Pianegonda Noemi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Noemi Pianegonda, sono nata a Valli del Pasubio, 30/11/30.

D: Noemi, la tua famiglia era, la famiglia in cui si appoggiava il regime fascista, oppure?

R: No, era appunto, io sono cresciuta in una famiglia dove, vorrei dire, l’ho sempre respirata quest’aria antifascista, anche il papà è stato perseguitato dal fascismo, non ha mai preso la tessera né il distintivo, che allora era quasi obbligatorio per poter avere un lavoro. Lui si è adattato a fare tutti i lavori, però non ha mai accettato quest’imposizione, quindi io l’ho respirata da bambina quest’aria, non è come si suol dire, dalla sera alla mattina io ho fatto da staffetta partigiana, che me lo sia sognata.
C’è un qualcosa dietro, che me la sono portata come una ricchezza, un patrimonio di cultura, di storia. Papà era così, col tempo abbiamo capito di più le cose, e quindi, la mia famiglia è stata così. Un papà meraviglioso.

D: Tu sei nata nel 30, quindi nel 44 avevi?

R: Ho compiuto 14 anni in carcere.

D: Che cosa succede nel novembre del 44?

R: Il 18 novembre, di sera hanno arrestato mia sorella, io sono stata arrestata il 19 mattina, 18 novembre del 44, era di sabato.
Io mi trovavo in Collegio, perché facevo la terza media, dalle Canossiane a Schio.

D: No scusami, il microfono.

R: Va bene?

D: Sì, sì.

R: Io mi trovavo in Collegio dalle Canossiane a Schio.

D: Scusa.

R: Una domenica mattina, il 19 novembre, che era di domenica, come tutti, si andava a messa, alle sei e mezza si sente suonare una scampanellata, la chiesa dell’Istituto era anche vicino alla portineria.

D: Che Istituto era?

R: Istituto Canossiane, le Suore Canossiane, io ero lì per fare la terza media, il terzo anno.

D: A Schio?

R: A Schio.

D: Mentre la famiglia?

R: La famiglia viveva a Sant’Antonio, allora non c’erano le scuole medie nei paesi come adesso, era l’unico mezzo per poter continuare.
Sentiamo questa grande scampanellata alle sei e mezza di mattino, e va bene così, poi viene una suora e mi dice: ” Noemi” e mi batte sulla spalla: “ci sono due signori che ti vogliono in portineria”, e gli dico: “Ma chi sono questi due signori”, e dice: “Non lo so” le dico: “Chiami la Direttrice” dico “perché la suora portinaia, non è responsabile di noi educande”. Noi eravamo le educande lì dentro. Viene la Direttrice e dice: “Assisto anche io, cosa vogliono” loro dicono, che sono amici di mio fratello. Due signori vestiti molto bene, che poi avrò modo di conoscerli in carcere per gli interrogatori, mi dicono che sono amici di mio fratello, però sono andati a Sant’Antonio dalla famiglia e non l’hanno trovato, loro hanno estremo bisogno di parlare con lui, per mettersi in contatto.
Io, già preparata un po’ dal papà, anche dalla mamma, dalle sorelle, gli dico: “Guardi che io dal 1 ottobre” allora, s’incominciava la scuola il 1 ottobre ” è da Ottobre” dico “che io manco da casa, non so mio fratello…”. ” Ma non è possibile” dico: ” Non lo so” dico, “studiava a Vicenza” ” Si ho cercato”, ” Non lo so veramente”.
Allora questi due dicono alla Madre, sì, la Direttrice, si chiamavano Madri le Canossiane, e dice: “Allora Madre ce la dà, la bambina, che la portiamo su dalla mamma, così confrontiamo se dice il vero”. E lei, era la sorella dell’Onorevole Cappelletti di Vicenza, che poi è stata anche Onorevole, era una suora sveglia. Dice: “No, mi spiace, se io non ho un permesso scritto, un’autorizzazione scritta dalla mamma, dice, io la bambina non ve la do, a me è stata consegnata, e qui rimane”.

D: Ci puoi descrivere questi due signori, che erano venuti?

R: Erano, uno grande, magro, con dei baffi, pallido di viso, me lo ricordo, con dei baffetti neri. L’altro, invece, era più robusto, più piccolo, con un accento spiccatamente fiorentino, proprio, tutte e due, mi ricordo, col cappotto blu, sia perché noi l’avevamo come educande, che era la nostra divisa il cappotto blu, mi ha fatto specie vedere, già eravamo in tempo di guerra, si vedeva ben poca gente vestita bene, con la camicia bianca, cravatta, tirati a lucido, diciamo. Questi erano i due, che poi erano i due famosi, che hanno arrestato l’Adriana, Vallì, la mamma e che poi ci siamo ritrovate in carcere.
È passata così la domenica, in apprensione dico: “Chissà che la mamma possa telefonare”. Non sapevo, le suore disperate, dice: ” ma cosa è successo?” ” Non lo so, io non volevo dire Walter di qua, anche se dico che è in montagna, come faccio a sapere dov’è” lo dicevo fra me questo.
Non so niente di Sant’Antonio, da lassù nessuno.

D: Noemi forse bisogna dire qualcosa prima? Tu hai detto, ho fatto la staffetta partigiana.

R: Sì.

D: Che cosa significa?

R: Significa, portare degli ordini a mio fratello che era un Comandante partigiano, all’altro Comando portare degli ordini, di spostamenti, notizie, piccoli messaggi ma che erano importanti, perché c’era un collegamento fra loro, almeno quello che capivo io. Dicevano, guardate che c’è un rastrellamento in corso a Posina, diciamo, allora dovevano spostarsi, oppure, guardate che viene su qualcuno a trovare, lo so, erano volte che poi io, non aprivo quasi mai neanche i biglietti che mi davano.

D: Quindi, tu portavi dei biglietti di carta?

R: Dei biglietti di carta.

D: Quanti anni avevi?

R: Tredici.

D: Quando facevi questo…?

R: Sì, perché i quattordici li ho fatti dentro.

D: Dicevi, che tuo fratello era Comandante partigiano di che Brigata?

R: No, della Garemi e della pattuglia quella di Sant’Antonio, che in pratica l’aveva quasi fatta lui, formata lui, tutti i ragazzi del paese quindi avevano una fiducia in questo, allora, a quel tempo, studiavano in ben pochi. Lui era già Perito, si era anche iscritto all’Università ai Ca’ Foscari, perché allora non era permesso andare all’Università, l’Istituto Tecnico Industriale non permetteva di accedere ad altre Università, era aperta solo Economia e Commercio che potevano andare.
Intanto è venuto l’8 Settembre, e quindi, non ha potuto più frequentare, i ragazzi della sua pattuglia avevano una fiducia, perché quello che diceva lui, erano convinti: ma se lo dici tu Walter, va bene, con l’entusiasmo che avevano diciotto vent’anni, ecco questo è stato.
Io continuavo, mi ricordo che da Sant’Antonio a Malunga è un bel tragitto, sono quasi due chilometri in mezzo ai boschi, l’ho fatta anche quattro volte una volta, quando c’era in vista il famoso rastrellamento, che poi è stato grosso veramente.

D: Quand’è stato, quello…?

R: È stato quello, il 17 giugno del ’44.

D: Dov’è avvenuto?

R: È avvenuto a Posina, ma, le truppe che avevano visto, le notizie che arrivavano, non dicevano, sono diretti là, erano dislocate da Schio un po’ a rastrello, diciamo, quindi le notizie non potevano dire vanno a Posina.
Allora, no, hanno visto più movimento di là, allora corri su a dirlo, poi torna, poi hanno cambiato.
Lo facevo qualche sera quando era buio, allora qualche partigiano mi accompagnava fino ad un pezzo di bosco, dove in cima al bosco vedevo giù Sant’Antonio, il mio paese, avevo anche paura, insomma.

D: Noemi, chi li faceva questi rastrellamenti?

R: C’era…

D: Tu lo sai?

R: Sì, c’era la Wehrmacht, poi c’era un commando, che adesso io non lo so, perché a quel tempo, sia perché non avevo ancora capacità come adesso di capire, c’era un commando di russi a Marano Vicentino, insieme a questi rastrellamenti mettevano dentro anche questo, sarà stato, trenta o cinquanta persone di russi, che si erano dati, e che quelli menavano.
Questi sono stati feroci, hanno detto nelle contrade, dove c’è stato il rastrellamento, perché hanno incendiato, in pratica quasi una vallata e di là.
Quel rastrellamento del 17 giugno, hanno bruciato case, morti, e così.
Dicevano che c’erano questi russi che erano dislocati a Marano Vicentino, dopo di più, io non so.

D: Questo rastrellamento, tu sai se per caso era in relazione a qualcosa, perché è avvenuto questo rastrellamento?

R: Perché…

D: Perché è noto?

R: Perché loro sapevano, loro dicevano che sapevano che quella zona del Pasubio e di Posina, praticamente fa corona così, Pasubio e Posina, dicevano che era infestata dai ribelli anche perché, dicevano i ribelli loro giustamente, perché i partigiani nostri quando passava qualche macchina la sabotavano come sempre, quindi c’era sempre qualche atto di sabotaggio, e questo dimostrava che c’erano dei controlli, solo che loro non sapevo quanti erano i partigiani, erano pochi. Una volta succedeva qua, diciamo, una sparatoria, un’altra succedeva là, quindi dava l’impressione che fossero in tanti, poi si chiamavano, avevano questa furbizia, io ridevo allora. Ehi pattuglia, pattuglia C, pattuglia A, ecco che allora… questo sarà successo poche volte, però ha dato l’impressione ai tedeschi, che fossero tanti, invece…

D: Mi spieghi cosa vuol dire ribelli? Hai detto ribelli, chi sono?

R: Sono ragazzi, che non avevano accettato di andare sotto, dopo l’8 Settembre di arruolarsi nella Repubblica, parecchi sono stati anche i militari che avevano disertato dopo l’8 Settembre, che non si sono più presentati, anzi, il primo Comandante Partigiano della Garemi, è stato un certo Sergio, nome di battaglia, era Attilio Andretto di Bevilaqua, Verona. Era un tenente degli alpini che era scappato via, non mi ricordo da dove se da Verona, dov’era di servizio o verso la Valdosta, ed era arrivato dalle nostre parti, dietro lui si era portato un altro militare. I primi vorrei dire sono stati proprio i militari che si sono nascosti in montagna.

D: Quindi i ribelli sono i partigiani?

R: Sono i partigiani.

D: Torniamo al 19 novembre del ’44.

R: La domenica è passata così. Dopo lunedì, martedì, mercoledì, adesso non ricordo, se sia stato il 21 o il 22, ricordo che era di giovedì mattina si ripresentano un’altra volta questi due signori con un foglietto della mamma, con scritto di consegnare la bambina, Noemi Pianegonda, a questi due signori, firmato la mamma.
La suora piangendo è andata a prendermi il cappotto, i miei compagni sono venuti fuori e mi hanno abbracciato “Noemi vedrai che torni” io non capivo neanche cos’era. Monto in macchina con loro, ed era una vecchia Balilla, vecchia diciamo adesso era una Balilla nera, monto in macchina e mi portano a Sant’Antonio.
Credo che mi portino a casa mia, e invece prima di casa mia una volta c’era una trattoria, c’è ancora adesso, ma l’avevano requisita per fare il Comando Tedesco, c’era una compagnia tedesca a Sant’Antonio, i tedeschi, e mi fanno andare lì. Naturalmente che proprio fra casa mia e questa casa ci saranno tre metri di distanza, mi affaccio alla finestra e vedo la mamma che attraversa la casa e va nel cortile, l’ho vista andare in magazzino, dalla finestra l’ho vista, non potevo chiamarla perché era pieno di tedeschi, sotto nel magazzino, avevano adibito la mensa, la cucina per questa compagnia tedesca, che c’era a Sant’Antonio. Al giovedì, questo.

D: In macchina, questi due ti hanno detto qualcosa?

R: No, mi hanno detto:” Vedrai che adesso troverai la mamma” dicevano “e troverai anche tuo fratello”, io dico, ripeto ” Io non so niente” dico, proprio non lo so, ripeto. Ma gentilissimi loro, proprio, uno mi accarezzava le ginocchia, uno le mani, erano proprio, uno davanti e uno seduto con me.
Il giovedì mi vengono a prendere, ho dormito lì in questa stanza, con una brandina e lì vogliono sapere ancora ” Guarda che abbiamo arrestato, noi siamo della SD” dice ” noi abbiamo arrestato le tue sorelle, che sono già in prigione, domani” dice “partirà anche la tua mamma, e se tu non ci dici dov’è tuo fratello e il papà” dice “farai la stessa fine anche tu”. Io ripeto che non lo so, piangevo, mi portavano una ciotola di qualcosa da mangiare e guardavo fuori se vedevo la mamma.
Venerdì mattina, invece sento un rumore, guardo in strada e vedo un camion carico, noi avevamo un negozio di generi alimentari, carico d’ogni cosa che cera dentro nel negozio, ed era inverno, l’inverno del 44 è stato molto nevoso, tanta neve e freddo, in cima al camion seduta c’era la mamma, che me la ricordo ancora, questo paltò marrone quel collo di volpe che ce l’aveva lei, così la vedo e la saluto, e lei mi guarda, il camion è partito verso il Passo, ed è andato a Rovereto, e lì è andato al carcere.

D: Lei è andata in carcere con tutta la roba requisita?

R: Sì. Quella non si sa dove l’abbiano portata, la mamma l’hanno portata.
Io invece, sono partita il pomeriggio. Sono partita il pomeriggio, sempre con la stessa macchina e con una ragazza che avevano arrestato di Valli del Pasubio, suo papà era un partigiano, ma io la conoscevo di vista era già tre anni che ero in Collegio non è che conoscessi tutti del paese, di vista, dico: ” Anche tu” dico ” E sì”.
Io sapevo che aveva il papà partigiano, ma proprio un partigiano autentico, e non ci stavamo in macchina allora ho dovuto sedermi sulle ginocchia di questa ragazza, di questa Antonietta, di là un tedesco e andiamo verso il Passo.

D: Quale Passo?

R: Passo del Pian delle Fugazze, e vedo che tutti e due tirano fuori la pistola.

D: Antonietta a Pianalto?

R: No, i due della SD

D: No, l’Antonietta era a Pianalto?

R: Sì, tirano fuori tutti e due la pistola, io non capivo il perché, poi invece, continuavano con la testa a girare a destra e sinistra, avevano paura che i partigiani che facessero qualche, l’ho capito più tardi, quando nel punto più freddo, andavano via velocissimo, più freddo, più stretto, più buio come strada, andavano via velocissimi, ma erano così, così proprio, dalla paura che avevano. Hanno tolto la pistola, quando siamo stati agli ultimi paesi della Vallarsa, prima di arrivare a Rovereto.
Andiamo in carcere, il direttore del carcere, prima fa entrare l’Antonietta, io sono lì, prende le impronte, io mi ricordavo dal papà che aveva fatto il Carabiniere, che diceva prendevano l’impronta, e quelle rimangono per tutta la vita nel casellario, una cosa brutta, diceva allora. Oddio, dico, anche quello fanno, io pensavo chissà cosa, e il direttore dice: “Ma la bambina” mi chiamavano bambina, perché portavo due trecce che arrivavano alle ginocchia, col nastro in testa, questo cappotto da Collegio, con i bottoni tipo alla marinara, diciamo, cappotto blu con i bottoni dorati, ed ero piccola proprio, dice: “ma quanti anni hai?” “Tredici” “quando li fai” dice “i quattordici anni?” “al trenta di novembre” allora si rivolge a loro e gli dice: “Io non posso accettarla” dice “perché c’è il regolamento, che dice che, prima di quattordici anni non possono entrare in carcere”. “Ma no, qui non ci sono leggi” dice: “Mi spiace ma io non l’accetto”, loro hanno confabulato fra loro, allora il direttore gli fa, “Mancano pochi giorni, che compie i quattordici anni, qui vicino c’è l’Istituto di Suore, se volete.”
Mi hanno portato, loro sono andati a bussare, insieme con me, all’Istituto della Sacra Famiglia che è l’Istituto Tacchi di Rovereto, un pensionato per gli anziani, con le suore. Lì sono stata fino al giorno del quattordicesimo compleanno.

D: Le suore non ti hanno chiesto niente?

R: Sì, mi hanno chiesto, sono state carine, man mano, un giorno, anzi, sono venute fuori perché hanno suonato e sono venuti loro due a prendermi e dice: ” La dobbiamo portare a Villa Maffei, a Rovereto” dice ” per un interrogatorio” dice “Possiamo venire anche noi” dice “perché la bambina” no, no, no, invece loro in due, non si muovevano mai una da sola. Io sono partita con loro due, e loro due dietro.

D: Questo prima del compimento del quattordicesimo compleanno?

R: Prima, prima, due giorni dopo, proprio, che ero lì dalle suore.

D: Villa Maffei, che cos’era?

R: Era una famosa villa, l’ho saputo dopo questa, che è dopo Piazza Rosmini in collina a Rovereto, la villa dove c’era il Comando Tedesco e della SS, che hanno detto che era famosa per gli interrogatori, per le torture, soprattutto per gli interrogatori snervanti. Mi hanno portato su a Villa Maffei, mi ricordo che c’era un caldo dentro, una giornata fredda e dentro era caldo, io col cappotto, dicevo: “Mi posso togliere il cappotto?”, sempre in piedi, vicina al tavolo.
“No, questa è una doccia che devi farla, di sudore, perché poi verranno delle altre docce” sono stata lì, l’interrogatorio era sempre quello, se sapevo, se sapevo “Non lo so”, poi dico “se fosse”, allora io mi sono lasciata dire “ma se fosse in montagna, come faccio a sapere dov’è? Come faccio”, dico “a saperlo”, “Ma lui l’avrà saputo che i suoi sono stati arrestati” ma dice ” ma, tu sai la zona dov’era” ” Non lo so” allora lì mi hanno dato quattro ceffoni, potenti.

D: Questi due che, sempre i soliti due?

R: Questi due, insieme con uno della SS, lì.

D: Erano sempre in borghese?

R: In borghese, e c’era un Comandante anche della S.S. in divisa, quello vicino, tanto che mi si è riempita la bocca di sangue, ho preso il fazzoletto e ho visto che era il dente, non spezzato, era sotto otturazione, probabilmente con due ceffoni così, che poi mi sono portata questo dente nero, una paletta davanti per vent’anni, era morto, non mi faceva male, io l’ho lasciato stare, per dire, era andata dentro una goccia di sangue, è diventato nero.
Dopo due o tre ore, due ore abbondanti d’interrogatorio, mi hanno detto: “Andiamo”, sono andata all’Istituto Tacchi, il 30 novembre, le suore che mi facevano le coccole, che mi trattavano, il 30 novembre la mattina sono venuti a prendermi e sono entrata in carcere, una cella da sola e la paura che ho avuto, no, neanche del… Adesso la faccio ridere, c’era freddo alle finestre mancavano i vetri, la neve entrava e i lettini delle celle erano fissi per terra, quindi non li potevi spostare, la neve ti entrava e ti copriva la mattina le gambe, e questo cappotto, lo tiravo su, chissà perché avevo paura dei topi, mi dice lei, quanto bambina ero insomma, questo lettino e pregavo, pregavo tanto, non sapevo fare altro. Questa pagnotta di pane, che era dura e pesante, come un chilo, questa mollica che era uno schifo, mi divertivo a fare…, mangiavo la crosta, e la mollica facevo la borsetta, l’attaccavo su per il muro, facevo un po’ di scarpe, quelle piccole cosette che può fare una bambina, io dico.

D: Eri in isolamento?

R: in isolamento.

D: A quattordici anni?

R: Sì, la fame era tanta, che dopo un mese, ho cominciato a mangiare la borsetta, la stella, il tacco della scarpa che si era sfilato, poi è anche vero, non la sentivi neanche più, si fa per dire, non si sente, l’ho sentita, ma ci si abitua anche a quello.

D: Eri in una sezione…?

R: Era la sezione donne, ma il reparto, cioè, le due celle in fondo erano isolamento.

D: Tu sapevi che le sorelle tue erano vicine?

R: L’ho capito, me l’ha detto la carceriera, me l’ha detto ma aveva una paura di parlare, povera, perché erano ossessionate anche loro da com’era il regolamento, diceva: ” C’è la tua mamma e anche le tue sorelle” oggi. Domani ” guarda che loro stanno bene” ” Glielo ha detto che ci sono anche io?” “no”.
Allora, cosa è successo, dopo quattro cinque giorni d’isolamento, mi hanno messo in un’altra cella, con un’altra signora, mi pare che fosse di Genova, la sera quando erano le cinque, dopo aver portato la minestra le carceriere aprivano le porte e nel corridoio dicevano il rosario e noi tutte rispondevamo. Io ho detto, come faccio a farmi capire dalla mamma e dalle sorelle, che sono qua anche io? Allora si diceva il rosario in latino, e io spiccavo marcatamente il latino, per farmi sentire, e l’Adriana ha detto: “Questa è mia sorella” l’ha capito, non la prima sera, magari l’avrà capito dopo, allora hanno capito che c’ero anche io dentro.

D: Perché non avevate nessuna possibilità di comunicare?

R: No, nessuna, nessuna, né aria fuori, né niente.
Il terrore era quando, sentivi il tintinnio delle chiavi, che arrivava la carceriera insieme alla SS.
Questo Comandante che ho visto su a villa Maffei, erano sempre loro della SD che interrogavano, e questa cella, andare giù nella stanza degli interrogatori, era qualcosa che stringeva, macchiata di sangue, metà muro, tutta schizzata.

D: Quindi ti portavano all’interrogatorio?

R: L’interrogatori in quella stanza, proprio, era… qualcosa, lì, sempre, e dov’era…

D: Puoi descriverci un tipo d’interrogatorio, tipo come avveniva, che cos’era?

R: Ma niente, io mi sedevo così, e loro là, poi uno magari, si sedeva sulla tavola, gambe così, come andava, ” Raccontami di tuo fratello”, “Ma mio fratello ha sempre studiato a Vicenza” e dai con questo Walter, e dai “ma il papà?” “ma il papà” il papà invece poi ho saputo da loro che è scappato quella sera che hanno arrestato loro, ma io non lo sapevo, il papà dico “io non lo so, sarà andato da parenti, non lo so dove sia andato”, “tu devi dirlo”, ma ci avevano il pallino fisso.
Anche lì mi ricordo, dice, facevano così, giocherellando il nervo di bue che avevano lì, dice “la vedi questa?”, “sì”, “lo sai che cos’è?” ” sì” dice “se tu non parli, la useremo con te”, io ” va bene” dico, “io non lo so” e allora lì, mi hanno riempito di botte, veramente, sono andata sopra che sono stata, non avevamo specchi, non avevamo niente, ma sentivo che indolenzivo dappertutto, il viso.

D: In quanti uomini contro di te?

R: Sì, due. Si alternavano, Oddio, sarà durato, cinque minuti, dieci, per me è stato un inferno. Abituata al rispetto di casa, abituata ad un Collegio dove credevo il mondo, dire la Madonna, per dire, ecco, la famiglia, dicevo, ma dove sono caduta, ma cosa è successo.
Io non pensavo neanche a me, continuavo a dire: ” Oddio ma la mamma, e la mamma?” e stato struggente, veramente, il carcere, il campo un po’ meno.

D: Nel carcere avete passato anche il Natale?

R: Sì, il Natale.

D: Si è distinto in qualche cosa questo giorno o era come gli altri?

R: Il Natale si è distinto, in quanto abbiamo avuto un mangiare un pochino più abbondante, una zuppa con dentro un po’ di carne. Da notare che la mamma era riuscita per la carceriera a mandarmi un quarto di mela, ed io assieme con l’altra, perché si divideva tutto, non la mangiavamo la succhiavamo perché durasse di più, e mi ricordo, credo, che sia durata due giorni, a Natale, appunto…
Invece a Natale io sono stata da sola, la mamma e le sorelle le hanno messe assieme. Loro hanno potuto vedere la mamma in che stato era ridotta, a loro ha detto la mamma, mi ricordo che me l’ha detto dopo, perché dice non mi date la bambina, non è giusto, dice, che la bambina viva con la mamma di un delinquente, di un ribelle, dice.

D: Dice, che vivevi con chi?

R: Vivevo con una prostituta, non è giusto, non è educativo che una bambina viva con una madre di un delinquente, un ribelle.

D: Vuoi raccontarci che cosa e successo un giorno con questa tua compagna di cella?

R: Sì, come dicevo io, con un ingenuità perché allora c’era tanto tabù
non è come adesso, una sera vengono dentro due in divisa, dice: “Tu, tutti girati dall’altra parte” mi fa, io mi giro dall’altra parte, mi ricordo che era la cella dell’infermeria, c’erano due lettini staccati, ma distanti uno dall’altro, e io mi giro dall’altra parte, naturalmente sei lì, non capivo neanche cosa fosse successo, e poi dice: “Beh, tu vai fuori, che adesso faccio io”. Lei la sentivo piangere, sentivo questo muoversi, questo… ad un certo momento mi sono girata, posso dirlo proprio, li ho visti uno sopra l’altro, mi ha sconvolto, veramente, ho detto: “Oddio, ma quello la sta picchiando” si figuri ancora, a cosa pensavo io, ma quella.
Poi è arrivato il terzo, il quarto faceva la guardia invece sulla porta, io non ho più detto niente, la mattina dico: “Cosa ti hanno fatto?” “Meglio che tu non lo sappia” dice, piangeva, piangeva e da lì è partita un’emorragia, non avevamo niente.
In Collegio, sotto ci vestivano ancora alla moda un po’ antica, portavo la camicia, lunga come il vestito, senza maniche. Ho detto: “Senti le mutande, no, la maglietta è di lana, ti do la camicia che almeno” e quella è riuscita ad infilarselo sotto, perché era imbrattata di sangue, l’acqua era gelata dentro, bene o male si è pulita, lei non ne ha mai parlato, ed io non ho più voluto parlare, lei si è chiusa e non ha più parlato, quindi è stata quello che hanno detto, che non ero degna di stare con mia madre.

D: Con questa signora di Genova c’è stata fino a quando?

R: Fino al giorno del bombardamento del carcere, poi non è venuta al campo con noi.

D: Ma ascolta, spiegaci, la bambina di quattordici anni, si può dire bambina?

R: Sì.

D: Di quattordici anni, dire in questo modo, a che cosa si aggrappa per…

R: Guardi…

D: Per non impazzire, non so, vogliamo capire.

R: Non so, io mi sono aggrappata, guarda, mi è entrata addirittura, in un certo momento, di dire: ma Dio, ma dove sei, che cosa è successo? Io non capivo, pareva proprio sconvolto completamente, l’insegnamento che avevo ricevuto in Collegio, dico: ma allora è tutto falso quello.
Il papà che mi diceva, che già mi raccontava, la sua vita militare, il suo servizio, che succedevano casi così, ma allora ha ragione il papà, ma ci sono questi casi, ma è possibile? Non so a cosa mi sia aggrappata, alla preghiera, forse sì, ho pregato tanto, che se Dio probabilmente ha ascoltato, diciamo noi che non ascolta, ma, ascolta, non va perduto niente, ecco. Dopo il bombardamento…

D: Quando è avvenuto questo bombardamento?

R: Il 31 gennaio, il giorno di San Giovanni Bosco, me lo ricordo.

D: Il 31 gennaio del?

R: Del ’45, era il giorno di San Giovanni Bosco, perché io mi ricordavo le date, così, dicevo, guarda, oggi è San Giovanni Bosco che è il protettore degli studenti, anche dicevano allora, chissà che faccia cambiare le cose.
Le carceri sono crollate, io ho avuto la fortuna di salvarmi, perché a mezzogiorno, alle undici viene la carceriera e mi dice: “Noemi, metti su il cappotto che andiamo in un’altra cella” perché la cella dell’infermeria era grande come questa, e dice “è arrivato un altro convoglio” dice “è l’unico, ma alloggiano poco, poi verrai ancora qua” e dice, “se vuoi fare, anche a meno del paltò” dice “guarda, lascialo lì, che dopo torni, e solo una questione di poco” “va bene” io dico.
Allora io parto con lei, e questa signora, e andiamo giù alla cella proprio al piano terra, al numero 2. A mezzogiorno e mezzo viene il bombardamento, non ha colpito in pieno la cella dove ero io prima, dal terzo piano ci sono stati 35 morti.
Allora lì ci hanno portato alla caserma che, la chiamano la caserma Rommel, a Rovereto, ma non era, era lo stabile solo, non c’erano dentro i militari, e ci hanno fatto alloggiare là quella notte in mezzo alla paglia, nel tavolaccio, e lì per la prima volta ho visto la mamma e le sorelle e Walter. La scena che c’è stata, credo che abbiano pianto tutti, la mamma era irriconoscibile, Walter poi, l’espressione di Walter che aveva, una mandibola di qua, un orecchio mezzo staccato, la barba lunga, ecco lì, ed il giorno dopo invece siamo partiti per Bolzano.

D: Anche due zii erano lì?

R: Anche il fratello e la sorella della mamma, perché loro pensavano che il papà, quella sera che stava per rientrare a casa, quando hanno arrestato, Vallì e Adriana, papà stava per rientrare, ma qualcuno, uno della Polizia Trentina poi deve essere stato, dice: “Valentino, non entri che c’è la Polizia” lui non è entrato, è andato per il paese, è scappato. Loro pensavano che i parenti, giustamente, avessero dato ospitalità al papà o anche a Walter, che c’era anche Walter in casa quella sera.
Quindi loro per rappresaglia hanno arrestato anche il fratello, ed è stata una sofferenza per lui ma anche per la mamma, e non diciamo di Walter, la sua serietà dopo, dice, ” Ma cosa ho fatto io”, dice “per la mia famiglia?” viene … anche questo, di dire.

D: Noemi, complessivamente, ti hanno interrogata quante volte?

R: Guarda…

D: A Rovereto?

R: A Rovereto, saranno state tre o quattro volte, non di più, dopo hanno messo, unite la mamma e le sorelle, e sono cessati gli interrogatori, anche per Vallì, anche per me, per tutti, perché? Ci siamo detti: “Ma, chissà?” avevano arrestato mio fratello, quindi il capitolo era chiuso con noi.

D: Quando è successo questo arresto?

R: Sa che lì, guarda, a casa…

D: Circa?

R: Circa, è stato qualche giorno prima di Natale, vorrei dire che fosse stato il 16, a casa ce l’ho, un 16 o un 17, prima di Natale, perché l’interrogatori erano cessati in quel periodo lì, la Vallì ne ha avuti molti di più interrogatori, io ne ho avuti meno, ma adesso non so, però hanno cessato quasi contemporaneamente, diciamo, quando hanno arrestato lui, hanno finito con noi.

D: Praticamente era dai primi di febbraio…

R: Al 2 febbraio, siamo entrati ai Lager.

D: Ma come siete arrivati da Rovereto?

R: Da Rovereto, ci hanno caricati la mattina, due per due.

D: Due per due, cosa vuol dire?

R: Due vicine, dovevamo fare le scale, ma prima di passare le scale, perché era questa caserma, questo casermone era rialzato, dovevamo scendere le scale, prima di scendere le scale una per una dovevamo mettere le mani dietro e proprio con dello spago stringevano i polsi, in una maniera, e giù. Quando siamo scesi vediamo che Walter e altri tre, anche l’ingegnere Busnelli e un altro, tre mi pare che fossero non sono con noi, non li avevano chiamati. A noi ci hanno caricato su un camion e già eravamo così stipati col telo giù.
Mi ricordo che siamo arrivati verso sera a Bolzano, non finiva più questa strada, la strada tutta buche dai bombardamenti, ed è stato una sofferenza anche il viaggio, perché io mi ricordo che avevo vicino a me Padre Maurizio che era il Cappellano del carcere, era tutto fasciato in testa dalle botte e anche dal bombardamento. Ad un certo momento è crollato, era proprio davanti a me, così in piedi, è andato giù ed è venuto la SS, quattro ne avevamo, ai lati del camion, e l’ha preso, così per la testa, con le fasce e l’ha alzato, e io l’ho sentito che ha detto: “Oddio ma questo è troppo”.
Con queste mani legate è impossibile fare movimenti, ti devi spostare con le spalle, io mi ricordo che cercavo di tenerlo su questo uomo. Ad un certo momento, perché avevano anche le pile che ci guardavano, ogni tanto, questi quattro. Un momento che non ci hanno guardati, dico: “Padre Maurizio, tiri più su le mani” essendo piccolina io magari, con i denti, dopo tanto sono riuscita a tagliarli lo spago “li tenga davanti” dico, e lui mi ricordo, che mi ha stretto la mano. Poi era venuto anche ospite a casa nostra, dopo finita…
E dico quel Padre, sentirlo dire “Ma Dio questo è troppo” mi ha fatto impressione, insomma, quando sono arrivati al campo, a me pareva di essere arrivati in manicomio, perché le torrette accese, quei fanali quando arrivava qualche convoglio, e quindi tutte le ombre parevano gigantesche, non so, vedevo deformato. Poi una porta di una baracca, che non sapevo che erano baracche, ma che si aprivano e mettevano fuori le teste “Oddio” dico, ” ma qui è un manicomio” e lì siamo state tante ore in piedi per l’immatricolazione, e dopo l’immatricolazione…

D: Come é avvenuta l’immatricolazione, cosa facevano?

R: Lì, a destra c’era, non era come l’abbiamo vista ieri, il campo, io sono stata sconvolta ieri. C’era il cancello qui, ma prima del cancello c’era un piccolo fabbricato, una casetta in muratura, e lì c’era dove venivano scritti tutti i deportati che entravano.

D: Prima di entrare dentro il campo?

R: Prima di entrare nel campo, era subito a destra, lì c’era questo ufficio immatricolazione e lì ti prendevano il nome e cognome e ti davano un triangolo col numero, e qui il tuo nome andava perso, diventavi un numero.

D: Triangolo di che colore?

R: Rosso che era politico. Perché io avevo fatto…

D: Numero?

R: 9155, io sono abituata a dire 9155. Diciamo che ha fatto un po’ ridere anche il discorso del mio triangolo rosso… ridere, parliamo di alcune persone che hanno voluto sentire “Ma cosa ci fai dentro tu deportata politica” e dico “sono, sono la sorella di un delinquente partigiano, dico” “allora portalo come onore”. Tipo Professor Meneghetti questo, ecco allora portalo con onore, no, difatti parla, io parlavo con Mario, che è il nostro presidente, e diceva di preciso non lo sappiamo, ma credo che tu sia l’unica, la più giovane deportata politica, parliamo, perché d’ebrei ce n’erano in Italia, dice almeno nell’aria di Bolzano.

D: In che blocco siete andati?

R: In blocco A e F, F lì, blocco donne, che poi di là, subito c’era il blocco E, di quelli pericolosi, che non li lasciavano uscire.

D: Quindi eri con le tue, la tua mamma e sorelle?

R: Ero con la mamma e le sorelle, sì.
Un altro particolare che vorrei dire dopo essere immatricolata, ci hanno mandato alle docce, io ritorno mi scusi se io mi riprendo, dopo taglia caso mai, la doccia, io non avevo mai visto la mamma nuda. Adesso ritorniamo indietro coi tempi, c’era quel pudore, quel modo, e mi ricordo la mamma che io l’ho guardata così, e dico: “Oddio che bella questa doccia, questo caldo” io dicevo, e la mamma mi guardava e si faceva così con le mani, quel gesto come di pudore, di nascondere, lì ci hanno dato la tuta, a me non ne hanno trovato una che andasse bene, allora mi hanno dato una camicia nera.

