni. Però io sono sicuro che l’ultimo colpo se l’è sparato. L’ultimo colpo perché l’ultimo colpo se l’è sparato lui, sono sicura perché me l’aveva già detto: a me la corda non la metteranno mai. L’ultimo colpo che ho qua sarà mio.
Di fatti così ha fatto.

D: Tea, quando tu hai scritto quella lettera dal campo di Bolzano a tuo fratello, la lettera non è mai arrivata?

R: La lettera l’aveva sulla pancia mio fratello, assieme a tutti i soldi della missione, della missione americana. Aveva un gran pacco di denaro, perché hanno portato via anche tutto il denaro, un po’ uno, un po’ l’altro si sono portati via tutto il denaro, e la lettera ce l’aveva in mezzo a…
Questi che hanno trovato la mia lettera poi dopo niente… Sulla lettera dico a mio fratello: non mandarmi tutti i pacchi via clandestina, mandamene qualcuno con il mio numero di matricola, che il numero di matricola è 8934.
Ecco, mi hanno preso come prendere una mosca nel latte. Mi hanno preso. La tedesca, la lettera l’hanno mandata, quando hanno preso la lettera l’hanno mandata si vede al Comando a Belluno, il Comando a Belluno ha telefonato a Bolzano immediatamente, ed il giorno… non so, questo è successo il giorno 6, io penso che il giorno 7 erano già là. Il giorno 7 a mezzanotte è passato il Comando tedesco con la Tigre, che era una donna, con la Tigre, noi la chiamavamo Tigre, che passava ed a tutti guardava il cartellino.
Quando è arrivata a me che ha visto il cartellino ha dato uno strappone, l’ha tirato via e mi hanno portato via. Mi hanno portato al Corpo d’Armata.

D: Il 7 di che mese però, Tea?

R: Marzo, marzo.

D: Ti hanno portato al Corpo d’Armata a Bolzano?

R: A Bolzano. Prima mi hanno portata al Comando del campo di concentramento, e là naturalmente io non capivo una parola. Dopo mi hanno portato al Corpo d’Armata. Al Corpo d’Armata giù, sotto quel sotterraneo là, il giorno dopo al mattino alle 9 sento diversi passi sul corridoio e mi portano nella sala di tortura, che è più in fondo.
Là hanno incominciato a torturarmi. Hanno incominciato a torturarmi, allora mi hanno messo allo spiedo, allo spiedo. Mi hanno legato le mani così con del filo di ferro, le mani diritte con il filo di ferro, poi me le hanno infilate sulle ginocchia, infilate sulle ginocchia, e tra le mani e le ginocchia mi hanno passato un ferro. Poi mi hanno alzata, mi hanno messo su una scala a pioli, una scala doppia così, ed io rimanevo là con le gambe e la testa in giù.
Là hanno incominciato ad interrogarmi. Mi hanno interrogato.. scosse elettriche. Erano in due con una corda di bue, l’impugnatura grossa e poi fine – fine che mi bastonavano. Si mettevano in posa con le gambe larghe e giù botte, e giù botte.
Allora mi facevano in qua con le scosse elettriche, oppure mi facevano perdere i sensi con le scosse elettriche e mi facevano in qua con le bastonate. Finché… Volevano sapere se mio fratello era un Comandante, perché loro erano fissati che Aldo era un Comandante. Perché con tutta questa roba che aveva addosso, era tutto vestito d’americano, perché era tutto vestito d’americano, credevano che fosse un Comandante. Invece mio fratello non era un Comandante, era il fac-totum del Maggiore Ceppel sì, perché lui essendo perito edile, perito meccanico era, conosceva un po’ l’inglese, conosceva un po’ il tedesco perché allora studiavano il tedesco, non si studiava…
Tra tedesco, inglese ed italiano si capivano, ecco. Così.

D: Lì al Corpo d’Armata sei rimasta fino a quando?

R: Là mi hanno torturato finché basta, poi mi hanno tirato giù, quando mi hanno messo per terra… Perché quando non ne potevo proprio più, perché continuavano ad insistere: suo fratello è un Comandante, ad un certo punto ho detto sì. Allora mi hanno tirato giù e mi hanno messo giù, mi hanno messo per terra.
Suo fratello allora era un Comandante? No, ho fatto io. Non mi hanno rimessa su? Mi hanno rimessa su, mi hanno riappesa e botte ancora. Fino a che…
Durante l’interrogatorio volevano sapere il nome dei partigiani, allora ho dato i quattro nomi dei partigiani che erano in campo, perciò sono in campo e quelli non possono fargli più niente. Volevano sapere altre cose, allora del nascondiglio?
Io gli ho detto per filo e per segno dove è il nascondiglio, perché ero sicura che nel nascondiglio non c’era più niente. Per filo e per segno ho… Loro credevano che io avessi incominciato a parlare, erano tranquilli perché io ormai avevo cominciato a parlare. Queste due verità sì, insomma, per loro sono state sufficienti. Dopo hanno continuato sempre con Aldo, Aldo, il Comandate Aldo, era un Comandante.

D: Ma quando ti hanno liberata?

R: Niente, poi mi hanno portato in cella perché io non ricordo niente, mi hanno buttato in cella e là io non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, sentivo solo quando chiudevano ed aprivano la porta, e basta. Là sono rimasta diversi giorni, fino a che si è interessato il Vescovo Bordignon che ha chiesto al Comando di Belluno dove fosse la tal prigioniera, tal dei tali.
Allora svelti – svelti dalle celle del Corpo d’Armata mi hanno riportato alle celle del campo di concentramento. Ho fatto cella chiusa, il campo di concentramento, fino al 3 Maggio. Al 3 Maggio. Sono stata liberata il 3 Maggio. Ho una fotografia della Nella che scrive che… nel meraviglioso giorno della nostra liberazione, 3 Maggio 1945.

D: Poi cosa hai fatto? Quando ti hanno liberata cosa è successo?

R: Quando mi hanno liberata… No, ero là che aspettavo che mi liberassero, la Croce Rossa, ma non chiamavano mai il mio nome. Non sono venuti due soldati armati a prendermi e portarmi via dal campo di concentramento? Io ero sulla porta delle celle che aspettavo, di qua tutti andavano fuori 50 alla volta. Io ero là sulla porta che aspettavo, mi capitano due soldati armati e mi portano via. Mi portano al Corpo d’Armata un’altra volta.
Allora la Nella, che aveva saputo, non so come perché non era ancora finita la guerra e là c’era i partigiani, però un po’ nascosti. Quando hanno saputo che ero stata portata al Corpo d’Armata erano già pronti per intervenire se io non fossi uscita.
Sa cosa voleva il Comandante? Mi ha chiesto se in cella avevo parlato con qualcuno di quello che mi avevano fatto. Io non ho parlato con nessuno, sono sempre stata in cella segregata, come facevo a parlare?
Guardi dice, che se lei parla e racconta a qualcuno quello che noi le abbiamo fatto noi saremo sempre sulle sue tracce e la uccideremo in qualsiasi momento.
Io sono venuta fuori e non sapevo dove girarmi. Io so che mi sono trovata senza conoscere le strade, senza conoscere niente, senza… Mi sono trovata davanti al campo di concentramento, davanti alla porta del campo di concentramento. Dentro c’erano ancora due dei miei compagni. Ce n’erano ancora due.
Mi sono seduta là sul prato ad aspettare. Mi si avvicina un uomo che viene su da… Io non ho osservato, là c’erano i campi, alberi di tutte le sorti. Mi si avvicina uno e mi dice: era in campo di concentramento? Sì, ero in campo di concentramento. Di dove è? Di Belluno. Credevo fosse italiana.
Sono saltata in piedi e questo ha preso la via dei campi… Mi sono guardata intorno, vedevo che tutte le macchine arrivavano ed andavano giù per i campi, erano tutti fascisti che scappavano. Erano tutti fascisti che scappavano.