D: I vostri vestiti?

R: Li abbiamo lasciati la, che sono andati alla disinfezione, quindi non l’abbiamo più trovati, solo le scarpe ho trovato, e lì siamo andati ai blocchi.

D: Ci descrivi il tuo vestito?

R: Il mio vestito, il primo, io ho portato per venti giorni, questa camicia nera, proprio una camicia nera, come usavano i fascisti, col polsino, il colletto, i bottoni e fatta un po’ rotonda proprio gli spacchi, invece che gli spacchi era fatta come si fanno nelle camice che si fanno al giorno d’oggi, a me arrivava a metà gamba.

D: Poi cosa avevi?

R: Non avevo niente sotto.

D: Era febbraio!

R: Era febbraio, ma non avevo niente, avevo solo le scarpe mie, che mi ricordo, erano un paio di mocassini, fatte a mano, belle pesanti.
Poi hanno recuperato una tuta, piccola dicevano loro, ma io la giravo in su parecchie volte, lo stesso qua, consisteva di iuta grossolana diciamo, ecco, non so, fatta di canapa, color giallino, con una croce sulla schiena con un altro segno sulle ginocchia, ed il triangolo che bisognava portarlo qua.
Anche la storia del triangolo, sembra facile dirlo, ma bisognava attaccarlo, con che cosa? Non c’era né filo né ago, bisognava farlo, e con che?
Gli uomini dei blocchi di là, che stando dentro tutto il giorno, avevano imparato anche qualche cosa, avevano costruito un ago di legno, fine, fine, e così con dei capelli, mi ricordo, coi capelli delle mie trecce mi hanno cucito il mio triangolo.
Altrimenti erano botte, se non avevi il triangolo.

D: Ci parli delle condizioni sanitarie all’interno del campo?

R: Non sarebbero neanche da dire, non esistevano.

D: Il gabinetto, la latrina, la doccia?

R: La latrina c’era, doccia no, c’era un lavello lungo tipo abbeveratoio per i cavalli, usciva, non è che mancasse l’acqua però, l’acqua c’era, pochina ma c’era questo filetto d’acqua che veniva fuori, scorreva via e andava giù nella latrina, che di là c’era la latrina quindi portava anche via.
Non avevi un asciugamano, non avevi niente, né un sapone, né un pezzo di straccio da asciugarti.

D: La latrina com’era?

R: Era un fossato, e ti appoggiavi sopra, stare attenta di non cadere, e l’acqua dal lavello passava, qui c’era l’acqua che veniva fuori e di qui c’era la latrina, quindi l’acqua passava dalla latrina e portava via, diciamo.

D: Quindi era a cielo aperto?

R: A cielo aperto.

D: Non avevate una tettoia?

R: No, era nella tettoia, ma era, diciamo verso il muro, qui c’era il blocco e di là c’era questa porticina e c’era questo, diciamo, questo lavatoio, e ti lavavi così.

D: E pulirsi.

R: È stato il disagio più grosso che io abbia avvertito oltre la fame, che poi la fame, guardi, non è vero che… non la sentivi più, era diventata talmente, sentivo gli odori, ma proprio, l’acqua in bocca, dicevo, Dio che fame, che sfinimento. Se però, il discorso fra lavarsi e pulirsi io ne ho sofferto molto per la pulizia, qualcosa di atroce. Ma ci pensi Carla, non avere un pezzo di carta da pulirti.
Che poi sono stata fortunata ad avere la tuta, che almeno non avevo più tutto quel freddo, perché la camicia, ho trovato un pezzo di… qualcuna mi ha dato uno spago, qualcosa da legarla, perché era larga la camicia, e mi passava su l’aria, un freddo, ma non ho mai avuto niente, però, sono sempre stata bene.

D: Ascolta, parlavi del Professor Meneghetti?

R: Sì.

D: Chi era?

R: Era il Rettore dell’Università di Padova, io l’ho conosciuto, intanto è entrato molto tardi al campo, è entrato verso la fine di marzo.

D: Deportato anche lui?

R: Deportato, era alle celle, quelli delle celle, uscivano un’ora al giorno a prendere l’aria, e dovevano camminare in circolo di fronte alle celle, dove ci siamo fermate proprio ieri, che ho detto almeno qui…
Noi entrando da lavoro si faceva il giro del campo così, si passava davanti a loro per venire su, ed andare nel blocco di qua.
Lì ho visto un giorno questo signore, era mastodontico, una persona che guardarlo ti metteva rispetto, capelli bianchi, questo pizzo, e lui mi fa: “Cosa fai, tu col triangolo rosso” e dico, avevo anche paura a parlare, perché di là c’erano i due ucraini sugli scalini delle celle, nell’entrata delle celle, e dico: ” Sono qua, perché sono la sorella di un Comandante partigiano” dico, ” ma allora lo porti come onore”. Il giorno dopo tornando verso le sette di sera, lo stesso ” Ma studiavi?”, ” Sì” “ho studiato tanto anche io sai” mi fa lui, “cosa facevi?” “la terza media” “e adesso?”, “adesso piango” dico, perché, ho la mamma…”
Una parola oggi, due domani e tre domani, una sera mi vede che torno piangendo “Cos’è successo?”, ma sempre adagio, dico: “E’ scappato uno che era con noi”, dico, “e l’hanno ucciso” era che lavorava nel magazzino d’armi, ha tentato, diciamo, di fare il guado di andare di là, ma i cani l’hanno preso, e gli hanno sparato, e l’hanno ucciso, e dico, “è sempre un compagno, nostro”, e dice, ” non lasciarti abbattere, sai, non dargliela vinta, conosci la chimica?” “non so neanche cosa sia” dico, “le formule chimiche?” ” no” allora lui mi fa: “sai che cos’è il rame?” “il rame? Sì” “ecco come quelle leghe là, allora domani io tè né do tre da studiare, quattro da studiare a memoria, così tieni la mente” “mica ho voglia” dico, “ho altro da pensare, adesso, il mio compagno che è morto, la mamma” dico, “no, ce la devi fare” e con quella, devi fare, mi ha portato tutte le formule di chimica, e ogni giorno mi interrogava, come si chiama, lo zinco, la formula, la formula, dopo visto, “Va bene, ti porteranno via tutto”, questo era già passato quindici giorni lì, “ma la tua mente, no, il tuo sapere non lo devi, non devi dargliela vinta” e quello mi ha rincuorato, altroché, ma insomma c’è gente che ancora.
Poi gli ultimi giorni, tanto la sorveglianza, e andata scemando un po’, non c’erano più, prima cosa, che non abbiamo più visto le guardie nelle torrette.

D: Quante torrette c’erano?

R: Quattro, quattro, che poi fossero illuminate tutte e quattro, no, e sempre, qualche volta c’era questa, quella, che incrociavano le luci così, ma c’erano quattro.
Mi ricordo, che verso la fine, mancavano otto giorni, ormai, che mi ha preso in braccio, e dice: ” Ma, sei la mascotte del campo, sei stata meravigliosa” ” Ah, meravigliosa” dico ” è passato” e adesso dice ” adesso ricostruiremo” mi fa.

D: Noemi, facevi un accenno al lavoro, che lavoro, dove lavoravi?

R: Dunque, il primo periodo, il primo mese, sono andata insieme a mia sorella Vallì, alle caserme di Gries, e là…

D: A fare cosa?

R: Là facevamo, le stanze degli ufficiali, e poi, naturalmente se avanzava tempo, perché eravamo in quattro, andavamo in cucina a sbucciare le patate, o quello, a dare una mano alle cuoche, e poi c’erano le scarpe da pulire di questi ufficiali, si lavorava. Poi nel pomeriggio, si lavorava lo stesso allora in cucina per preparare per la sera, quello l’abbiamo fatto per un mese.
Dopo invece, hanno detto basta, anche perché è successo che noi abbiamo visto un movimento molto particolare alle caserme, continuavano ad arrivare militari, militari, militari, era diventato veramente, non più quattro caserme, non potevano starci dentro anche dieci, per dire, nel movimento, non lo so, non ci avevano fatto più andare. Allora ci hanno portato, noi quattro con altri sei uomini, o sette, vedendo il campo così sulla sinistra, c’erano due capannoni e lì c’era un capannone dove c’erano delle armi che ritornavano dal fronte dove bisognava oliarle, oppure non so, sistemarle, quello che si poteva toglierli la ruggine, e lì abbiamo fatto questo lavoro, fino alla fine, praticamente, cioè fino agli ultimi giorni, della liberazione.
Lì, ci siamo anche divertite, se si può dire divertiti perché gli uomini ci dicevano: “Portiamo dentro qualcosa, tu piccola, guarda che non ti fanno la…” la palpa, la chiamavano, in dialetto, proprio così, una volta sotto le ascelle, una volta, ero riuscita anche a trovare un paio di mutande, allora dentro su le mutande, i pantaloni, una lima, un pezzo di ferro, dice: “Ma perché dobbiamo portare dentro” dice “se fanno l’altro trasporto, tutto serve, per quelli che vanno” e lì abbiamo portato dentro parecchio, parecchio, quello che si poteva ma insomma. Poi hanno fatto la spedizione al 25 febbraio, ma che dopo sono ritornati al campo perché era impossibile nei collegamenti, cioè, dalle strade, dalle ferrovie che era impossibile.

D: Noemi, in quanti eravate ad andare a lavorare in questo capannone?

R: In questo, eravamo, quattro donne e sei o sette ragazzi.

D: Tutti i giorni uscivate?

R: Uscivamo ogni mattina, tornavamo la sera, però, come ti dicevo, era proprio vicino al campo, lì noi. Però quel giorno che è scappato questo ragazzo, che poi l’hanno ripescato e l’hanno rilasciato due giorni in mezzo ai campi perché ognuno lo potesse vedere, perché non potevi girare la testa dall’altra parte, eri obbligata a guardarlo.

D: Era lì?

R: Era lì in mezzo al campo.

D: Ucciso?

R: Ucciso, tutto bagnato, con quel freddo, cosa hanno fatto: noi della squadra ci hanno puniti due giorni senza pasto, e la mamma era abituata alla sera, perché noi che andavamo a lavorare ci davano una pagnotta in più, e la sera era abituata che gliela portavo. Guarda, viene da piangere, tre mesi di campo, tre mesi di pagnotta, non né ho mai mangiata una sai, te lo giuro, io non l’ho mai mangiata, la portavo alla mamma e la divideva con la zia, e dico, cosa dico alla mamma questa sera che non ho la pagnotta da darle, e qualche volta invece di portarla intera alla mamma, gli e ne davo metà e qualcuna ne davo a qualcun altro. La mamma fa: “hai il pane Noemi?” “No mamma, oggi non c’e l’hanno dato, sai a nessuna”, “non importa”.
Due giorni, freddo che fosse, guarda, perché era una brodaglia però era qualcosa di caldo a me dava sostegno, tant’è vero che dopo il terzo giorno che ci hanno dato il pane, la minestra, sai che ho vomitato, scusa il termine, io ho vomitato il primo boccone di pane, non mi andava giù, per dire la fame, per dire tutto il resto.

D: Noemi, invece le caserme a cui accennavi prima erano verso la montagna?

R: Sì, sì, proprio, tanto che noi si lavorava, terzo o quarto piano, adesso non so quanto alte fossero, avevano fatto una passerella in legno, un ponticello in legno, che andava dentro la montagna e c’era una galleria che era tipo un rifugio, avevano portato dentro anche l’infermeria, loro.

D: Sai, se avevano un nome queste caserme? Ti ricordi un nome?

R: No, io mi ricordo le caserme di Gries, era un quadrato di caserme, ricordo il cancello, che si entrava, attraversavo tutto, poi andavo su questa così di sinistra, e sopra avevano fatto questo ponte di legno, che guardare in giù dava anche un po’ una vertigine, e dentro allora, dentro abbiamo visto che c’erano i militari, ma c’erano i letti con le lenzuola bianche dei militari che erano feriti, noi invece guardati a vista sempre dalla Wehrmacht, deve essere stato lì, sempre all’inizio della galleria proprio l’imbocco, dove vedevamo gli aerei che sganciavano e viceversa.
Invece, che fosse quanto lunga non lo so, perché noi siamo andati fino lì, c’e ne erano due, dicevano che dopo faceva anche una curva, che andava di là.

D: Come ci andavate dal campo a lì?

R: A piedi, ogni mattina.

D: È ben lontano?

R: Sì.

D: Ricevevate da mangiare lì?

R: Sì, noi sì, e là ti dirò che mangiavo anche benino quella zuppa, perché non facevano… erano le cuoche, erano tedesche, non so, ma non facevano differenza per noi, prigionieri o loro.

D: Chi vi accompagnava tutte le mattine?

R: Veniva a prenderci uno della Wehrmacht, un soldato, non era sempre quello, più o meno sì, è stato anche quello. Qualche volta è venuto, una volta, lo chiamavamo Billy, uno piccolo, portava il fucile 91, che era grande, lungo il 91. “Oh”, dico “sotto il 91 c’è Billy”, ormai lo prendevamo anche così, e lui uscendo dal campo fa: ” Questa strada” e c’indica lì, e noi avevamo una voglia di vedere il centro, cos’era, “Sì, sì” abbiamo detto, allora abbiamo fatto Via Torino, e la gente, mi ricordo, era l’ora delle sette, sette e mezza, andavano a fare la spesa, non so, ci sono state parecchie persone che ci hanno dato delle mele, qualcuna anche il pane, in Piazza Vittoria c’era una che ci ha detto: “Puttane”, ecco.
Poi non lo so per strade, che strade abbiamo fatto, siamo arrivati al Gries e ne abbiamo sentite di tutti i colori, basta dirti l’incoscienza, di fare una roba, scusa, una cosa di quel genere, arrivare là alle nove le dieci che fosse, potevano pensare che fosse successo qualcosa, ma non ci si pensava sai, non è che, dicevo anche ieri con Vallì, non è che io avessi avuto, neanche paura di morire sai, cioè, forse era anche l’età, l’incoscienza, io avevo più paura per la mamma.

D: Noemi, la liberazione?

R: La liberazione, l’avevamo già sentita tre o quattro giorni prima nell’aria, qui guarda, c’era Radio Campo, il Professor Ferrari che era il capo campo dell’infermeria, il Professor Meneghetti, che ci avevano già detto, sono qua, sono alle porte, ormai ci sono, va tutto bene?
Tutti erano contenti, e mi fa il Professor Meneghetti: “Cos’hai?” “Non provo niente” ho visto gente felice che si abbracciavano, anche le mie sorelle, guarda, mi viene ancora la pelle d’oca, ti direi una bugia se ti dico che ho provato qualcosa. Io ero svuotata, guarda, nonostante l’aiuto che mi ha dato psicologico, il Professor Meneghetti, sentivo che andavo proprio calando non mi interessava più di niente, per dirti che non ho provato niente, ci avessero detto, ma guarda arrivano domani, sono arrivati oggi, oppure arrivano, va bene.

D: Quanto ti è durato, diciamo questo disinteresse, questo allontanamento?

R: Fino a quando non sono tornata a casa, che non è tornato mio fratello.

D: Da dove?

R: Da Dachau

Signorelli Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Angelo iniziamo?

R: Va bene iniziamo.

D: Ascolta una cosa, tu quando avevi sedici o diciassette anni lavoravi alla Falck a Sesto, in quale Falck?

R: Falck Unione.

D: E lì che cosa è successo?

R: Lì è successo che dopo i fatti del ’43, dell’8 settembre, e poi ancora l’avvento della Repubblica Sociale diciamo così e allora è successo che le condizioni degli operai peggioravano continuamente, i ritmi di lavoro sempre più … e poco cibo, perché c’erano le tessere così, malcontento e poi una grande voglia di far finire la guerra.
L’importante era questo. Specialmente per noi giovani, e così quando si è incominciato a sentire che organizzavano questi scioperi noi giovani eravamo un po’ entusiasti di partecipare a questi scioperi.
Infatti nel mese di marzo ci sono stati questi grandi scioperi che noi, almeno io, ho partecipato e anche tutti i giovani lo devo dire hanno partecipato con entusiasmo.

D: Scioperi del marzo di che anno?

R: ’44. Marzo del ’44. Scioperi che sono durati tutta una settimana. Perché gli scioperi erano partiti così come si sentiva, dicevano che erano scioperi più che altro per dare un colpo per fare finire la guerra. Poi dovevano durare un giorno o due, poi invece sono durati tutta settimana perché anche i fascisti…
Io parlo dell’Unione lì a Sesto davanti alle portineria avevano piazzato tutti questi fascisti con fucili, mitragliatrici e mitra, e così hanno impaurito di più la gente e la gente si è allontanata dalle fabbriche e nessuno entrava. Comunque lo sciopero è stato si può dire totale, però subito questi scioperi pochi giorni dopo è scattata questa rappresaglia. Io ero giovane, avevo diciassette anni.
La notte dell’11 marzo, pochi giorni dopo lo sciopero, perché lo sciopero è finito verso il 6 o 7 marzo o che, era un sabato sera. Quella notte lì alle due di notte sentiamo mia madre che dice “Ma chi siete, cosa volete?”. Avevano piegato la porta, erano i fascisti e avevano il nome mio e quello di mio fratello, Signorelli Angelo e Signorelli Giuseppe e volevano portarci in caserma per interrogarci e tutte quelle cose lì.
Mia madre, anche i miei genitori si sono opposti ma non c’era niente da fare. Loro sono entrati in casa a malo modo. Come siamo scesi dal letto ci hanno puntato contro i mitra, hanno guardato se avevamo delle armi. Poi abbiamo dovuto seguirli, non sono valse né le resistenze né le lacrime dei miei genitori. Non è valso nulla.
Questo è stato un rastrellamento che nelle zone industriali di Monza, di Sesto e Milano in quella notte lì avevano arrestati tantissimi operai che avevano partecipato a questi scioperi.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era l’11 marzo. La notte dell’11 marzo del ’44.

D: Ecco, quindi tu abitavi a Monza?

R: Abitavo a Monza in via S. Rocco, allora era via S. Alessandro. Poi ci hanno portato in caserma a Monza in via Volturno in caserma dei carabinieri.
Poi ecco, in casa mia sono venuti sette fascisti in borghese e ce n’era uno vestito da carabiniere. Loro hanno detto “Non è niente, dovete seguirci, domani mattina ritornerete a casa”, invece sono tutte le storie che dicono poi a casa non si ritornava più.

D: E ti hanno portato nella caserma dei carabinieri di Monza?

R: Sì.

D: Lì hai trovato altri operai?

R: Sì, altri operai perché in tutti i quartieri o rioni di Monza c’erano in giro queste squadre. Poi si è saputo che erano tutte della polizia segreta che aveva sede a Verona.
C’erano tutte queste squadre, ogni tanto arrivava una squadra di queste con cinque sei o sette persone arrestate quella notte. Difatti noi del gruppo lì di Monza quella notte lì saremmo stati circa una ventina o forse anche di più.
Poi ci hanno messo tutti in una prigione sotto, resta proprio sotto il manto stradale diciamo, sotto che guardando dalla via Volturno si vedono dei finestrini così piccoli. E lì siamo stati fino alla mattina.

D: Interrogatori non te ne hanno fatti?

R: No, lì niente. Lì alla mattina poi è venuto un pullman, ci hanno messo su e ci hanno portato a Milano.

D: A Milano dove?

R: In questura a Milano in via Fatebenefratelli, alla Prefettura di Milano. E lì ci hanno messo su tutti. Loro si sono seduti in mezzo tra di noi in borghese, avevano le pistole in mano hanno detto di non tentare, di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare. Poi, eravamo chiusi dentro in questo pullman, non si poteva fare niente.
Ci hanno portato lì a Milano. Lì c’erano altri……. Abbiamo trovato altri operai o tecnici che avevano arrestato quella notte lì di Sesto, di Milano, di Cologno dei paesi dintorni.

D: Di quelli di Monza ti ricordi qualche nome?

R: Sì, mi ricordo quasi tutti diciamo quelli di Monza. Ero io, mio fratello poi dei sopravvissuti c’era Muretti che poi è morto qualche anno dopo perché era molto conciato anche lui. C’era Galimberti Ettore, c’era Sperandio Giovanni, Terzi Alvaro, quelli di Monza perché erano pochi.
Siamo stati portati via in tanti ma siamo ritornati in pochi.

D: Sperandio Giovanni lavorava con te alla Falck?

R: All’Unione, sì.

D: All’Unione?

R: All’Unione. Invece mio fratello e Muretti lavoravano al Concordia. E invece Galimberti Ettore lavorava al Vittoria e insomma ne avevano presi un po’ da tutti gli stabilimenti diciamo.

D: E lì a Milano allora in Prefettura?

R: Sì la Prefettura lì.

D: Ne hanno trovati degli altri?

R: Sì altri di Sesto, tutti operai. Sesto, Milano e dei dintorni lì insomma. Gente che aveva fatto questi scioperi.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ma lì, più che interrogatorio è stato… ci hanno letto il nostro, il nostro, l’accusa che avevano contro di noi.
L’accusa era: organizzatori e istigatori degli scioperi, atti di sabotaggio contro l’esercito tedesco e la Repubblica Fascista.
Questa era l’accusa. Ce l’hanno letta però noi non abbiamo detto né si né no. Non ci hanno fatto firmare niente. Questo era l’atto d’accusa. Poi il pomeriggio ci hanno portato a San Vittore.

D: Ecco, gli interrogatori chi è che te li ha fatti? I fascisti o i carabinieri?

R: Ma, erano forse dei magistrati, non so, perché erano in borghese. Lì in Prefettura non so chi erano quelle persone.

D: Non erano tedeschi?

R: No, no sempre italiani. Sempre italiani.

D: Poi ti hanno portato a San Vittore.

R: Sì.

D: Ti ricordi il raggio?

R: Beh il raggio, era un raggio dove c’erano tutti i politici. Adesso, il nome, il numero del raggio poi… Sono stato lì pochi giorni, sono stato lì 2 giorni io a San Vittore. Non ho avuto modo neanche di inquadrarmi bene. Io mi ricordo benissimo San Vittore quando ci hanno messo in questo raggio.
Quando ci hanno chiuso in queste prigioni. Quando, perché ci hanno messi una ventina o 17 o 18 per prigione eravamo. Ci hanno chiusi dentro lì e lì abbiamo trovato nella cella che ero io, trovato 2 o 3 operai della Caproni che erano già lì da qualche giorno. E questi qui della Caproni avevano subito un interrogatorio dai tedeschi ed erano stati anche picchiati. Anzi, c’era uno della Caproni che diceva che l’hanno picchiato così forte e quando lo raccontava piangeva. Ecco.
Niente noi in quelle condizioni lì siamo stati due giorni a San Vittore. La cosa che mi ha impressionato è stato quando mi hanno chiuso in questa cella con quei catenacci con tante mandate e mi sentivo molto molto demoralizzato diciamo perché ero giovane un po’ inesperto di queste cose e niente.
Ecco io dopo il secondo giorno che ero dentro a San Vittore è successo quel fatto che sono venuti quei due ispettori. Eravamo lì nella cella, una sera del secondo giorno sono entrati questi due ispettori. Io ero lì seduto proprio vicino alla porta, perché di letti a castello non ce n’erano, lì c’era un po’ di paglia, si dormiva lì. In un angolo c’era una specie di secchio per i nostri servizi. Ero lì seduto, sono venuti questi due ispettori; uno dei due mi guarda in faccia e mi dice: “Ma te che hai la faccia così da giovane, quanti anni hai?” E io gli ho detto: “17 anni”. Allora rivolto all’altro gli dice: “Guarda che qui c’è un minorenne, bisogna provvedere”. L’altro ha risposto così con arroganza dicendo: “Ma che minorenne e non minorenne; sono tutti lo stesso. Faranno tutti la stessa fine”. Ecco, io l’ho guardato negli occhi.
Quegli occhi non li ho mai perdonati nella mia vita, nei miei periodi di maggior sofferenza. Così quando mi ricordavo di questa persona lo ritenevo responsabile di tutte le mie sofferenze. Io l’ho sempre maledetto. Non lo perdonerò mai perché ha dimostrato di essere un uomo bestiale, non di essere una persona umana.

D: Questi ispettori erano italiani?

R: Sì, erano italiani, italiani.

D: Italiani. Ecco, dopo i 2 o 3 giorni che sei rimasto a San Vittore cos’è successo?

R: Ecco, dopo la sera del secondo giorno ecco, dopo, più tardi da quando erano venuti gli ispettori ci hanno cambiato raggio quella sera lì e ci hanno mandato in un altro raggio. E lì, non si sa poi perché ci hanno mandato in quel posto lì perché poi alla sera più tardi ancora verso le 10 è venuto l’ordine di partenza.
Ecco, io dico una cosa sola, che i nostri fascisti che sono venuti in casa ad arrestarci, poi, ci hanno portato a San Vittore e poi ci hanno mandato in quell’altro raggio, ecco, lì senza nessuna contropartita ci hanno venduto ai tedeschi.
Io dico queste persone che avevano la pretesa di comandare la propria nazione come potevano dare ai cittadini, anche se sono colpevoli di qualche cosa così, di dargliene in mano a degli stranieri. Oggi pretendono ancora di governare diciamo. Sono cose assurde.

D: E lì, il viaggio, siete partiti per dove?

R: Sì per Bergamo. Poi quando siamo andati lì c’era un camion e dovevamo, in quei camion lì dovevamo andar su. Erano quei camion militari con dei tendoni sopra, noi siamo entrati lì e non ci stavamo tutti ma forse con i calci dei moschetti ci hanno fatto stare tutti.
Poi, ci hanno tirato giù i tendoni e dentro si faceva perfino fatica a respirare, perché si fa presto a dirlo, ma essere chiusi.
Almeno noi eravamo in un camion solo ed eravamo forse un centinaio tra quelli di Sesto, di Monza, di Milano e paesi dintorni. E lì ci siamo stati tutti.
Io mi ricordo che si faceva fatica a respirare. Io piano piano con l’unghia sono riuscito a tagliare un po’ questo tendone ed entrava un filo d’aria. Altrimenti era una cosa incredibile.

D: Nessuno di voi però sapeva dove andavate?

R: No. Non si sapeva niente, non ci hanno detto niente. Anzi tra di noi ogni tanto qualcuno diceva: “Ci porteranno in qualche posto o ci fucileranno tutti”. Quando poi siamo in tanti c’è sempre qualcuno che pensa sempre. Ognuno dice la sua diciamo.
Dopo un paio d’ore di questo viaggio, perché non è che il camion…… e poi scortati da camionette di fascisti che erano davanti e dietro il camion. Poi siamo arrivati li all’uscita di Bergamo, nella città di Bergamo perché abbiamo fatto questo tragitto sull’autostrada.
Poi siamo entrati in Bergamo. Poi ci hanno fatto scendere. Ecco, quando ci hanno fatto scendere è stato un ritornare ancora a vivere perché su c’erano già tante persone che stavano male. Si sentiva l’aria pura della notte così si respirava a pieni polmoni. Ecco, questa è stata una bella cosa diciamo.

D: Ecco Angelo, eravate solamente uomini o c’erano anche donne?

R: No, lì erano tutti uomini. Tutti uomini, sì. Poi ci hanno incolonnato tutti in cinque, tutta una lunga colonna e siamo partiti. L’ora sarà stata verso le undici, undici e mezza di notte. Non c’era in giro nessuno perché c’era il coprifuoco.
Qualcuno che guardava fuori, perché la gente magari, quelli che sentivano qua i rumori perché loro urlavano per tenerci inquadrati. Poi se uno non stava bene inquadrato lo picchiavano così, insomma.
Ci hanno portato ad una caserma dei carabinieri, non so se è una caserma dei carabinieri. Lì non ci hanno accettato, forse hanno sbagliato il posto di portarci, poi alla fine ci hanno portato in quella famosa caserma. Era la caserma Umberto I mi pare. Che era una caserma di cavalleria dell’esercito. Lì siamo entrati, ecco.
Fino a lì ci hanno portato i fascisti, quando siamo entrati in questa caserma ci hanno dato in mano ai tedeschi. Però il primo ordine che hanno dato i tedeschi è stato: giù le mani. Perché loro ci hanno fatto fare tutto questo tragitto sempre con le mani in alto. Sempre camminando con le mani in alto. Una fatica anche a tenerle su e come uno abbassava le mani ci arrivava il calcio del moschetto sulle gambe o sulla schiena.
Quando siamo arrivati dentro lì, l’ufficiale tedesco ha dato l’ordine di abbassare le mani. E questo è stato perché si faceva fatica anche a tenerle su le mani, perché noi avevamo su anche i vestiti, io avevo il paltò perché era il mese di marzo e camminare con le mani in alto quasi tre quarti d’ora è dura eh.

D: Ascolta, e poi lì dove vi hanno messo?

R: Lì c’erano delle camerate, c’erano tantissimi altri prigionieri, persone che avevano arrestato, altri operai. Venivano da Torino, venivano dalla Liguria, venivano anche dalla Toscana, dalla zona di Lecco. Io ho trovato anche tanti di Lecco, che operai erano stati anche loro.
Tutta gente che avevano arrestato in quel periodo li degli scioperi. Li avevano portati lì. Lì hanno fatto il concentramento. Ma la prima cosa che mi ha impressionato quando sono entrato in quel posto lì era che tutte queste persone che era già da qualche giorno che erano lì tutti ci cercavano se avevamo qualcosa da mangiare.
Noi che venivamo da San Vittore, anzi, io a dir la verità, quella sera lì ci avevano dato da mangiare abbastanza bene, lì a San Vittore. Ci avevano dato gli spezzatini con le patate e un po’ di pagnotta e io avevo avanzato una pagnotta e l’avevo lì, e questa pagnotta quando questi prigionieri me la cercavano io gliel’ho data. Io ormai quella sera lì avevo mangiato, non sapevo cosa poi mi aspettava gli altri giorni.
Gliel’ho data e per mia meraviglia ho visto che questa pagnotta se la sono divisa forse una decina di persone e anche più. Un pezzettino per uno. Questa cosa mi ha molto impressionato perché è una cosa che non avevo mai visto. Poi ci hanno dato un posto anche a noi. Lì c’era giù un po’ di paglia un po’ dappertutto e hanno trovato un posto perché questa caserma ormai era tutta piena, hanno trovato un posto vuoto e ci hanno messo là. Anche noi là, il nostro gruppo là.

D: E lì sei rimasto quanto tempo?

R: Quattro giorni.

D: Lì hai subito degli interrogatori?

R: No, niente. Niente interrogatori. Ormai la nostra sorte era decisa. A noi non ci ha interrogato più nessuno.

D: Voi però non sapevate nulla?

R: No, non sapevamo nulla. Poi ho visto il giorno dopo com’era il trattamento in quei posti lì.
Il cibo lo davano una volta a mezzogiorno, una fettina di pane, ma una fettina di pane, con un po’ di brodo e basta. Era il cibo di tutta la giornata. Va beh che se si era lì non si lavorava e tutto. Però la fame era molto forte. Dopo, quando avevo così tanta fame, perché sono stato quattro giorni, avevo una fame, sono stato pentito di aver dato via questa pagnotta. Però quella sera lì non avevo fame, diciamo.

D: L’hai distribuito agli altri?

R: Sì.

D: Ecco, e quindi in quella caserma lì chi comandava erano i tedeschi?

R: Tedeschi. Sì.

D: Ascolta, i tuoi genitori?

R: Sì, i miei genitori da quando ci avevano portato via loro si sono dati da fare per sapere dove ci avevano portato. Non solamente i miei ma anche i genitori di tutti gli altri.
E poi lì a San Rocco dove abitavo io c’era un cappellano militare e si era dato da fare anche lui. Livio Mandelli si chiamava. Si era dato da fare anche lui per sapere dove ci avevano portati. E finalmente quel giorno lì avevano saputo che eravamo a Bergamo.
Noi siamo partiti quel 17 marzo, siamo partiti da Bergamo. Quella mattina lì verso le undici, le dieci e mezza, le undici sono arrivati i miei genitori e tanti genitori, familiari di quelli di Monza.

D: Che tu però hai potuto solamente vederli da lontano?

R: No, no, no. Li hanno fatti entrare in caserma. Li hanno fatti entrare in caserma. Sono venuti su lì, abbiamo parlato assieme. Li c’erano gli ufficiali. Tanto è vero che io avevo in tasca i buoni della mensa e li ho dati a mio padre e l’ufficiale tedesco ha voluto sapere cos’erano. Ha chiamato lì un interprete per vedere cos’erano. Poi quando ha saputo che erano i buoni della mensa allora… Chissà che segreti pensava che fossero.
Poi è venuto l’ordine, ci hanno portato giù nel piazzale di questa caserma. Ci hanno inquadrati e allora i nostri genitori li hanno messi un po’ da parte. Li hanno fatti uscire dalla caserma e poi a noi ci hanno dato un po’ di pagnotte a testa e un po’ di Bologna. Hanno dato sette pagnotte a testa e una fetta di Bologna diciamo. Questo era il cibo che ci hanno dato per il nostro viaggio.
Noi non si sapeva. Hanno detto che si partiva ma non ci hanno detto dove si andava.
Ci hanno inquadrato tutti. Poi ci hanno incolonnati verso la stazione. Ecco, io mi ricorderò sempre bene questo tragitto perché sono successe delle cose molto anche…

D: A piedi l’hai fatto?

R: Sì, l’abbiamo fatto a piedi. C’era questo lungo tragitto. Il nostro convoglio sarà stato come minimo di settecento, ottocento persone. Di prigionieri arrestati.
Poi ci seguivano i nostri genitori. I miei genitori e anche gli altri ci hanno seguito fino alla stazione.
Poi c’erano questi fascisti che ci accompagnavano a piedi. E poi di altre camionette che facevano la spola avanti e indietro con le mitragliatrici puntate. Perché loro prima di partire hanno detto di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare.
Poi la cosa bella è stata la gente di Bergamo. Perché era un pomeriggio. Siam partiti un pomeriggio. Saranno state le tre, le tre e mezza, quell’orario lì. E la gente di Bergamo ha visto questa lunga fila di prigionieri.
Questa gente ha incominciato a guardare e poi si è avvicinata. Vedevano tutti tutto questo lungo corteo di gente che piangeva. Perché i nostri familiari che piangevano. “Chi siete? Cosa avete fatto?” “E noi siamo operai che abbiamo scioperato e adesso ci portano in Germania. Così… non si sa”.
Ecco, questa gente di Bergamo, tantissimi, hanno dimostrato una grande solidarietà verso di noi. Andavano in negozio a prendere qualche cosa, fiaschi di vino, qualche cosa così e ce li portavano.
Ecco, io vorrei raccontare un piccolo fatto così. Uno davanti, che si trovava davanti a me, è uscito un po’ dalla fila per prendere un fiasco di vino che ci ha dato quella gente lì. Poi stava ritornando in fila e un fascista l’ha buttato via. “Vai via”. Perché pensava che era uno di quelli che.. Perché c’era un po’ di confusione lì. Lui è stato lì, poi è filato e se n’è andato.
E ci è andata bene. Mio fratello ha tentato anche lui vedendo questo qui. Ha tentato di svignarsela e invece ha preso il calcio del fucile sulla schiena e l’hanno messo in coda. Anche lì bisogna avere un po’ di fortuna.
Ecco, c’era della grande confusione. Voi pensate. Noi, la lunga fila, questi fascisti che ci seguivano armati, queste camionette che facevano la spola avanti e indietro, tutti urlavano, bestemmiavano, tutti. E poi la gente di Bergamo. C’era una gran confusione. E qualcuno penso che oltre a quello forse qualcun altro sarà riuscito ad aver la fortuna di svignarsela.
Poi siamo arrivati alla stazione, ecco.. Alla stazione abbiamo salutato i nostri genitori perché loro in stazione non hanno potuto entrare. Abbiamo salutato i nostri genitori.
Io mentalmente ho ringraziato e salutato la gente di Bergamo perché questa solidarietà che ha dimostrato nei nostri confronti è stata molto importante. E io devo dire che nei momenti anche di sconforto quando mi ricordavo queste cose mi aiutava sempre di più a resistere. Perché la solidarietà in quei momenti lì è una cosa molto importante.