D: Tea, ma quando sei arrivata a Belluno tu?

R: Noi siamo partiti a piedi, siamo andati con la Nella ad Ora, poi abbiamo preso il trenino e siamo andati a Predazzo, a Predazzo ci ha ospitati lei e là abbiamo combinato che c’era una galleria che portava fuori su Fiera di Primiero. Siamo arrivati a Feltre il giorno dopo perché abbiamo dormito a Fiera di Primiero da qualche parte, e poi siamo arrivati a Feltre.
Io a Feltre dicevo ai ragazzi: sbrigatevi, andiamo a casa, andiamo a casa, perché io ho i miei fratelli e voglio vedere Aldo, voglio vedere Aldo, partiamo.
Ci incamminiamo, fuori dalle porte di Feltre incontriamo due di Trichiana, io mi fermo, loro si fermano, e ci chiedono… La prima cosa, Aldo? Dov’è Aldo? L’ha visto? Vedo che questo alza gli occhi e guarda sopra la mia testa. È diventato pallido.
Io mi giro e c’è Bertino dietro di me che gli fa segno che io non so niente. Allora mi dice, l’unica cosa che ho chiesto: è stato impiccato? No, mi hanno detto no, è morto in combattimento.
Poi io non ho più parlato fino a Trichiana, ero di ghiaccio. Finché mio fratello piccolo ha sentito che era in arrivo la sorella dal campo di concentramento, è venuto di corsa con la sua biciclettina piccola, è saltato dalla biciclettina, è saltato sul carro, ci avevano mandato il carro, e così sono tornata a Trichiana.

Pianegonda Noemi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Noemi Pianegonda, sono nata a Valli del Pasubio, 30/11/30.

D: Noemi, la tua famiglia era, la famiglia in cui si appoggiava il regime fascista, oppure?

R: No, era appunto, io sono cresciuta in una famiglia dove, vorrei dire, l’ho sempre respirata quest’aria antifascista, anche il papà è stato perseguitato dal fascismo, non ha mai preso la tessera né il distintivo, che allora era quasi obbligatorio per poter avere un lavoro. Lui si è adattato a fare tutti i lavori, però non ha mai accettato quest’imposizione, quindi io l’ho respirata da bambina quest’aria, non è come si suol dire, dalla sera alla mattina io ho fatto da staffetta partigiana, che me lo sia sognata.
C’è un qualcosa dietro, che me la sono portata come una ricchezza, un patrimonio di cultura, di storia. Papà era così, col tempo abbiamo capito di più le cose, e quindi, la mia famiglia è stata così. Un papà meraviglioso.

D: Tu sei nata nel 30, quindi nel 44 avevi?

R: Ho compiuto 14 anni in carcere.

D: Che cosa succede nel novembre del 44?

R: Il 18 novembre, di sera hanno arrestato mia sorella, io sono stata arrestata il 19 mattina, 18 novembre del 44, era di sabato.
Io mi trovavo in Collegio, perché facevo la terza media, dalle Canossiane a Schio.

D: No scusami, il microfono.

R: Va bene?

D: Sì, sì.

R: Io mi trovavo in Collegio dalle Canossiane a Schio.

D: Scusa.

R: Una domenica mattina, il 19 novembre, che era di domenica, come tutti, si andava a messa, alle sei e mezza si sente suonare una scampanellata, la chiesa dell’Istituto era anche vicino alla portineria.

D: Che Istituto era?

R: Istituto Canossiane, le Suore Canossiane, io ero lì per fare la terza media, il terzo anno.

D: A Schio?

R: A Schio.

D: Mentre la famiglia?

R: La famiglia viveva a Sant’Antonio, allora non c’erano le scuole medie nei paesi come adesso, era l’unico mezzo per poter continuare.
Sentiamo questa grande scampanellata alle sei e mezza di mattino, e va bene così, poi viene una suora e mi dice: ” Noemi” e mi batte sulla spalla: “ci sono due signori che ti vogliono in portineria”, e gli dico: “Ma chi sono questi due signori”, e dice: “Non lo so” le dico: “Chiami la Direttrice” dico “perché la suora portinaia, non è responsabile di noi educande”. Noi eravamo le educande lì dentro. Viene la Direttrice e dice: “Assisto anche io, cosa vogliono” loro dicono, che sono amici di mio fratello. Due signori vestiti molto bene, che poi avrò modo di conoscerli in carcere per gli interrogatori, mi dicono che sono amici di mio fratello, però sono andati a Sant’Antonio dalla famiglia e non l’hanno trovato, loro hanno estremo bisogno di parlare con lui, per mettersi in contatto.
Io, già preparata un po’ dal papà, anche dalla mamma, dalle sorelle, gli dico: “Guardi che io dal 1 ottobre” allora, s’incominciava la scuola il 1 ottobre ” è da Ottobre” dico “che io manco da casa, non so mio fratello…”. ” Ma non è possibile” dico: ” Non lo so” dico, “studiava a Vicenza” ” Si ho cercato”, ” Non lo so veramente”.
Allora questi due dicono alla Madre, sì, la Direttrice, si chiamavano Madri le Canossiane, e dice: “Allora Madre ce la dà, la bambina, che la portiamo su dalla mamma, così confrontiamo se dice il vero”. E lei, era la sorella dell’Onorevole Cappelletti di Vicenza, che poi è stata anche Onorevole, era una suora sveglia. Dice: “No, mi spiace, se io non ho un permesso scritto, un’autorizzazione scritta dalla mamma, dice, io la bambina non ve la do, a me è stata consegnata, e qui rimane”.

D: Ci puoi descrivere questi due signori, che erano venuti?

R: Erano, uno grande, magro, con dei baffi, pallido di viso, me lo ricordo, con dei baffetti neri. L’altro, invece, era più robusto, più piccolo, con un accento spiccatamente fiorentino, proprio, tutte e due, mi ricordo, col cappotto blu, sia perché noi l’avevamo come educande, che era la nostra divisa il cappotto blu, mi ha fatto specie vedere, già eravamo in tempo di guerra, si vedeva ben poca gente vestita bene, con la camicia bianca, cravatta, tirati a lucido, diciamo. Questi erano i due, che poi erano i due famosi, che hanno arrestato l’Adriana, Vallì, la mamma e che poi ci siamo ritrovate in carcere.
È passata così la domenica, in apprensione dico: “Chissà che la mamma possa telefonare”. Non sapevo, le suore disperate, dice: ” ma cosa è successo?” ” Non lo so, io non volevo dire Walter di qua, anche se dico che è in montagna, come faccio a sapere dov’è” lo dicevo fra me questo.
Non so niente di Sant’Antonio, da lassù nessuno.

D: Noemi forse bisogna dire qualcosa prima? Tu hai detto, ho fatto la staffetta partigiana.

R: Sì.

D: Che cosa significa?

R: Significa, portare degli ordini a mio fratello che era un Comandante partigiano, all’altro Comando portare degli ordini, di spostamenti, notizie, piccoli messaggi ma che erano importanti, perché c’era un collegamento fra loro, almeno quello che capivo io. Dicevano, guardate che c’è un rastrellamento in corso a Posina, diciamo, allora dovevano spostarsi, oppure, guardate che viene su qualcuno a trovare, lo so, erano volte che poi io, non aprivo quasi mai neanche i biglietti che mi davano.

D: Quindi, tu portavi dei biglietti di carta?

R: Dei biglietti di carta.

D: Quanti anni avevi?

R: Tredici.

D: Quando facevi questo…?

R: Sì, perché i quattordici li ho fatti dentro.

D: Dicevi, che tuo fratello era Comandante partigiano di che Brigata?

R: No, della Garemi e della pattuglia quella di Sant’Antonio, che in pratica l’aveva quasi fatta lui, formata lui, tutti i ragazzi del paese quindi avevano una fiducia in questo, allora, a quel tempo, studiavano in ben pochi. Lui era già Perito, si era anche iscritto all’Università ai Ca’ Foscari, perché allora non era permesso andare all’Università, l’Istituto Tecnico Industriale non permetteva di accedere ad altre Università, era aperta solo Economia e Commercio che potevano andare.
Intanto è venuto l’8 Settembre, e quindi, non ha potuto più frequentare, i ragazzi della sua pattuglia avevano una fiducia, perché quello che diceva lui, erano convinti: ma se lo dici tu Walter, va bene, con l’entusiasmo che avevano diciotto vent’anni, ecco questo è stato.
Io continuavo, mi ricordo che da Sant’Antonio a Malunga è un bel tragitto, sono quasi due chilometri in mezzo ai boschi, l’ho fatta anche quattro volte una volta, quando c’era in vista il famoso rastrellamento, che poi è stato grosso veramente.

D: Quand’è stato, quello…?

R: È stato quello, il 17 giugno del ’44.

D: Dov’è avvenuto?

R: È avvenuto a Posina, ma, le truppe che avevano visto, le notizie che arrivavano, non dicevano, sono diretti là, erano dislocate da Schio un po’ a rastrello, diciamo, quindi le notizie non potevano dire vanno a Posina.
Allora, no, hanno visto più movimento di là, allora corri su a dirlo, poi torna, poi hanno cambiato.
Lo facevo qualche sera quando era buio, allora qualche partigiano mi accompagnava fino ad un pezzo di bosco, dove in cima al bosco vedevo giù Sant’Antonio, il mio paese, avevo anche paura, insomma.

D: Noemi, chi li faceva questi rastrellamenti?

R: C’era…

D: Tu lo sai?

R: Sì, c’era la Wehrmacht, poi c’era un commando, che adesso io non lo so, perché a quel tempo, sia perché non avevo ancora capacità come adesso di capire, c’era un commando di russi a Marano Vicentino, insieme a questi rastrellamenti mettevano dentro anche questo, sarà stato, trenta o cinquanta persone di russi, che si erano dati, e che quelli menavano.
Questi sono stati feroci, hanno detto nelle contrade, dove c’è stato il rastrellamento, perché hanno incendiato, in pratica quasi una vallata e di là.
Quel rastrellamento del 17 giugno, hanno bruciato case, morti, e così.
Dicevano che c’erano questi russi che erano dislocati a Marano Vicentino, dopo di più, io non so.

D: Questo rastrellamento, tu sai se per caso era in relazione a qualcosa, perché è avvenuto questo rastrellamento?

R: Perché…

D: Perché è noto?

R: Perché loro sapevano, loro dicevano che sapevano che quella zona del Pasubio e di Posina, praticamente fa corona così, Pasubio e Posina, dicevano che era infestata dai ribelli anche perché, dicevano i ribelli loro giustamente, perché i partigiani nostri quando passava qualche macchina la sabotavano come sempre, quindi c’era sempre qualche atto di sabotaggio, e questo dimostrava che c’erano dei controlli, solo che loro non sapevo quanti erano i partigiani, erano pochi. Una volta succedeva qua, diciamo, una sparatoria, un’altra succedeva là, quindi dava l’impressione che fossero in tanti, poi si chiamavano, avevano questa furbizia, io ridevo allora. Ehi pattuglia, pattuglia C, pattuglia A, ecco che allora… questo sarà successo poche volte, però ha dato l’impressione ai tedeschi, che fossero tanti, invece…

D: Mi spieghi cosa vuol dire ribelli? Hai detto ribelli, chi sono?

R: Sono ragazzi, che non avevano accettato di andare sotto, dopo l’8 Settembre di arruolarsi nella Repubblica, parecchi sono stati anche i militari che avevano disertato dopo l’8 Settembre, che non si sono più presentati, anzi, il primo Comandante Partigiano della Garemi, è stato un certo Sergio, nome di battaglia, era Attilio Andretto di Bevilaqua, Verona. Era un tenente degli alpini che era scappato via, non mi ricordo da dove se da Verona, dov’era di servizio o verso la Valdosta, ed era arrivato dalle nostre parti, dietro lui si era portato un altro militare. I primi vorrei dire sono stati proprio i militari che si sono nascosti in montagna.

D: Quindi i ribelli sono i partigiani?

R: Sono i partigiani.

D: Torniamo al 19 novembre del ’44.

R: La domenica è passata così. Dopo lunedì, martedì, mercoledì, adesso non ricordo, se sia stato il 21 o il 22, ricordo che era di giovedì mattina si ripresentano un’altra volta questi due signori con un foglietto della mamma, con scritto di consegnare la bambina, Noemi Pianegonda, a questi due signori, firmato la mamma.
La suora piangendo è andata a prendermi il cappotto, i miei compagni sono venuti fuori e mi hanno abbracciato “Noemi vedrai che torni” io non capivo neanche cos’era. Monto in macchina con loro, ed era una vecchia Balilla, vecchia diciamo adesso era una Balilla nera, monto in macchina e mi portano a Sant’Antonio.
Credo che mi portino a casa mia, e invece prima di casa mia una volta c’era una trattoria, c’è ancora adesso, ma l’avevano requisita per fare il Comando Tedesco, c’era una compagnia tedesca a Sant’Antonio, i tedeschi, e mi fanno andare lì. Naturalmente che proprio fra casa mia e questa casa ci saranno tre metri di distanza, mi affaccio alla finestra e vedo la mamma che attraversa la casa e va nel cortile, l’ho vista andare in magazzino, dalla finestra l’ho vista, non potevo chiamarla perché era pieno di tedeschi, sotto nel magazzino, avevano adibito la mensa, la cucina per questa compagnia tedesca, che c’era a Sant’Antonio. Al giovedì, questo.

D: In macchina, questi due ti hanno detto qualcosa?

R: No, mi hanno detto:” Vedrai che adesso troverai la mamma” dicevano “e troverai anche tuo fratello”, io dico, ripeto ” Io non so niente” dico, proprio non lo so, ripeto. Ma gentilissimi loro, proprio, uno mi accarezzava le ginocchia, uno le mani, erano proprio, uno davanti e uno seduto con me.
Il giovedì mi vengono a prendere, ho dormito lì in questa stanza, con una brandina e lì vogliono sapere ancora ” Guarda che abbiamo arrestato, noi siamo della SD” dice ” noi abbiamo arrestato le tue sorelle, che sono già in prigione, domani” dice “partirà anche la tua mamma, e se tu non ci dici dov’è tuo fratello e il papà” dice “farai la stessa fine anche tu”. Io ripeto che non lo so, piangevo, mi portavano una ciotola di qualcosa da mangiare e guardavo fuori se vedevo la mamma.
Venerdì mattina, invece sento un rumore, guardo in strada e vedo un camion carico, noi avevamo un negozio di generi alimentari, carico d’ogni cosa che cera dentro nel negozio, ed era inverno, l’inverno del 44 è stato molto nevoso, tanta neve e freddo, in cima al camion seduta c’era la mamma, che me la ricordo ancora, questo paltò marrone quel collo di volpe che ce l’aveva lei, così la vedo e la saluto, e lei mi guarda, il camion è partito verso il Passo, ed è andato a Rovereto, e lì è andato al carcere.