D: Ascolta. In questo trasporto qui, questa lunga colonna che tu dicevi di prigionieri che andava verso la stazione di Bergamo, c’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano sette donne. Ecco, le hanno inquadrate per ultimo. Erano sette donne che venivano da Lecco. Lavoravano alla Bonaita mi pare o alla Badoni mi pare. Ma adesso non mi ricordo bene. Lavoravano in quella fabbrica lì. Hanno scioperato.
Erano sette donne che sono state prese anche loro. Poi dopo ho saputo che erano queste sette donne perché ho conosciuto anche i deportati uomini di Lecco. Però queste donne le hanno messe su un vagone da sole, mi pare. Perché, io le ho viste solamente quando le hanno accodate alla nostra lunga fila. Erano in ultimo.
A dir la verità in questa nostra fila cerano anche due vestiti da fascisti. Due giovani vestiti da fascisti. Non so chi erano. Non so cos’hanno fatto. E li hanno messi anche loro nel nostro convoglio e sono partiti anche loro due con noi. Vestiti da fascisti.

D: Arrivati alla stazione cosa c’era ad aspettarvi? Alla stazione di Bergamo.

R: Dentro nella stazione c’era questo lungo treno di vagoni bestiame. Fino all’esterno della stazione ci hanno accompagnato i nostri genitori e tantissime persone che ci hanno seguito. Poi queste non hanno potuto entrare. Noi siamo entrati in questa fila e una quarantina in ogni vagone. Ci mettevano in media quaranta ogni vagone e poi ci chiudevano questi vagoni e li piombavano. Erano carri bestiame chiusi.

D: Chiusi dall’esterno?

R: Chiusi dall’esterno.

D: Tu sei stato su assieme a tuo fratello?

R: Sì. Noi eravamo lì tutti assieme. Io, mio fratello e il gruppo di Monza. Poi avevo su qualcuno di Torino, qualcuno anche della Toscana avevo su, perché sono tutti dialetti che non avevo mai sentito parlare: il piemontese, il toscano.
Io ero giovane e non avevo mai girato in giro. Allora sentivo questi dialetti e mi piaceva un po’ sentirli, ecco, questi dialetti così.
Ecco io devo dire una cosa, che quando sono entrato sul vagone poi ci hanno chiusi dentro. Poi quando questo vagone è partito, come è partito il vagone io ho avuto una grande crisi di pianto. Ho incominciato a piangere. Forse è stato un bene. Mi sono sfogato di tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni diciamo così. Poi finalmente quando sono riuscito a calmarmi c’era mio fratello che è mi stato molto di conforto.
C’era Galimberti di Monza che era una persona un po’ legata alla Resistenza. Era sulla trentina. Era più esperto di noi. Aveva già fatto delle azioni di partigiano insomma. Ecco, anche Galimberti mi è stato di molto aiuto moralmente.
Tanto è vero che poi quando si andava sul treno Galimberti è stato quello che ha tentato di schiodare qualche tavola dal pavimento per tentare la fuga, ma noi non avevamo niente.
Se avevamo qualche cucchiaio, qualche coltellino, qualcosa, invece non avevamo niente. Avevamo solamente le nostre unghie. E’ stato impossibile.

D: Angelo, i vagoni piombati, quelli che dici tu e quelli per caricare il bestiame sono quelli senza finestre?

R: No, ci sono dei finestrini piccoli così. C’è un finestrino in alto. Aveva questo finestrino in alto.

D: E basta?

R: E basta.

D: E lì eravate in quaranta?

R: In quaranta. C’era un po’ di paglia. Poi noi ci siamo organizzati in questo modo: in un angolo in fondo abbiamo fatto come l’angolo per il gabinetto.
Ognuno di noi nei nostri pacchi che avevano portato i nostri genitori avevamo un po’ di carta per cercare poi di pulirci; quando c’era un po’ si buttava fuori dal finestrino. Ci siamo organizzati in questo modo.
Ecco, la cosa più brutta di questo viaggio è stata la sete, perché loro sì ci avevano dato da mangiare però su questi vagoni non c’era neanche una goccia d’acqua. Voi pensate: mettete quaranta persone in un vagone dove non c’è niente altro che paglia. Solamente i movimenti. C’è sempre quella polvere. Quella polvere lì ci viene sempre una grande sete.
Noi il primo giorno sul nostro vagone avevamo sette o otto fiaschi di vino che ci aveva donato la gente di Bergamo. Eravamo in quaranta persone ed è stato abbastanza per bere quel bicchiere o due di vino. Perché sette fiaschi, otto fiaschi di vino sono dodici litri di vino; perché un litro e mezzo erano questi fiaschi.
Il primo giorno è andato abbastanza bene. Ma il secondo giorno, io dico sinceramente che il secondo giorno non c’era più nessuno che mangiava per la gran sete che avevamo. Avevamo lì ancora delle pagnotte, avevamo il cibo che ci avevano portato i nostri genitori, però non si poteva più neanche mangiare dalla gran sete.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: La prima fermata l’abbiamo fatta a Verona. Si è messo poi su un binario morto e lì siamo stati fermi diverse ore. Ed è lì dove Galimberti ha tentato di schiodare. Perché quando il treno si fermava quelli delle SS venivano giù dal treno perché sull’ultimo vagone c’erano su tutti i soldati delle SS.
Quando il treno si fermava loro venivano giù e facevano, camminavano avanti e indietro di guardia. Però se si riusciva a tirar su qualche cosa, qualche asse e calarsi giù si poteva riuscire perché in qualche vagone è riuscito qualcuno a fuggire.
Poi c’era anche la paura, perché loro prima di partire hanno detto che i vagoni che arriveranno dove qualcuno è fuggito gli altri saranno fucilati. E allora…
Ma noi, il nostro gruppo di Monza con Galimberti, quando qualcuno ha tentato di fare delle azioni, quando tentava di schiodare queste assi lui ha detto: “Voi non ci pensate che quando arriverete, che quelli che arrivano non gli fanno niente”.
E aveva ragione, perché in quei vagoni dove sono fuggiti non è successo niente. Perché in un paio di vagoni qualcuno è riuscito a filare.

D: Ascolta. Ecco. Dopo Verona? Via.

R: Via. Poi ci siamo fermati ancora in un altro posto. In un paesetto del friulano. Poi abbiamo fatto la linea Tarvisio non quella del Brennero.
Abbiamo fatto la linea Tarvisio perché mi ricordo che in stazione lì a Tarvisio ci siamo fermati proprio nella stazione. Era anche lì un pomeriggio e c’erano fermi dei treni.
E noi dal finestrino che si guardava fuori si cercava l’acqua, l’acqua, l’acqua. E c’è stato qualcuno che è riuscito ad andare a prendere qualche fiasco d’acqua. Però sul nostro vagone saranno arrivato forse un paio di fiaschi d’acqua. E’ stato abbastanza per bere quel bicchiere a testa. Ecco.

D: Quando vi fermavate non veniva aperto il vagone? Voi, tu non sei mai sceso dal treno?

R: Siamo scesi una volta in Austria.

D: Quindi dopo Tarvisio Austria.

R: Austria. Mi ricordo che era una notte, ci hanno fatto scendere, hanno aperto il vagone, ci hanno fatto scendere per fare i nostri bisogni. Ecco, in quell’occasione lì ci hanno dato anche un brodino caldo. Un brodino caldo ci hanno dato perché anche il freddo si è sofferto tanto in questo viaggio. Perché esser lì fermi, così, insomma.
Il freddo e la sete che abbiamo sofferto. Anche lì c’era tanta neve. Abbiamo mangiato un po’ di neve per dissetarci. Però ci hanno fatto scendere e più di quei tre o quattro passi lì in giro al vagone non si poteva andare perché c’erano tutti questi soldati con i mitra puntati. Lì penso che nessuno ce l’ha fatta a fuggire da quel posto lì. Poi ci hanno chiuso, è’ stata l’unica volta che ci hanno fatto scendere di notte.

D: Dopo quanti giorni?

R: Abbiamo fatto, senza contare il primo giorno, tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti diciamo.

D: Alla fine del viaggio dov’è che sei arrivato?

R: Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Ma voi non sapevate dove andavate?

R: No, ma no. Niente. Non si sapeva cos’era. Però c’è stato uno che quando siamo arrivati nella stazione di Mauthausen, quando siamo scesi lì, si è messo a piangere. Una persona anziana si è messa a piangere e ha detto che andiamo su a Mauthausen perché lui era già stato prigioniero nella guerra del 1915-1918 e diceva che stava male. Era un prigioniero militare della guerra 1915-1918. “E’ un brutto posto. Andiamo a stare male”. Questo non era vicino a me e l’ho sentito così, e non so neanche chi sia, ecco.

D: Quindi siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen il 20 marzo.

D: Sempre del ’44?

R: Del ’44.

D: E lì cos’è successo alla stazione?

R: Alla stazione, siamo usciti dalla stazione. La prima cosa che abbiamo fatto, abbiamo cercato di mangiare un po’ di neve per dissetarci un po’. Perché la sete ci ha accompagnato per questo viaggio sempre terribilmente.

D: Era giorno o notte quando sei arrivato?

R: Era pomeriggio. Sarà stato prima di sera perché là poi, in quella stagione lì alle quattro incomincia a venire buio. Sarà stato sulle tre. Perché là le giornate all’est alle quattro, quattro e mezza è già buio d’inverno. Poi lì era marzo, insomma le giornate sono ancora un po’ corte.

D: E poi cos’è successo?

R: Ci hanno incolonnato tutti all’esterno della stazione. Hanno cominciato. Lì urlavano, ci incolonnavano a cinque. Tutti in fila per cinque.
Quella lì era una brutta giornata perché cadeva neve mista ad acqua. Faceva anche molto freddo. Noi, io e mio fratello, avevamo una piccola valigia in due e non avevamo dei problemi.
Però c’erano tante persone che avevano magari due valige perché tutti portavano queste cose con grande speranza. Perché quando si portano delle cose, vestiti, qualcosa da mangiare, quelle cose lì, si pensa che aiutano a sopravvivere.
Non si sa dove si va a finire e non si sa quale sarà il nostro destino. E tutte queste persone portavano ognuno le proprie cose con grande speranza.
Io e mio fratello abbiamo aiutato qualcuno. C’era un professore che aveva due valige e io l’ho aiutato a portare questa valigia. Anche mio fratello. Poi anche degli altri. Cercavamo di aiutarli perché era molto faticoso camminare, perché c’era neve. Queste stradine che andavano su al campo non erano stradine asfaltate. Erano stradine con neve e ghiaccio, si faceva molta fatica a camminare.
Però in questi scambi quando ci si fermava a prendere la valigia, a riposare un momentino si prendevano anche delle botte perché questi soldati delle SS urlavano e picchiavano sempre.
Ecco, io devo dire che quando andavo su, si andava su per questa stradina, si vedevano queste belle valli.
Avevo dentro di me una grande voglia di mettermi a correre, di scappare. Se ero in Italia l’avrei tentato, perché se non mi prendevano subito non mi prendevano più, perché io allora ero molto veloce a correre. Non so se se mi prendevano.
Ti potevano sparare. Perché lì di cani non ne avevano. Non potevano mandarmi dietro i cani. Di cani quando ci hanno portato su non ne ho visti. Invece ero all’estero. Non sapevo, poi non si sapeva dove si andava a finire. Anzi mio fratello: “No, non tentare, non tentare”. Mi ha dissuaso un po’ e siamo andati su. Perché dalla cittadina di Mauthausen ad andare sul al campo ci saranno circa quattro chilometri. E’ stata una marcia molto faticosa date le condizioni anche del tempo.
Poi quando siamo arrivati nelle vicinanze del campo la cosa impressionante è che abbiamo visto questi scheletri umani vestiti con quei vestiti a righe che spalavano la neve, e c’erano altri che li picchiavano.
Ecco, queste cose ci hanno un po’ impressionato. “Ma qui dove ci porteranno? Chi sono quelli? Chi sono gli altri?”. Perché non avevano delle divise. Quelli che lavoravano le divise, i vestiti a righe e gli altri avevano dei vestiti civili che picchiavano e urlavano.
Poi abbiamo saputo cos’erano. Erano i famosi Kapò che poi abbiamo incontrato e abbiamo capito chi erano.

D: La prima immagine del campo?

R: Sì. La cosa è stata molto impressionante. Io devo dirlo. Perché Mauthausen si presenta questa costruzione come una fortezza. Tutta fatta di pietre. E’ una cosa che mi ha impressionato.
Ma la cosa che a me personalmente ha impressionato di più erano quegli sguardi, quando siamo arrivati lì, di quei soldati lì delle SS. Con quegli sguardi freddi, cupi, che ti guardavano con quello sguardo che ti incutevano proprio paura. Per non dire terrore.
Io dico. Io la paura l’ho provata perché non posso dire di non averla provata. Quando sono passato sotto il portone di Mauthausen sentivo dei brividi di freddo che mi attraversavano la schiena. Avevo paura e non ho vergogna a dirlo. Ho preso la mano di mio fratello e la stringevo.
Poi la cosa impressionante è quando sono entrato dentro nel campo. Al lato destro e al lato sinistro c’erano questi due prigionieri che erano lì per punizione. Perché poi, come di solito era sempre così. Qualcuno non so per che cosa. Per punizione.
Prima li picchiavano selvaggiamente, poi li legavano alla catena, uno a destra e uno a sinistra e li lasciavano lì tutto il giorno a dorso nudo. Faceva freddo, faceva caldo. In quelle condizioni tutti insanguinati. Se alla sera erano vivi ancora li mandavano alla camera a gas, se non erano vivi li mandavano direttamente al crematorio. Questo era un po’ il destino.
Però quando ho visto queste due persone così conciate, così magre, insanguinate, così legate alla catena mi ha impressionato molto.
Poi noi ci hanno allineato lì sulla destra. Poi a gruppi di una ventina per volta ci facevano scendere giù sotto. Lì sulla destra. Dove adesso c’è quella chiesa lì.
Sotto lì, nel sotterraneo a gruppi di venti ci facevano scendere, ci facevano consegnare tutte le nostre cose. Se avevamo orologi o anelli d’oro, soldi. Lì ci hanno ritirato tutto.
E loro tutto quello che gli consegnavamo lo marcavano giù. Era tutta una cosa, guardate, assurda perché poi delle nostre cose noi non abbiamo visto più niente.
Poi ci hanno tolto i nostri vestiti. Nudi completamente. Tutte le nostre cose che avevamo portato con grande speranza, le nostre valige, quelle ce le hanno fatte abbandonare di sopra. Quelle non ce le hanno fatte portare giù. Le abbiamo lasciate di sopra. Poi tutti i nostri vestiti che avevamo. Ci hanno levato tutto. Ci hanno depilato in tutte le parti del corpo, ci hanno tagliato i capelli a zero e poi abbiamo fatto la doccia. Poi siamo usciti dall’altra parte perché c’era un’altra porta dall’altra parte e là ci hanno dato un paio di mutande e una camicia. E poi ci hanno portato in una baracca.

D: Angelo, cosa vuol dire lasciare tutto?

R: Vuol dire tante cose. Si fa presto a dire “lasciare tutto” ma noi in quegli attimi lì lasciavamo una parte di noi stessi. Tutto vuol dire tutto. Quello che noi avevamo di nostro più caro.
Io avevo un portafoglio. Avevo la fotografia di mio padre, di mia madre, dei miei fratelli. Avevo le fotografie di quando correvo a piedi, perché avevo vinto tante corse.
Tutto vuol dire tutte le nostre cose. Tanto per dire anche una stupidaggine, il pettine, quelle cose lì. Ognuno si era affezionato alle proprie cose. Tutte cose che poi noi non abbiamo più avuto. Non abbiamo più avuto il cucchiaio diciamo… cose che non abbiamo mai avuto. Sono cose insignificanti ma molto importanti quando non ci sono.
Lasciare tutto vuol dire lasciare una parte anche del nostro cuore.

D: E non potevate nasconderlo da nessuna parte?

R: Da nessuna parte. Dove lo nascondevi? Perché te uscivi dall’altra parte nudo completamente. E quando uscivi di là c’erano sulla porta questi guardiani che ti guardavano con le mani in alto.
Ti facevano allargare le gambe. Non so se si poteva. Io non ha mai visto qualcuno che avrebbe potuto portare via qualche cosa.

D: Quindi tu hai lasciato tutto?

R: Ho lasciato tutto. Poi ci hanno allineati e ci hanno portati in una baracca di quarantena lì a Mauthausen. In questa baracca di quarantena, era una delle solite baracche come le altre, divisa in due parti: parte A e parte B. Io ero dalla parte B, insieme a mio fratello, al gruppo di Monza e tanti di Milano.
Noi siamo stati quattro giorni a Mauthausen sempre vestiti con questa divisa: un paio di mutande e una camicia e basta. Lì in quei giorni lì eravamo dentro in baracca.
Il problema grosso è stato alla sera quando davano l’ordine di coricarsi per dormire. Letti a castello non ce n’erano. Bisognava dormire sul pavimento di questa baracca.
Eravamo circa in quattrocento, forse anche di più in ogni parte. E non ci stavamo tutti anche perché le baracche sono lunghe, però una parte in mezzo era per i servizi. Poi c’erano le camerette dei Kapò, e quelle cose lì.
Comunque noi non ci stavamo tutti. Dovevamo metterci di fianco perché se no non ci stavamo tutti. Poi il problema era sempre questo. Quando di notte uno doveva andare ai servizi o qualche cosa, muoversi così per camminare bisognava calpestare sempre qualcuno. Ci sono quelli che si lamentano, quelli che dicono qualche cosa e poi c’erano i Kapò che sentivano un rumorino e allora entravano e picchiavano.
Lì abbiamo capito un po’ le cose: come sarebbe stato il nostro destino. Perché per picchiare delle persone per niente. Anche lì, ti fanno dormire per terra, ti hanno depilato dappertutto, ti hanno portato via tutte le tue cose.
Però io dico sinceramente che quando siamo in tanti, siamo lì in tanti, in qualsiasi momento ci sono sempre i pessimisti e gli ottimisti. Però il più pessimista di noi era poi, molto, molto lontano dalla realtà che abbiamo trovato perché non si pensava mai che esistessero quelle cose che abbiamo trovato.
Ecco, noi siamo stati quattro giorni in quelle condizioni. Il primo giorno è venuto il capo. Un comandante tedesco che ha parlato. Mandato dalle SS. Che ha parlato in tedesco, poi l’ha fatto ripetere da uno che l’ha tradotto in italiano.
Il secondo giorno la mattina ci avevano dato quel pochettino di caffè. Era acqua sporca. Alla mattina amaro. Poi a mezzogiorno ci hanno dato quella gamella di crauti. Difatti nessuno di noi è riuscito a mangiare quella cosa lì. Perché erano proprio porcherie.
Poi è venuto il Kapò, il comandante delle SS e ha detto: “Italiani oggi nessuno di voi ha mangiato la zuppa. Avete rifiutato la vostra zuppa. Fra qualche giorno la cercherete e vedrete come sarà buona, ma più della vostra razione non vi sarà mai data”. E aveva ragione. Era diventata buonissima poi.
“Oggi siete in mille”. Lui ha detto mille perché di preciso non si è mai saputo quanti erano questi trasporti. “Oggi siete in mille, fra tre mesi sarete in trecento”. Guardate che augurio. “Qui dovete imparare a stare agli ordini e a non fare mai quello che volete voi ma dovete sempre fare quello che vi sarà ordinato di fare”. Tutti auguri che ti mettevano addosso quella cosa che chissà poi come sarà.

D: Angelo quelle donne che sono partite con te da Bergamo sono arrivate anche loro?

R: Sono arrivate a Mauthausen; lì a Mauthausen ci sono delle celle. E queste donne le tenevano lì. Poi partivano per gli altri campi destinati alle donne. Difatti a Mauthausen non si è mai vista una donna.
C’erano quelle che arrivavano a Mauthausen, però erano giù in queste celle. E lì poi stavano magari anche dai dieci ai quindici giorni fino a che facevano il trasporto e poi per le donne c’erano altri campi che forse erano peggio anche di quelli degli uomini.

D: Nella baracca dov’eri tu in quarantena, eravate solamente italiani?

R: Sì, italiani. Eravamo tutti noi italiani che siamo arrivati lì, in quel 20 marzo. Perché è stato un grosso convoglio il nostro.
Però anche lì, io prima vi ho detto che ho sofferto la sete sul viaggio, ma la sete l’avevamo sofferta anche i primi giorni e anche dopo perché non è che là si poteva bere e via.
Noi si andava al gabinetto. Tante volte c’era qualche rubinetto, ma si cercava di bere un po’ d’acqua lì ma loro hanno detto di non berla perché era inquinata dall’infiltrazione del Danubio. Però la gran sete che avevamo ci faceva bere anche quest’acqua.
Ce n’è voluta un po’ per smaltire la grande sete che avevamo dentro di noi, che avevamo sofferto durante il viaggio. Ce ne sono voluti di giorni.

D: E nella baracca, letti hai detto che non c’erano?

R: No.

D: C’erano degli armadietti?

R: No, no. Niente.

D: C’erano dei tavoli?

R: Niente, niente.

D: C’erano delle sedie?

R: Niente, niente. Noi si camminava sempre lì in piedi. Si poteva sedersi per terra. Niente. In questa baracca c’eravamo noi. Degli armadietti non ce n’era bisogno perché avevamo solamente la camicia e le mutande che avevamo addosso. Di nostro non avevamo niente.

D: Quindi neanche scarpe avevate?

R: Niente, niente. Avevamo solamente camicia e mutande e basta. E quando ci hanno dato la zuppa da mangiare neanche il cucchiaio. Questa zuppa si mangiava così. Così come un maiale diciamo. Succhiandola così diciamo.

D: Ascolta. E per lavarvi avevate sapone, avevate..

R: No, no il sapone è sparito dalla circolazione. Io in quindici o sedici mesi, sapone, riso e pasta sono spariti. Non li ho visti più.

D: Dopo quattro giorni cos’è successo?

R: Dopo quattro giorni ci hanno dato il resto del nostro vestiario. Ci hanno dato degli zoccolotti, tanti zoccolotti olandesi, tanti zoccolotti incerati ma con sotto il legno. Erano meglio di quelli olandesi perché quelli olandesi erano terribili. Ti spaccavano anche i piedi. Ci hanno dato un paio di calze. Ci hanno dato i vestiti a righe con su ognuno il nostro numero di matricola, perché loro avevano stabilito il nostro numero di matricola. Ci hanno dato il nostro numero lì.
Quando ci hanno dato i vestiti ci chiamavano ognuno e ad ognuno c’era su il suo numero di matricola.

D: Cosa vuol dire numero di matricola?

R: Numero di matricola vuol dire che noi non avevamo più il nostro nome dopo. Il nostro nome era diventato il numero.

D: Quindi quando ti dovevano chiamare non ti chiamavano più Angelo Signorelli?

R: No. Mi chiamavano per numero.
Io ero il 59141 e mio fratello era il 59142, perché loro penso che li hanno fatti numerati in ordine alfabetico. Perché i numeri sono partiti dal 58000 e tanti e sono finiti al 59000 verso 300 o che diciamo.
Tutto il nostro convoglio è stato lì. Ci hanno dato questo numero e questo numero è sempre stato il nostro nome poi.

D: Allora. Il numero l’avevi.

R: Avevamo qui sulla sinistra sulla giacca. Qui sulla destra sui calzoni e ci hanno dato un braccialetto con un po’ di corda. Un braccialetto in lamiera con su anche lì il numero.

D: Cosa vuol dire Angelo chiamarsi con un numero?

R: Chiamarsi con un numero vuol dire tante cose, ma per me che l’ho vissuta vuol dire una cosa molto semplice. Perché noi dobbiamo pensare che tutto quello che hanno fatto le SS non è che lo abbiano fatto così a caso. L’hanno fatto perché è stato tutto studiato a tavolino.
La spersonalizzazione delle persone. Loro ci hanno dato un numero. La spersonalizzazione delle persone. Quando te ti hanno levato tutto dopo averti levato tutto ti levano anche il nome.
Poi per conto mio io l’ho vista in questo modo. Per facilitare anche il lavoro degli aguzzini. Perché se noi lasciamo alle persone un nome, pensate che dietro il nome c’è sempre qualcosa di umano. Tante volte questo nome può ricordare qualcosa anche all’aguzzino. Magari il nome di un figlio o di un parente o qualche cosa e può avere degli attimi di debolezza. Tante volte può avere sul nome della simpatia o qualche cosa. Invece dietro un numero di umano non c’è niente. Un numero è un numero e basta. Il numero si dice senza nessuna emozione, invece un nome… c’è sempre una storia dietro un nome.
Loro quello che hanno fatto l’hanno fatto così. Poi l’abbiamo sperimentato in seguito cosa volevano dire queste cose, perché quando le abbiamo provate a Gusen cosa voleva dire essere chiamati sempre per numero.

D: Ecco Angelo, a proposito di numero. Tu prima l’hai detto in tedesco e in italiano, e chi non capiva?

R: Botte. Venivano massacrati anche.. Voi dovete capire che tutti questi Kapò che abbiamo trovato in questi campi avevano il diritto di vita e di morte su di noi. Si divertivano alle nostre spalle ognuno di questi Kapò.
Quelli che avevamo sul lavoro ci massacravano così, quelli che avevamo in baracca non erano i kapò che avevamo sul lavoro e allora anche loro dovevano divertirsi alle nostre spalle.
Il nostro lavoro finiva alle sei, si entrava in campo, poi c’era il primo appello, poi il secondo appello lì all’esterno delle baracche. Prima l’appello generale sul piazzale del campo dove ci contava la SS e lì dovevano esserci tutti. Poi ognuno andava alle proprie baracche e lì c’erano altri appelli. Noi venivamo tutti allineati all’esterno di ognuna delle proprie baracche, e lì questi Kapò che avevamo nelle baracche si divertivano anche loro alle nostre spalle. Allora incominciavano tutte queste storie.
Abbiamo parlato del numero. Loro si mettevano là tutti bene allineati all’esterno delle baracche e noi eravamo lì tutti allineati tra una strada che divideva una baracca e l’altra. Loro si mettevano sui gradini delle baracche così ci vedevano meglio e ci chiamavano per nome. Ci chiamavano per nome detto in tedesco.

D: Per numero vi chiamavano?

R: Sì per numero, adesso ho sbagliato. Ci chiamavano per numero detto in tedesco. Io però i numeri in tedesco bene o male li conoscevo prima perché da ragazzo lì dove abitavo io c’era una contraerea dove c’erano i soldati tedeschi e qualche cosa avevamo imparato.
Io l’avevo quasi capito il mio numero, però non mi sono mosso. Allora sono venuti a prendermi e mi hanno dato un sacco di botte. Però la seconda volta che hanno chiamato il mio numero ero pronto. Perché quando chiamavano il numero dovevi fare un passo avanti, levarti il berrettino, metterti sull’attenti e stare lì sull’attenti. E se non ti muovevi venivano loro a prenderti e ti davano delle grandi botte. Loro picchiavano.
C’erano quelli che picchiavano coi bastoni, quelli che picchiavano coi pugni a seconda. Ecco, in quelle occasioni lì era brutto se uno cadeva per terra perché allora si prendeva di quei calci sullo stomaco e sulla schiena che tanti ci lasciavano anche la pelle. Lì era molto brutto quando cadevi per terra. Ma tante volte ti davano di quei pugni che ti facevano tramortire.

D: Angelo, oltre al numero ti hanno dato un’altra cosa? Avevi un’altra cosa sulla zebrata?

R: “IT” è la sigla. Il triangolo rosso. “IT” che voleva dire italiano. I francesi invece avevano la “F” lunga, i russi la “R”, gli jugoslavi la “J”, gli ebrei avevano la stella di Davide. Agli ebrei lì a Gusen mettevano anche delle strisce di vernice sulla schiena. Oltre al numero li distinguevano così.

D: Ecco, perché il triangolo? C’erano triangoli di altri colori oltre al vostro?

R: Sì. Il triangolo rosso era quello dei politici. Poi c’erano il triangolo verde di quelli che venivano messi in prigione per reati comuni. Poi c’erano gli omosessuali che avevano il triangolo rosa, mi pare. Poi c’erano altri triangoli. Comunque, ogni categoria li dividevano. Loro li dividevano per queste categorie.

D: E tu avevi il triangolo rosso?

R: Triangolo rosso.

D: Quindi quello dei politici?

R: Sì.

D: Ascolta. Allora, i Kapò erano tutti tedeschi?

R: No. Ce n’erano tanti polacchi.

D: E quando vi chiamavano vi potevano chiamare anche in polacco?

R: Di solito erano o in tedesco o in polacco.

D: Ma chi capiva di voi il polacco?

R: Eh…, ce n’erano pochi. Anch’io quando mi chiamavano in polacco ne ho prese un po’ di più di botte. Ma poi l’ho capito anche in polacco.
Però per me che ero giovane, queste cose si imparano meglio quando si è giovani. Invece le persone che avevano una certa età queste cose non le imparavano mai e prendevano sempre delle grandi botte.
E loro quando ti picchiavano ti insultavano anche: “Italiano di merda, sei un cretino, scemo, figlio di puttana”, diciamo. Tutte parolacce che quando ti picchiavano te le dicevano.

D: C’erano anche molti anziani con voi?

R: Sì. Io ero giovane. Quando vedevo anche uno di trent’anni era anziano. Però anche sui quarant’anni, cinquant’anni ce n’erano. Forse anche di più. Però quelli resistevano poco.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì. Ce n’erano di sacerdoti. Io ne ho conosciuti. Ho conosciuto Don Narciso Sordi. Ho conosciuto anche altri sacerdoti. Poi sono andati a Dachau. Poi c’era Don Gaggero. Ce n’erano tanti.

D: Questi li hai conosciuti perché erano nella tua baracca?

R: No, nel campo, la sera. Magari si andava da una baracca all’altra. Io nella baracca non ho mai avuto sacerdoti assieme.
Poi, dopo i sacerdoti un bel momento li hanno mandati tutti a Dachau. Là li hanno messi tutti nella baracca dei sacerdoti.

D: E avevano anche loro, comunque vada, il numero?

R: Sì, sì.

D: Il triangolo?

R: Sì.

D: Come voi?

R: Come noi. Senz’altro.

D: Di Don Narciso Sordo cosa ti ricordi?

R: Sì, mi ricordo quella volta quando ho visto quei ragazzi. E’ arrivato un convoglio di ebrei ungheresi.
Li hanno fatti scendere dal treno. E poi, c’erano anche delle donne, c’erano bambini, c’erano questi uomini. Li facevano camminare con le mani in alto. Quando ho visto quei bambini così piccoli che camminavano con le mani in alto io ho detto a Galbani, quello di Lecco. Gli ho detto: “Ah, Pino, Pino “. Perché noi tante volte la sera si diceva qualche preghiera. “Ah, Pino, Pino se succede… per permettere queste cose ho paura che Dio non esiste”. E questo dietro di me che era un prigioniero anche lui vestito a righe come me mi dice: “Perché dice così? Non è colpa di Dio. E’ colpa degli uomini”.

D: Dopo, quando hanno completato la vestizione eccetera, ti hanno portato in un altro campo?

R: A Gusen.

D: Ecco, questo viaggio come l’hai fatto?

R: A piedi, ma non sulla strada provinciale. Tutte stradette in mezzo a quelle colline lì perché sono circa quattro chilometri.

D: In quanti eravate?

R: Io che ero giovane, molto attento alle cose, ho visto che quando siamo partiti da lì eravamo in meno di quanti siamo arrivati. Perché loro, se guardiamo il numero di matricola, hanno immatricolato circa seicentocinquanta o settecento prigionieri che portano il numero che sono arrivati. Però per me erano molti di più perché ho visto anche delle persone piuttosto anziane. Ce n’era uno anche senza gamba che non l’ho visto partire.
Io penso che quando siamo arrivati a Gusen una parte di noi sia stata selezionata e mandata alla camera a gas, penso. O forse al Castello di Hartheim. Perché ho visto che eravamo molto, molto meno.

D: Ecco, nella tua permanenza quando tu sei rimasto a Mauthausen, camere a gas, forno crematorio, eccetera, non sapevi nulla?

R: No. Non sapevo niente. Non ho visto niente.

D: Dopo, una bella mattina, vi hanno presi e portati al sottocampo di Gusen?

R: A Gusen.

D: Che era Gusen I o II?

R: Gusen I.

D: Gusen I. Lì cosa vi hanno detto che dovevate fare? Dovevate andare lì per lavorare?

R: Sì. Loro hanno detto che ci portano nel nostro campo di lavoro.

D: Ah.

R: E siamo partiti. Ci avevano dato il resto della divisa. Ormai tutti vestiti con quelle vestite là. E poi siamo arrivati lì a Gusen I. Ecco, oggi non c’è niente.
Anche lui si presentava un po’ come una piccola fortezza, con quel muro di cinta, con quelle torrette dove c’erano le sentinelle e così.
E anche Gusen mi ha molto impressionato. Non l’effetto come Mauthausen, però anche a Gusen quando abbiamo attraversato e siamo entrati in questa porta, in questa porta dove siamo entrati dentro, c’era questo muro, poi c’erano questi reticolati che abbiamo capito che c’era la corrente perché c’erano le cose lì di…

D: Porcellana.

R: Di porcellana.

D: Gli isolatori.

R: Ecco, gli isolatori. E lì c’era la corrente. C’era questo filo spinato molto alto. Poi c’era una parte di circa tre metri. Poi c’era il muro. E in quella parte di tre metri sotto era dove giravano sempre le sentinelle coi cani lupi.
Ecco, entrato lì mio fratello mi ha detto: “Ah, siamo finiti in un brutto posto” fa, “di qui sarà difficile scappare”. Perché noi avevamo sempre questa intenzione di poter tentare la fuga. E difatti da lì non è mai fuggito nessuno.
Poi la cosa che mi ha impressionato di più era che c’era sul lato sinistro nell’entrata, in fondo, c’era come questo camino da dove veniva fuori un fumo.
In una giornata di vento questo fumo faceva come un arco e veniva giù proprio lì sul piazzale del campo dove eravamo incolonnati noi. Era un fumo molto acre. “Chissà cosa stanno bruciando?”. Poi l’abbiamo saputo che era il crematorio. Comunque era un camino che andava sempre, giorno e notte.

D: E anche lì le baracche erano di legno?

R: Sì. Le baracche di legno. C’era una baracca un po’ in muratura che c’è ancora, c’era ancora, adesso non so se c’è. Perché adesso non entriamo più di lì. E poi erano tutte baracche in legno.