D: Lei è andata in carcere con tutta la roba requisita?

R: Sì. Quella non si sa dove l’abbiano portata, la mamma l’hanno portata.
Io invece, sono partita il pomeriggio. Sono partita il pomeriggio, sempre con la stessa macchina e con una ragazza che avevano arrestato di Valli del Pasubio, suo papà era un partigiano, ma io la conoscevo di vista era già tre anni che ero in Collegio non è che conoscessi tutti del paese, di vista, dico: ” Anche tu” dico ” E sì”.
Io sapevo che aveva il papà partigiano, ma proprio un partigiano autentico, e non ci stavamo in macchina allora ho dovuto sedermi sulle ginocchia di questa ragazza, di questa Antonietta, di là un tedesco e andiamo verso il Passo.

D: Quale Passo?

R: Passo del Pian delle Fugazze, e vedo che tutti e due tirano fuori la pistola.

D: Antonietta a Pianalto?

R: No, i due della SD

D: No, l’Antonietta era a Pianalto?

R: Sì, tirano fuori tutti e due la pistola, io non capivo il perché, poi invece, continuavano con la testa a girare a destra e sinistra, avevano paura che i partigiani che facessero qualche, l’ho capito più tardi, quando nel punto più freddo, andavano via velocissimo, più freddo, più stretto, più buio come strada, andavano via velocissimi, ma erano così, così proprio, dalla paura che avevano. Hanno tolto la pistola, quando siamo stati agli ultimi paesi della Vallarsa, prima di arrivare a Rovereto.
Andiamo in carcere, il direttore del carcere, prima fa entrare l’Antonietta, io sono lì, prende le impronte, io mi ricordavo dal papà che aveva fatto il Carabiniere, che diceva prendevano l’impronta, e quelle rimangono per tutta la vita nel casellario, una cosa brutta, diceva allora. Oddio, dico, anche quello fanno, io pensavo chissà cosa, e il direttore dice: “Ma la bambina” mi chiamavano bambina, perché portavo due trecce che arrivavano alle ginocchia, col nastro in testa, questo cappotto da Collegio, con i bottoni tipo alla marinara, diciamo, cappotto blu con i bottoni dorati, ed ero piccola proprio, dice: “ma quanti anni hai?” “Tredici” “quando li fai” dice “i quattordici anni?” “al trenta di novembre” allora si rivolge a loro e gli dice: “Io non posso accettarla” dice “perché c’è il regolamento, che dice che, prima di quattordici anni non possono entrare in carcere”. “Ma no, qui non ci sono leggi” dice: “Mi spiace ma io non l’accetto”, loro hanno confabulato fra loro, allora il direttore gli fa, “Mancano pochi giorni, che compie i quattordici anni, qui vicino c’è l’Istituto di Suore, se volete.”
Mi hanno portato, loro sono andati a bussare, insieme con me, all’Istituto della Sacra Famiglia che è l’Istituto Tacchi di Rovereto, un pensionato per gli anziani, con le suore. Lì sono stata fino al giorno del quattordicesimo compleanno.

D: Le suore non ti hanno chiesto niente?

R: Sì, mi hanno chiesto, sono state carine, man mano, un giorno, anzi, sono venute fuori perché hanno suonato e sono venuti loro due a prendermi e dice: ” La dobbiamo portare a Villa Maffei, a Rovereto” dice ” per un interrogatorio” dice “Possiamo venire anche noi” dice “perché la bambina” no, no, no, invece loro in due, non si muovevano mai una da sola. Io sono partita con loro due, e loro due dietro.

D: Questo prima del compimento del quattordicesimo compleanno?

R: Prima, prima, due giorni dopo, proprio, che ero lì dalle suore.

D: Villa Maffei, che cos’era?

R: Era una famosa villa, l’ho saputo dopo questa, che è dopo Piazza Rosmini in collina a Rovereto, la villa dove c’era il Comando Tedesco e della SS, che hanno detto che era famosa per gli interrogatori, per le torture, soprattutto per gli interrogatori snervanti. Mi hanno portato su a Villa Maffei, mi ricordo che c’era un caldo dentro, una giornata fredda e dentro era caldo, io col cappotto, dicevo: “Mi posso togliere il cappotto?”, sempre in piedi, vicina al tavolo.
“No, questa è una doccia che devi farla, di sudore, perché poi verranno delle altre docce” sono stata lì, l’interrogatorio era sempre quello, se sapevo, se sapevo “Non lo so”, poi dico “se fosse”, allora io mi sono lasciata dire “ma se fosse in montagna, come faccio a sapere dov’è? Come faccio”, dico “a saperlo”, “Ma lui l’avrà saputo che i suoi sono stati arrestati” ma dice ” ma, tu sai la zona dov’era” ” Non lo so” allora lì mi hanno dato quattro ceffoni, potenti.

D: Questi due che, sempre i soliti due?

R: Questi due, insieme con uno della SS, lì.

D: Erano sempre in borghese?

R: In borghese, e c’era un Comandante anche della S.S. in divisa, quello vicino, tanto che mi si è riempita la bocca di sangue, ho preso il fazzoletto e ho visto che era il dente, non spezzato, era sotto otturazione, probabilmente con due ceffoni così, che poi mi sono portata questo dente nero, una paletta davanti per vent’anni, era morto, non mi faceva male, io l’ho lasciato stare, per dire, era andata dentro una goccia di sangue, è diventato nero.
Dopo due o tre ore, due ore abbondanti d’interrogatorio, mi hanno detto: “Andiamo”, sono andata all’Istituto Tacchi, il 30 novembre, le suore che mi facevano le coccole, che mi trattavano, il 30 novembre la mattina sono venuti a prendermi e sono entrata in carcere, una cella da sola e la paura che ho avuto, no, neanche del… Adesso la faccio ridere, c’era freddo alle finestre mancavano i vetri, la neve entrava e i lettini delle celle erano fissi per terra, quindi non li potevi spostare, la neve ti entrava e ti copriva la mattina le gambe, e questo cappotto, lo tiravo su, chissà perché avevo paura dei topi, mi dice lei, quanto bambina ero insomma, questo lettino e pregavo, pregavo tanto, non sapevo fare altro. Questa pagnotta di pane, che era dura e pesante, come un chilo, questa mollica che era uno schifo, mi divertivo a fare…, mangiavo la crosta, e la mollica facevo la borsetta, l’attaccavo su per il muro, facevo un po’ di scarpe, quelle piccole cosette che può fare una bambina, io dico.

D: Eri in isolamento?

R: in isolamento.

D: A quattordici anni?

R: Sì, la fame era tanta, che dopo un mese, ho cominciato a mangiare la borsetta, la stella, il tacco della scarpa che si era sfilato, poi è anche vero, non la sentivi neanche più, si fa per dire, non si sente, l’ho sentita, ma ci si abitua anche a quello.

D: Eri in una sezione…?

R: Era la sezione donne, ma il reparto, cioè, le due celle in fondo erano isolamento.

D: Tu sapevi che le sorelle tue erano vicine?

R: L’ho capito, me l’ha detto la carceriera, me l’ha detto ma aveva una paura di parlare, povera, perché erano ossessionate anche loro da com’era il regolamento, diceva: ” C’è la tua mamma e anche le tue sorelle” oggi. Domani ” guarda che loro stanno bene” ” Glielo ha detto che ci sono anche io?” “no”.
Allora, cosa è successo, dopo quattro cinque giorni d’isolamento, mi hanno messo in un’altra cella, con un’altra signora, mi pare che fosse di Genova, la sera quando erano le cinque, dopo aver portato la minestra le carceriere aprivano le porte e nel corridoio dicevano il rosario e noi tutte rispondevamo. Io ho detto, come faccio a farmi capire dalla mamma e dalle sorelle, che sono qua anche io? Allora si diceva il rosario in latino, e io spiccavo marcatamente il latino, per farmi sentire, e l’Adriana ha detto: “Questa è mia sorella” l’ha capito, non la prima sera, magari l’avrà capito dopo, allora hanno capito che c’ero anche io dentro.

D: Perché non avevate nessuna possibilità di comunicare?

R: No, nessuna, nessuna, né aria fuori, né niente.
Il terrore era quando, sentivi il tintinnio delle chiavi, che arrivava la carceriera insieme alla SS.
Questo Comandante che ho visto su a villa Maffei, erano sempre loro della SD che interrogavano, e questa cella, andare giù nella stanza degli interrogatori, era qualcosa che stringeva, macchiata di sangue, metà muro, tutta schizzata.

D: Quindi ti portavano all’interrogatorio?

R: L’interrogatori in quella stanza, proprio, era… qualcosa, lì, sempre, e dov’era…

D: Puoi descriverci un tipo d’interrogatorio, tipo come avveniva, che cos’era?

R: Ma niente, io mi sedevo così, e loro là, poi uno magari, si sedeva sulla tavola, gambe così, come andava, ” Raccontami di tuo fratello”, “Ma mio fratello ha sempre studiato a Vicenza” e dai con questo Walter, e dai “ma il papà?” “ma il papà” il papà invece poi ho saputo da loro che è scappato quella sera che hanno arrestato loro, ma io non lo sapevo, il papà dico “io non lo so, sarà andato da parenti, non lo so dove sia andato”, “tu devi dirlo”, ma ci avevano il pallino fisso.
Anche lì mi ricordo, dice, facevano così, giocherellando il nervo di bue che avevano lì, dice “la vedi questa?”, “sì”, “lo sai che cos’è?” ” sì” dice “se tu non parli, la useremo con te”, io ” va bene” dico, “io non lo so” e allora lì, mi hanno riempito di botte, veramente, sono andata sopra che sono stata, non avevamo specchi, non avevamo niente, ma sentivo che indolenzivo dappertutto, il viso.

D: In quanti uomini contro di te?

R: Sì, due. Si alternavano, Oddio, sarà durato, cinque minuti, dieci, per me è stato un inferno. Abituata al rispetto di casa, abituata ad un Collegio dove credevo il mondo, dire la Madonna, per dire, ecco, la famiglia, dicevo, ma dove sono caduta, ma cosa è successo.
Io non pensavo neanche a me, continuavo a dire: ” Oddio ma la mamma, e la mamma?” e stato struggente, veramente, il carcere, il campo un po’ meno.

D: Nel carcere avete passato anche il Natale?

R: Sì, il Natale.

D: Si è distinto in qualche cosa questo giorno o era come gli altri?

R: Il Natale si è distinto, in quanto abbiamo avuto un mangiare un pochino più abbondante, una zuppa con dentro un po’ di carne. Da notare che la mamma era riuscita per la carceriera a mandarmi un quarto di mela, ed io assieme con l’altra, perché si divideva tutto, non la mangiavamo la succhiavamo perché durasse di più, e mi ricordo, credo, che sia durata due giorni, a Natale, appunto…
Invece a Natale io sono stata da sola, la mamma e le sorelle le hanno messe assieme. Loro hanno potuto vedere la mamma in che stato era ridotta, a loro ha detto la mamma, mi ricordo che me l’ha detto dopo, perché dice non mi date la bambina, non è giusto, dice, che la bambina viva con la mamma di un delinquente, di un ribelle, dice.

D: Dice, che vivevi con chi?

R: Vivevo con una prostituta, non è giusto, non è educativo che una bambina viva con una madre di un delinquente, un ribelle.

D: Vuoi raccontarci che cosa e successo un giorno con questa tua compagna di cella?

R: Sì, come dicevo io, con un ingenuità perché allora c’era tanto tabù
non è come adesso, una sera vengono dentro due in divisa, dice: “Tu, tutti girati dall’altra parte” mi fa, io mi giro dall’altra parte, mi ricordo che era la cella dell’infermeria, c’erano due lettini staccati, ma distanti uno dall’altro, e io mi giro dall’altra parte, naturalmente sei lì, non capivo neanche cosa fosse successo, e poi dice: “Beh, tu vai fuori, che adesso faccio io”. Lei la sentivo piangere, sentivo questo muoversi, questo… ad un certo momento mi sono girata, posso dirlo proprio, li ho visti uno sopra l’altro, mi ha sconvolto, veramente, ho detto: “Oddio, ma quello la sta picchiando” si figuri ancora, a cosa pensavo io, ma quella.
Poi è arrivato il terzo, il quarto faceva la guardia invece sulla porta, io non ho più detto niente, la mattina dico: “Cosa ti hanno fatto?” “Meglio che tu non lo sappia” dice, piangeva, piangeva e da lì è partita un’emorragia, non avevamo niente.
In Collegio, sotto ci vestivano ancora alla moda un po’ antica, portavo la camicia, lunga come il vestito, senza maniche. Ho detto: “Senti le mutande, no, la maglietta è di lana, ti do la camicia che almeno” e quella è riuscita ad infilarselo sotto, perché era imbrattata di sangue, l’acqua era gelata dentro, bene o male si è pulita, lei non ne ha mai parlato, ed io non ho più voluto parlare, lei si è chiusa e non ha più parlato, quindi è stata quello che hanno detto, che non ero degna di stare con mia madre.

D: Con questa signora di Genova c’è stata fino a quando?

R: Fino al giorno del bombardamento del carcere, poi non è venuta al campo con noi.

D: Ma ascolta, spiegaci, la bambina di quattordici anni, si può dire bambina?

R: Sì.

D: Di quattordici anni, dire in questo modo, a che cosa si aggrappa per…

R: Guardi…

D: Per non impazzire, non so, vogliamo capire.

R: Non so, io mi sono aggrappata, guarda, mi è entrata addirittura, in un certo momento, di dire: ma Dio, ma dove sei, che cosa è successo? Io non capivo, pareva proprio sconvolto completamente, l’insegnamento che avevo ricevuto in Collegio, dico: ma allora è tutto falso quello.
Il papà che mi diceva, che già mi raccontava, la sua vita militare, il suo servizio, che succedevano casi così, ma allora ha ragione il papà, ma ci sono questi casi, ma è possibile? Non so a cosa mi sia aggrappata, alla preghiera, forse sì, ho pregato tanto, che se Dio probabilmente ha ascoltato, diciamo noi che non ascolta, ma, ascolta, non va perduto niente, ecco. Dopo il bombardamento…

D: Quando è avvenuto questo bombardamento?

R: Il 31 gennaio, il giorno di San Giovanni Bosco, me lo ricordo.

D: Il 31 gennaio del?

R: Del ’45, era il giorno di San Giovanni Bosco, perché io mi ricordavo le date, così, dicevo, guarda, oggi è San Giovanni Bosco che è il protettore degli studenti, anche dicevano allora, chissà che faccia cambiare le cose.
Le carceri sono crollate, io ho avuto la fortuna di salvarmi, perché a mezzogiorno, alle undici viene la carceriera e mi dice: “Noemi, metti su il cappotto che andiamo in un’altra cella” perché la cella dell’infermeria era grande come questa, e dice “è arrivato un altro convoglio” dice “è l’unico, ma alloggiano poco, poi verrai ancora qua” e dice, “se vuoi fare, anche a meno del paltò” dice “guarda, lascialo lì, che dopo torni, e solo una questione di poco” “va bene” io dico.
Allora io parto con lei, e questa signora, e andiamo giù alla cella proprio al piano terra, al numero 2. A mezzogiorno e mezzo viene il bombardamento, non ha colpito in pieno la cella dove ero io prima, dal terzo piano ci sono stati 35 morti.
Allora lì ci hanno portato alla caserma che, la chiamano la caserma Rommel, a Rovereto, ma non era, era lo stabile solo, non c’erano dentro i militari, e ci hanno fatto alloggiare là quella notte in mezzo alla paglia, nel tavolaccio, e lì per la prima volta ho visto la mamma e le sorelle e Walter. La scena che c’è stata, credo che abbiano pianto tutti, la mamma era irriconoscibile, Walter poi, l’espressione di Walter che aveva, una mandibola di qua, un orecchio mezzo staccato, la barba lunga, ecco lì, ed il giorno dopo invece siamo partiti per Bolzano.