D: Ecco. Ascolta. E lì vi hanno messo in una baracca?

R: Lì ci hanno messo nella baracca 16. Una baracca di quarantena. Baracca di quarantena vuol dire che i nuovi arrivati sono in questa baracca isolati dagli altri prigionieri del campo. Anche lì ci hanno messo in questa baracca divisa in due parti Stube A e Stube B.
In mezzo c’erano le camerette dei Kapò. Però non era come a Mauthausen che c’erano anche i servizi. Per i servizi, per i gabinetti, c’era una specie di baracca all’esterno, in fondo. I servizi erano lì.
E poi il giorno dopo abbiamo incominciato a lavorare. Alla mattina, suonava la sveglia del campo alle cinque la mattina, bisognava uscire alla svelta come suonava questa sveglia. Abbiamo visto che questi Kapò scendevano, erano già lì pronti, e picchiavano, urlavano.
Tutto quello che noi facevamo doveva essere fatto di corsa. Perché noi dovevamo uscire a dorso nudo. Loro lo gridavano. Perché uno doveva uscire dalla baracca a dorso nudo se no lo picchiavano, lo mandavano indietro.
Poi abbiamo capito cosa volevano sapere e poi dopo si faceva così automaticamente. Si doveva uscire dalla baracca a dorso nudo, andare a lavarsi. Anche lì sempre lavarsi con l’acqua fredda. Sempre senza sapone. Però dovevamo lavarci, poi entrare in baracca, andare ai servizi, entrare in baracca.
Sulla porta della baracca non è che si entrava facilmente perché c’erano questi Kapò che ti prendevano per le orecchie, ti strattonavano, ti guardavano nelle pieghe del collo.
Se eri sporco o pulito, a loro piacimento ti bastonavano, ti mandavano indietro. “Italiano di merda” dicevano, “Vai indietro a lavarti ancora”. Ti mandavano indietro a lavare e poi finalmente entravi. Ti vestivi. Dovevi fare il tuo castello fatto bene, una coperta bella, fatta bene perché alla sera se non era fatta bene avevi la punizione. Poi tutte cose che abbiamo imparato.

D: Ecco, lì nelle baracche c’erano i letti a castello?

R: Letti a castello. C’erano di tre piani e si dormiva in tre in ogni piano. Due di testa, uno di piedi. Si entrava in queste baracche. C’era il posto centrale che era per le camerette dei Kapò.
Poi c’era la baracca vera e propria dove c’era una grande stufa che serviva ai Kapò della baracca per farsi cuocere le loro cose. Per farsi da mangiare. E poi era tutta occupata da letti a castello. Ce n’erano sul lato sinistro, sul lato destro e una fila in mezzo. Così c’erano solamente due corridoi di qua e di là e lo spazio vuoto.

D: Tavoli, sedie?

R: No, no. Anche lì niente. Noi per sedersi ci sedevamo sui bordi del letto a castello. No, non c’erano quelle cose lì. Li vediamo tante volte quando andiamo a Dachau. Ma lì non ce n’erano. C’erano un tavolo dove c’era la stufa, dove si sedevano i Kapò e le sedie lì. Ma dove eravamo noi non si poteva e uno non si poteva azzardare di andare a sedersi al posto dei Kapò perché dai Kapò si cercava sempre di stare lontano perché ti picchiavano sempre.

D: Ascolta. E ad andare a letto i vestiti, eccetera, dove li mettevate?

R: Beh, i vestiti li mettevamo li un po’ sulla spalliera lì da parte, perché non potevano rubarci i nostri vestiti perché avevamo il nostro numero di matricola. La camicia la tenevamo su. Le mutande le tenevamo su. Era solamente la camicia.
Le calze le nascondevamo sotto al letto, perché quelle sì che sparivano. Le calze le rubavano, e anche le scarpe. Si mettevano lì perché se no te le portavano via e non le avevi più.

D: Le scarpe che erano zoccoli però?

R: Sì, zoccoli. Zoccoloni o quello che erano. Tante volte capitavano anche delle scarpe un po’ mezze andate. Magari di prigionieri, di militari. A seconda dei periodi. Perché le scarpe non ti duravano sempre. Quando erano spaccati gli zoccolotti olandesi lì, anche loro partivano.

D: Non è che te li cambiavano?

R: No, no. Quando erano rotti, quando erano a pezzi te li cambiavano. Altrimenti li cambiavi con qualcuno di quelli che erano morti. Mettevi i tuoi rotte e prendevi quelli di chi li aveva un po’ più belli.

D: Ecco, prima parlavi…

R: Perché sulle scarpe non c’era il numero di matricola.

D: Prima Angelo parlavamo dei sacerdoti, no? Che tu nel Lager hai incontrato dei sacerdoti deportati. Sacerdoti italiani deportati.

R: Sì.

D: Ti ricordi chi erano questi sacerdoti?

R: Erano: Don Narciso Sordo, Don Gaggero, Don Liggeri. Quelli che ho conosciuto. Poi ce n’erano altri. Perché poi dal mese di luglio, agosto, settembre, non mi ricordo bene, questi sacerdoti li mandavano a Dachau. Ma prima erano lì. Li mandavano a lavorare.
Dovevano fare anche loro quello che facevamo noi. Erano dei numeri e basta. Poi questo penso che sia avvenuto per un accordo che ha fatto il Vaticano con le SS. Non so…

D: Ecco, c’è un episodio che ti ricordi di Don Narciso Sordo?

R: Sì. L’episodio di quando ho visto quegli ebrei che erano arrivati. Questa lunga colonna di prigionieri ebrei dove c’erano quei ragazzini lì. Ecco, io quando ho visto quei ragazzini lì di sei, sette, otto anni così piccoli, camminare con le mani in alto mi ha molto impressionato. E proprio ho detto a Galbani, quello di Lecco: “Ah Pino, Pino, penso che noi tante volte alla sera, specialmente loro di là e specialmente alla sera, cerchiamo di dire qualche preghiera, però per permettere questa cose ho paura che Dio non esiste”.
Ecco, in questa occasione ho conosciuto Don Narciso Sordo che ha detto: “Perché dici queste cose? Io sono un prete. Sono qui a soffrire come te”. “Sì, sì, lo so anch’io queste cose” gli ho detto, “Però le nostre condizioni fanno pensare qualunque cosa. Perché queste cose non dovrebbero succedere”. “Eh sì hai ragione. Però Dio dà la libertà agli uomini e sono gli uomini responsabili e questo lo sappiamo”.

D: Ecco ascolta.

R: Ecco lì ho conosciuto Don Narciso Sordo, in questa occasione. Perché lui forse in quel periodo lì lavorava nel comando però non si sapeva che era un prete.

D: A Gusen questo?

R: Sì a Gusen.

D: Don Narciso Sordi non è morto a Gusen dopo?

R: E’ morto a Gusen dopo.

D: Mentre invece gli altri sacerdoti sono stati portati…

R: Sì, anche Don Nigeri è sopravvissuto ma è stato mandato a Dachau.

D: Ecco ascolta, una giornata tipo diciamo. Nel campo di Gusen..

R: Sì.

D: Che tu hai fatto. Una giornata, un giorno qualunque.

R: Sì.

D: La sveglia la mattina?

R: Alle cinque. Ecco la sveglia alle cinque..

D: Anche d’inverno?

R: Sì, sì alle cinque sempre. Come suonava la campana noi di corsa dovevamo scendere ai nostri posti dove si dormiva e uscire a dorso nudo e andare a lavarsi. Sempre di corsa perché il tempo era poco. Sempre di corsa.
Si andava a lavarsi e poi si entrava in baracca. Tante volte ti mandavano indietro ancora.
Ti davano qualche bastonata sulla testa perché ti insultavano dicendoti che eri sporco ancora. Poi quando avevi la fortuna di entrare ti vestivi. Magari mettevi ancora la camicia un po’ umida o bagnata del giorno prima perché io ho sempre lavorato all’esterno. Non ho mai avuto la fortuna di andare nelle officine.
Poi ti mettevi lì e ti davano il caffè della mattina. Loro lo chiamavano caffè. Chiamiamolo pure noi caffè. Era un’acqua scura, sporca Sei volte alla settimana era amaro, un giorno era dolce. Bevevi questa acqua, che non aveva niente di buono, però era calda. E questo era molto bello. Specialmente d’inverno quando bevevi questa cosa. Questo era il cibo della mattina.
Poi per le sei e mezza dovevamo essere.. no per le sei e mezza. Per le cinque e mezza dovevamo essere già bene inquadrati all’esterno della baracca. Dovevi fare il tuo castello fatto bene perché se non lo facevi bene alla sera venivi chiamato fuori per le cinque solite bastonate.
Poi alle cinque e mezza eravamo tutti bene allineati lì all’esterno perché i kapò volevano sempre fare bella figura. Ti allineavano lì di fuori. Ti inquadravano di cinque in cinque. E poi verso le sei meno un quarto ti davano l’ordine della partenza e si partiva per il piazzale del campo. E lì ogni comando.. perché non tutti quelli che erano in quella baracca lavoravano in quel posto. A gruppi ci mandavano ognuno al proprio comando dove ognuno lavorava. Io i primi tempi no. Eravamo una quarantina e lavoravamo tutti.
Ecco, io devo dire che i primi periodi noi italiani eravamo in quarantena e uscivamo sempre per ultimi, perché il nostro lavoro in quarantena è stato quello che abbiamo costruito il campo di concentramento che è stato chiamato Gusen 2. Lì abbiamo fatto dei lavori tremendi. Lì abbiamo lavorato con tutti questi kapò che erano polacchi, che ci picchiavano continuamente. Comunque la quarantena per noi italiani è stata terribile.
Poi è successo anche quel tentativo di fuga di quell’italiano che poi l’hanno ucciso così in malo modo. Perché i tentativi di fuga finivano sempre con la morte. Atti di ribellione finivano sempre con la morte. Poi parlando generalmente. Poi alle sei si usciva dal campo. Si usciva per il lavoro e si lavorava fino a mezzogiorno. Ognuno, quelli che lavorava nelle officine.. ognuno al proprio posto di lavoro si lavorava fino a mezzogiorno.
Io prima, come ho detto prima, ho lavorato in quarantina. Poi quando è finita la quarantina sono andato in cava. Poi dalla cava mi hanno levato. Altri comandi. Però la giornata di lavoro era sempre quella. Si lavorava fino a mezzogiorno.
Poi sul posto di lavoro portavano questa famosa zuppa tedesca che come vi ho detto prima non era buona. Poi era diventata buonissima. Io dalla fame che avevo se me ne davano dieci gamelle le avrei mangiate tutte. Ecco, questa gamella così buona. Poi era diventata buona. Poi era bella calda. Guarda, loro la portavano sul posto di lavoro in quei bidoni grandi e poi la distribuivano con un mestolo. Era anche caldissima.
Ecco, noi che si prendeva in mano questa gamella così calda. Noi che si lavorava all’esterno sempre al freddo. Quando prendevi in mano questa gamella così calda ti sentivi ancora prendere a circolare il sangue nelle vene perché così calda per noi che avevamo le mani così fredde perché sempre a lavorare al freddo. Era diventato una cosa molto bella questa gamella così calda. Aveva ragione quello delle SS che ha detto: “Così buona”. Era diventata così buona che..
Poi, il nostro lavoro, la fermata per la zuppa era quel venti minuti, mezzora. Poi si incominciava a lavorare fino alla sera. Alla sera si entrava in campo alle sei. Le adunate all’esterno. Prima sul piazzale. Poi all’esterno delle baracche. Ecco, all’esterno delle baracche succedevano queste cose; che i kapò si divertivano anche loro.
Come vi ho raccontato prima la storia del numero, poi la storia del cappello. Davano quegli ordini lì: “cappello su e cappello giù”. Lì loro tutti attenti a vedere che quando davano l’ordine “cappello giù” dovevamo tutti assieme levare il cappello perché a quello fuori tempo andavano là e lo picchiavano. “Cappello su”, anche lì, quello fuori tempo prendeva sempre botte. E questi lo facevano per divertirsi loro perché loro sghignazzavano, ridevano, ti picchiavano, ti insultavano.
Poi finalmente quando davano l’ordine di entrare in baracca. Non è che andare in baracca si andava subito. Bisognava andare a lavarsi bene gli zoccoletti perché magari erano infangati. Perché se entravi in baracca così sporco ti picchiavano e ti mandavano indietro. Forse i primi giorni le abbiamo prese, ma dopo poi l’abbiamo imparata la lezione. Si andava a lavarsi. Noi già intirizziti dal freddo, lavarsi ancora con l’acqua fredda così.. pensate alle sofferenze.
Ecco, poi quando si aveva la fortuna di entrare in campo ti davano la tua razione di cibo della sera. Alla sera davano il pane. Davano la nostra fetta di pane. Ecco, il pane tedesco era un chilo.
I primi tempi ne distribuivano in tre parti e allora poteva anche non bastare, per l’amor di Dio, ma era già una buona parte. Poi ti davano una fetta di salame. Al lunedì e al martedì una fetta di salame. Sarà stata trenta grammi di salame. Al mercoledì una fettina di margarina. Al giovedì ancora il salame. Al venerdì un cucchiaio di margarina, un cucchiaio di ricotta. Al sabato ancora margarina e alla domenica una fettina di salame e una fettina di margarina o un cucchiaio di ricotta o di marmellata. Erano quelle cose lì.. Dovete sapere che questo era il cibo per tutta la giornata, diciamo..
Poi a lungo andare queste fette di pane. Perché alla fine del ’44, poi è incominciato il ’45, forse per i bombardamenti, forse per le ritirate che anche i tedeschi facevano, il cibo diminuiva sempre. Dovete sapere che negli ultimi mesi questa pagnotta veniva divisa anche in dieci, anche in dodici e anche in sedici. Era diventata proprio una fettina così.. Ecco perché anche negli ultimi tempi la mortalità è aumentata così tanto.

D: Ascolta, tu dicevi che la tua baracca era la sedici.

R: Sedici. In quarantena.

D: In quarantena. Poi è diventata?

R: La dodici.

D: La dodici. La baracca ventisette che baracca era?

R: L’infermeria.

D: E lì cosa facevano Angelo?

R: Io sono stato ricoverato in infermeria tre volte. Nella baracca d’infermeria io sono stato anche operato. Perché quando ero pieno di scabbia che poi mi ha fatto infezione.. Allora ho dovuto marcare visita perché poi non riuscivo più neanche a camminare perché avevo dei foruncoli grossi proprio qui sotto le gambe e oltre la febbre facevo fatica anche a camminare.
Noi avevamo paura ad andare in infermeria perché si vedeva che tanti che andavano in infermeria non ritornavano più. Invece quando sono andato in infermeria mi è andata bene perché.. Io devo dire che quando alla mattina mi hanno portato là.. perché ci portavano in un posto dove c’erano gli ufficiali medici. C’era uno anche delle SS oltre agli ufficiali medici dell’infermeria. C’erano anche dei prigionieri che erano dottori. Lavoravano in infermeria.
Lì, c’era quell’ufficiale delle SS. Mi ricorderò sempre. Mi dice.. Perché noi si andava in infermeria e quando si fa questa visita di controllo, eravamo là vestiti, e lui ha visto che ero italiano e mi dice: “Di che città sei?”.

D: Parlava italiano?

R: Sì, ha parlato in italiano: “Di che città sei?”. Io gli ho detto di Milano. Poi sono venuto a sapere che era un medico italiano che aveva sposato un’austriaca e si era arruolato nelle SS. Questo lo sono venuto a sapere poi. Però da quello che ho saputo anche da quelli che come il dottor Carpi, che lui anche sono stati tanto tempo in infermeria che faceva questi disegni, Cercava di aiutare un po’ gli italiani.
E lui mi dice: “Cos’hai fatto?” e io ci ho detto: “Avevo la scabbia. Poi mi ha fatto infezione”. “Allora fammi vedere”. Allora ho abbassato i calzoni e gli ho fatto vedere. E lui mi ha detto: “Non aver paura. Ti manderemo fuori guarito”. E così e stato.
Io lì sono entrato in infermeria e sono stato operato. Mi hanno messo la maschera. Poi sono stato operato. Poi sono stato medicato. E lì in infermeria mi è andata anche bene perché mi davano anche da mangiare. Perché tante volte quelli che erano in infermeria gli davano più razioni da mangiare. Forse l’avrà ordinato lui, quello lì delle SS.
Praticamente io sono stato ricoverato forse un dieci o quindici giorni, non mi ricordo bene adesso, sono uscito che mi ero ripreso abbastanza bene. Per me l’esperienza della baracca ventisette mi è andata bene.
Però nella baracca ventisette c’erano quelli che poi ho saputo che ci davano da mangiare. Poi li tiravano su un po’. Poi li mettevano nell’acqua per vedere quanto potevano resistere, cioè, era un po’ per fare degli esperimenti. Per vedere quando venivano battuti gli apparecchi tedeschi nella manica. Per vedere quanto un pilota poteva sopravvivere. Perché loro fino a che avevano la speranza che uno poteva sopravvivere allora vedevano un prigioniero, lo mettevano lì per poter vedere quanto poteva resistere. Per poterli recuperare nella manica. Ecco, erano tutte queste cose.
Invece il blocco trentuno. Dove è stato regolato il blocco trentuno era brutto. Quelli là li eliminavano. Punture di benzina, così. Là era per la diarrea, per quelle cose lì. Malattie più brutte diciamo.

D: Ti ricordi di aver visto il forno crematorio?

R: Si beh, si senz’altro. Poi non c’erano problemi per avvicinarsi al forno crematorio. Potevi avvicinarti perché non cerano delle cose che lo vietavano. Potevi passare vicino al forno crematorio.
Quando lavoravo al kartoffelkommando avevamo un carro dove mettevamo su quelli che massacravano nella giornata e portavamo questo carro fino all’esterno del crematorio. Poi li lasciavamo li e poi li scaricavano quelli addetti al crematorio, questi prigionieri, per il crematorio.
C’erano morti e moribondi sul carro, perché li massacravano di botte così tanto che insomma..

D: Angelo tu hai lavorato anche in cava?

R: Si, in cava.

D: A Gusen?

R: Si, 10 giorni.

D: Cosa vuol dire lavorare in cava?

R: Guarda io ho lavorato in cava 10 giorni. Dopo la quarantina, quando mio fratello è partito per le officine è stato a Schwechat, Mödling e poi mio fratello non l’ho visto più fino a quando sono ritornato a casa.
Ecco, lavorare in cava! Lavorare in cava vuol dire una cosa terribile. Guardate, io in cava ho lavorato una decina di giorni; ho capito che ormai ero alla fine. Perché in cava uno poteva resistere un mese, un mese e qualche giorno, due mesi ma poi non ce la faceva più. Il lavoro era massacrante, c’erano i capi più cattivi; i kapò più cattivi. E non trovavi neanche un filo d’erba da mangiare perché io che ho lavorato in giro per i campi, tanta erba, quei tipi di insalata selvatica ne ho mangiata tantissima, ma in cava non puoi mica mangiare le pietre. In cava non c’erano i fili d’erba. In cava c’erano botte, lavori e basta.
Il lavoro era svolto così in cava: c’erano dei minatori specializzati che piazzavano le mine, queste mine scoppiavano alle 10,00, a mezzogiorno, alle 15,00, alle 18,00 alla sera. Ecco voi dovete sapere alle 18,00 alla sera, i prigionieri rientravano e scoppiavano le mine. Però il materiale che veniva giù preparavano il lavoro per quelli che andavano alle 06,00 alla mattina. A mezzogiorno intanto che mangiavi quel quarto d’ora di fermata, scoppiavano le mine. Alle 10,00 ti facevano ritirate.
Ecco alle 10,00, quando fischiava questo fischio, ritiravano i prigionieri e facevano scoppiare le mine. Però dovete sapere che tutto il materiale che cadeva tra uno scoppio e l’altro doveva essere portato via tutto. C’erano le pietre grosse e quelle venivano portate vicino allo scalo merci e lì poi venivano caricate sul treno. Allora quelle servivano per fare fortificazioni o altre cose. Invece quelle medie venivano messe sui vagonetti e poi questi vagonetti venivano spinti nel frantoio; perché lì a Gusen c’era un frantoio. Queste pietre venivano frantumate, erano le famose ghiaie che servono per le massicciate ferroviarie. Tutti questi lavori dovevano esser svolti.
Dovete sapere che per portarle in questi posti, o alla massicciata per essere portate via col treno, o sui vagonetti, c’erano dei ponti obbligati e per passare di lì c’erano questi kapò che picchiavano sempre.
Ecco perché in cava era difficile, impossibile resistere; perché erano delle grandi botte massacranti. Perché quelli picchiavano, allora le bastonate non era come la sera che ti mettevi lì con il sedere per aria e te le davano sul fondoschiena. Ma quando picchiavano sul lavoro dove andavano? Andavano sulla testa, sulla schiena, sul collo, dappertutto; dove cadevano questi colpi che erano picchiati con violenza micidiale.
Ecco perché tanti alla sera, quando rientravano in campo, erano così massacrati che poi li portavano direttamente al crematorio.

D: Perché poi tu non hai più lavorato in cava?

R: Non ho più lavorato in cava perché una mattina che ero lì in fila, ero lì in fila per uscire, e io capivo che non ce la facevo più, non potevo più resistere perché era una cosa impossibile resistere, ero lì in fila quando lo schreiber che ci contava lì sul piazzale del campo, ci conta sempre a cinque a cinque, arriva davanti a me si ferma e dice: “wieviel jahre?” che significa quanti anni hai, e io mettendomi sull’attenti perché questa era la prassi, rispondo 17 anni. Allora lui mi prende fuori e mi dice “in cava bisogna avere 18 anni per andare”. Allora in cava non mi hanno più mandato a lavorare, per me è andata bene; mi hanno salvato diciamo. Perché anche quello lì era uno schreiber polacco, perché questi schreiber polacchi tante volte mi davano l’impressione che cercavano di aiutare a salvare qualcuno. Erano prigionieri anche loro, erano prigionieri politici.
Io poi soltanto li in baracca ho fatto il garten kommando, altri comandi e via. E’ andata bene perché io…
Però io ero sempre nella baracca 12 dove c’erano quelli che lavoravano in queste cave. Ecco perché vedevo che in cava in poco tempo, poi lì nelle baracche e anche nelle cave c’erano quei kapò lì che erano cattivi, tremendi. C’era Otto che picchiava sempre, lui non picchiava mai con il bastone. Lui picchiava sempre con i pugni e sempre nel basso ventre. Sghignazzava come un matto e finché uno non vomitava non smetteva di picchiare. Era terribile quell’Otto lì. Poi un bel giorno è sparito e non si è più saputo quello che abbia fatto, però ho saputo che è sparito perché era un omosessuale ed è andato insieme a qualcuno, erano cose vietate e l’hanno fatto sparire e l’hanno ucciso.

D: Angelo, il giorno di Pasqua del ’44, che cosa è successo?

R: E’ successo quel tentativo di fuga di Nada Luigi, quel piemontese. Eravamo ancora in quarantina e lui aveva pensato di nascondersi in una baracca, era una baracca sul posto di lavoro non dentro nel campo, sul posto di lavoro lui ha pensato che lì dove mettevano tutti gli attrezzi, i badili, tutte quelle cose, lui si è nascosto lì, aveva fatto dei sacchi, aveva fatto come delle cose di tela, dei vestiti e lui ha detto: “qui di notte quando ritirano le sentinelle”, lui aveva pensato di fuggire.
I suoi amici dicono che era uno che aveva sempre nella testa la sua famiglia, ed aveva sempre nella testa questa cosa qui di fuggire.
Io non lo conoscevo ancora e non l’ho neanche mai conosciuto.
Praticamente quella sera lì, alla fine del lavoro, quando ci allineano tutti lì ancora sul posto di lavoro, perché allora ci allineavano tutti lì per il primo appello. Perché loro ci allineavano qualche dieci minuti prima del sei, perché alle sei dovevamo entrare in campo e poi ci contano. Perché loro dalle SS se hanno avuto tutti questi prigionieri, loro i prigionieri dovevano portarli in campo. O vivi o morti dovevano portarli in campo, perché quelli che uccidevano li dovevano portare in campo. In campo dovevano entrare anche i morti, ecco perché c’erano quei carichi dove mettevano questi morti, perché là li contavano. Se questo commando usciva con cento prigionieri, cento ne dovevano rientrare; o morti o vivi.
Lì ne manca uno, e loro ci contano due o tre volte e poi partono alla caccia con i cani lupo, questi kapò. Sono arrivati due o tre comandanti della SS, fino a che l’hanno trovato. Non ci hanno messo molto a trovarlo perché i posti da cercare, saranno entrati in questa baracca e lo hanno trovato. Praticamente l’hanno trovato e lo hanno portato in mezzo a noi che perdeva sangue dappertutto. Chissà le botte che gli hanno dato. E poi lo hanno incolonnato ancora; è entrato in campo con noi. Ormai gli altri comandi erano rientrati in campo e noi siamo rientrati per ultimi. Quando siamo rientrati, perché quando rientrano tutti in campo rientrano le sentinelle che ci sono esterne.
Questo era il giorno di Pasqua. Quel giorno di Pasqua non abbiamo lavorato fino a sera. No non fino a sera ma qualche ora prima ci hanno fatto rientrare. Poi l’hanno messo lì, è venuto quello delle SS e ha dato l’ordine di farlo fuori, perché l’ordine doveva darlo quello delle SS.
L’hanno fatto prendere da quattro di Torino, l’hanno fatto portare al wascheraum e l’hanno fatto annegare nell’acqua. Tanti dicono la botte, tanti dicono…, ma io la botte non l’ho mai vista però lo hanno fatto annegare nell’acqua. Praticamente l’anno fatto annegare nell’acqua, quelli gli hanno tenuto giù la testa un po’ poi non ce l’hanno fatta più e poi gliel’hanno tenuta giù i kapò. Lui ha avuto ancora quell’attimo che ha avuto la forza di tirare su la testa e le ultime parole sono state: “mio Dio, mia moglie e i mie figli”. Poi i kapò gli hanno tenuto giù la testa ed è morto così.
Poi questo morto lo hanno messo all’esterno della baracca e ci hanno fatto girare in giro tutti noi. C’era quello tedesco che parlava e l’interprete che lo diceva in italiano, che è questa: “E’ la sorte riservata a tutti coloro che tenteranno la fuga o che si ribelleranno.” E infatti io, nel periodo che sono rimasto lì, ho visto dei casi di tentativi di fuga o di ribellione e hanno fatto la stessa fine. Anzi, ho visto un italiano che si era ribellato ad un kapò, l’hanno massacrato di botte e poi è venuto quello delle SS e gli ha sparato un colpo di pistola, uno per ginocchio. Poi lo hanno lasciato morire lì così ed alla fine lo hanno messo nell’acqua. Ma penso che quando lo hanno messo nell’acqua era già morto.
La prassi di mettere nell’acqua c’era sempre in tutti i tentativi. Vedi che anche quel generale russo lo hanno congelato vivo? Era una cosa che a loro forse faceva parte del loro modo di pensare.

D: Angelo e atti di solidarietà?

R: Si anche quelli ne ho visti tanti e molto importanti. Guarda se non c’erano atti di solidarietà io…….
Il primo atto di solidarietà è stato in quella famosa baracca, quando io e Galbani stavamo mettendo il verde in giro ad una baracca della Wehrmacht, dei soldati tedeschi.
Eravamo all’ingresso di Gusen II e lì c’era una baracca dove mettevano questo, perché lì mettevano, quando ritiravano questi soldati dal fronte, allora cercavano questi battaglioni di ricostruirli e allora li tenevano lì quei 15-20 giorni. Noi stavamo mettendo il verde in giro a questa baracca. Io e Galbani eravamo solamente noi di prigionieri, poco distante da noi c’era un gruppo di SS, e quando all’interno della baracca sentiamo questa voce che dice: “It”. Forse lui era da diversi giorni che ci curava, E per trovare l’occasione prima di tutto in baracca non ci doveva essere nessuno perché per quello penso che anche loro avevano paura perché c’è sempre la spia. E io faccio per guardare e mi dice: “no stai giù, stai giù, di dove siete?”.

D: In italiano?

R: Si, parlava in italiano. “Di Milano”, “andate dove portate lo sporco che ho messo là un pacco per voi”.
Io questo soldato tedesco non l’ho mai visto. Ho sentito la sua voce, parlava in italiano. Dove c’era il posto della pattumiere abbiamo trovato un pacco per noi. C’era del pane, della margarina, qualche fettina di salame. Noi per diversi giorni, almeno 5 o 6 giorni abbiamo trovato questo pacco per noi. Non abbiamo mai saputo chi era questo soldato. Ecco perché io non accetto mai di parlare male dei tedeschi, perché anche se in quel periodo hanno avuto una dittatura, che era anche forse una maggioranza del popolo tedesco, però c’era anche una parte del popolo tedesco che……
Altra solidarietà di tedeschi l’ho avuta dai prigionieri medesimi, però questo era un soldato.

D: Che tu non hai mai visto.

R: Non ho mai visto. Sarebbe stato molto bello se io dopo la liberazione……. Perché lui era lì, poi da lì è stato mandato al fronte. Può darsi che sia morto in guerra, può darsi che sia un sopravvissuto. Se è un sopravvissuto anche lui si ricorderà di queste cose. Però queste cose di solidarietà che sono successe sono molto importanti.
Poi ne ho dentro anche da prigionieri, anche da prigionieri politici austriaci, anche polacchi, anche di solidarietà spagnoli. Tra di noi ce n’è stata tantissima. Anche di noi italiani insomma. La solidarietà in quei posti aiuta molto.

D: Lì stavi accennando a spagnoli ed austriaci, dentro a Gusen c’erano italiani, quindi spagnoli.

R: Si ce n’erano tanti. Si può dire che c’erano oltre gli spagnoli, i francesi, polacchi, russi. Allora erano ancora lituani, ce n’erano anche di quelli. C’erano olandesi, belgi; ce n’erano un po’ di tutti.

D: Come facevate a capirvi?

R: Tra di noi c’era come una lingua internazionale. Potevo incontrare qualunque prigioniero poi io giovane imparavo bene le cose. Poi c’era un russo che lavorava con me che lui parlava quasi l’italiano. Ma sai com’era bravo Fiodorov? Poi lui aveva una mania per la lingua italiana. I miei amici principali sono stati anche quei russi, perché quando ero al garten kommando lavoravo anche al kartoffelmittel con Fiodorov, con Pavan, con Signorenko, con questi russi, con Paullo. Ma quel Fiodorov studiava da ingegnere e lui aveva proprio la mania di imparare la lingua italiana. Quando io e Galbani si parlava e lui sentiva qualche parola nuova mi diceva: “Cosa vuol dire questo? Cosa vuol dire quello?”. Ma sai com’era bravo? Anche lui chissà se sarà sopravvissuto, perché negli ultimi giorni è stato in reparto infermeria. Non so che fine abbia fatto. Poi un bel giorno è arrivata la Croce Rossa russa, dopo la liberazione, e i suoi prigionieri se li è portati via. Io non ho più avuto l’occasione se Pavan, Fiodorov siano sopravvissuti. Erano proprio… ma che bravi.

D: Anche questo è uno dei deportati politici?

R: Si lui faceva il partigiano. Lui è stato preso a 70 Km prima di Leningrado. Ma con noi italiani lui aveva il debole. Ci volevamo molto bene tra di noi, ci siamo aiutati molto.

D: Ascolta, poi arriva il maggio del ’45. Cosa succede nel maggio del ’45?

R: Nel maggio del ’45 la prima cosa che succede è stata quella che le SS una mattina noi non la vediamo più. Al posto della SS ci sono la Wehrmacht, cioè l’esercito tedesco. Tutti piuttosto anziani e loro hanno detto di non tentare niente che loro hanno l’ordine di tenere la disciplina e basta. Di stare lì e di non fare niente.
Infatti le SS, questi soldati così coraggiosi, così tremendi che per comandarci a noi …… allora non sono stati lì a difendere anche le loro idee. Coraggiosamente se la sono filata anche loro. Questa qui è una cosa da dire, perché loro hanno messo i vestiti in borghese e sono fuggiti. Avevano già i posti dove andare.

D: Voi sapevate che era imminente la liberazione?

R: Si perché a noi è andata bene, perché noi con più si sentiva avvicinare il cannone, perché era ormai da diversi giorni che si sentivano i colpi di cannone che si sentivano sempre più bene e significava che si stavano avvicinando. Perché noi avevamo anche la grande paura perché circolavano anche le voci che ci facevano fuori tutti. Per noi è stata una grande soddisfazione quando non c’è più stata la SS e c’è stata la Wehrmacht. E allora abbiamo avuto la speranza che la SS non ci facesse fuori e infatti. Perché la SS ci aveva dato l’ordine, da quello che si è sentito dire, di farci fuori. Ci dovevano far andare sotto le gallerie di Gusen, erano già minate e farle scoppiare. Ci ha dato l’ordine l’esercito alla Wehrmacht, però questo generale non ha eseguito questo ordine e a quanto pare abbia avuto anche un encomio dagli alleati.

D: E quando sono arrivati?

R: Il 5 maggio. Cioè la notte del 4 maggio c’è stato un cannoneggiamento. Lì dove c’è Gusen, noi guardiamo dietro dove ci sono le cave di Gusen, lì sopra era piazzata una batteria di cannoni tedesca. E quella notte c’è stato un forte cannoneggiamento, si sentivano i cannoni che sparavano e gli americani che rispondevano. Poi verso le 02,00 – le 03,00 c’è stato silenzio e allora noi la mattina, guardando verso la batteria tedesca, era completamente distrutta.
Gli americani avevano attraversato il Danubio e alla sera verso le 17,00 sono arrivati lì.

D: Dove ti trovavi?

R: All’esterno delle baracche. Si vedevano questi kapò, questi delinquenti diciamo, che erano sempre così spavaldi anche loro e gli ultimi giorni, quando si è ritirata la SS, si vedeva che parlavano tra di loro, che avevano paura. E allora cercavano di organizzarsi perché avevano paura che li facessero fuori anche loro.
Infatti, noi verso le cinque, come ho detti prima, si sente dire che sono arrivati gli americani. Pensate che cinque minuti prima noi in tutte le baracche, non eravamo radunati sul piazzale, in ogni baracca i kapò tenevano radunati i loro prigionieri e loro cercavano di tenerli lì e di fuggire subito. Loro avevano pensato a questo sistema.
Pensate che alle cinque meno cinque un russo che era là in piedi e non ce la faceva più a stare in piedi, è caduto per terra e l’hanno massacrato di botte. Questo alle cinque meno cinque. Alle cinque senti dire che sono arrivati gli americani e allora come si sente dire questo è cominciato il linciaggio dei kapò. I russi che avevano lì i kapò li hanno fatti fuori subito. E quella sera lì è successo un po’ il finimondo.
Gli americani che cosa hanno fatto? Hanno preso prigionieri questi soldati anziani, le armi le hanno buttate e poi hanno buttato su un po’ di benzina ed hanno dato fuoco. Poi gli americani sono partiti ed hanno portato via i prigionieri, quelli della Wehrmacht e poi non si sono più visti per qualche giorno. E allora i prigionieri russi, spagnoli, quelli fisicamente più in gamba hanno preso un po’ di armi hanno circondato il campo e poi c’è stata la caccia ai kapò. I kapò hanno cercato di fuggire ma hanno trovato dei prigionieri armati che li avrebbero fatti fuori perché li conoscevano; quella sera lì è successo il massacro perché tanti kapò sono stati uccisi.
Poi oltre ai prigionieri c’è stata la caccia anche al cibo; c’è stato l’assalto alla cucina. Io così giovane mi sono lanciato in cucina per cercare, dalla grande fame che avevo, e poi quasi ci lascio anche la pelle perché ci sono stati tanti morti quando c’è stato l’assalto alla cucina perché tutti ti schiacciavano lì…

D: Ripeti, l’assalto alla cucina….