D: Anche due zii erano lì?

R: Anche il fratello e la sorella della mamma, perché loro pensavano che il papà, quella sera che stava per rientrare a casa, quando hanno arrestato, Vallì e Adriana, papà stava per rientrare, ma qualcuno, uno della Polizia Trentina poi deve essere stato, dice: “Valentino, non entri che c’è la Polizia” lui non è entrato, è andato per il paese, è scappato. Loro pensavano che i parenti, giustamente, avessero dato ospitalità al papà o anche a Walter, che c’era anche Walter in casa quella sera.
Quindi loro per rappresaglia hanno arrestato anche il fratello, ed è stata una sofferenza per lui ma anche per la mamma, e non diciamo di Walter, la sua serietà dopo, dice, ” Ma cosa ho fatto io”, dice “per la mia famiglia?” viene … anche questo, di dire.

D: Noemi, complessivamente, ti hanno interrogata quante volte?

R: Guarda…

D: A Rovereto?

R: A Rovereto, saranno state tre o quattro volte, non di più, dopo hanno messo, unite la mamma e le sorelle, e sono cessati gli interrogatori, anche per Vallì, anche per me, per tutti, perché? Ci siamo detti: “Ma, chissà?” avevano arrestato mio fratello, quindi il capitolo era chiuso con noi.

D: Quando è successo questo arresto?

R: Sa che lì, guarda, a casa…

D: Circa?

R: Circa, è stato qualche giorno prima di Natale, vorrei dire che fosse stato il 16, a casa ce l’ho, un 16 o un 17, prima di Natale, perché l’interrogatori erano cessati in quel periodo lì, la Vallì ne ha avuti molti di più interrogatori, io ne ho avuti meno, ma adesso non so, però hanno cessato quasi contemporaneamente, diciamo, quando hanno arrestato lui, hanno finito con noi.

D: Praticamente era dai primi di febbraio…

R: Al 2 febbraio, siamo entrati ai Lager.

D: Ma come siete arrivati da Rovereto?

R: Da Rovereto, ci hanno caricati la mattina, due per due.

D: Due per due, cosa vuol dire?

R: Due vicine, dovevamo fare le scale, ma prima di passare le scale, perché era questa caserma, questo casermone era rialzato, dovevamo scendere le scale, prima di scendere le scale una per una dovevamo mettere le mani dietro e proprio con dello spago stringevano i polsi, in una maniera, e giù. Quando siamo scesi vediamo che Walter e altri tre, anche l’ingegnere Busnelli e un altro, tre mi pare che fossero non sono con noi, non li avevano chiamati. A noi ci hanno caricato su un camion e già eravamo così stipati col telo giù.
Mi ricordo che siamo arrivati verso sera a Bolzano, non finiva più questa strada, la strada tutta buche dai bombardamenti, ed è stato una sofferenza anche il viaggio, perché io mi ricordo che avevo vicino a me Padre Maurizio che era il Cappellano del carcere, era tutto fasciato in testa dalle botte e anche dal bombardamento. Ad un certo momento è crollato, era proprio davanti a me, così in piedi, è andato giù ed è venuto la SS, quattro ne avevamo, ai lati del camion, e l’ha preso, così per la testa, con le fasce e l’ha alzato, e io l’ho sentito che ha detto: “Oddio ma questo è troppo”.
Con queste mani legate è impossibile fare movimenti, ti devi spostare con le spalle, io mi ricordo che cercavo di tenerlo su questo uomo. Ad un certo momento, perché avevano anche le pile che ci guardavano, ogni tanto, questi quattro. Un momento che non ci hanno guardati, dico: “Padre Maurizio, tiri più su le mani” essendo piccolina io magari, con i denti, dopo tanto sono riuscita a tagliarli lo spago “li tenga davanti” dico, e lui mi ricordo, che mi ha stretto la mano. Poi era venuto anche ospite a casa nostra, dopo finita…
E dico quel Padre, sentirlo dire “Ma Dio questo è troppo” mi ha fatto impressione, insomma, quando sono arrivati al campo, a me pareva di essere arrivati in manicomio, perché le torrette accese, quei fanali quando arrivava qualche convoglio, e quindi tutte le ombre parevano gigantesche, non so, vedevo deformato. Poi una porta di una baracca, che non sapevo che erano baracche, ma che si aprivano e mettevano fuori le teste “Oddio” dico, ” ma qui è un manicomio” e lì siamo state tante ore in piedi per l’immatricolazione, e dopo l’immatricolazione…

D: Come é avvenuta l’immatricolazione, cosa facevano?

R: Lì, a destra c’era, non era come l’abbiamo vista ieri, il campo, io sono stata sconvolta ieri. C’era il cancello qui, ma prima del cancello c’era un piccolo fabbricato, una casetta in muratura, e lì c’era dove venivano scritti tutti i deportati che entravano.

D: Prima di entrare dentro il campo?

R: Prima di entrare nel campo, era subito a destra, lì c’era questo ufficio immatricolazione e lì ti prendevano il nome e cognome e ti davano un triangolo col numero, e qui il tuo nome andava perso, diventavi un numero.

D: Triangolo di che colore?

R: Rosso che era politico. Perché io avevo fatto…

D: Numero?

R: 9155, io sono abituata a dire 9155. Diciamo che ha fatto un po’ ridere anche il discorso del mio triangolo rosso… ridere, parliamo di alcune persone che hanno voluto sentire “Ma cosa ci fai dentro tu deportata politica” e dico “sono, sono la sorella di un delinquente partigiano, dico” “allora portalo come onore”. Tipo Professor Meneghetti questo, ecco allora portalo con onore, no, difatti parla, io parlavo con Mario, che è il nostro presidente, e diceva di preciso non lo sappiamo, ma credo che tu sia l’unica, la più giovane deportata politica, parliamo, perché d’ebrei ce n’erano in Italia, dice almeno nell’aria di Bolzano.

D: In che blocco siete andati?

R: In blocco A e F, F lì, blocco donne, che poi di là, subito c’era il blocco E, di quelli pericolosi, che non li lasciavano uscire.

D: Quindi eri con le tue, la tua mamma e sorelle?

R: Ero con la mamma e le sorelle, sì.
Un altro particolare che vorrei dire dopo essere immatricolata, ci hanno mandato alle docce, io ritorno mi scusi se io mi riprendo, dopo taglia caso mai, la doccia, io non avevo mai visto la mamma nuda. Adesso ritorniamo indietro coi tempi, c’era quel pudore, quel modo, e mi ricordo la mamma che io l’ho guardata così, e dico: “Oddio che bella questa doccia, questo caldo” io dicevo, e la mamma mi guardava e si faceva così con le mani, quel gesto come di pudore, di nascondere, lì ci hanno dato la tuta, a me non ne hanno trovato una che andasse bene, allora mi hanno dato una camicia nera.

D: I vostri vestiti?