R: C’è stato l’assalto alla cucina e io inconsciamente mi sono lanciato anch’io all’assalto. Guardate, tanti sono morti e io quasi non ce la facevo più ad uscire perché tutti ti spingevano. Sono arrivato dove c’era il bidone della ricotta e della marmellata, prendevo le mani di ricotta e di marmellata per mettermele nella bocca ma non sono mai riuscito di mettermele in bocca perché quelli dietro di me mi portavano via tutto. Una cosa assurda. Alla fine mi è andata bene che sono riuscito ad uscire fuori vivo da quel casino lì. E’ stato un errore che ho fatto anche io di lanciarmi all’assalto alla cucina; per la fame. E’ stata la grande fame.
Poi alla fine io e Galbani siamo andati dove c’erano i conigli per cercare di mangiarne qualcuno. Siamo andati verso le gabbie dei conigli e sul percorso ho trovato Richard, che era un kapò della baracca 16, era tutto insanguinato anche lui mentre stava fuggendo. Aveva in mano un coltello. Allora io e Galbani siamo fuggiti dentro ad una baracca perché noi eravamo disarmati. Poi abbiamo trovato un gruppo di russi che lo cercavano e che ci dicevano che era scappato, poi lo hanno inseguito e non so se lo hanno preso.
Praticamente noi siamo arrivati alle gabbie dei conigli e i conigli erano spariti tutti. Alla sera della liberazione io e Galbani, ho trovato un russo un mio amico, non Fiodorov, perché Fiodorov era in infermeria, perché se era Fiodorov, un altro di quei russi con cui ho lavorato insieme mi ha dato la testa del coniglio, mi ha dato anche troppo.
Allora noi abbiamo preso due o tre patate, siamo andati al deposito delle patate, abbiamo fatto cuocere questa testa del coniglio con le patate nell’acqua sporca, perché erano saltate tutti i rubinetti e l’acqua non c’era più. Allora c’era un po’ di pozzanghere d’acqua e abbiamo fatto cuocere un po’ tutto; questo stato quello che abbiamo mangiato noi il giorno della liberazione.
Per gli altri giorni dovevamo arrangiarci perché gli americani sono tornati dopo quattro o cinque giorni. Dopo ci hanno rastrellato, ecco perché tanti sono morti ancora dopo la liberazione, perché ognuno quello che trovava tanto da mangiare mangiava tanto e poi moriva, quello che trovava poco mangiava poco però………
Però non era colpa degli americani, perché di campi di concentramento lì ce n’erano tantissimi e in tutti posti dove andavano ne trovavano e trovavano gente affamata da curare e via. E loro dovevano andare avanti anche a fare la guerra e per quello ne sono morti tantissimi anche dopo.

D: E che cosa pensavi in quel momento lì?

R: Dalla liberazione? Si era contenti e tutto, si cercava di sopravvivere. Però il nostro pensiero era si per i genitori, per tutti e per tutto, ma il pensiero più forte era quello di trovare da mangiare. E’ una cosa assurda dirla oggi, ma in quei momenti là…
Sai in quante baracche siamo andati a svaligiare ma c’erano sempre vestiti. Ho buttato via anche la divisa e mi sono vestito di quei vestiti lì che trovavo nelle baracche. Perché lì c’erano tantissime baracche piene di vestiario, perché erano tutte cose che portavano via dall’Italia o da altre nazioni.
Ma noi cercavamo da mangiare e da mangiare non ne trovavi più. Alla fine per mangiare dovevi andare ancora al deposito delle patate e far cuocere qualche patata sempre con l’acqua sporca.

D: E la gente che abitava lì attorno?

R: Case ce n’erano poche. Poi siamo andati anche nelle famiglie e c’è stata una famiglia, ecco questa me la ricorderò sempre. C’è stata una donna piuttosto anziana che ci fatto entrare, a me e a Galbani, ci ha fatto da mangiare una pastasciutta dolce. C’era anche Terzi insieme e abbiamo mangiato questa pastasciutta dolce. Poverina, questi ci hanno raccontato un po’… però lei ci ha accolto bene, magari se l’è levato di bocca lei per darcela a noi.
Ma a noi era un fame che anche se mangiavi qualche cosa ce l’avevi sempre. Poi sono andato verso il Danubio, perché ci siamo allontanati un po’ dal campo, e abbiamo trovato le lumache. Là ce n’erano tantissime, ma sai che estensione di lumache che c’era? Poi abbiamo acceso il fuoco e le abbiamo fatte cuocere in mezzo al fuoco.
Ecco perché ne sono morti ancora tanti. E anch’io dopo mi sono ammalato e quando sono venuti gli americani alla fine mi hanno ricoverato in infermeria.

D: E poi il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa anche questo. Perché io quando sono ritornati gli americani, no il giorno prima del ritorno degli americani…
Quando sono venuti gli americani ci hanno portati in baracca, poi ci hanno curato, ci hanno visitato e disinfettato con nuvole di ddt. Poi hanno cominciato a darci da mangiare qualche cosa e ci hanno visitato e mi hanno detto che io dovevo essere ricoverato in infermeria perché stavo male, avevo la diarrea. Erano state le lumache e tutte quelle porcherie che avevo mangiato in giro; la carne del cavallo cruda. Più che altro è stata la carne di cavallo, quando ci siamo radunati all’esterno delle officine della Steyr, noi italiani abbiamo requisito un cavallo e lo abbiamo macellato e mangiato. E quella carne lì mi ha rovinato, per me è stata la carne di cavallo che i ha rovinato.
Il giorno prima che mi ricoverassero in infermeria è venuto il Giuliano Paietta, che era a Mauthausen, è venuto a prendere il nome dei deportati sopravvissuti di Gusen.
Lui aveva la lista dei sopravvissuti e gli ho detto se c’era Signorelli Giuseppe e lui mi ha detto: “Sì, tuo fratello è a Mauthausen”. “Allora digli che domani devo essere ricoverato in infermeria e se può venire a trovarmi, perché io non posso andare a trovarlo”. E allora io il giorno dopo sono stato ricoverato in infermerie e come sono stato ricoverato sono andato quasi in coma. Sono stato più di 20 giorni in quelle condizioni. Io non conoscevo più nessuno. E’ stato lì anche mio fratello a trovarmi, perché il Paietta è andato là e poi dopo tre o quattro giorni ha preso un soldato americano e ha portato mio fratello in camionetta ed è venuto a trovarmi. Mi ha visto in che condizioni ero e voleva stare lì però l’americano gli ha detto che aveva l’ordine di riportarlo indietro e l’ha riportato indietro. Lui è rimpatriato 15 giorni prima di me tramite la Croce Rossa svizzera e non ha detto a mia mamma in che condizioni ero perché non sapeva se ce la facevo.
Poi il fatto è successo così: dopo diversi giorni, una mattina, gli americani hanno cominciato a fare la penicillina. Loro ce l’avevano già e l’avevano data in infermeria, però i dottori polacchi la facevano ai suoi più che ai nostri. Però un mio amico italiano l’ha saputo ed è andato in infermeria a fare un po’ di baccano e gli ha detto di farla anche agli italiani perché se no avrebbe avvisato il comandante americano.
Così me l’hanno fatta. Mi ricordo che una sera mi hanno fatto quella puntura lì e succede che la mattina verso le 04,00 mi sveglio, ero uscito forse dalla mia fase di coma. Poi mi hanno detto che in quelle condizioni sono stato 27 giorni, ma io come se fosse stato un giorno. Io apro gli occhi, guardo in giro e la prima cosa che mi colpisce è stato il lenzuolo bianco. E mi sono chiesto: “Dove sono qua?” Poi la seconda cosa: una grande fame che ho addosso, una fame, una fame, una fame.
In fondo alla baracca c’è un lumino acceso e come vedo questo lumino con la grande fame che ho, ho pensato di andare là per cercare da mangiare. Io ero sul castello ma a pian terreno, esco, mi metto in piedi ma debole com’ero sono caduto per terra. Allora quando l’infermiere di turno ha sentito è venuto lì e mi ha sgridato dicendo: “italiano stai a letto, ma che cosa fai?” “Ho fame, ho fame” “Hai fame ma stai a letto, non mangi niente”. Poi mi ha messo a letto ed è andato a chiamare il dottore. Il dottore mi guarda, hanno parlato tra di loro e ho capito che erano contenti e che stavo un po’ bene. Però loro non mi davano da mangiare; io avevo fame, continuavo a cercare da mangiare. Poi succede che la mattina mi danno un po’ di caffè da bere, ma da mangiare non mi danno niente. Al pomeriggio, quando Galbani viene dentro, perché veniva tutti i giorni a trovarmi. Mi portava un po’ di miele, un po’ di zucchero per mettermelo sulle labbra. Mi faceva mangiare un po’ di biscotti. Ecco io quando c’era Galbani, anche se ero incosciente, io me lo sentivo che era lì vicino. Quando c’è stato mio fratello io non ho percepito niente, però veniva Galbani, forse avendo lavorato tutto quel periodo insieme, io capivo che era lì vicino. E allora gli dico: “Pino hai lì qualche cosa da darmi da mangiare? Ho fame.” E lui mi ha dato un po’ di biscotti, quello che aveva mi ha dato e io ho mangiato anche se i medici non avevano dato l’ordine. E poi mi dice: “Guarda che domani noi rimpatriamo. Dobbiamo andare a Mauthausen e poi ci portano. E tu non puoi partire con noi”. “Io vengo con te, io vengo con te”, “ma non puoi, non puoi”. “Tu mi lasci qui?”
Quando gli ho detto così è andato a parlare dicendo che io volevo tornare. E’ venuto lì il dottore a parlare e dice:” No vediamo” “Ma io ho fame, datemi da mangiare”.
Insomma praticamente poi ha fatto portare un po’ di tè con due o tre biscotti; si va bene era qualche cosa.
Viene il giorno dopo, io ero convinto mi hanno fatto firmare la carta e sono partito.
Pino e un altro di Lecco mi aiutavano a tenermi su, mi hanno messo su un camion.
Pensate, 4 km di strada partendo da Gusen per arrivare a Mauthausen, sono sceso da solo dal camion, solamente per la grande voglia che avevo per rimpatriare. Galbani e altri mi hanno dato un po’ di miele, tutto quello che mi davano io mangiavo. Ormai forse ero sulla strada buona insomma.

D: Poi sei rientrato in Italia.

R: Si sono rientrato in Italia. Quando siamo partiti da Bolzano ho detto all’autista del camion, perché da Bolzano a Milano l’abbiamo fatta in camion, gli ho detto: “Mi raccomando tutti i posti di ristoro che ci sono di fermarsi a mangiare perché io ho fame”.
A Trento poi, il primo posto dove mi sono fermato, mi davano risotto, pane, un panino o due. Ma io avevo sempre fame. Poi a Trento ho trovato quel prete che mi ha detto: “Così giovane così magro, da dove vieni?” “Da Mauthausen”. “Vieni dietro là” e mi ha dato un vino di quello buono che bevevano quelli che dicevano la messa. E’ il primo bicchiere di vino che ho bevuto. Ma io avevo sempre tanta di quella fame…..

D: Da Mauthausen e il rientro in Italia, chi è che l’aveva organizzato?

R: Gli americani lo hanno organizzato.

D: In treno?

R: In treno. Ci hanno portato a Linz, da Linz ci hanno dato un pacco viveri.
La storia del pacco viveri. Gli americani ci hanno dato un pacco viveri, ogni prigioniero un pacco viveri. In questo pacco c’erano scatolette di carne, biscotti; c’era di tutto. Anche delle sigarette.
Io, con quella fame che avevo, perché anche quando ero a Mauthausen avevo sempre fame, mi davano la mia razione ma però avevo sempre fame. Tanto è vero che una volta sono andato fuori a lavorare per darmi una razione doppia. Va beh. Come parte questo treno, in ogni vagone c’era un soldato americano che ci accompagnava. Io mi sono seduto in un angolino, non eravamo quaranta come quando siamo partiti, saremo stati una ventina. La prima cosa che mi hanno detto è stato: “Questo pacco viveri deve durare per un paio di giorni per arrivare fino a Innsbruck”, ma io con la gran fame che avevo mi sono messo in un angolino e senza accorgermi alla fine mi sono accorto che sono rimaste appena le sigarette. Le scatolette di carne e tutto il resto, mi sono mangiato tutto. E poi avevo fame ancora. Avevo le sigarette, ma io non fumo.
Poi il treno ha avuto anche la sfortuna che si è rotto, è stato fermo 24 ore perché hanno dovuto cambiare il pezzo della locomotiva. Lì c’erano dei vagoni con dei civili che rientravano, non solamente i prigionieri deportati; i prigionieri militari, i prigionieri che erano andati anche volontari a lavorare e che avevano le famiglie intiere.
E quando il treno si è fermato in quel posto lì, io ho cerato di andare avanti e indietro per vedere se qualcuno mi dava qualche cosa da mangiare, non ho trovato nessuno che mi ha dato niente. Poi ho trovato uno che io gli ho dato le sigarette e lui mi ha dato qualche patata; l’unico scambio che ho fatto.
Poi siamo arrivati a Innsbruck, finalmente siamo arrivati a Innsbruck, con una gran fame. A Innsbruck usciamo dalla stazione e ci portano in un campo di raccolta gestito dagli alpini italiani. Tutti gli italiani che rientravano dalla Germania lì li fermavano per organizzare e poi la cosa passava in mano agli italiani. Lì c’era questo campo che era gestito dagli italiani.
Io devo raccontare questo fatto perché…. Era fuori dalla stazione un paio di chilometri, ci hanno portato là, alla sera ci danno una pagnotta, una gamella con il risotto e un po’ di carne ad ognuno. Però è successa la solita cosa e cioè che io quando ho finito di mangiare, era una bella gamella di risotto, io avevo ancora fame, perché era una cosa guardate, forse io ero malato così, quella fame era come una malattia, ce l’avevo sempre. Allora dico a Galbani: “Io ho fame” e lui mi dice: “Non parlare” e io gli ho detto: “Andiamo a cercare da mangiare”. “E dove vuoi andare?”. “Andiamo dove c’è la cucina, forse qualche cosa troviamo. Se stiamo qui non mangiamo più”. E infatti partiamo, il campo era molto grande, poi la troviamo la cucina. Arriviamo in cucina, guardiamo lì di fuori, facciamo per entrare in cucina e c’è una sentinella italiana, un alpino italiano che non ci lascia entrare. “Perché volete venire in cucina?” ci chiede. “Perché ho fame” ci dico. “Ma te non hai mangiato la tua razione?”. “E si, ma ho fame ancora”. “Aspetta allora che vado a chiamare l’ufficiale di servizio della cucina”. Viene lì con questo ufficiale e mi dice “Ma te così magro” mi guardava poi ero magrissimo perché ero stato anche in infermeria tutto quel tempo lì “Ma da dove vieni?”. “Vengo da Mauthausen”. “Da Mauthausen venite?”. “Ho una gran fame”. “Ma la vostra razione?”. “E ce l’anno data, ma io ho sempre fame”. Allora parlano tra di loro e ci dicono di aspettare lì. Circa dopo 10 minuti arriva questo ufficiale alpino insieme ad altri due o tre ufficiali alpini e ci portano per ognuno una gamella così piena di risotto, due o tre pezzettoni di carne e un paio di pagnotte, a tutti e due. Io in 10 minuti, mezzora mi sono mangiato tutto. Adesso gli dico: “Adesso posso dire che sto proprio bene, adesso non ho più fame”. Quelli ridevano tra di loro, ridevano anche a vederci mangiare.

D: Lì avevi 18 anni?

R: Si. Ormai 18 anni.

D: Quanto pesavi?

R: Sarò stato sui 35 kg. 35-36. Ma forse con quella penicillina che ci hanno dato gli americani io ero guarito, però avevo fame.

D: Poi sei arrivato a Bolzano.

R: Si sono arrivato a Bolzano.

D: E a Bolzano dove ti hanno messo?

R: A Bolzano c’era tutto organizzato. C’era un posto che era gestito dalla Croce Rossa italiana o internazionale, non so. Poi ci hanno dato da mangiare, la nostra razione da mangiare. Anche lì avevo fame, però lì era quella. Poi si doveva partire.
Da Bolzano in avanti le linee ferroviarie erano tutte distrutte, però c’erano degli autocarri, camion e mezzi di fortuna che arrivavano a Bolzano e ogni regione prendevano i suoi. E lì ho avuto la fortuna di trovare il camion della Falck di Sesto San Giovanni. L’autista lo conoscevo, era Seveso, era uno operaio della Falck Unione. La prima cosa che gli ho domandato è stato: “Mio padre?”. “Si, ci sono tutti. Tuo padre, tua madre. Tuo fratello è tornato, ti aspettano a casa” mi risponde. Allora siamo partiti con quel camion e ho detto a Seveso: “Mi raccomando Seveso tutti i posti di ristoro che trovi sulla strada….”. Perché lui mi aveva detto che c’erano dei posti di ristori quando gli avevo chiesto se aveva qualche cosa da mangiare. “Allora tutti i posti di ristoro che trovi fermati perché io ho sempre fame” gli dico. E infatti così è stato. Ero amico dell’autista, il primo posto dove si è fermato è stato a Trento. Poi i posti gestiti dalle suore, perfino di notte in un posto sulla riva del lago di Garda gestito dalla suore. Perché lì erano preparati, arrivavano a qualsiasi ora. Erano forse le due o le tre di notte e anche lì ci siamo fermati e abbiamo mangiato pastasciutta o risotto, era sempre quello, un pezzettino di carne e una pagnotta e via.
Poi l’ultima cosa visto che siamo sul ragionamento del cibo. Finalmente arriviamo a Monza, quelli di Monza scendono a Manza. Io faccio la strada di Monza che va a Sesto che è la Via Borgazzi, e io dovrei scendere alla Bettola per andare a casa. Era mezzogiorno e Seveso mi dice: “adesso andiamo giù alla Falck che hanno preparato polenta e coniglio” e io ero lì nel dubbio. Volevo scendere perché ormai ero vicino a casa mia, ho fatto fermare il camion e ho detto: “io vado perché c’è mia madre”. Volevo vedere mia madre anche se avevo fame. Però ho avuto la fortuna di vedere fermo un ragazzo, l’ho chiamato e gli ho detto di andare a casa ad avvisare mia madre che io ero arrivato ma che adesso andavo a Sesto a mangiare. Lì si è deciso tutto.
Infatti sono andato a Sesto e ho fatto anche bene, perché c’era coniglio e ho mangiato abbastanza bene e tanto, l’importante era quello.
Poi l’ultimo pezzo l’ho fatto in bicicletta perché era un sabato e hanno trovato mio padre che lavorava, l’hanno avvisato è uscito ed è venuto lì. Invece c’era uno che lavorava vicino a me fino a mezzogiorno mi ha portato a casa; dalla Falck fino a Sant’Alessandro in bicicletta.
Là c’era tutta la gente che mi aspettava, è stato molto bello. Ho trovato mia madre, mio fratello, mia sorella, l’altro mio fratello e tutti gli altri. C’era tantissima gente e questo è stato il ritorno.

D: Ascolta Angelo, e poi il rientro, il rientro dai tuoi amici, nel posto di lavoro; il rientro alla vita, com’è stato?

R: Piano piano. Ho cominciato a lavorare forse nel mese di dicembre del ’45, perché prima ho dovuto curarmi e poi il ministero post bellico mi ha mandato su a Selvino e poi la Falck mi ha mandato a Baveno sul lago Maggiore. Comunque in quel periodo devo ringraziare tutti quelli lì perché hanno fatto tanto per noi.

D: Quando tu raccontavi, c’era gente che ti chiedeva del campo di concentramento?

R: Sì beh, quando siamo rientrati i primi giorni, i primi tempi, i famigliari di quelli che sono morti là, perché là ne sono morti tantissimi, venivano a casa e mi domandavano per avere notizie dei loro famigliari e io raccontavo. Tanto è vero che al primo che è venuto gli ho raccontato per filo e per segno, perché non avevo ancora imparato un po’ la malizia a raccontare queste cose, io ero giovane e ho raccontato tutto come lo hanno massacrato. E loro sono andati via sconvolti. Allora mio padre mia ha detto di non dire più quelle cose. Allora ho imparato un po’ a raccontare : “sì è morto perché il lavoro era tanto e da mangiare era poco. Qualche volta ti picchiavano”. Però il primo è stata una lezione e poi non ho più raccontato anche se ho visto delle morti spaventose, terribili, massacrati proprio… Però quei fatti lì non li ho più raccontati.

D: Angelo, Giovanni Sperandio però non è stato deportato?

R: Lui è stato ricoverato là ed è ritornato dopo quattro o cinque mesi.

D: Come mai?

R: Perché è stato ricoverato all’ospedale dagli americani. Lui era conciato…

D: E’ stato deportato?

R: Sì è stato deportato. Lui è finito a Ebensee. Lui era con me, è stato portato via con me, ha fatto Mauthausen, Gusen e poi lo hanno mandato al trasporto a Ebensee. Poi a Ebensee quando è c’è stata la liberazione degli americani lui era in infermeria.

D: Quindi ha fatto tutto il periodo di deportazione?

R: Sì. Quando è stato liberato dagli americani era in infermeria e poi era conciato così male perché lui…. Poi è ritornato in Italia, tanto è vero che io ai suoi genitori gli ho detto che era partito da Gusen e poi non ho saputo più niente di Giovanni. Non sapevo più niente, di sicuro non si sapeva più niente. Poi un bel giorno è ritornato. Poi è stato ricoverato in sanatorio, è stato diversi anni là.

D: Ascolta Angelo, tutto questo è partito perché tu con i tuoi fratelli ed altri operai eccetera avete fatto lo sciopero, nel ’44. Rifareste ancora lo sciopero?

R: Eh rifarei lo sciopero! In quel periodo bisognava fare qualche cosa, perché noi abbiamo riscattato anche l’onore della nostra patria con il nostro sacrificio, con le nostre sofferenze. Senz’altro soffrire ancora! Però in quegli attimi lì se non si faceva niente…
Invece noi con le nostre sofferenze, con i nostri sacrifici, con le nostre morti spaventose, con la lotta dei partigiani abbiamo riscattato il nome della nostra patria di fronte agli occhi del mondo.
Perché noi quando siamo arrivati a Mauthausen. Io sono stato uno dei primi italiani che è arrivato a Mauthausen. Noi italiani eravamo malvisti da tutti. Poi abbiamo detto che se eravamo lì non eravamo fascisti e che avevamo fatto anche noi la nostra parte.
Allora era giusto, in quell’attimo lì bisognava farlo quello sciopero. In quell’attimo lì bisognava fare la lotta partigiana. In quell’attimo lì bisognava soffrire insomma.

D: Angelo che cos’è la libertà?

R: La libertà è una cosa grande, bisogna tenerla da conto. Però la libertà non vuol dire schiacciare gli altri. La libertà e che sia libertà per tutti.

D: Angelo, che cos’è un lager?

R: Un lager è una cosa spaventosa. Poi quei lager lì erano cose brutte perché la persona in questi posti non esisteva più; la persona come persona umana. Lì esisteva un numero e questo numero era un numero da torturare, da farlo lavorare e da uccidere. I diritti non ne hai più. Eri un numero e finché rendevi qualche cosa ti lasciavano vivere. Perché ogni tanto quelli che non erano più in grado di rendere qualche cosa, di fare qualche lavoro li mandavano alla camera a gas. Il lager è la cosa più brutta che l’uomo ha creato.

D: Perché tu ogni anno ritorni a Gusen e a Mauthausen, al castello di Hartheim?

R: Perché noi a Mauthausen, a Gusen, in questi posti io quando sono ritornato in questi posti non avrei mai pensato che avrei avuto la forza di ritornare. I primi anni non ci sono ritornato, poi dentro di me ho cercato di ritornare per vedere. Perché noi in quei posti abbiamo lasciato una parte di noi. Io penso che in quei posti noi abbiamo lasciato una parte del nostro cuore, della nostra anima. Noi lì abbiamo lasciato i nostri migliori compagni. Noi ritorniamo anche per accompagnare le persone che vogliono andare in quei posti, perché tutti devono sapere che cosa è successo in quei posti per far sì che non risuccedano più queste cose. Abbiamo capito anche questo, perché ritornare, anche andare nelle scuole è stato un ritornare a vivere, ritornare a soffrire.
Io il primo anno che sono ritornato a Gusen dove ho sofferto così tanto ho sofferto ancora come quando ero là, però ho capito che era giusto ritornare. Anche andare nelle scuole ho sofferto, però era giusto andare. Quando ho scritto anche le mie memorie, le ho fatte con sofferenza. Però era giusto farle, perché le nuove generazioni devono sapere. Perché quando si perde la libertà si perde tutto.

D: Quindi secondo te è importante che i giovani sappiano?

R: Sappiano, conoscano e sappiano. Perché anche oggi che sono passati più di cinquanta anni, quando io vado nelle scuole tante volte mi lascio commuovere, mi lascio ancora prendere da grande commozione.

Dalmasso Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi presento, sono Don Angelo Dalmasso nato a Robilante in provincia di Cuneo, nella Valle Vermenagna, il 28 settembre del 1918. Sono stato in seminario a Cuneo, allievo poi dei collegi salesiani di Avigliana, Pinerolo, Torino, Foglizzo, poi sono ritornato in seminario e sono stato ordinato sacerdote il 19 di giugno del 1943, proprio i giorni in cui scoppiava l’inizio dell’epopea della Resistenza.
Il 19 di settembre di quell’anno io ero stato assegnato come vice parroco alla parrocchia di Sant’Ambrogio in Cuneo; il 19 settembre di quell’anno avveniva l’eccidio di Boves, ed uno dei miei compagni di ordinazione, Don Mario Ghibaudo, veniva ucciso dai tedeschi con il parroco Don Bernardi Giuseppe.
Gli eventi andavano avanti, si formavano le prime formazioni partigiane, soprattutto dei giovani delle nostre parrocchie, che non volevano andare alla leva fascista, alla leva, soprattutto i ragazzi del 1925-26 non volevano aderire alla leva fascista. E allora si formavano sulle montagne alcuni dei primi nuclei partigiani.
Uno dei primi fondato, diretto dal capitano Prato, si riunì a Monfranco, una località sopra Bandito di Rovaschia, nella Val Gesso. A natale del 1943 sempre, i giovani che erano quasi tutti appartenenti alle associazioni giovani di azione cattolica delle parrocchie cittadine di Cuneo, non volevano stare senza la messa di natale, e volevano scendere giù a Rovaschia per la funzione di mezzanotte. Circolavano già notizie che i Muti e soprattutto quelli di Salvi, il famoso comandante della Littorio mi pare, avrebbero fatto una rappresaglia nel paese.
Allora pregarono il vescovo di Cuneo di mandare un sacerdote a dire la messa di natale. Io ero vice parroco a Sant’Ambrogio che è attiguo al vescovado, il vescovo Monsignor Rosso mi mandò a chiamare, non mi comandò né mi propose di andare, mi disse se volevo andare, quindi sono andato di mia iniziativa si può dire, non perché il vescovo me lo abbia fatto fare. E sono andato a dire la messa su alle Baite di Monfranco, abbiamo detto la messa, i partigiani con quel capitano Franco che erano lì mi hanno dato un piccolo ristoro, ricordo della pastasciutta senza condimento. Poi siamo scesi giù e il giorno dopo nella chiesa di Sant’Ambrogio sono arrivati, non so se erano fascisti o chi erano, han chiesto di parlare con me, mi hanno prelevato e mi hanno portato dove c’era la sede del Littorio, adesso mi pare via XX Settembre, adesso è sede dell’Ufficio del Registro, mi pare.
A Cuneo allora nella chiesa di Sant’Ambrogio era il 3 gennaio, o il 2 gennaio, non ricordo ben preciso, ma mi pare il 3 gennaio (1944), era il primo venerdì del mese, i ragazzi dopo aver fatto una partita a pallone ci si radunava alle tre per un’ora di adorazione. In quel momento ho visto arrivare dei tipi strani in chiesa. Hanno aspettato che io finissi la funzione e mi hanno detto che volevano parlare con me. Io ho capito l’antifona, “qui vengono a prendermi”, c’erano già stati diversi arresti in città, soprattutto di esponenti antifascisti e soprattutto di sinistra. Allora ho chiesto di andarmi a prendere il cappello e avevo proprio l’idea di scappare attraverso il tetto della canonica, che era congiunto col Teatro Toselli, con l’Istituto San Michele, sapevo già la strada, sarei scappato, ma poi ho incontrato sulle scale il parroco che mi ha detto: “Se è solo per parlare non c’è motivi, vai pure”. Allora io ho preso il cappello e sono andato, mi hanno portato al Palazzo Littorio, che è in via XX Settembre mi pare, angolo, l’altra via non la ricordo bene. Lì un certo Commedi, che era della giustizia fascista o che so io, mi ha interrogato, ha chiamato anche un altro prete che era di Sant’Ambrogio, che loro conoscevano, Don Falco Carlo, e poi hanno telefonato all’Luesco, al Prefetto e ci hanno portati alla Caserma Piglione, che poi è stata destinata a distretto militare, ora però chiuso. Nella caserma Piglione ci hanno messo in una camera, una specie di cella, noi due preti, e siamo stati lì 4 o 5 giorni. Comedi con un altro è venuto sovente a interrogarci, e in quell’occasione hanno portato anche dei ragazzi della milizia della Littorio che noi avevamo preso in parrocchia per aiutarli. Forse proprio loro hanno fatto la delazione, sono stati la causa del nostro arresto. Lì per farmi paura volevano chiedere nomi, località. Io ero solo andato a dir messa, sapevo ben poco. Allora han fatto chiamare il plotone di esecuzione, era la sera del 4 gennaio, mi pare, verso le 16.00, mi ricordo lì nella caserma Piglione, mi hanno messo il plotone davanti e io cosa potevo fare? Ho detto che io, quello che volevano sapere, non lo sapevo, non ero a conoscenza di altri dislocamenti partigiani né di nomi né di famiglie di parenti di questi partigiani. Allora hanno parlottato tra di loro, poi mi hanno riportato in cella, “vedremo domani”. Il giorno dopo la stessa commedia; ricordo che Don Falco, bravo, dalla finestra della cella mi dava la assoluzione mentre io ero là davanti al plotone di esecuzione e poi anche la seconda, la terza e la quarta volta è finito tutto così in commedia. Poi dalla caserma Piglione ci hanno portati alle carceri di Via Leutrum, le vecchie carceri giudiziarie di Cuneo, che erano proprio nel territorio della parrocchia di Sant’Ambrogio, e io come viceparroco andavo a fare il cappellano lì, il vero cappellano era il parroco ma la domenica io andavo sul posto a dire messa.
Mentre andavamo giù, e io lì ero praticissimo, passando in piazza Virgilio c’era un funerale di un bambino, ricordo, quei funerali degli innocenti, sapevo già che c’era un’entrata in un vecchio palazzo dove si entrava in una cucina che dava in una bettola e si usciva poi nei portici di via Roma. Ho cercato di scappare ma ho visto che chi mi accompagnava aveva già la pistola in mano, e allora ho detto “rinuncio”. E ci hanno portati alle carceri giudiziarie, lì hanno fatto tutta la trafila abbastanza umiliante dell’ingresso in prigione, con la presa delle impronte, poi la spoliazione, poi tutto quel che c’era, e ci hanno confinati alla cella zero, Don Falco, io, e un tipografo di Cuneo, anche lui reo di aver stampato le preghiere dei partigiani e altre cose di propaganda antifascista, antitedeschi insomma.
Lì nella cella siamo stati febbraio, tutto marzo, aprile, maggio, fino a febbraio, perché verso la fine di febbraio ci hanno trasferiti a Torino. So che il parroco che era cappellano del carcere è venuto di sera, ci ha detto che le ragazze dell’Istituto San Michele passavano la notte in preghiera, ci aveva fatto capire che c’era qualcosa in aria, e avevano organizzato con i partigiani, mi pare che era Blengino, a lui poi hanno dedicato un’aula scolastica a San Lorenzo di Caraglio dove poi sono stato parroco. E lì io volevo sapere qualche cosa di più, lui mi ha solo detto di stare molto attenti, di avere molta fiducia e di avere molta speranza. Siamo partiti, era ancora buio, caricati su un vagone, eravamo 12, 13, da Cuneo, chiusi in uno scompartimento di quei vagoni antichi, di terza classe, tutto chiuso, sia gli sportelli per aprire sia anche i vetri per aprire, e arrivato lì ad un certo punto alla stazione di Maddalene entrano un signore col mitra, c’erano due tedeschi lì sul vagone con noi, poi hanno cominciato a sparare, io mi son visto proprio il fuoco che si incrociava sopra di noi, mi sono messo sotto la panca, un ragazzo di Sant’Ambrogio che era con me si è accucciato lì con me, Don Falco diceva l’atto di dolore. E poi hanno colpito un tedesco che mi è cascato proprio addosso. Solo che la cosa si è svolta in pochi secondi. Sulla porta dei due corridoi del vagone sono comparsi subito due carabinieri in tenuta, col mitra spianato lì. Poi il treno è subito partito tra gli spari. Se avessero staccato la locomotiva forse qualcosa si poteva concludere. Uno scrittore, uno storico cuneese, Fresia, ha scritto un libro, “L’immane sconquasso”, e fa memoria di questo fatto della stazione di Maddalene, solo che dice che quei prigionieri hanno preferito seguire il loro destino invece di approfittare. Io ho provato a toccare lo sportello ma era bloccato, anzi non c’era neanche più la maniglia, quindi come.
Poi quando sono ritornato, dopo, le cose si sono un po’ chiarite, ho cercato di parlare a questo: “ma a me avevano detto così”, forse anche i partigiani stessi per scusarsi della non riuscita, come era finita male l’azione, avevano inventato questa storia. E noi pensate con che animo siamo andati da Maddalene a Torino. A Savigliano hanno scaricato il tedesco morto, pensavamo che a Torino ci passano tutti per le armi, invece a Torino ci hanno portati all’Albergo Nazionale, sono ancora andato qualche volta a prendere un aperitivo. Portati su al primo piano, e lì subito ci han fatto stare, era il mattino ancora relativamente presto, siamo arrivati alle nove.

D: Scusa Angelo all’Albergo Nazionale cosa c’era?

R: C’era il comando delle SS tedesche, in via Roma proprio dietro quella piazzetta che c’è dietro le chiese di San Carlo e Santa Cristina.
Ci hanno portati su nel corridoio, siamo stati fin verso le sei del pomeriggio con la faccia al muro, senza niente. Io ho visto un maresciallo tedesco, un po’ bonaccione, un po’ grasso, e gli ho chiesto, sembrava un brav’uomo, gli ho chiesto da mangiare, mi ha portato un pezzo di pane. Poi aspettavamo lì, dico “o ci ammazzano o cosa fanno?”. Verso sera, verso le sei ci hanno portate alle (Carceri) Nuove e io sono andato a finire nella cella 71 del primo braccio, riservato ai tedeschi, braccio 1 e braccio 3, perché erano due i bracci. E lì sono stato, prima c’era già con me un sacerdote di Alessandria, di Solero, Don Robotti, anche lui faceva un po’, lui era un ex missionario, veniva dagli Stati Uniti, missionario degli emigranti, una persona un po’ irrequieta e si vede che l’avevano beccato per quello. Poi dopo un po’ di tempo mi hanno fatto star solo per diversi mesi, e sopra c’era scritto “sorveglianza speciale”. Poi sono arrivati altri compagni di cella, adesso lì per lì non posso ricordarli subito, se volete posso ricordare un papà, un vecchietto di Martignana Po che aveva il figlio in una cella vicino. Poi Cotta che aveva sposato la contessa di Robilant. Poi c’è passato un dottore di Milano, dottor D’Alessi, abitava in via … adesso non mi viene. Poi l’avevo incontrato, era però ammalato già ed è morto un po’ dopo la liberazione, l’avevo ancora incontrato a Milano. E siamo stati lì sempre chiusi, non ci portavano mai all’aria, eccetto una volta ci han portati sulla collina di Torino, a Villa Genero, che era presa agli ebrei, le SS ne avevano fatto un po’ il loro ritrovo, ci han portati lassù per pulire i viali, per fare dei lavori.

D: Scusa Angelo, tu avevi sempre il tuo abito talare?

R: No, in cella lo lasciavo appeso a un chiodo, lo mettevo quando mi portavano agli interrogatori. E mi ricordo una volta passavo per via Roma con le manette e due tedeschi per andare al Nazionale, e tutti mi guardavano. Lì al Nazionale di interrogatori ne han fatti diverse volte. C’era un certo tenente Peiper, che interrogava. Prima sembrava buono, c’era un’interprete, una signora. Poi ad un certo punto diventava anche furioso, aveva una riga di quelle lì da disegno, me l’ha rotta sulla testa. Chiedeva nomi, tutte cose che io sentivo da lui, che non avevo mai saputo, e quindi lui si infuriava. E poi dopo di nuovo riportato lì alle Nuove, fin verso settembre. A settembre ci chiamano tutti e dicono che ci mandavano a lavorare come tagliaboschi nel Tirolo. Per me uscire dalla cella era una liberazione, perché sempre quasi solo lì, non sapevo come passare il tempo. Scendo giù, sempre ho preso la mia talare, me l’avevano lasciata lì in cella, era già rossa di cimici, l’ho scossa un pochino, e poi lì ho avuto la fortuna di incontrare padre Girotti, che era già lì con tanti altri che aspettavano di partire. Ci hanno incolonnati lì, eravamo circa un migliaio o anche più, io ho approfittato per confessarmi, era otto mesi che non mi confessavo più, perché era venuto il cardinal Fossati a portare la comunione, ma aveva dato l’assoluzione in genere ma non aveva potuto avvicinare nessun sacerdote. Così abbiamo fatto amicizia e ci hanno portati a dei pullman che sostavano su corso Regina Margherita, lì di fronte alle Nuove. Ricordo che appena entrato io mi sono fermato un momento, sono stato un istante solo per dare uno sguardo a vedere se c’erano due posti da sedere per stare vicino a padre Girotti. Padre Girotti era dietro di me, un tedesco gli ha dato uno spintone che ha spinto me e lui proprio nel piccolo corridoio tra i sedili. Gli occhiali di padre Girotti sono andati dispersi, io mi sono arrabattato, li ho trovati, li ho rimessi un po’ in sesto perché si erano stortati, e così abbiamo cominciato il nostro viaggio per andare in Germania a lavorare, in Tirolo loro dicevano. Poi di sera, arrivati a Milano, ci hanno fermati nei sotterranei di San Vittore. Lì sono venute delle suore, c’erano sempre i tedeschi, a darci della roba da mangiare, anche a Torino ci avevano dato qualcosa, ma senza niente non sapevamo dove mettere. Lì è venuta una suora, poi ad un certo punto un tedesco, visto che queste suore si avvicinano troppo, ne ha presa una per il velo, gliel’ha strappato e l’ha strattonata via. Mi pare che questo episodio è ricordato nel triangolo rosso di don Liggeri. Ad un certo punto proprio lì nei sotterranei di San Vittore chiamano me e padre Girotti. Io pensavo “Qui il cardinal Schuster ha saputo qualcosa, magari ci vuol liberare”. Il cardinale Schuster aveva saputo di questo, solo aveva cercato di telefonare in serata, ma dice, non so se “Il Triangolo Rosso” o chi, dice che le SS erano tutti completamente ubriachi, non ha potuto avvicinare, parlare con nessuno. Solo che nella nostra chiamata in disparte ci avevano i nostri documenti, era perché i preti dovevano essere tre, e invece eravamo solo due, per questo han fatto tutta questa… E poi ci hanno ricaricati sui pullman, ricordo siamo passati a Verona, mi ricordo sempre di una chiesa con le luci accese alle finestre, ho detto “Ma guarda un po’, chissà quando potrò ancora arrivare” e ci hanno portati a Bolzano. Per me Bolzano è stata un po’ una boccata d’aria dopo nove mesi di cella, e lì ho incontrato già altri sacerdoti, altri amici. C’era il parroco di Soave, don Alessandro Aldrighetti. Poi c’era don Berselli di Mantova, c’era don Mauro Bonzi di Desio, c’era anche padre Gaggero che poi ha saltato un po’ il fosso ed è andato dall’altra parte, ma allora faceva tutto bene. C’erano solo questi. E siamo stati lì una quindicina di giorni, da metà settembre ai primi di ottobre. Era bello perché ci portavano a raccogliere mele nei frutteti lì intorno, c’era Ravinale, un comandante partigiano, i primi comandanti partigiani della Risalta, quindi Cuneo che aveva fatto provocare i fatti di Boves, questo Francesco Ravinale detto comandante Franco, padre Girotti ed io nella squadra, e andavamo a raccogliere mele. Il padrone ci lasciava portare, prendere a noi le mele che cascavano per terra. Solo che noi facevamo finta di essere poco pratici, usano quelle scale con un palo solo non con due pali gli scalini in mezzo, lì c’era un palo in mezzo con gli scalini a parte. E quando c’era il cesto un po’ pieno davamo il giro e così potevamo portare mele nel campo agli altri che era anche scarsi.

D: Scusa Angelo, quando sei entrato nel campo di Bolzano sei stato immatricolato?

R: Sì ci hanno dato, tolto tutto quel che avevamo, ci han dato una tuta blu con una croce sulla schiena, e poi un triangolo con un numero da applicare sui pantaloni, sulla gamba. E io ce l’ho ancora.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Se volete ve lo faccio vedere, è lì, 4 mila e rotti. Poi a Bolzano, come dico, si stava relativamente bene, ho fatto amicizia con due ragazzi toscani, che sono riusciti a scappare, che andavano a lavorare fuori. Io ho detto “quasi quasi mi ci metterei anch’io”, ma io non ero in quel comando di lavoro. Loro poi complottavano con me, non sapevamo che tra i prigionieri, finti prigionieri, c’erano di quelli che facevano la spia, e soprattutto uno scugnizzo là. Difatti dopo la fuga di questi due ragazzi mi mandano a chiamare durante l’appello, chiamano me all’ufficio lì e il maresciallo tedesco quando rientro, era appesa lì al muro una striscia di cuoio, la prende in mano, e comincia a dirmi “tu eri amico di quei due?” “sì sì, mica da negare niente, erano miei amici perché dormivamo quasi vicino, assieme”. “Loro dovevano scappare, tu hai saputo che loro volevano scappare?” “Tutti vorremmo scappare” gli ho detto “perché qui è sempre prigione, noi la libertà è sempre una cosa che tutti cercano” perché proprio don Pedrotti aveva portato nel campo qualche cosa di viveri, e io avevo dato a loro qualche cosa “ma tu hai dato da mangiare a loro?” “sì sì, ci han dato della roba, noi come sacerdoti dobbiamo far parte agli altri, spezzare il pane con gli altri”. Aveva sempre questa cosa in mano, me la accarezzava sulla testa, e poi non mi ha picchiato, niente, è stato soddisfatto della mia falsa ingenuità e mi ha rimandato indietro. Gli altri tutti fuori, i preti dice che pregavano, gli altri tremavano, poi non hanno sentito né gridare né urlare, mi sono di nuovo messo al mio posto. Qualche tempo dopo, giorni dopo, mi pare 4 o 5 giorni dopo, ci hanno chiamati che ci portavano in Germania.

D: Ti ricordi il blocco in cui eri lì a Bolzano?

R: I blocchi erano dei capannoni, avevano un numero ma io proprio ricordare il numero, era il quarto o il quinto mi pare. In principio c’erano delle donne, era il quarto o il quinto, adesso ricordarlo bene sa, sono 50 e più anni passati. E so che in fondo al campo c’erano le latrine, lì si andava ordinatamente, gli ebrei facevano la guardia, gli ebrei avevano il triangolo giallo, noi rosso, c’era chi aveva il triangolo verde, chi aveva il triangolo nero, chi rosa, ecc. Noi rossi eravamo i politici. Poi ci hanno portati … un bel giorno ci hanno chiamati che andavamo in Germania, ci han ridato le nostre cose, io ho preso la veste talare, l’ho messa, e siamo andati, non era una stazione, era una strada dove c’erano le rotaie, il treno si è fermato lì, ci hanno caricati. Saliti lì sopra, 70 per vagone, di quei vagoni bestiame. Ho detto “durerà poco perché come si fa a star qui”, voi capite che la gente ha delle necessità, fisiologiche, succedeva quel che succedeva. So che era domenica. E lì chi bestemmiava, chi urlava, nei primi chilometri dopo Bolzano per andar su verso il Brennero, ad un certo punto gli ho detto: sentite io sono un prete. E lì han cominciato ad urlare anche di più. “Ma guardate che oggi è anche domenica, se non ci rivolgiamo a Dio qui gli uomini nessuno ci può aiutare”. Allora si son calmati, abbiamo detto tutti insieme il Padre Nostro e poi mi hanno ringraziato di quel momento di pausa, di tranquillità.
Alla stazione mi pare di Fortezza o di Brennero, ci han fermati lì molto tempo, perché avevano notato che qualcuno aveva tagliato il vagone e proprio nel nostro vagone uno aveva fatto un buco. Allora arriva un tedesco “Messer, Messer, Messer”. Per me “Messer” voleva dire tanto pane come acqua, ho poi capito dopo che voleva dire i coltelli, chi aveva dei coltelli.
Allora han trovato questo qui, c’aveva il coltello, l’hanno portato fuori, e poi gli han preso il coltello, gli han due o tre spintoni, poi l’han rimesso dentro. Mentre aspettavamo lì, c’era, voi sapete che i vagoni bestiame hanno quei piccoli finestrini triangolari in angolo, il finestrino è bordato di ferro, una cornice, una specie di bordo di ferro. Un ragazzo aveva messo la mano lì per appoggiarsi con le unghie fuori, le falange delle dita fuori. Un tedesco di fuori col calcio del fucile gli ha schiacciato tutte le unghie sopra questo, immaginatevi quel povero ragazzo. Io avevo un pezzo di fazzoletto, l’ho stretto lì, l’abbiamo adagiato in terra, io lo tenevo per la testa, finché poi il treno è partito, lui si è calmato un po’, i dolori gli son passati e siamo arrivati a Dachau.
A Dachau, ce n’è voluto, quasi due giorni ci abbiamo messo, tutti i momenti ci fermavano. Arrivati a Dachau non era anche lì una stazione, in piena campagna ci han fatti scendere, padre Girotti ed io ci siamo messi i primi, saremmo stati circa un migliaio e più, e ci han portati lì al campo di Dachau. Io ho visto quelle parole là “Arbeit macht frei” adesso non le ricordo neanche, ho poi saputo dopo che vuol dire che il lavoro rende liberi, anche gli schiavi fanno il lavoro.
Arrivati lì tutta la pietosa funzione dell’arrivo. Prima cosa arriva uno a urlare, urlava in tedesco, io capivo niente, finché viene un prigioniero vestito con i vestiti, i più fortunati avevano i pantaloni e il giubbotto a strisce bianche e blu, e si avvicina a me e dice di spogliarmi, era un sacerdote, padre Soste, del Lussemburgo. Dice “spogliati”, lì davanti a 2.000 vestito da prete, mi sembrava poco, padre Girotti mi fa “siamo arrivati alla decima stazione della Via Crucis, Gesù spogliato delle sue vesti.” Abbiam cominciato, ma il disagio è passato subito perché eravamo tutti, migliaia, eravamo tutti in stato adamitico. Siamo andati verso il capannone della disinfezione. Poi ci hanno dato una specie di straccio che copriva appena il necessario, e ci hanno portati alla baracca di quarantena, blocco 25, blocchi chiusi. Vuol dire che di lì non si usciva la sera, gli altri potevano dopo il lavoro, dopo la cena, chiamiamola cena perché è un insulto dir cena a quella brodaglia che ti davano. Quelli lì potevano uscire sulla piazza d’appello o sul viale, invece gli altri che erano nei blocchi dispari, fatti da quarantena, da ebrei, non potevano mai uscire.
Lì sono stato altri 15 giorni, eravamo quasi nudi, e nella baracca si poteva entrare solo per mangiare e per dormire, sempre fuori, al freddo, alla pioggia. E allora ci ammucchiavamo tutti lì e i più giovani da far da copertura esterna per riscaldarci un pochino. Ricordo sempre che un padre domenicano, padre Rot, che poi l’han trovato morto proprio lì a Dachau, era venuto, lui era di Colonia, ma era venuto a fare il cappellano di quella specie di cappella che sembra un tucul africano che han fatto in fondo là, quella rotonda con quella croce, quella corona di spine. Avendo saputo che c’era padre Girotti gli aveva portato un pezzo di formaggio a padre Girotti. Ma pensate se non è un santo padre Girotti, lui aveva solo 39 anni, moriva di fame come me, dice “no tu sei più giovane, hai più bisogno” e me l’ha dato, “mangialo tu”. Io poi avevo ancora salvato non so come, una scatoletta di piselli, e c’era un giovane francese, ha visto che io avevo quello straccio un po’ più decente, se mi dai quella scatoletta io ti do la mia canottiera, e l’ho cambiata, e poi ho detto “ma guarda un po’ come sono cattivo io che vendo la prigenitura per un piatto di lenticchie.” E quel ragazzo che ha fatto lo scambio era un seminarista francese. Poi è andato bene che noi sacerdoti, dopo qualche giorno, non 15 giorni di quarantena, un episodio lì mi ricordo sempre che, io ero dei più giovani perché avevo 23, 24 anni, mi han chiamato dicendo che ero incaricato di pulire il Wäscheraum, cioè i gabinetti. Io ho pensato bene di dire ad un altro che era lì “ma digli un po’ che io sono un prete”. L’avessi mai detto! Non l’ho più detto un’altra volta. Poi fortunatamente ci hanno portati al Block dei preti, che era proprio di fronte. Noi in quarantena eravamo il 25, di fronte il 26, Block liberi, liberi così, cioè aperti. C’erano tutti i sacerdoti, e lì c’erano già tanti altri: padre Manziana che è diventato poi vescovo di Crema, c’era don Fortin di Padova, c’era don Vismara di Bergamo, diversi altri, perché poi da Bolzano eravamo arrivati anche noi, altri 4 o 5. Poi sono arrivati da Mauthausen ancora altri in seguito. E lì tra sacerdoti, oddio era sempre Dachau, era sempre campo di eliminazione, ma eravamo tutti preti e nessuno rubava ad un altro, nessuno maltrattava l’altro. Però qualche volta i nervi scattavano anche lì, il Blockältester aveva tutto il suo da fare, era un bravo prete del Vorarlberg, una parte del Tirolo verso la Svizzera, a rimettere la pace, a mettere le cose a posto. Alla domenica il vescovo di Clermont Ferrand diceva messa, e al mattino poi, ad un certo punto lasciavano dire una messa, ma eravamo tremila e più preti lì, non si poteva dire, allora noi si concelebrava, diceva messa uno, e poi si andava al lavoro. Alla domenica invece il vescovo diceva messa più tardi per tutti. E qualcheduno riusciva a venire. Mi ricordo che veniva lì un francese che poi è stato ministro di De Gaulle (L’Abbè Pierre pseudonimo di Henri Antoine Grovès).
Nei giorni feriali andavamo a lavorare. Io ho cercato subito di trovare un posto di lavoro, perché a quelli che lavoravano alle dieci c’era il Brotzeit, tempo del pane, davano un piccolo supplemento di pane con un po’ di margarina, e quello aiutava a sopravvivere, perché con la razione del campo se sono venuto a 32 chili, io che adesso sono 80, è segno che le razioni erano molto molto misurate. Ho cercato un lavoro. Prima sono andato a scavare delle fosse, picco e pala, delle fosse profonde dove forse volevano fare o delle fossi comuni per i cadaveri, perché era proprio nella zona del crematorio, o nascondere, mi dicono, dei carburanti, questo non lo so. Però siccome era un po’ gravoso, appena ho potuto mi han chiesto di andare a fare un altro lavoro, un altro lavoro che consisteva nell’andare in una baracca vicino al campo, ci davano degli indumenti recuperati ai prigionieri, noi facevamo delle strisce, attaccate lì ad una sbarra facevamo delle trecce che poi arrotolavamo, dice che servivano – almeno questa è una spiegazione – facevano delle ballottole impastate con pece, servivano da cuscinetto alle navi che si avvicinavano al molo. E lì quando suonava l’allarme precipitosamente ci portavano di nuovo in baracca. Tutti si andava al nostro posto, eravamo rigorosamente al nostro posto. Un giorno vado al mio posto, ne trovo già uno, dico “no, è il mio posto”, e l’altro parlava in tedesco, io sapevo solo l’italiano, finché arriva la SS l’altro si è spiegato in tedesco, e il tedesco ha sentito nessuna spiegazione, aveva in mano quegli anelli di ferro, mi ha sferrato un pugno sulla mandibola e ho sputato 4 molari lì.
Poi, visto che quello era pericoloso, ho visto che dove stavamo facevano un altro lavoro, quello di far le asole alle tele mimetizzate, attaccar bottoni e fare asole. Io ho ancora adesso di quei bottoni, se volete ve li posso dare, se no poi li perdo. Ero diventato già un artista a fare asole, proprio bene le facevo, quantunque bisognava un po’ boicottare, non farle bene. Lì è andato fin verso aprile, quando ad un certo punto né più si lavorava, né più si usciva. Ad un certo punto neanche han detto di star tutti chiusi, e poi facevano dei Transport, portavano via della gente e volevano che anche alcuni di noi partisse con loro. E i preti nessuno voleva andare. Don Foglia, che era il parroco del Moncenisio che è andato poi, era di Susa lui, della diocesi di Susa, era poi andato in Brasile, e poi è morto cappellano di un ricovero di vecchi vicino a Passau, in Germania, ha detto “andiamo, qualcuno bisogna che vada, se no li obbligano”. Allora noi due ci siamo offerti, ci hanno dato una scatoletta con le ostie consacrate, e siamo andati lì, aspettando. Ho saputo che poi portavano fuori del campo e li falciavano tutti con le mitragliatrici, perché vedevano che gli alleati avanzavano e volevano sbrogliare il campo. Solo che in quel momento è venuto un acquazzone di quelli che Dio manda, e ci hanno mandati tutti nelle baracche. Ricordo ancora gli altri preti quando ci han visti arrivare dire: “Non sono partiti, sono ritornati”.
E così poi stavamo chiusi nelle baracche, non si sapeva niente; sapevamo perché i sacerdoti polacchi erano molto organizzati, avevano una radiolina nascosta e sapevano un po’ tutte le cose. Poi ci avevano ad un certo punto portati nella baracca dei polacchi, perché lì arrivavano sempre prigionieri, sia l’angolo di cappella sia le nostre camerate, già strapiene, sono state date a loro e noi trasferiti di là.
Finché ad un certo punto non si sapeva più niente. La storia l’ho poi saputa tutta dopo, l’ordine era di Himmler, di bruciare con i lanciafiamme tutto il campo e non lasciare nessun vivo in mano agli alleati. La cosa si è risaputa perché uno dei prigionieri, un cecoslovacco faceva da cameriere alla mensa delle SS, e ha visto che leggevano questa lettera, discutevano, disapprovavano. E poi l’han strappata e l’hanno lasciata lì. Lui facendo pulizia l’ha presa, l’ha portata all’abate di Olomuz che era lì con noi, lui l’ha ricomposta, e così noi sapevamo, aspettavamo che venissero a bruciarci vivi.
E lì la tensione era alta, stavamo, finché ad un certo punto un padre gesuita belga, padre Koening, che faceva tutte le sere un pensiero di meditazione quando era già tutto spento, in mezzo ai castelli, diceva due minuti in latino, un pensiero di meditazione spirituale. E poi dice: state bravi, facciamoci coraggio, la chiesa guarda noi, lo sapranno tutti, ricordate l’esempio di San Lorenzo. Poi quando sono andato parroco a San Lorenzo mi sono ricordato, ma lui è stato meno fortunato di me, che l’han bruciato vivo. Finché ad un certo punto era proibitissimo affacciarsi alle finestre ecc. Un prete belga, Koening si chiamava, no era bretone, i cognomi dopo tanti anni sfuggono, Romueil, o un altro. Si butta contro la finestra, esce fuori e va lungo il cortile per andare verso il cancello che separava il viale dal cortiletto della baracca.
Aspettavamo che le mitragliatrici cominciassero a sparare perché tutti i momenti si sentiva una sventagliata, lì era solo cose di cartone o di eternit, le pallottole passavano. Invece niente. Ad un certo punto questo qui, là dal cancello, si mette a gridare “sunt americani sunt” lì noi si parlava sempre in latino, allora la baracca si è sfasciata, tutti fuori, più nessuno ha ascoltato. Mi ricordo che monsignor Trochta, avevo fatto amicizia anche, era lì con me, cecoslovacco, che poi è diventato arcivescovo, cardinale ed è venuto a San Lorenzo a trovarmi. Mi ha preso per mano: non fare imprudenze. Siamo usciti anche noi, abbiamo girovagato un pochino per il campo, siamo andati, c’era anche un padre oblato italiano, padre Pinamonti con noi. Siamo andati fuori, lì erano tutti i magazzini delle SS, abbiamo visto cose meravigliose, magazzini dei fischietti, magazzini di stoffe. Io cercavo anche della stoffa bianca e nera per fare, bianca rossa e verde per fare una bandiera italiana. E poi fortunati abbiamo trovato una gallina sperduta che girava là. Io l’ho presa, l’abbiamo portata in là, e con una resistenza che ci eravamo organizzati l’abbiamo fatta bollire, e monsignor Trochta, che era allora un semplice prete, io e Pinamonti e Manziana abbiamo festeggiato la liberazione con brodo di gallina e carne di gallina.
Poi siamo stati lì.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era verso la fine di aprile, 29, 28, non so, verso la fine di aprile (1945), erano le cinque del pomeriggio. Allora ci hanno portati sulla piazza d’appello, c’erano tutti lì, sulla torretta lassù del palazzo. E’ uscito il cappellano militare che in inglese ha detto di ringraziare il Signore che eravamo liberi e ha fatto recitare a tutti il Padre Nostro. Poi siamo andati nelle nostre baracche, e lì a noi sacerdoti, o anche a tutti gli americani, han portato scatole di carne, roba di formaggio, scatole proprio di roba un po’ pesante, roba da campo insomma. E questi ragazzi si sono messi a mangiare, allora han detto no, raccogliamola, dosiamola, perché gli intestini non sono preparati, tanti sono morti per aver mangiato troppo. E allora … ma come fai a togliere un pezzo di pane a uno che muore di fame. Difatti lì dopo sono morti i più, padre Girotti è poi morto poco prima, don Seghezzi è morto in quei giorni dopo la liberazione. Poi ad un certo punto dicono, c’era un campo lì vicino, un sottocampo di Dachau dove c’erano tanti italiani, francesi e polacchi. Io parlavo l’italiano e il francese, con me è venuto don Neviani perché parlava italiano ma era un sacerdote polacco. Siamo andati là a fare i cappellani di quel campo.

D: E si chiamava questo?

R: Allach. A piedi siamo poi andati e venuti, non è molto distante dal campo di Dachau, io non so quantificare la distanza. Lì solo che i primi giorni sono andati bene, abbiamo fatto funzioni, messe, ecc., ma poi gli italiani, approfittando, sempre i più intraprendenti sono partiti quasi tutti, e io cosa faccio lì. C’erano i francesi, c’era il polacco che parlava francese, ma quanti sono morti in quei giorni, ho raccolto. Avevo un libretto, ragazzi di Parigi ecc., poi questi partigiani cristiani di Torino mi han portato via tutto l’elenco, io poi sono andato a finire in Africa, non ho più tenuto contatto di queste cose. Poi ho finito, dico ma cosa faccio? gli altri sono scappati, scappo anch’io, vado a Monaco, là qualcosa trovo. Solo che Monaco sono più di 20 chilometri. Non passavo per le strade perché c’erano sempre militari, conciato com’ero, per i boschi, lì c’erano soldati che scappavano, c’erano dispersi ecc. di tutte le maniere, finché ho rischiato, mangiando erbe sono arrivato a Monaco. A Monaco cerco una chiesa, vado avanti, giro finché a Dom Pedro Platz ho visto che c’è la chiesa della Santissima Trinità. Attorno erano tutte rovine, mucchi di calcinacci, insomma detriti di case sfondate. Viene un sacerdote, un sacerdotino giovane, forse non giovane come me ma vestito bene, in clergyman, e io parlando in latino cerco di fargli capire che ero un prete sfuggito a Dachau e che cercavo aiuto. Lui ha sentito due o tre cose, ma penso che il latino non lo capiva neanche, mi ha preso per gli stracci, mi ha scaraventato su quel mucchio di rovine che c’erano lì, avevo in mano il calice un pacchettino dove avevo le cose che dicevo messa, che aveva portato questo cappellano militare a Allach, e tutto è andato in terra, ma lui ha lasciato il calice, ha lasciato tutto, ed ero lì: cosa fai adesso? Non so da quanto non mangiavo, dico “qui c’è solo più da chiudere gli occhi e raccomandarsi a Dio, non sono morto prima muoio oggi, qualcuno mi troverà”. Mentre ero io e raccomandavo l’anima a Dio arriva uno in bicicletta, si ferma, era padre Zanatta degli Scalabriniani, missionari degli emigranti. Mi vede lì, parla in italiano, gli ho raccontato tutta la mia storia. Lui ha raccolto il calice, le cose che avevo tenuto lì vicino, mi ha messo sulla sbarra della bicicletta perché non camminavo più, e mi ha portato a una scuola, un ex convento, una scuola, dove era anche tutto mezzo distrutto, dove lui raccoglieva tutti questi sbandati.
Arrivati lì, naturalmente c’è stata un po’ più di vita già, han cercato di rifocillarmi, so che era pentecoste, ho detto messa il giorno di pentecoste, lui era andato in giro per fare altre visioni. Intanto abbiamo preso contatto con una missione che arrivava da Milano, dall’Italia. E allora lì con questi qui in macchina siamo ritornati a Allach, a Dachau, mi avevano dato delle stecche di sigarette, io le ho lasciate sulla macchina, pensavo .. Invece vado per parlare, c’era già tutto lì quel che si arrivava a far repulisti avevano portato via tutto.
Poi arrivati a Monaco abbiamo cercato di scappare perché quel colonnello ha detto “Le cose in Italia tutto a scatafascio, allo sfacelo, cercate di arrangiarvi, vedete, scrivete, eccetera.”
Allora c’era con me uno che era, lui si è qualificato ufficiale dell’Intelligence Service, non so, parlava bene l’inglese ecc. Poi c’era don Neviani, c’ero io, e uno di Lucera che tra l’altro è venuto poi a Cuneo a rubarmi la bicicletta ancora. Siamo partiti, questo qui che era ufficiale dell’Intelligence Service aveva una macchina che poteva fare cinque chilometri dal punto dove eravamo. Noi abbiamo messo 15 e siamo partiti alla volta di Innsbruck, a sud. Abbiamo fatto una sosta a Benediktbeuren dai salesiani, era il 24, il giorno di Maria Ausiliatrice, dico “oggi lì fan festa da mangiare ce ne danno”, difatti ci hanno accolti bene. Poi mentre raccontavamo queste cose c’era una suora, si è messa a piangere, parlava bene italiano. Ho detto “ma perché suora lei piange?” “Voi andate adesso nei vostri paesi, racconterete tutte queste cose, e direte che i tedeschi sono cattivi. Noi tedeschi invece non siamo cattivi.” Cioè capiva il male che il nazismo aveva fatto come fama della popolazione tedesca. Come Dio volle con la macchina rotta siamo arrivati a Innsbruck, e lì siamo andati dal vescovo, veramente non c’è vescovo, l’amministratore apostolico, che loro vogliono sempre ricongiungersi a Bressanone, la loro vecchia diocesi era Bressanone, ci han messi là in una casa recuperata dell’azione cattolica che i nazisti avevano preso e gli americani avevano restituito. E poi sono arrivati quelli della Pontificia, come abbiamo potuto siamo arrivati a Monza, era il giorno del Corpus Domini, mi pare il 31 maggio, io ho detto messa nel duomo di Monza, poi ci han portati a Milano dal cardinal Schuster, ci ha dato cinquecento lire, una sgridatina, di essere un po’ più prudenti. E poi quando ho potuto sono arrivato a Cuneo.

D: Quando sei arrivato a Cuneo?

R: Il giorno del Corpus Domini. Poi sono stato un giorno e mezzo con don Liggeri in via Mercalli a Milano, poi col treno sono partito e arrivato a Torino sono andato dai salesiani di Benediktbeuren mi han dato dei libri, delle lettere da portare alla casa madre. So che sono andato a piedi a Valdocco la casa madre dei salesiani, e so che avevo una sete, era mezzogiorno passato, una fontanella, mi sono messo lì a bere. Poi: Oddio devo dir messa.
A Dachau dicevano messa nel pomeriggio, così a Maria Ausiliatrice ho detto messa, ho dato al prefetto generale dei salesiani le commissioni che mi avevano dato, e poi c’era una figlia di Maria Ausiliatrice lì alla casa delle suore che era di Borgo San Dalmazzo, e ho chiesto, io da due anni non sapevo più niente, i miei sapevano che ero a Dachau, ve l’ho già spiegato col colonnello Rampini, ho detto: sì su di là a Borgo, quelle vallate è tutto uno sfacelo, i partigiani, so che c’è stata molta guerra, molta battaglia ma non sappiamo niente.
E come sono arrivato a Cuneo il ponte era rotto, il treno si fermava dall’altra parte della Stura, c’era già mio fratello che era comandante partigiano con la macchina, e c’era tutta la parrocchia di Sant’Ambrogio, mi hanno portato in parrocchia poi a casa, a Robilante. E a Robilante mi han detto subito che la mia madrina era morta, questo ci tengo a dirvelo perché si era fatta suora di Santa Marta a Ventimiglia, quelle suore fondate da Tommaso Reggio che sarà chiamato beato domenica con Pio IX, Giovanni XXIII e padre Guillaume Joseph Chaminade. Mia zia aveva scritto il testamento che offriva la sua vita purché io ritornassi vivo. La sera del 29 settembre da Ventimiglia è andata a una frazione vicina a Latte, sempre sulla costa, per prendere dei viveri che avevano nascosto là, ha messo il piede su una mina è saltata in aria alle cinque, più o meno l’ora che gli americani sono arrivati a Dachau.
Caso raro ma per me è un miracolo.

D: Angelo hai detto il 29 settembre.

R: 29 aprile non settembre.

D: Quando eri a Dachau e andavate a lavorare alle dieci vi davano quel pezzettino…

R: Brotzeit.

D: Dopo ve l’hanno tolto?

R: Ecco qui quando si vuol far del bene bisogna farlo bene, non sbagliare. Il nunzio apostolico aveva ottenuto che tutti i preti non andassero più a lavorare, perché sembrava … E allora li hanno chiusi in baracca, ma togliendoci il lavoro ci han tolto quel pezzo di pane. Però dire non lavorare, non far niente, ci obbligavano ad andar a portare le marmitte, c’era quasi mezzo chilometro da fare con delle marmitte di 40-50 kg, e io con un chierico di Versailles, ma era olandese di origine, Hoffman, ci siamo ancora scritti, non veniva voglia di mangiare quella, avevamo poi la nostra razione che non finivamo mai perché era così disgustosa, erano crauti con bietole da bestie, senza nessun condimento, messo lì.

D: A Dachau fra i molti sacerdoti è mancato anche …

R: … padre Girotti.

D: E tu sei andato a cercarlo.

R: Sì sono andato a cercarlo perché lui l’avevano portato nel Revier, Revier vuol dire infermeria, ma là non si andava per curarsi ma per morire. Difatti l’hanno ucciso con una iniezione di benzina. Quando ho saputo che era morto, c’erano quelli che lavoravano, portavano le notizie, sono andato a cercare. Entrare lì: era tutto chiuso, tutto provvisorio, mi sono procurato delle sigarette, che era l’unica moneta per aprire le porte ma non ho trovato niente. Ho sfasciato un po’ di roba dell’ingresso, perché so che i cadaveri erano accatastati, una trentina erano nelle casse e gli altri messi sopra. Cerca cerca ma non lo trovavo. Finché ho cercato di scoperchiare uno, tutta la catasta è venuta giù, mi sono rovesciati quasi addosso, e il rumore ha fatto venir gente, io sono scappato, e così non l’ho più trovato. Solo che in quei giorni non li bruciavano più, perché forse non avevo più carburante o cosa, e lui certamente l’hanno poi sepolto in quelle fosse che ci sono vicino.
Missionario a Monaco per accudire gli emigrati italiani, come ci sono le missioni degli emigranti in tutte le città, in Francia, in Germania, anche in Inghilterra, ci sono questi missionari italiani che, anche in Svizzera, tengono, radunano gli emigranti italiani perché molti non conoscono la lingua.
Lui era dei domenicani di Torino, aveva studiato molto, aveva approfondito molto, era specializzato nello studio della Sacra Scrittura, per questo era stato diversi anni a Gerusalemme, allievo di un famoso biblista, al momento i nomi scappano sempre. Poi venuto a Torino naturalmente faceva l’insegnante di Sacra Scrittura ai teologi di Torino, sia dell’ordine sia delle altre congregazioni religiose. Poi c’era stato qualche malinteso lì, gli avevano tolto questo lavoro, ma subito prima della guerra. Poi lui si occupava molto anche di carità e degli altri. Ha stretto amicizia, appunto perché era molto studioso di sacra scrittura, con un professore ebreo, Iona, di Torino, e l’ha aiutato a …

Faronato Gianni

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianni Faronato. Sono nato a Feltre il 26 dicembre 1927. Abito da sempre a Feltre e sono stato internato nel campo di concentramento di Bolzano. Il 3 ottobre 1944 le SS tedesche facevano delle azioni di rappresaglia nei confronti dei partigiani attorno a tutte le montagne feltrine. Le montagne feltrine in provincia di Belluno erano brulicanti di partigiani. Le SS hanno cominciato a rastrellare Bassano, impiccando 40 partigiani. Sono saliti sul Monte Grappa, sono discesi dall’altra parte, dalle parti di Seren del Grappa, di Porcen e hanno bruciato Porcen e anche Seren. Poi hanno distrutto tutte le casère che sono in cima al Monte Tomatico e lungo il Monte Tomatico e sono scesi a Feltre.
Il 3 ottobre un grande rastrellamento: 2.000 persone vengono rastrellate e portate nell’allora Metallurgica Feltrina. È una fabbrica di manufatti di alluminio.
Fra queste persone c’era il vescovo, c’erano i sacerdoti delle città, c’erano i frati, c’erano tutte le personalità di Feltre e dopo che, assieme ai fascisti, avevano individuato quelli che potevano essere i rappresentanti dei partigiani e i loro collaboratori, hanno rinchiuso 150 persone nel Cinema Italia di Feltre. Là c’erano le SS sul palco che ci hanno interrogati tutti quanti. C’era anche un nostro amico, un certo Scarton che poi è stato ucciso dai partigiani, che ci conosceva perché eravamo diversi amici.