R: Li abbiamo lasciati la, che sono andati alla disinfezione, quindi non l’abbiamo più trovati, solo le scarpe ho trovato, e lì siamo andati ai blocchi.

D: Ci descrivi il tuo vestito?

R: Il mio vestito, il primo, io ho portato per venti giorni, questa camicia nera, proprio una camicia nera, come usavano i fascisti, col polsino, il colletto, i bottoni e fatta un po’ rotonda proprio gli spacchi, invece che gli spacchi era fatta come si fanno nelle camice che si fanno al giorno d’oggi, a me arrivava a metà gamba.

D: Poi cosa avevi?

R: Non avevo niente sotto.

D: Era febbraio!

R: Era febbraio, ma non avevo niente, avevo solo le scarpe mie, che mi ricordo, erano un paio di mocassini, fatte a mano, belle pesanti.
Poi hanno recuperato una tuta, piccola dicevano loro, ma io la giravo in su parecchie volte, lo stesso qua, consisteva di iuta grossolana diciamo, ecco, non so, fatta di canapa, color giallino, con una croce sulla schiena con un altro segno sulle ginocchia, ed il triangolo che bisognava portarlo qua.
Anche la storia del triangolo, sembra facile dirlo, ma bisognava attaccarlo, con che cosa? Non c’era né filo né ago, bisognava farlo, e con che?
Gli uomini dei blocchi di là, che stando dentro tutto il giorno, avevano imparato anche qualche cosa, avevano costruito un ago di legno, fine, fine, e così con dei capelli, mi ricordo, coi capelli delle mie trecce mi hanno cucito il mio triangolo.
Altrimenti erano botte, se non avevi il triangolo.

D: Ci parli delle condizioni sanitarie all’interno del campo?

R: Non sarebbero neanche da dire, non esistevano.

D: Il gabinetto, la latrina, la doccia?

R: La latrina c’era, doccia no, c’era un lavello lungo tipo abbeveratoio per i cavalli, usciva, non è che mancasse l’acqua però, l’acqua c’era, pochina ma c’era questo filetto d’acqua che veniva fuori, scorreva via e andava giù nella latrina, che di là c’era la latrina quindi portava anche via.
Non avevi un asciugamano, non avevi niente, né un sapone, né un pezzo di straccio da asciugarti.

D: La latrina com’era?

R: Era un fossato, e ti appoggiavi sopra, stare attenta di non cadere, e l’acqua dal lavello passava, qui c’era l’acqua che veniva fuori e di qui c’era la latrina, quindi l’acqua passava dalla latrina e portava via, diciamo.

D: Quindi era a cielo aperto?

R: A cielo aperto.

D: Non avevate una tettoia?

R: No, era nella tettoia, ma era, diciamo verso il muro, qui c’era il blocco e di là c’era questa porticina e c’era questo, diciamo, questo lavatoio, e ti lavavi così.

D: E pulirsi.

R: È stato il disagio più grosso che io abbia avvertito oltre la fame, che poi la fame, guardi, non è vero che… non la sentivi più, era diventata talmente, sentivo gli odori, ma proprio, l’acqua in bocca, dicevo, Dio che fame, che sfinimento. Se però, il discorso fra lavarsi e pulirsi io ne ho sofferto molto per la pulizia, qualcosa di atroce. Ma ci pensi Carla, non avere un pezzo di carta da pulirti.
Che poi sono stata fortunata ad avere la tuta, che almeno non avevo più tutto quel freddo, perché la camicia, ho trovato un pezzo di… qualcuna mi ha dato uno spago, qualcosa da legarla, perché era larga la camicia, e mi passava su l’aria, un freddo, ma non ho mai avuto niente, però, sono sempre stata bene.

D: Ascolta, parlavi del Professor Meneghetti?

R: Sì.

D: Chi era?

R: Era il Rettore dell’Università di Padova, io l’ho conosciuto, intanto è entrato molto tardi al campo, è entrato verso la fine di marzo.

D: Deportato anche lui?

R: Deportato, era alle celle, quelli delle celle, uscivano un’ora al giorno a prendere l’aria, e dovevano camminare in circolo di fronte alle celle, dove ci siamo fermate proprio ieri, che ho detto almeno qui…
Noi entrando da lavoro si faceva il giro del campo così, si passava davanti a loro per venire su, ed andare nel blocco di qua.
Lì ho visto un giorno questo signore, era mastodontico, una persona che guardarlo ti metteva rispetto, capelli bianchi, questo pizzo, e lui mi fa: “Cosa fai, tu col triangolo rosso” e dico, avevo anche paura a parlare, perché di là c’erano i due ucraini sugli scalini delle celle, nell’entrata delle celle, e dico: ” Sono qua, perché sono la sorella di un Comandante partigiano” dico, ” ma allora lo porti come onore”. Il giorno dopo tornando verso le sette di sera, lo stesso ” Ma studiavi?”, ” Sì” “ho studiato tanto anche io sai” mi fa lui, “cosa facevi?” “la terza media” “e adesso?”, “adesso piango” dico, perché, ho la mamma…”
Una parola oggi, due domani e tre domani, una sera mi vede che torno piangendo “Cos’è successo?”, ma sempre adagio, dico: “E’ scappato uno che era con noi”, dico, “e l’hanno ucciso” era che lavorava nel magazzino d’armi, ha tentato, diciamo, di fare il guado di andare di là, ma i cani l’hanno preso, e gli hanno sparato, e l’hanno ucciso, e dico, “è sempre un compagno, nostro”, e dice, ” non lasciarti abbattere, sai, non dargliela vinta, conosci la chimica?” “non so neanche cosa sia” dico, “le formule chimiche?” ” no” allora lui mi fa: “sai che cos’è il rame?” “il rame? Sì” “ecco come quelle leghe là, allora domani io tè né do tre da studiare, quattro da studiare a memoria, così tieni la mente” “mica ho voglia” dico, “ho altro da pensare, adesso, il mio compagno che è morto, la mamma” dico, “no, ce la devi fare” e con quella, devi fare, mi ha portato tutte le formule di chimica, e ogni giorno mi interrogava, come si chiama, lo zinco, la formula, la formula, dopo visto, “Va bene, ti porteranno via tutto”, questo era già passato quindici giorni lì, “ma la tua mente, no, il tuo sapere non lo devi, non devi dargliela vinta” e quello mi ha rincuorato, altroché, ma insomma c’è gente che ancora.
Poi gli ultimi giorni, tanto la sorveglianza, e andata scemando un po’, non c’erano più, prima cosa, che non abbiamo più visto le guardie nelle torrette.

D: Quante torrette c’erano?

R: Quattro, quattro, che poi fossero illuminate tutte e quattro, no, e sempre, qualche volta c’era questa, quella, che incrociavano le luci così, ma c’erano quattro.
Mi ricordo, che verso la fine, mancavano otto giorni, ormai, che mi ha preso in braccio, e dice: ” Ma, sei la mascotte del campo, sei stata meravigliosa” ” Ah, meravigliosa” dico ” è passato” e adesso dice ” adesso ricostruiremo” mi fa.

D: Noemi, facevi un accenno al lavoro, che lavoro, dove lavoravi?

R: Dunque, il primo periodo, il primo mese, sono andata insieme a mia sorella Vallì, alle caserme di Gries, e là…

D: A fare cosa?

R: Là facevamo, le stanze degli ufficiali, e poi, naturalmente se avanzava tempo, perché eravamo in quattro, andavamo in cucina a sbucciare le patate, o quello, a dare una mano alle cuoche, e poi c’erano le scarpe da pulire di questi ufficiali, si lavorava. Poi nel pomeriggio, si lavorava lo stesso allora in cucina per preparare per la sera, quello l’abbiamo fatto per un mese.
Dopo invece, hanno detto basta, anche perché è successo che noi abbiamo visto un movimento molto particolare alle caserme, continuavano ad arrivare militari, militari, militari, era diventato veramente, non più quattro caserme, non potevano starci dentro anche dieci, per dire, nel movimento, non lo so, non ci avevano fatto più andare. Allora ci hanno portato, noi quattro con altri sei uomini, o sette, vedendo il campo così sulla sinistra, c’erano due capannoni e lì c’era un capannone dove c’erano delle armi che ritornavano dal fronte dove bisognava oliarle, oppure non so, sistemarle, quello che si poteva toglierli la ruggine, e lì abbiamo fatto questo lavoro, fino alla fine, praticamente, cioè fino agli ultimi giorni, della liberazione.
Lì, ci siamo anche divertite, se si può dire divertiti perché gli uomini ci dicevano: “Portiamo dentro qualcosa, tu piccola, guarda che non ti fanno la…” la palpa, la chiamavano, in dialetto, proprio così, una volta sotto le ascelle, una volta, ero riuscita anche a trovare un paio di mutande, allora dentro su le mutande, i pantaloni, una lima, un pezzo di ferro, dice: “Ma perché dobbiamo portare dentro” dice “se fanno l’altro trasporto, tutto serve, per quelli che vanno” e lì abbiamo portato dentro parecchio, parecchio, quello che si poteva ma insomma. Poi hanno fatto la spedizione al 25 febbraio, ma che dopo sono ritornati al campo perché era impossibile nei collegamenti, cioè, dalle strade, dalle ferrovie che era impossibile.

D: Noemi, in quanti eravate ad andare a lavorare in questo capannone?

R: In questo, eravamo, quattro donne e sei o sette ragazzi.

D: Tutti i giorni uscivate?

R: Uscivamo ogni mattina, tornavamo la sera, però, come ti dicevo, era proprio vicino al campo, lì noi. Però quel giorno che è scappato questo ragazzo, che poi l’hanno ripescato e l’hanno rilasciato due giorni in mezzo ai campi perché ognuno lo potesse vedere, perché non potevi girare la testa dall’altra parte, eri obbligata a guardarlo.

D: Era lì?

R: Era lì in mezzo al campo.

D: Ucciso?

R: Ucciso, tutto bagnato, con quel freddo, cosa hanno fatto: noi della squadra ci hanno puniti due giorni senza pasto, e la mamma era abituata alla sera, perché noi che andavamo a lavorare ci davano una pagnotta in più, e la sera era abituata che gliela portavo. Guarda, viene da piangere, tre mesi di campo, tre mesi di pagnotta, non né ho mai mangiata una sai, te lo giuro, io non l’ho mai mangiata, la portavo alla mamma e la divideva con la zia, e dico, cosa dico alla mamma questa sera che non ho la pagnotta da darle, e qualche volta invece di portarla intera alla mamma, gli e ne davo metà e qualcuna ne davo a qualcun altro. La mamma fa: “hai il pane Noemi?” “No mamma, oggi non c’e l’hanno dato, sai a nessuna”, “non importa”.
Due giorni, freddo che fosse, guarda, perché era una brodaglia però era qualcosa di caldo a me dava sostegno, tant’è vero che dopo il terzo giorno che ci hanno dato il pane, la minestra, sai che ho vomitato, scusa il termine, io ho vomitato il primo boccone di pane, non mi andava giù, per dire la fame, per dire tutto il resto.

D: Noemi, invece le caserme a cui accennavi prima erano verso la montagna?

R: Sì, sì, proprio, tanto che noi si lavorava, terzo o quarto piano, adesso non so quanto alte fossero, avevano fatto una passerella in legno, un ponticello in legno, che andava dentro la montagna e c’era una galleria che era tipo un rifugio, avevano portato dentro anche l’infermeria, loro.

D: Sai, se avevano un nome queste caserme? Ti ricordi un nome?

R: No, io mi ricordo le caserme di Gries, era un quadrato di caserme, ricordo il cancello, che si entrava, attraversavo tutto, poi andavo su questa così di sinistra, e sopra avevano fatto questo ponte di legno, che guardare in giù dava anche un po’ una vertigine, e dentro allora, dentro abbiamo visto che c’erano i militari, ma c’erano i letti con le lenzuola bianche dei militari che erano feriti, noi invece guardati a vista sempre dalla Wehrmacht, deve essere stato lì, sempre all’inizio della galleria proprio l’imbocco, dove vedevamo gli aerei che sganciavano e viceversa.
Invece, che fosse quanto lunga non lo so, perché noi siamo andati fino lì, c’e ne erano due, dicevano che dopo faceva anche una curva, che andava di là.

D: Come ci andavate dal campo a lì?

R: A piedi, ogni mattina.

D: È ben lontano?

R: Sì.

D: Ricevevate da mangiare lì?

R: Sì, noi sì, e là ti dirò che mangiavo anche benino quella zuppa, perché non facevano… erano le cuoche, erano tedesche, non so, ma non facevano differenza per noi, prigionieri o loro.

D: Chi vi accompagnava tutte le mattine?

R: Veniva a prenderci uno della Wehrmacht, un soldato, non era sempre quello, più o meno sì, è stato anche quello. Qualche volta è venuto, una volta, lo chiamavamo Billy, uno piccolo, portava il fucile 91, che era grande, lungo il 91. “Oh”, dico “sotto il 91 c’è Billy”, ormai lo prendevamo anche così, e lui uscendo dal campo fa: ” Questa strada” e c’indica lì, e noi avevamo una voglia di vedere il centro, cos’era, “Sì, sì” abbiamo detto, allora abbiamo fatto Via Torino, e la gente, mi ricordo, era l’ora delle sette, sette e mezza, andavano a fare la spesa, non so, ci sono state parecchie persone che ci hanno dato delle mele, qualcuna anche il pane, in Piazza Vittoria c’era una che ci ha detto: “Puttane”, ecco.
Poi non lo so per strade, che strade abbiamo fatto, siamo arrivati al Gries e ne abbiamo sentite di tutti i colori, basta dirti l’incoscienza, di fare una roba, scusa, una cosa di quel genere, arrivare là alle nove le dieci che fosse, potevano pensare che fosse successo qualcosa, ma non ci si pensava sai, non è che, dicevo anche ieri con Vallì, non è che io avessi avuto, neanche paura di morire sai, cioè, forse era anche l’età, l’incoscienza, io avevo più paura per la mamma.

D: Noemi, la liberazione?

R: La liberazione, l’avevamo già sentita tre o quattro giorni prima nell’aria, qui guarda, c’era Radio Campo, il Professor Ferrari che era il capo campo dell’infermeria, il Professor Meneghetti, che ci avevano già detto, sono qua, sono alle porte, ormai ci sono, va tutto bene?
Tutti erano contenti, e mi fa il Professor Meneghetti: “Cos’hai?” “Non provo niente” ho visto gente felice che si abbracciavano, anche le mie sorelle, guarda, mi viene ancora la pelle d’oca, ti direi una bugia se ti dico che ho provato qualcosa. Io ero svuotata, guarda, nonostante l’aiuto che mi ha dato psicologico, il Professor Meneghetti, sentivo che andavo proprio calando non mi interessava più di niente, per dirti che non ho provato niente, ci avessero detto, ma guarda arrivano domani, sono arrivati oggi, oppure arrivano, va bene.

D: Quanto ti è durato, diciamo questo disinteresse, questo allontanamento?

R: Fino a quando non sono tornata a casa, che non è tornato mio fratello.

D: Da dove?

R: Da Dachau