D: Gianni, tu sei stato arrestato dove?

R: Io sono arrestato a Feltre perché hanno circondato Feltre, i tedeschi hanno circondato Feltre e hanno bloccato tutte le tre o quattro uscite che c’erano. Avevano dei fucili mitragliatori: pancia a terra e là ci hanno fermato e ci hanno condotto prima nella caserma degli Alpini a Feltre e poi nel recinto della Metallurgica assieme ai 2.000 che dicevo prima. Ci hanno portato poi al Cinema Italia e là ci hanno interrogato. C’era, come dicevo, questo mio amico Scarton, il quale mi ha chiesto cosa facevo là. Non so, mi hanno rastrellato, mi hanno fermato qua. Disse: penso io a liberarti.
Sennonché lui invece probabilmente ci ha fatto la denuncia e ha detto che noi eravamo staffette partigiane. Allora io avevo 16 anni appena fatti. Voi potete immaginare cosa ha provato un ragazzo a quell’età ad essere messo là in mezzo a tedeschi, a fascisti, a repubblichini e poi portato in campo di concentramento di Bolzano. Siamo stati là al Cinema Italia una notte, poi il giorno successivo ci hanno portato a Bolzano. Ci hanno fatto fermare prima a Grigno e poi ci hanno messo in un carro bestiame e ci hanno mandato a Bolzano.

D: Dal cinema, cioè da Feltre per arrivare a Bolzano, dicevi, vi hanno portato come?

R: Nei camion. C’erano dei camion. Non eravamo ammanettati ed eravamo tutti quanti stipati su due camion, 150 eravamo come le salsicce messe là. Ci hanno portato prima a Grigno e ci hanno fermato là una notte, poi il giorno successivo ci hanno messo su tre carri bestiame e ci hanno condotto a Bolzano.

D: Scusami Gianni, qui a Feltre tu non sei mai stato interrogato?

R: No, personalmente no. Sono stato interrogato solo a Bolzano, quando sono arrivato là che mi hanno chiesto cosa avevo fatto e cosa non avevo fatto. Io ho detto: non ho fatto niente. Qua a noi risulta che la denuncia che è stata fatta a Feltre era che tu eri una staffetta partigiana e collaboratore con i partigiani.

D: Questo interrogatorio che ti hanno fatto a Bolzano dove te l’hanno fatto?

R: Proprio all’interno del campo di concentramento, quando sono arrivato. Siamo arrivati alla sera del 6 ottobre a Bolzano, siamo scesi dai vagoni che erano piombati e c’erano tutte le SS pancia a terra attorno alla stazione di Bolzano con le luci abbrunate perché eravamo in periodo di coprifuoco, periodo di guerra, ci hanno messo su ancora sui camion e ci hanno portato dentro nel campo di concentramento di Bolzano.

D: Gianni, come ricordi il tuo ingresso nel campo di Bolzano?

R: È stato il primo impatto, ma un impatto, era buio anche là, c’erano anche là i lampioni tutti abbrunati e siamo entrati dentro su una porticina che quasi quasi non ci si passava neanche. Siamo entrati dentro e abbiamo visto tutti questi letti a castello, tutte queste brande a castello in legno che erano come tanti alveari e io sono entrato dentro e non sapevo neanche dove ero arrivato. Noi non sapevamo neanche dove ci avrebbero portato. Dall’altra parte del blocco io avevo visto fuori blocco D, avevo letto blocco D. Sono entrato dentro assieme a tutti quanti gli altri miei amici, ci siamo osservati tutto attorno e sono spuntate dalle altre parti del blocco perché il blocco era diviso con delle pareti in mattoni alte, dal blocco sono spuntate delle facce macilente, pelate, striminzite, con delle tute strane. Ma dico: ma dov’è che siamo qua? Dice: siamo in campo di concentramento di Bolzano. Ma dico: voi altri con quella faccia da … avete fame? Sì – dice – abbiamo fame e qua non si mangia niente, avremmo bisogno di mangiare.
Allora io avevo un sacco che ci avevano mandato su delle mele e del pane, un sacco da montagna pieno, l’ho rimandato su ai miei amici, i quali se lo sono preso e se lo sono mangiato e hanno restituito il sacco. Poi mi sarei morso le dita qualche giorno dopo, quando finalmente la fame è stata veramente grande. Voi pensate all’età di 16 anni, ragazzino venuto fuori dal collegio, non sapevo neanche come gestirmi, trovarmi là in mezzo a tutta questa bolgia che non si capiva neanche cos’era. Mi si lascia su questi alveari e con dei materassi di trucioli, con una coperta, due coperte, poi il giorno dopo ci hanno portato dentro, ci hanno rasato i capelli, ci hanno dato una tuta con una croce, con un triangolo rosso. Prima era rosa, ma devono aver sbagliato perché successivamente poi doveva essere il triangolo rosso. Io avevo il 4.927, il triangolo rosa significa che eravamo rastrellati.
Poi dal 5.000 in su hanno messo il triangolo rosso, quindi probabilmente eravamo tutti politici e hanno sbagliato a metterci il triangolo. Hanno sbagliato anche la numerazione e hanno sbagliato probabilmente anche a metterci il triangolo rosa anziché rosso.

D: Scusa Gianni, qualche tuo amico che è rimasto con te, i feltrini che sono partiti con te, ti ricordi qualche nome?

R: Sì, ce ne sono tanti. Alcuni sono anche morti. Il Dall’Olio intanto prima di tutto oltre ai miei amici che poi descriverò, il Dall’Olio che ci ha lasciato il bellissimo diario che lui ha aveva fatto del campo di concentramento da cui noi feltrini abbiamo ricavato un libro che abbiamo provveduto poi, con i 10 milioni del ricavato di fare cinque premi annuali di due milioni ciascuno da assegnare ai ragazzi delle scuole medie superiori. Questo è il quinto anno che noi assegniamo il premio con grande soddisfazione per tutti. Quindi Gino Dall’Olio in primis, poi Felice Bellumat, che era il nostro capogruppo dopo lo scioglimento del campo, che è deceduto. Poi Vittorino Bellumat, Sergio Samiolo, il cavalier Tombari, che era il segretario dell’ospedale, il direttore sanitario dell’ospedale di Feltre generale Emilio Gaggia e tanti altri.

D: Anche delle donne feltrine?

R: Anche delle donne feltrine. La Ghita Repici che è deceduta, la Liliana Zadra che è vivente, la Lina Di Palma che è vivente, Lelia Barbante che è stata con me quando ci hanno trasferito nel campo satellite di Colle Isarco, è stata con me amica carissima che è già morta.

D: Gianni, cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Sono anche sciocchezze, ma in mezzo al nostro blocco c’era un grande vaso che si chiamava bugliolo, era il bugliolo. Allora noi altri andavamo là la sera quando ci richiudevano verso le sette, ci chiudevano dentro e tutti dovevamo accomodarci là perché il gabinetto non c’era. Allora eravamo in tanti, eravamo in 140 dentro, 114 noi feltrini e altri che poi si sono aggiunti. Dovevamo tutti ad accomodarci là. Quindi ad un certa ora della notte il vaso strafondava, veniva fuori e là si camminava in mezzo alla melma. La mattina portarlo fuori, pulirlo.
Altra brutta cosa che io ricordo, oltre alla fame, il freddo. Il freddo di Bolzano proprio a ottobre che è cominciato e l’adunata alle sei di mattina a farci la conta e là durava magari un’ora, un’ora e mezza e non contavano mai abbastanza, non eravamo mai a posto abbastanza. Non si sapeva quanti eravamo. Loro non sapevano quanti eravamo e ci facevano il bel giochetto che lo portano anche per farci divertire un attimino. I cappelli su e i cappelli giù, che riportano anche in diversi libri, anche Primo Levi lo dice, anche altri autori. Dovevamo tutti, al comando “cappelli su”, mettersi il cappello in testa, quelli che avevamo, e “capelli giù” sbatterlo sulla mano sinistra facendo un grande rumore. Ma siccome il rumore andava a spezzettarsi, non erano mai contenti. Doveva essere un colpo unico solo che non riusciva mai perché eravamo in 2.000 là a fare questa benedetta adunata e finché il colpo non era proprio massiccio, forte, robusto, lo lasciavano là. Una grande umiliazione perché rapati a zero, freddo, un’unica tuta, 15 gradi con una piccola maglietta sotto e una tuta sopra, gli zoccoli, erano cose da impazzire.

D: Oltre alle donne feltrine che vi hanno seguito lì nel campo di Bolzano, hai visto se nel campo c’erano altre donne deportate?

R: Sì, perché noi, col blocco D, eravamo vicino al blocco E e quindi salendo su, c’era un reticolato, noi potevamo vedere di là e c’era, per esempio, il signor Citton che aveva la moglie dall’altra parte e c’erano anche altre persone che avevano la moglie dall’altra parte, adesso non ricordo i nomi, ma ricordo il Citton e comunicavano, buttavano là i vestiti, loro li rammendavano e li cucivano e poi li rimandavano di qua perché non ci si poteva vedere altro che qualche minuto al giorno.

D: Tu avevi 16 anni, c’erano dei deportati più giovani di te, li hai visti, dei ragazzini?

R: No, questi non li ho visti perché noi del blocco D eravamo proprio tutti quanti assieme e alla mattina, quando alle sette si usciva per andare al Virgolo, perché si andava a lavorare al Virgolo, si ritornava la sera alle cinque, era difficile vederli. Non era possibile comunicare da blocco a blocco.

D: E dei religiosi, hai trovato dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, s’era un sacerdote che diceva la messa, non ricordo più il nome e alla domenica diceva la messa ma non è che alla domenica si stesse là a riposare. Tutt’altro, si lavorava, si facevano le pulizie al campo, si andava per i vari blocchi, per esempio, quando c’erano deportazioni, allora il blocco rimaneva vuoto ed era da pulire. Si andava là a pulire il blocco si ritornava. Oppure si andava alla Wehrmacht a lavorare sulla caserma delle truppe, si andava a fare dei lavori là. Si andava al Virgolo, quando bombardavano si portavano i sveller (traversine), le scine (rotaie pesanti), i binari da una parte all’altra e si aggiustava.

D: La messa al campo dov’è che veniva fatta, te lo ricordi?

R: Veniva fatta al centro del campo. Poi ricordo anche un’altra cosa ma questa l’ho sentita perché io ero già a Colle Isarco allora che è venuto il nostro vescovo, monsignor Bortignon, è venuto a celebrare la Messa il giorno prima di Pasqua, il giovedì di Pasqua ed è stata una cosa meravigliosa mi hanno detto là, tutti commossi, tutti che piangevano, perché lui ha ricordato, ha detto: guardate che la Liberazione sarà vicina, ha fatto capire a quelli che erano là che dovevano avere la fiducia perché le cose volgevano al meglio, insomma.

D: Tu accennavi che andavi a lavorare al Virgolo, come è che sei stato scelto per andare a lavorare al Virgolo?

R: Ogni tanto sceglievano, c’era il capoblocco che era Musy, era un capitano dei Carabinieri, era lui che destinava quelli che andavano da una parte o dall’altra, secondo i lavori, i più giovani li destinava ai lavori più pesanti, gli anziani cercava di metterli a loro agio magari con le pulizie, scopare al campo, liberare qualcosa, fare qualcosa insomma, ma i più giovani, quelli che secondo lui erano i più robusti, li mandava o alla cava o al Virgolo o lungo la ferrovia a fare dei lavori.

D: Dal campo al Virgolo come andavate?

R: Andavamo in camion, allora là quando si tornava, si aveva una fortuna immensa perché al Virgolo venivano le signore dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, ci portavano la minestra, ogni tanto ci portavano qualche gavetta di spezzatino e si mangiava così. Mi ricordo con tanta commozione il casellante della ferrovia da Bolzano a Merano che a un certo punto abbassava le sbarre e costringeva i tedeschi, le SS, a fermarsi per cui ci dava casse di mela, casse di frutta, in qualche maniera ci riforniva di qualcosa che poteva darci quasi tutte le sere.

D: Al Virgolo tu cosa facevi?

R: Io ero addetto ai carrelli, andavo dentro con il carrello, mi caricavano la roba, io col carrello andavo fuori, lo scaricavo e poi ritornavo dentro. Quello era il mio lavoro, in più aiutavo a caricare il carrello e a scaricare il carrello.

D: Questo durante il giorno, la notte non lavoravate al Virgolo?

R: No, no nel mio ricordo no, alla sera alle ore cinque si rientrava al campo ed alle sette eravamo tutti quanti rinchiusi nel blocco.

D: Dentro nel Virgolo, nella galleria del Virgolo c’erano anche dei civili che lavoravano?

R: Non ricordo. Non so perché il mio compito era quello e cercavo di dare il meno possibile all’occhio, cercavo di tergiversare per non farmi notare, per non avere possibilmente grane.

D: Nel periodo in cui tu sei rimasto al Virgolo, ci sono stati dei bombardamenti al Virgolo?

R: Che io ricordi no. Io non sono stato là tanto perché a metà novembre circa, allora hanno fatto una selezione, io avevo una paura maledetta di andare a finire a Mauthausen, o di andare oltre il Brennero invece mi hanno mandato a Colle Isarco che è a otto chilometri dal Brennero, era il comando delle SS tedesco, da Verona avevano trasferito il comando a Colle Isarco e là io avevo il compito di curare i maiali, allora là qualcosa si mangiava sempre perché i tedeschi buttavano via e noialtri si tirava fuori quello che era possibile tirare fuori dalla pattumiera dei maiali e si cercava di mangiare, poi facevo il fuochista, c’erano due, un certo Toller ed un certo Cantaller che erano i fuochisti, conduttori delle caldaie, io facevo il fuochista, alimentavo le caldaie con il carbone, tanto è vero che negli ultimi tempi abbiamo bruciato nelle caldaie un sacco di documenti che pervenivano dai Comandi delle SS di Verona con tutti i documenti delle persone schedate in Italia, ebrei, per due giorni e due notti abbiamo continuato a bruciare documenti. C’erano una ventina di casse di documenti che noi abbiamo bruciato con fotografie, con domande da parte degli ebrei, con politici che chiedevano di essere reintegrati nei propri posti di lavoro, io ho letto qualche documento, le istanze che facevano per poter essere scagionati dalle accuse che le SS facevano loro.

D: Gianni, da Bolzano quando ti hanno trasferito a Colle Isarco, in quanti siete stati portati su?

R: Siamo stati portati su in 15, eravamo circa una diecina feltrini e altri cinque che erano stati racimolati qua e là, ci hanno messo su un camion a rimorchio, hanno caricato mele da Bolzano e farina, vettovaglie varie e ci hanno portato su tanto è vero che siamo arrivati alla sera alle ore otto ed ho sentito una voce quando siamo arrivati che ha detto: io sono solo italiano e qua gli altri sono tutti tedeschi, orco cane, dico qua siamo arrivati in Germania, mi hanno detto: no, non siamo ancora in Germania, siamo a otto chilometri dal Brennero e siamo in Italia, scortati sempre giorno e notte facevamo tutti i lavori di manutenzione, di facchinaggio, andavamo a caricare carbone in ferrovia, lo scaricavamo su per poi alimentare le caldaie, come dicevo io facevo il guardiano di porci, ma anche facchinaggio, le ragazze invece erano destinate nei due hotel Gröbner e Palace alle pulizie, ai lavori nelle camere degli ufficiali tedeschi, del personale delle ex SS che erano là.

D: Gianni, come era il campo, la struttura del campo?

R: Eravamo messi in una cantina, guardati giorno e notte da due SS che si alternavano al comando giorno e notte, erano in tre, quattro, cinque, sei che si davano il turno e noi eravamo sempre scortati, andavamo avanti e indietro scortati dove si doveva andare, eravamo messi nelle cantine del Gröbner Hotel prima e del Palace Hotel poi.

D: Quindi avevano requisito questi hotel?

R: Avevano requisito questi due hotel e al Gröbner avevano fatto il Comando delle SS, invece al Palace Hotel avevano tutte le loro camere e tutti i loro alloggiamenti.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al tre ottobre. Scusa: dal 3 ottobre al 3 maggio (1945), il giorno 3 maggio abbiamo requisito una macchina, loro erano già in disarmo e siamo scappati con la paura che ci venissero a prendere perché la macchina era stata rubata per cui avevamo paura. Ci siamo fermati a Bressanone e là ci hanno detto: dove andate? Ho risposto: siamo diretti a Bolzano perché siamo stati internati là e torniamo al campo di Bolzano. A Bolzano ci hanno chiesto dove si va, abbiamo detto: a Trento. A Trento abbiamo trovato i partigiani, non ci volevano far passare, allora uno dei nostri che era stato rastrellato sul Grappa e che era un marinaio, era una faccia di quelle… ha tirato fuori una pistola: a me che sono stato partigiano sul Grappa, che sono stato rastrellato e che ho fatto sette mesi di campo di concentramento non mi lasciate passare, vi tiro giù tutti quanti, dice. Ci hanno fatto passare, però a rischio e pericolo nostro. Non vi preoccupate, ha detto. Siamo passati e a Borgo Valsugana abbiamo trovato gli americani che ci hanno scortato fino a Feltre.
Quando ho visto la mia Feltre non le dico la commozione di trovare i miei, di vedere finalmente che avevamo portato la pelle a casa.

D: Gianni scusa. Dicevi il 3 maggio.

R: Sì.

D: Ma cos’è successo il 3 maggio, sono scappati tutti?

R: Si sono dileguati. Il 25 (aprile 1945) abbiamo sentito casualmente la notizia che era stato fatto l’armistizio e si vedeva un po’ di tramestio fra tutte le SS che andavano e non si capiva cosa facevano, cosa non facevano. Allora abbiamo pensato di scappare in qualche maniera. Se cerchiamo di eludere la vigilanza, scappiamo, ma erano sempre alle costole sti benedetti tedeschi. Alla notte del 2 maggio ci siamo trovati senza più nessuno, allora ci siamo guardati a destra e a sinistra e abbiamo visto che stavano caricando delle macchine, stavano caricando delle cose, stavano scappando. C’erano due autisti, c’erano Barioli e anche Masocco, dicono: qua noi abbiamo il camioncino, montate su che si parte e siamo partiti.
Per quanto riguarda un altro episodio molto importante che vale la pena di essere raccontato. Un mese prima circa ci hanno chiamato, io e Sergio Dalla Rosa e ci hanno detto di andar dentro in un salone del Palace Hotel. Era meraviglioso, era un quattro piani con camere splendide. Ci hanno fatto fare pulizia di casse che erano là. Dentro erano contenuti tutti i soldi, le valute, gli ori, i gioielli che provenivano dal Monte dei Paschi di Siena. Io ho visto coi miei occhi quattro lingotti da 25 chili di platino. Li avevo messi dentro una cassa quattro lingotti, poi c’erano piatti in argento, anelli, braccialetti, era tutta la refurtiva del Monte dei Paschi di Siena. Li abbiamo messi dentro due casse, loro le hanno inchiodate, hanno portato via due forme di formaggio grana che erano là, sacchi di farina e altri alimenti. Li hanno messi su un camion e se li sono portati via.
A noi come premio ci hanno dato mille Lire francesi allora e a me hanno regalato una perla che era rimasta fuori dalle buste, perché abbiamo spiluccato tutte quante le buste e abbiamo tirato fuori tutta questa cosa e l’abbiamo caricata su queste casse.

D: Poi con questo camioncino siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D: Siete andati nel campo di Bolzano?

R: No, abbiamo detto a Bressanone che andavamo a Bolzano, che eravamo destinati ad andare a Bolzano, perché eravamo prigionieri, eravamo lassù, eravamo deportati lassù e che tornavamo al campo perché dovevamo tornare là. Poi invece ci siamo portati verso Trento e poi da Trento siamo arrivato a Borgo e quindi a Feltre.

D: Quindi tu nel campo non sei più rientrato.

R: Non sono più rientrato, non ho più visto. Ho sentito il dottor Meneghel che era il direttore dell’ospedale neuropsichiatrico qui di Feltre e che ha scritto un libro anche “Carnematta” da cui ho ricavato alcuni brani che ho messo anche nel mio testo “Ribelli per la libertà”, che negli ultimi giorni anche là si sono dileguati. Posso dire anche una cosa di un mio amico Barioli di Feltre che era l’autista e che ha condotto il comandante delle SS di Colle d’Isarco, assieme ad altri tre ufficiali a Bolzano qualche giorno prima e gli hanno detto di aspettare di fuori. I comandanti sono andati dentro, non si sono più fatti vedere, lui ha preso la macchina ed è venuto a Feltre.

D: Cioè è scappato.

R: È scappato anche lui, non si sono fatti più vedere, ha aspettato fino a tarda ora. Nessuno più si muoveva, lui ha visto movimento di camion che andavano e venivano. Dice: ho pensato che queste persone tornassero a casa, scappassero via, per cui sono scappato via anch’io ed è tornato a Feltre anche lui con la macchina che gli era servita da Colle Isarco ad arrivare a Bolzano per portare giù ‘sti capoccioni.

D: Quando voi siete scappati c’era solamente il gruppo dei feltrini e quindi anche la donna di Feltre, oppure no?

R: Gli ultimi giorni erano venuti ad aggregarsi a noialtri delle ragazze che avevano lavorato come lavoratrici coatte in Germania e sono venute là, le hanno portate là e le hanno consegnate ai militi che ci facevano la guardia. Dice: queste qua devono star qua e dare una mano assieme ai deportati. Sono rimaste là con noi e siamo tornati in 12 o 13 perché qualcuno era andato via, Barioli era andato via ed altri erano andati via, si sono aggregate anche quattro o cinque ragazze che erano del bellunese, che sono tornate e sono rientrate in bellunese anche loro.

D: In questo sotto campo, oltre al gruppo feltrino, c’erano altri deportati di altre regioni?

R: C’erano cinque deportati, la nostra paura è sempre stata quella che ci ha ossessionato di più, c’erano cinque deportati rossi, col triangolo rosso, quindi politici e che probabilmente uno mi aveva detto che da ragazzino, non so se ricordo bene, se è vero, se non è vero, che è stato quello che ha portato una valigia con dentro della dinamite, una bomba a orologeria con dinamite a Milano. Quando hanno fatto una riunione al cinema che io non mi ricordo più, che lui mi ha detto, gli hanno consegnato questa valigia da portare là. La bomba è scoppiata e ha fatto diversi morti durante il periodo fascista. E questo qua era stato preso e portato là, assieme ad altri cinque o sei che noi siamo andati là a dargli il cambio. Loro sono rientrati a Bolzano e successivamente sono stati inviati a Mauthausen tutti e cinque. Uno è scappato e mi hanno detto che è scappato e lo hanno ucciso quando è disceso dal treno, uno è tornato con la TBC e gli altri due o tre devono essere morti là. Non so se sono tornati o se sono morti. Queste sono tutte notizie che io ho raccolto dopo, non potrei dire che siano veritiere, però me le hanno date per vere.

D: Quando tu eri su invece in questo sotto campo c’era solamente il gruppo dei feltrini?

R: Sì, è rimasto il gruppo dei feltrini solamente.

D: E basta.

R: Basta.

D: Ti ricordi qualche episodio di violenza che tu hai visto?

R: Io personalmente là loro avevano bisogno di noialtri e non era che ci bastonassero più di tanto. Io ho un episodio mio particolare da raccontare che è stato anche per me eclatante. Una mattina alla cinque viene il maresciallo a svegliarci. Svelti su, ci si alza. Io sono là sulla mia… erano letti a castelli di due a due, di brande in ferro, ero su in cima e mi ero traccheggiato un attimino a mettermi su le fasce da piedi sugli zoccoli. Lui è andato fuori ed è tornato, mi ha visto ancora su a letto, si è arrabbiato, ha preso uno sgabello, me lo ha tirato, uno sgabello di quelli là quadrati, è andato a sbattere fortunatamente sulla spondina del letto e si è fatto tutto in pezzi. Se mi prendeva, mi ammazzava. L’unica cosa. Però erano duri, avevano sempre il nerbo dietro che se sgarravi ti facevano correre, ti facevano lavorare. Il freddo di Bolzano era ancora maggiore perché lassù c’era un vento terribile che ti entrava dappertutto. Mi ricordo che quando si scaricava il carbone, alla sera arrivavamo dentro il campo neri, sporchi, non ci si poteva lavare, pidocchi che giravano e avanti.

Fioravante Fiorio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Fiorio Fioravante, sono nato a Nogara il 6.05.1915.

Fui arrestato per attività partigiana alle Zucche di Bonferraro in provincia di Verona un giorno di novembre (1944). C’era tanta neve, mi hanno portato lungo la strada a Isola della Scala. Le Brigate Nere che mi avevano arrestato volevano fucilarmi perché sui manifesti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. E mentre ero sceso con loro ammanettato in una siepe arrivò un tedesco in bicicletta il quale mi salvò la vita dicendo che non bisognava fucilare.
Allora mi portarono a Isola della Scala in un edificio che adesso non ricordo, non penso che sia il municipio. Poi fui portato a S. Giovanni Lupatoto nella Caserma dei carabinieri dove però non c’erano i carabinieri perché erano sostituiti dalle Brigate Nere. Lì rimasi due notti; lì fu ucciso un mio amico che si chiamava Gino Dusi ed era a capo delle nostre formazioni.
Poi mi portarono a Verona al Forte Broccolo in attesa di fucilazione.
La mia cattura fu mossa da mio zio. Io non andavo mai dai parenti, andavo dagli amici, lontano dai parenti, perché sapevo che le Brigate Nere sarebbero andate dai parenti. Così mio zio venne a Verona al Palazzo delle Assicurazioni che era dominato dai tedeschi e gli dissero che mi avevano fucilato la sera precedente, ma non era vero. Per questo mio zio stette male 10 giorni in letto.
Al Forte Broccolo incontrai il professor Perotti attraverso un buco fatto nel muro. Avevamo fatto un buco nel muro perché il Forte Broccolo era diviso in stanze. Perotti, siccome avevamo avuto delle riunioni a San Giovanni Lupatoto con lui e il colonnello Mercandino, sempre per questioni partigiane, mi disse: “Ecco, lì vedo Dante”. Questo è scritto anche su un libro del professor Perotti che si chiama “Inferriate”.
In marzo (1945) fui portato a Bolzano su un camioncino assieme a Perotti. Lungo la strada gli aeroplani tentarono di colpire con le mitraglie il camioncino ma non lo colpirono e così il viaggio continuò fino a Bolzano. Ci misero nel blocco D, in campo di concentramento. Lì si soffrì molta fame, vidi morire tanta gente per i pidocchi perché non si curavano, non li uccidevano. Poi il giorno 25 febbraio (1945) fummo caricati e portati in stazione, messi su un vagone; eravamo in circa 100/101 su un vagone. E’ successo che i tedeschi hanno caricato anche 3 uomini ammanettati ma le manette erano così strette che gli veniva fuori il sangue dalle braccia. Io ho preso un fil di ferro e ho aperto le manette a questi disgraziati e dico disgraziati perché erano ammanettati. Dopo poco salì un tedesco col mitra e disse: “Chi ha aperto le manette?” e io, perché non uccidessero altri, ho detto: “Sono stato io”. Quelli che erano dietro di me si tirarono via perché avevano paura che le pallottole trapassassero il mio corpo e colpissero anche loro. Il tedesco mi guardò in faccia e disse: “Niente”, è sceso e non mi uccisero lì.
Poi fummo portati nel campo. Quando siamo scesi dal treno parte sono andati a Bolzano e io fui portato in Val Sarentino dove eravamo in circa un centinaio. Si dormiva sui castelli ma si mangiava molto male. Si andava a lavorare per fare delle linee elettriche. Un tedesco venne da me di notte e mi disse: “Senti Batà”, mi chiamava Batà, “tu dovresti fare l’assistente al capocampo” e io gli risposi: “No, io lucidare le scarpe a un tedesco, mai”. Da allora andò un altro a fare l’assistente al capocampo. Da allora io vissi molto bene perché questo tedesco di notte veniva a portarmi dei panini con più bondola dentro e burro perché disse: “Tu sei un uomo forte perché hai rifiutato di stare bene e allora io ti faccio stare bene, però non parlare altrimenti mi fucilano subito”.
Lì siamo rimasti diversi giorni. Poi venne la liberazione.
Eravamo d’accordo in 6 o 7 compagni di andare contro i tedeschi per fermare la mitragliatrice perché dovevano fucilarci tutti. Invece non fucilarono nessuno, solo ci tagliarono i capelli a zero e dissero: “Chi viene trovato ancora domani in Bolzano verrà fucilato”. Allora io non sono rimasto tanto contento di questa liberazione perché speravo in una liberazione in lotta, non così facile.
Andai alla Lancia dove trovai dei compagni di lotta della liberazione. Il giorno in cui, dopo 2 o 3 giorni, festeggiarono la liberazione – e questo me lo ricordo nel cuore – al municipio di Bolzano sulla terrazza c’erano gli americani, c’erano i tedeschi, c’erano tutti, però levarono la bandiera rossa.
Rimasi molto male perché anche noi avevamo lottato anche se eravamo della bandiera rossa, abbiamo rischiato la vita, abbiamo fatto il nostro dovere. Sarebbe stato facile andare nelle Brigate Nere e mangiare e bere a discapito degli altri, ma io ho preferito la lotta. E così venni a casa e trovai la mia casa svuotata di tutto dalle Brigate Nere; avevano portato via tutto. Andai in cerca dei miei genitori che non trovavo più. Io arrivai a S. Giovanni Lupatoto ancora con la divisa a strisce con la croce dietro. E, questo posso dirlo apertamente, chi mi diede un vestito e da mangiare fu un fascista che era impiegato nella banca di S. Giovanni Lupatoto. Io non potei rifiutarmi perché per me era un amico, era uno come un altro, anche se era fascista, non interessa quello, è il cuore che conta, non è il servizio che si faceva. Andai in cerca dei miei genitori a Novara e li trovai. Quando mia madre mi vide continuò a guardarmi e a toccarmi con le mani perché non credeva che fossi vivo; mia madre aveva 5 figli e tutti erano via da casa e non sapeva dove fossero.
Qui finisce la mia storia.

D: Fioravante all’inizio ha parlato di manifesti con il Suo nome?

R: Sì, erano a San Giovanni Lupatoto. Sui manifesti appesi sui muretti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. Quei manifesti li avevano messi fuori le Brigate Nere, capito?

D: Erano specificamente per Lei questi manifesti?

R: Per me, sì per me.

D: Perché era così pericoloso?

R: Perché avevano paura, perché loro avevano paura di me.

D: In che formazione partigiana militava?

R: Militavo nella Garibaldi Bandiera Rossa. Io lavoravo per procurare medicinali, cibi e denaro per quelli che erano in montagna. Allora era funzionante il ricamificio automatico di San Giovanni Lupatoto dove erano i tedeschi che comandavano e la maggior parte dei medicinali me li dava questo tedesco. Io li davo ad altri compagni che li mandavano in montagna per curarsi.

D: Ma non ci sono montagne!

R: No, qui non ci sono montagne ma ci sono subito dopo Verona, dopo Verona incominciano subito le montagne.

D: Ci può spiegare cosa vuol dire “mandare medicine in montagna”?

R: Vuol dire aiutare i compagni che lottavano lassù. Ha capito?

D: Ha parlato anche di un Suo amico Dusi Gino ucciso in carcere. Come è successa questa cosa?

R: La cosa è successa nella Caserma dei carabinieri che non erano carabinieri ma erano Brigate Nere. Gino Dusi assistette a un mio interrogatorio e lui mi diceva: “Dante, io non resisto come te” e lui ha preso la rivoltella a un Brigata Nera. Dicono che si è ucciso mentre io sono sicuro che fu la Brigata Nera a ucciderlo perché tentava di rubargli la rivoltella per uccidersi. Allora presero me per i capelli e mi portarono su Dusi, che era per terra dietro a morire e mi sorrise lentamente morendo. Mi dicevano, con la rivoltella nella testa: “Quello che non dice adesso questo perché muore, lo dirai tu”. E lì finì la storia di San Giovanni Lupatoto. Storia che rimase ancora insoluta per me perché loro dicono che è stato lui a liberarsi mentre io sono convinto che è stata la Brigata Nera a ucciderlo.

D: Che cosa volevano sapere da Lei le Brigate Nere?

R: Volevano sapere tutto, tutti i comandanti. Per esempio chi era Perotti, chi era Mercandino che era il colonnello che veniva giù a fare le riunioni nella pineta dell’Adige. Nelle riunioni si stabiliva dove uno era destinato e tutte queste cose; bisognava procurare dei soldi che si chiamavano soldi del Comitato di Liberazione Nazionale. Di questi soldi me ne diede tanti Fedrigoni, quello della cartiera di Verona. Ma mentre io andavo dentro da Fedrigoni veniva fuori uno vestito in Brigata Nera e io feci caso a Fedrigoni: “Guarda, da i soldi a noi altri e ne ha appena dati alle Brigate Nere, bisogna tenere per tutte le parti nella vita per stare in piedi”.

D: In quanti eravate, più o meno, nella vostra Brigata Garibaldi?

R: Uno si è ucciso. Eravamo, nella zona lì di San Giovanni, in 8 o 10, 8 o 9 e poi c’erano quelli che si ritirarono perché la lotta era pericolosa. Io nel mio lavoro feci saltare un ponte, che se lo sanno ancora adesso me lo fanno pagare. Dovevamo andare in due con la barca sotto il ponte che è la ferrovia che va da Nogara a Mantova e bisognava farlo saltare secondo gli ordini. Ma il compagno che doveva venire con me non è venuto, sono andato io solo ad attaccare queste mine e dopo a farle brillare. Però sono sicuro che il comandante tedesco di Nogara sapeva che sono stati i partigiani a far saltare il ponte perché diceva: “Lo scoppio non è venuto dall’alto, è venuto dal basso”. Si vede che era uno che se ne intendeva e fu buono, non fece nessuna rappresaglia, non fece niente. Noi avevamo come degli ovuli di plastica che bisognava gettare dove c’erano dei tedeschi, degli uffici in campagna; loro andavano sempre in campagna a requisire le case e a fare degli uffici e noi bisognava buttare gli ovuli sopra le case. Non appena toccava il tetto l’ovulo si espandeva, faceva fosforescenza. Allora Pippo, che era l’aereo che girava di notte, vedeva dov’era la fosforescenza e bombardava. Era un compito molto difficile perché se ti trovavano con questi ovuli in tasca avevi finito. Se mi g’ho salva la vita è per questione dei tedeschi. Due volte i tedeschi mi salvarono la vita.

D: Ma quando è entrato nel campo di Bolzano che cosa le è stato dato? Un numero di matricola? Un triangolo?

R: Sì, era un triangolo bianco e rosso e il numero di matricola era 9.495 perché non si aveva più il nome. Quando si andava via e si andava nei campi di concentramento nessuno aveva nomi, avevano tutti un numero cui corrispondeva un nome sicché se uno moriva, moriva il numero, non l’individuo.
Io assistetti ad una cosa terribile in campo di concentramento.
Mentre era freddo e pioveva hanno messo fuori tutte le donne nude all’acqua in modo che se prendevano la polmonite e morivano; era una scusa per loro perché dicevano: “E’ morto di polmonite”, mentre invece sono stati loro a far venire la polmonite. Una volta hanno preso uno che dentro era delle Brigate Nere; l’avevano preso perché aveva rubato e l’avevano buttato in campo di concentramento, perché loro facevano così. E noi gli dicevamo: “Quando se liberemo el primo che copem te se ti,” (“Quando ci libereremo il primo che uccideremo sei tu”) e lui: “Ma no, ma no”. Tentò di fuggire perché aveva paura che venisse la liberazione; lo colpirono proprio in fronte con un fucile e ci radunarono nel piazzale di Bolzano davanti alle caserme (blocchi), ci misero in quadrato e su una coperta con lui dentro lo rotolarono e ci dicevano: “Ecco la fine che fa chi tenta di fuggire” e noi tutti insieme: “Bene, avete ucciso un fascista”. I tedeschi si arrabbiarono. Quando ci lasciavano dal blocco D, che era dei pericolosi, ci davano un’ora di aria, l’ultimo ad andare dentro prendeva botte da matti; io mi sedevo sul muretto là fuori aspettando che andassero dentro tutti e dico: “Non mi uccidete?” “No, dice, tu per soffrire devi vivere perché se ti uccidiamo hai finito di soffrire”.

D: Le parlavano in italiano?

R: Sì, parlavano un italiano un po’ stentato, ma parlavano.

D: Ha detto di aver visto delle persone morire nel campo di Bolzano?

R: Sì, nel campo di Bolzano, di notte, e questo sta scritto anche su “Inferriate”, si uccidevano i pidocchi. Quelli che si rilassavano e non volevano vivere, vedere tirare via la cinghia e venir via la carne assieme dai pidocchi che erano, si afflosciavano per terra e morivano lì. E poi li portavano via. Questo sta scritto anche nel libro “Inferriate” che ha scritto Perotti. Io quando uccidevo i pidocchi dicevo: “Questo è Hitler, questo è Mussolini, questo è Ciano”. A ognuno che uccidevo davo un nome dei fascistoni che esistevano in Italia.

D: Ce n’erano tanti di Veronesi nel campo?

R: Sì, ce n’erano tanti ma era transitorio. Venivano, andavano.
Si dormiva nei castelli e si mangiava quel po’ di acqua e pasta che era più vermi e che era roba che per non morire bisognava mangiare. Quando sono tornato a casa ero 36 chili e non ci vedevo più dalla fame che ho sofferto. Mi portavano in bicicletta all’Adige, quando portai a casa i miei genitori che ripresi la vita. Si andava a riposare all’Adige all’ombra e i compagni mi riportavano in bicicletta perché io non camminavo, camminavo poco o niente insomma.

D: Ha visto anche dei sacerdoti nel campo di Bolzano?

R: Mi pare di sì che ci sia stato un prete; forse si ricorda più di me il professor Perotti.

D: Invece Sarentino se lo ricorda? Che posto era? Come era fatto? Quante baracche c’erano?

R: C’erano 2 o 3 baracche, adesso non ricordo bene. So che si dormiva sui castelli dove veniva il tedesco a portarmi il panino tutte le notti. Se sono salvo è grazie a quello perché sennò si finiva per morire.

D: A Sarentino ha visto montagne o qualche edificio?

R: C’era una vallata dove ti facevano lavorare a fare delle linee, non so se di corrente o telefoniche, adesso mi non so spiegare. So che si tiravano su dei paloni che io sabotavo, muravo il fil e il palon el cascava per terra. Il tedesco mi vedeva e mi diceva: “Finché ti vedo io, Bata, tutto va ben ma se ti vede un altro te copa all’istante, non fare quelle robe lì se vuoi vivere”.

D: A Sarentino quanti potevate essere più o meno?

R: Penso un centinaio, forse più, anche adesso non so in quanti di preciso erano. Sul treno so che eravamo in 100/101, lo so. Non siamo mai andati tutti in Val Sarentino, tanti come Perotti sono tornati in campo di concentramento a Bolzano per esempio, mentre noialtri ci han portati a Sarentino.

D: Dal campo di Sarentino vedeva un castello? Qualcosa di particolare o solo montagne?

R: No, solo la vallata.

D: Per andare a lavorare andavate a piedi o vi portavano?

R: A piedi, non si andava mica tanto lontano, un chilometro un chilometro e mezzo; ogni volta si andava un po’ più lontano perché bisognava mettere i paloni, raddrizzare i paloni e dopo c’erano quelli che mettevano i fili.

D: Per quello che riguarda il comando di Sarentino erano SS? Parlavano italiano?

R: Parlavano italiano ma erano SS, insomma tedeschi. Per conto mio quello che mi voleva bene era austriaco, perché ho rifiutato di andare a fare l’assistente del campo di concentramento del campo di Sarentino.

D: A Sarentino facevate l’appello?

R: Sì, quando si ritornava avveniva la “conta” per vedere se c’eravamo tutti o no. Era impossibile fuggire perché era una vallata, non era una pianura dove ci si poteva nascondere fuggendo. Era impossibile e poi c’erano tante guardie coi mitra, coi moschetti, coi sciopi (fucili).

D: Intorno al campo di Sarentino c’era filo spinato? Cosa ricorda?

R: No, niente filo spinato. Non mi ricordo quello. Non so se era più avanti. Quello non me lo ricordo.

D: Fioravante, quando eri nel campo di Bolzano ricordi se potevi scrivere a casa o ricevere lettere o pacchi?

R: No, non c’era neanche l’acqua da lavarsi, né penna, né carta, non c’era niente, non c’era niente, non c’era niente, solo un’ora di aria al giorno e basta.

D: Sempre nel campo di Bolzano ti ricordi il blocco celle?

R: No, mi ricordo il blocco di dove ero con Perotti che era il blocco D, dei pericolosi.

D: I due ucraini tu te li ricordi?

R: No, no.

D: Neanche la “Tigre” ti ricordi?

R: No, mi ricordo solo Perotti, mi ricordo quello che era sindaco di Milano, Virgilio Ferrari, e qualche altro compagno con cui poi ci siamo persi di vista o fu mandato a casa perché era giovane. Dopo lì ci si perde perché un po’ per la delusione, un po’ per tutto quello che è successo. Allora la vita è fatta così e dopo una certa età non mi ricordo tanto.

D: Ricordi se all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di resistenti?

R: Come resistenti?

D: Cioè che lavoravano per la resistenza all’interno del campo?

R: No, io mi ricordo solo che al campo di concentramento di Bolzano c’era un amico mio che veniva a buttarmi dalla rete dei sassi con attaccato delle pastiglie per salvare i denti; fu preso ma non aveva niente addosso perché aveva buttato a me il sasso con le pastiglie con gli elastichini in modo che non si perdessero nel volo. Queste pastiglie bisognava prenderle per salvarsi i denti perché adesso io sono senza i denti ma allora li avevo forti, allora.

D: Al campo di Sarentino dove c’erano le baracche vicine c’erano anche delle case di civili?

R: No, non mi ricordo.

D: Non hai mai incontrato civili?

R: Civili ne abbiamo incontrati andando a lavorare. Si passava davanti a una casa e lì avevano buttato fuori le bucce delle patate che noi si raccoglieva per mangiare. Ho preso una botta sulla testa perché raccoglievo queste bucce di patate, solo quello ricordo di Sarentino.

D: A Sarentino lavoravate tutti sulle linee elettriche o c’erano altri lavori?

R: Non tutti, perché eravamo una trentina che andavamo a lavorare a tirar su questi paloni, gli altri non so dove andassero a lavorare e se andavano a lavorare oppure avevano scelto noi per lavorare.

D: Eravate solo uomini a Sarentino o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini. A Bolzano c’erano donne tra cui un’amica mia che lavorava con me nella lotta di liberazione. Adesso è morta, si chiamava Rossini Maria ed è morta che sarà circa un anno, neanche.

D: A Sarentino ha mai assistito ad episodi di violenza?

R: No, solo quella del Pani e basta. Sennò violenze ce n’è dappertutto, la vita lì è violenta perché bisognava mangiare quello che ti davano, bisognava stare zitti, non bisognava parlare, non bisognava essere in gruppi più di 5, non bisognava radunarsi più di 5.

D: Quante ore durava il turno di lavoro a Sarentino?

R: Si andava via, si prendeva su un panino, ci davano un panino più secco che, si andava via la mattina verso le 8 e mezzo, 9 e si tornava la sera verso le 4 e mezza, 5 e lì veniva la “conta”.

D: Si ricorda come avveniva la “conta”?

R: La conta avveniva così: ci mettevano in fila e ci contavano, non ci chiamavano per nome perché non avevamo più un nome avevamo 9.495 io e gli altri avevano altri numeri e ci chiamavano i numeri e non i nomi; ci mettevano in fila e ognuno che chiamavano passava dall’altra parte e andava dentro nelle baracche.

D: In quanti erano i tedeschi a fare l’operazione della “conta”?

R: Erano 5 o 6 tedeschi armati e 2 o 3 assistevano quelli che andavano nella baracca e gli altri quelli che dovevano ancora essere chiamati.

D: Dopo Sarentino tu sei stato riportato a Bolzano?

R: No, io sono stato liberato a Sarentino. Libero a Sarentino dove tutti gli altri esultavano dalla gioia di essere liberi mentre io se non ho pianto è perché avevo del coraggio. Io da Sarentino andai a piedi alla Lancia di Bolzano dove sapevo che c’era una formazione di liberazione nazionale. Rimasi alla Lancia 6 o 7 giorni, finché avvenne il fatto che mi ricordo sempre e che ho nel cuore della terrazza del Comune (non lo so se c’è ancora perché io a Bolzano ci sono stato poco dopo), dove levarono la bandiera del mio cuore.

D: Chi vi ha liberato a Sarentino?

R: Nessuno. Sono andati via loro. Ci hanno lasciati liberi, ci hanno tagliati i capelli a zero e ci hanno detto: “Chi viene trovato domani in Bolzano sarà fucilato”.

D: Ti ricordi la data? Quando?

R: Penso il 26, 25, 26 aprile, non so se il 27, ma il 26 ormai la guerra era finita e quindi era inutile stare lì a tenerci prigionieri, perché anche loro dovevano scappare via e andare in Germania, se era possibile raggiungere.

D: E’ mai più tornato a Sarentino a vedere dove era il campo?

R: No, non sono più tornato perché mi viene la pelle d’oca a nominarlo adesso.

Gianardi Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gianardi Mario, sono nato a Vezzano Ligure il 18.9.1926, in provincia de La Spezia. Sono stato arrestato il 15 ottobre del 1944 davanti alla chiesa di Migliarina. Mentre accompagnavo un ragazzo uscito dal carcere di Villa Andreini, che era un handicappato, preso in un rastrellamento a Cegirano, questo ragazzo qui è stato, dietro interessamento mio e degli altri, doveva essere accompagnato quando è uscito a Cegirano, solo che lui non poteva sapere la strada, e allora mi hanno incaricato di accompagnarlo sino a Migliarina dove c’è la biforcazione, che va verso il Termo e una parte verso Buonviaggio. Forse voi non sapete ma la diciamo, una va verso Roma e l’altra va verso Parma.
Lui doveva prendere la strada verso Parma, senonché io partii da casa mia assieme a mio fratello Sergio ad un certo Del Nero e questo ragazzo. Erano le due del pomeriggio. Quando siamo arrivati sul Ponte della Dorgia, che è un canale che attraversa prima di arrivare alla chiesa, sulla Via Aurelia, io sentii il rumore di un camion che giungeva. Feci una corsa e arrivai proprio all’incrocio davanti alla chiesa di Migliarina, lasciando mio fratello e gli altri indietro, in maniera che se questo camion potesse andare verso Parma l’avrei fermato chiedendo il permesso di poter salire questo ragazzo, gli avrei spiegato la situazione. Senonché il camion proseguì per il Termo, quindi la mia corsa fu vana.
Mentre attendevo che loro, i miei amici e questo ragazzo, mi raggiungessero, io mi sono rivolto verso loro e vedevo che esitavano a venire, e io gli dicevo Camminate”. Ad un bel momento ho sentito dietro la schiena, con la canna del fucile “alza le mani”, io ho alzato le mani, erano due della Brigata Nera che mi avevano preso. Chi è stato? Io il giorno dopo, lunedì, perché era di domenica, avrei dovuto andare ai monti, non perché avevo un’idea politica però più che altro per la paura di essere preso anch’io che già c’erano le voci che arrestavano ecc., mi sembrava di essere più sicuro allontanarmi da casa. Ebbene il delatore, che mi ha fatto prendere, è un certo Guerra, che dalla finestra del suo appartamento era d’accordo, come si può dire, insomma era passato dai partigiani alle Brigate Nere, quindi lui era consapevole che io dovevo andare ai monti, pertanto presero soltanto me. Ma di questo mi accorsi solo quando mi portarono in casa sua, prima io non l’avrei neppure immaginato. E come lui dalla finestra, un certo Capitani, che si trovava invece sulla via Aurelia, faceva, a 200 metri da casa sua, lo stesso lavoro. Stetti in casa del Guerra fino alla sera verso le cinque o le sei, poi, una ventina circa eravamo, ci portano al 21° Fanteria. Il 21° Fanteria era la caserma dei soldati dei fanti del tempo di guerra, di cui la Brigata Nera si era impossessata ed aveva adibito certi settori del carcere a celle per i detenuti. Io mi trovai in una cella vicino alla strada che andava verso Pegazzano, eravamo in 12, ero io, in parte me li posso ancora ricordare, un certo Chiari, Ughetto, poi Gigli con cui siamo stati poi ammanettati insieme quando siamo partiti da Genova, poi c’era l’ingegner Iacchetti della Ceramica di Ponzano, il suo contabile signor Foce o dottor Foce, non so chi poteva essere, un impresario edile di cui adesso mi sfugge il nome.
Ebbene siamo stati lì una quindicina di giorni. In questo frattempo però la notte sentivamo le urla di coloro che interrogavano e ci si preoccupava un poco perché quando venivano e chiamavano qualcheduno e lo portavano a questi interrogatori di solito non lo si vedeva ritornare perché lo facevano cambiare di cella.
Successe che anche a me chiamarono, mi chiamarono e me la cavai invece con poco, mi fecero alcune domande, se ero partigiano, se conoscevo Tizio o Caio, e io risposi di no, perché effettivamente partigiano non lo ero ancora. E va bene, mi dettero qualche ceffone così, va bene. E io tutto contento sono rientrato in cella, convinto che avessi superato la fase più critica. Invece il bello doveva proprio venire, perché dopo alcuni giorni ci portarono su un camion a San Bartolomeo. San Bartolomeo è una zona vicino al mare di Spezia, cioè sul mare di Spezia diciamo. E qui c’erano alla fonda alcuni zatteroni, gli zatteroni erano da sbarco, cioè avevano il pontile che si abbassava per far scaricare la merce. Eravamo in questo zatterone circa un centinaio, 87-100 adesso non so. Ebbene lì ci hanno dato un pezzo di pane che abbiamo dovuto dividere, l’ho dato a sette persone, comunque stettimo lì un giorno fermi perché c’era mare con burrasca. Il secondo giorno di sera si partì verso Genova, via mare verso Genova. Quando siamo stati al largo di Monterosso, Monterosso è una zona vicino a La Spezia ma dalla parte andando verso Genova, Chiari con una tavola dove eravamo seduti, Chiari è quello dei parati, vendeva le carte da parati, era in cella con me ed era a bordo. Insomma abbiamo sollevato leggermente la mira e lui voleva a tutti i costi fuggire, ma sapete davanti allo zatterone, se lui si buttava andava a finire sotto, non poteva avere, non aveva uno slancio per … E lui effettivamente l’ha capita e ha desistito. Quindi abbiamo cercato di togliere questa tavola e bene o male si vedeva che non era stato forzato il portale dello zatterone.
Siamo arrivati verso la mattina alle cinque a Genova. E a Genova ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova. Qui io sono andato, e portato con tutti gli altri, a pianterreno della quarta sezione, eravamo anche lì una decina per cella, qui avevamo la possibilità di andare a prendere l’ora di aria, così si dice nel carcere, e quindi quando io poi insieme agli altri della mia cella potevamo uscire, vedevamo, e mettevamo il nome anche noi, nei muri in maniera che potessero trovare una testimonianza del nostro percorso, perché pensavamo che non potendo scrivere a casa, e non potendo avere notizie, almeno se ci fosse stato qualcheduno un domani che avesse letto queste scritte sui muri avrebbe capito che io ero transitato lì il giorno tale ecc.
Quindi subii il primo degli interrogatori effettivamente severo. Io sono stato seviziato e torturato, per sei ore, sono stato seviziato e torturato da Battisti, Morelli, Guerra, Capitani e due marescialli della SS. I più sono stati Battisti, Morelli e i due marescialli della SS, Guerra e Capitani nell’ultimo. Allora io ero legato cavalcioni di uno sgabello a torso nudo, e cominciavano a nerbarmi. Mi dettero 18 accuse: la morte di Bergamini, l’assalto alla Flage, alla batteria di Monte Pertico, ero partigiano, avevo nascosto le armi, insomma tutte invenzioni perché fino a quel momento di ciò che mi dicevano nulla corrispondeva al vero, perché io certe azioni non le avevo mai fatte. E loro dicevano di firmare, ad ogni interrogatorio, ma il primo interrogatorio è stato forte, all’ultimo mi ruppero questo sgabello nella schiena. Il giorno dopo mi richiamarono il pomeriggio e ricominciarono altre botte, cominciarono a mettermi il tubo dell’acqua dal rubinetto in bocca, mi è venuta una pancia grossa così che scoppiavo, e poi mi storcevano le dita, il dito pollice, questo vedete com’è? me li storcevano. In più se vedete le mie unghie, queste dei piedi, hanno ancora i segni adesso, perché mi mettevano i fiammiferi di legno corti, tagliati e con la punta infilata qui e ci davano fuoco qui sul pollice destro e sul pollice della gamba sinistra, e sulle mani. Pertanto quando perdevo i sensi mi buttavano con la testa dentro il lavandino, pieno d’acqua, che era rosso del mio sangue. Pertanto io i peggiori momenti credo della prigionia per il dolore patito sono stati quelli.
Insomma io non firmavo, all’ultimo il terzo giorno, dopo ancora avuto percosse ecc., hanno preso, io ero in stato di semi-incoscienza perché quando vedevano così ti davano proprio il colpo nella testa per farti svenire, poi ti mettevano con la testa dentro il lavandino. Invece di tirarmi l’acqua in viso mi ci buttavano dentro, e ti senti soffocare, poi con questo peso che avevo già dell’acqua della pancia, che mi si era gonfiata tutta la pancia e lo stomaco, insomma stavo male, malissimo.
Adesso mi vengono le amnesie.

D: Stavi dicendo, Mario, che dopo tre giorni…

R: … dopo tre giorni mi hanno preso la mano e mi hanno fatto una scarabocchio, e mi hanno riportato in cella. Però non mi hanno portato più alla quarta sezione, mi hanno passato alla terza sezione e lì sono stato qualche giorno, facevo fatica ad entrare nella cella perché c’era il cancelletto per aprire in queste celle qui che erano più di segregazione che altro, molto strette.
Lì ho potuto incontrare gli altri che avevano preso in un secondo tempo della Pianta, della zona mia. E c’era un altro Gianardi come me, allora ho pensato che fosse mio padre o mio fratello, invece era mio zio. C’era un certo Trippini che aveva una segheria lì alla Pianta, non mi riconosceva neppure da come ero gonfio, ridotto male, avevo la faccia e gli occhi tutti tumefatti. Ah mi hanno rotto il setto nasale, mi hanno rotto i denti, questo che mi ha rotto i denti era con il calcio della rivoltella, mi ha spaccato proprio i denti qui davanti, a metà proprio rotti. Ebbene, io avevo soltanto, perché era di ottobre, la canottiera e la camicia, ero vestito estivo ancora. Praticamente si doveva, le voci, perché in carcere non c’è cosa come in carcere perché si sanno più delle altre parti dove si va a finire, si diceva che si andava a lavorare in Germania. Assieme a me in cella c’è sempre stato un ragazzo che faceva il capostazione a Migliarina, il nome ce l’ho sempre e quando lo devi dire non ti viene mai. Ebbene a lui era arrivata da casa una valigia con degli indumenti mentre a me non era arrivato niente, e combinazione questo mio zio invece era addirittura in canottiera. Sapendo che si doveva andare per la Germania, Peschiera, si chiamava Peschiera il capo. Questo ragazzo con cui eravamo diventati amici perché eravamo in cella, sia al 21°, insomma avevamo fatto tutto il percorso assieme, e siamo arrivati a Mauthausen combinazione sempre insieme. Mi ha dato un pullover blu, ma vedendo mio zio che credevo che partisse anche lui con noi, che era in canottiera, glielo cedetti, e lui si ripromise di ridarmi qualche cosa. Senonché quando partimmo da Marassi, Genova, dal carcere di Marassi per andare a Bolzano, quando arrivammo a Bolzano, al Blocco E la valigia a lui gliela presero, quindi rimase lui con i suoi vestiti e io con la mia camicia, cioè non avevamo il ricambio per nessuno.

D: Scusa Mario, da Genova per andare a Bolzano?

R: Ci siamo fermati poi, adesso torno un momento indietro. Quando siamo partiti da Genova sui camion ci siamo fermati non un giorno, abbiamo fatto una sosta al carcere di San Vittore di Milano, ci siamo fermati lì. E lì ero ancora io, i secondini lì che avevano l’infermeria, mi hanno medicato un po’ la schiena e mi hanno medicato un po’ il viso con degli impacchi, della roba, non so con che cosa, non mi sembrava acqua però sarà stato borato o qualcosa del genere. E sul camion che mi portava a Bolzano eravamo ammanettati destra con sinistra, io ero con questo Gigli, con Gigli, non ero con Peschiera, ero con un certo Gigli che era della mia età e facevamo la scuola insieme, abbiamo fatto. Io non ce la facevo a stare ancora in piedi con gli scossoni, e seduto anche tantomeno perché battevo contro la spalliera e la schiena mi doleva, cominciavo a fare, insomma le ferite ci rimarginavano però erano dolori quando toccavo la schiena. Allora mi ricordo che questo povero ragazzo, Gigli, si è messo di fianco a me per badare che non battessi contro la spalliera. E così siamo arrivati a San Vittore, che mi hanno fatto questo impacco, questo medicamento e sono proseguito per Bolzano. A Bolzano sono al Blocco E, il Blocco E è un blocco in armatura, con mattoni rossi, però è un campo recintato dentro il campo. E confinava, il muro ad una certa altezza, di là, nel solito capanno nostro c’erano le donne, erano le mogli dei partigiani, erano le mogli dei movimenti di liberazione, è stato lì che la prima volta io ho capito movimento di liberazione, insomma queste cose, perché io di politica non mi sono mai interessato, anzi sono stato sotto il fascismo e ignoravo completamente cosa voleva dire a quei tempi comunismo, socialismo, ecc.
Ebbene queste donne quando mi hanno visto che sono entrato, dato che anche il reticolato divideva dalle donne, ma eravamo recintati in un recinto unico, però divisi dal recinto per le donne, così il muro … Quando hanno visto che ero ridotto così male c’era qualcheduna che usciva già a lavorare a Bolzano, che andava negli ospedali, e allora mi vide, anche loro mi hanno medicato un pochettino, cominciava ad essere una settimana il dolore, perché i primi giorni era molto doloroso, poi col tempo si leniva lentamente, non è che stessi bene però avevo di molto migliorato. Mi sembra che siamo stati una decina di giorni a Bolzano, ora io i giorni non posso saperli con esattezza. Mi avevano dato un numero che non mi ricordo, mi pare che fosse 9.712, però questo non aveva nessun valore poi per quando sono andato più avanti in Germania. E’ successo che un giorno ci prendono tutti e ci portano alla stazione, ci imbarcano su dei vagoni merci, ci chiudono dentro. Ed eravamo anche lì un centinaio circa, senza mangiare senza bere, non avevamo né da mangiare né da bere. Questo era per noi spezzini. Però qui è successa una cosa che poi mi è molto dispiaciuta anche tra noi italiani, questo volevo dire perché questo lo dirò appena arriveremo.
Ebbene noi qui, io sono partito da Bolzano e c’era con me Nicolai, quello che era con me impresario edile. C’era Nicolai, Ughetto il tabaccaio, Nicolai, Ughetto, che ha gli apparati, quello che vendeva …, questo Chiari qui era un po’ più, se posso dire coraggioso, oppure interessato a scappare. Le donne ci avevano dato una zampa di porco, e allora sì perché c’erano anche i mariti che partivano con noi, le donne invece rimanevano lì, per scappare. Difatti tra il tratto tra Bolzano e Innsbruck sono fuggiti in cinque, Chiari, Nicolai, Ughetto, uno di piazza Brin, un altro che non so chi è, e toccava a me buttarmi giù, però non avevo il coraggio di farlo, sono sincero, dico la verità, perché non mi sentivo neppure di poter camminare in mezzo alla neve. Senonché la SS si è accorta dell’ombra, ha fatto fermare il treno, e con le lampade è venuta a vedere di dove sono scappati, e ci avevano scassato il nostro vagone alla porta quindi lo han visto, hanno aperto, sono venuti su, han cominciato a tirare calci col fucile, ci mandavano indietro, e vicino a me a uno ci hanno staccato addirittura l’orecchio con un calcio, però non era uno spezzino, era non so se era di Bergamo o di Milano, poveretto anche lui, non è che …
Però lì non eravamo tutti spezzini, da Bolzano siamo partiti milanesi, torinesi, bergamaschi, insomma eravamo di tutte le città. Solo che qualcuno di loro, molti avevano le valigie piene, sia di indumenti che di mangiare. Mentre noi ci siamo salvati un pochettino perché non tutti facevamo i bisogni dentro al vagone, perché poi han messo a bordo i due della Wehrmacht di guardia e purtroppo quando portavano da mangiare a loro, per la paura che ci ribellassimo e tutto, questi poveretti erano due anzianotti della Wehrmacht, ci lasciava qualche briciola di pane. Insomma però non abbiamo patito la sete perché con la neve e tutto ci potevamo dissetare. Successe che loro li ripresero, mentre noi si proseguì per Mauthausen.
Arrivammo a Mauthausen che erano le tre del mattino, erano le tre del mattino e c’era una temperatura più di 13 mi sembra gradi sotto zero, c’erano i candelotti alle baracche, che dal tetto arrivano per terra. Era tutta una lastra di ghiaccio, c’era tutta neve, e noi abbiamo fatto dalla stazione a Mauthausen, che è in salita, tutto a piedi. Siamo arrivati là alle tre del mattino, il campo era tutto illuminato, e quando siamo arrivati, siamo entrati dalla porta principale, pertanto noi credevamo di andare in un campo di lavoro perché effettivamente non si prestava ad essere così drastica la faccenda, avevamo, sembrava una pagoda cinese, invece c’era le garitte con le mitragliatrici, che poi di giorno si è potuto vedere, ma di notte non potevi distinguere.
Cominciamo ad intravederlo, ci fanno depositare le valigie, ce le fanno aprire, è lì che mi sono sentito mortificato, siamo stati mi sembra 4 giorni in viaggio, tutti con la fame, e loro avevano ogni ben di Dio, io ero in camicia e avevano vestiario, nessuno si è degnato di dare una maglia, un maglione, qualche cosa per coprirmi. Non è servito a nessuno perché poi quando siamo arrivati là hanno lasciato lì valigie e vestiario e tutto e lo hanno preso i tedeschi quindi… Però mentre eravamo, ci hanno messi tutti in fila, appena entrati in una porta, sulla parte destra, che ci sono le scale per andare giù agli spogliatoi e alle docce.
Lì ad attenderci c’erano le SS con i cani e più c’era una donna della SS, che aveva dei cani alani. Quegli alani bianchi ma con le macchie nere, ma erano più alti però. Difatti l’interprete ha cominciato a dire: qui siete in un campo di lavoro, noi non vogliamo che voi facciate atto di sabotaggio, noi non vogliamo che voi facciate atti di ribellione, noi vogliamo che … Insomma ci hanno fatto una predica. Perché se un domani qualcuno di voi si permettesse … allora questa donna ha fatto così al cane, e il cane era più alto con le gambe della persona che ci è saltata addosso, però l’ha preso per il collo ma non l’ha ammazzato, cioè non gli ha dato l’ordine di ammazzarlo, poi gli ha detto di lasciarlo, vi succede questo, cioè vi mandiamo i cani dietro che vi riprendono e poi… non ci ha detto del crematorio, non ci diceva mica, io non lo sapevo che c’era il crematorio.

D: Mario, scusa, quando sei arrivato tu a Mauthausen in che mese era?

R: I primi di dicembre penso (1944). Era freddo, era freddo. Soltanto nella prima decade di dicembre, perché ricordo che a natale ero lassù e la prima volta che lì che sentivo parlare proprio di comunisti e tutto, è venuto la vigilia di natale Paietta, Paietta è venuto al blocco 28, dov’ero io, la vigilia di natale. E lì c’erano anche dei dirigenti di Milano mi sembra, c’era con me, io adesso i nomi, eppure fa parte del Nazionale (Associazione Nazionale Ex Deportati), è vecchio, ancora adesso.
Insomma arriviamo a Mauthausen, e poi ci spogliamo, ci fanno spogliare, e per andare alle docce bisognava scendere una decina di scalini. Quindi nudi come eravamo c’era chi ti dava delle nerbate. Siamo andati dentro, hanno cominciato a rasare i capelli, sotto i bracci, sotto le nudità, e poi ci hanno mandato a fare la doccia. Se ci penso l’acqua era tutto ad un tratto tutta bollente, ma dovevi scappare di sotto, proprio non ti potevi nemmeno scansare perché prendevi quella di dietro, e poi tutto ad un tratto acqua fredda. Insomma non vedevi l’ora di uscire. E mentre uscivi, bagno com’eri, c’era uno col pennello che ti dava delle pennellate di roba rossa sotto i bracci, qui, sotto, sarà stato un disinfettante.
Ci portano fuori ma lì non eravamo vestiti per niente ancora, i vestiti noi li abbiamo presi al blocco di quarantena, ci han dato una camicia e un paio di mutande. Ebbene siamo usciti e siamo stati lì un’ora, un’ora e mezza, anche due ore fermi a quel gelo. Per scaldarci cercavamo di stare vicini il più possibile. Quando hanno dato il via, tre o quattro persone davanti a me hanno dato una spinta a uno che non si muoveva, questo è stato il primo spezzino che ho visto cadere a Mauthausen, a me sembrava Rossi il farmacista, se fosse stato un giovane mi sarei ricordato anche chi è, ma questo era proprio un anziano. Ebbene quando è caduto per terra ha dato un colpo come una tavoletta, fai conto che fosse caduta una tavoletta, era gelato in piedi poveretto, il primo che è morto è stato quello, che ho visto morire.
Ci portano al campo di quarantena.
Il campo di quarantena è fuori dal perimetro di armatura del campo centrale, è stato aggiunto, difatti appena si entra dalla porta principale si va diritti, e poi sulla sinistra avevano aperto che si scendeva giù in discesa, ma era una discesa di 6 o 7 o 10 metri però era molto in pendenza. E lì si trovavano i blocchi 26, 27, 28, 29 e 30. Io ero al blocco 28.
Così ci danno la camicia e un paio di mutande, zoccoli niente perché gli zoccoli servivano solo quando dovevi uscire, erano tutti sulla porta. E combinazione noi siamo stati, credo di aver sverginato questa baracca qua perché era nuova, c’erano ancora i giacigli per terra, non c’erano gli scaffali, i castelli, non c’erano i castelli. E allora questi sacchi li stendevamo per terra, e poi ci mettevamo testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, e lasciavamo il corridoio per il controllo.
Adesso succede che nel blocco, anche lì sarà stata una forma di non so come chiamarla, perché noi dalla parte dove si entrava si dormiva, e vicino al pane, perché c’era al centro della baracca una catasta di pane, coperto dalle coperte, le coperte le mettevamo quando l’avevamo adoperate piegate in un angolo. E quindi alla mattina c’erano gli Stubedienst che dovevano fare la pulizia. Gli Stubedienst erano persone come noi che a turno dovevano pulire. Allora la prima settimana che sono stato a Mauthausen, fino a natale o giù di lì, non si stava tanto scomodi, perché ognuno si poteva stendere comodamente per terra, e pidocchi non ce n’erano, se non ce li ha portati qualcheduno dalle carceri però non c’erano, poi sono venuti. Succedeva che i capiblocchi invece erano divisi da noi, avevano un settore della baracca per conto loro.
C’era il capoblocco, il vice capoblocco, quello che gli faceva i capelli, perché noi un giorno sì e un giorno no, una settimana sì e una settimana no, a seconda come gli girava, gli passavano tutti i giorni col rasoio una striscia al centro della testa.
Allora questo pane qui, cominciava a sentirsi anche la fame, era un pane rettangolare tedesco di patate, che faceva la muffa. Quando noi eravamo in questa baracca, le scene che si vedevano incominciavano a farci … Io ho assistito padre e figlio Boccaletti di Valeriano, il padre non mangiava la zuppa di acqua e rape che ci davano per darla al figlio, il figlio non la mangiava, sono morti tutti e due a Gusen, tanto per dire. Con me c’era anche il dottor Negri, nella baracca lì. E quando, dunque io ero giovane e insomma tiravo a campare, tiravo a vivere, mentre gli altri, chi aveva famiglia, chi aveva il figlio, anziani, si rendevano forse più conto di quello che poteva succedere, cosa invece che a me non, cioè i pensieri che avevano loro a me non mi potevano toccare. Così giunse la settimana che anch’io dovetti fare lo Stubedienst. E’ stato nel periodo sotto natale. Uscii un giorno con un russo, hanno cominciato a venire anche già, si vede che gli americani e i russi avanzavano, al Lager è cominciato a venire quelli che via via ritornavano al campo principale e che evacuavano perché c’erano le avanzate degli americani e dei russi. Così cominciammo lì i primi pidocchi. Facevo lo Stubedienst con questo russo; un giorno siamo andati a prendere, andavamo tutti i giorni ma quel giorno lì si vede che quel pendio di scarpata che c’era era più scivolosa del solito, con gli zoccoli olandesi che avevamo ai piedi, io tenevo la marmitta con la destra, lui con la sinistra, e in più aveva una scatola di legno con della ricotta scremata, era per i kapo, era l’ora del mezzogiorno. C’era quindi zuppa. Senonché scivolò e mi trascinò. Sabotaggio!
La SS che ci accompagnava, perché quando si usciva dalla quarantena per andare fuori nel campo veniva quello della SS ad accompagnarci, non erano più i kapò, eravamo seguiti da loro. Ebbene devo dire la verità che con me non è stato molto severo, anzi di fronte al kapò gli ha detto come sono andate effettivamente le cose, che io sono caduto perché il russo mi ha trascinato. Ma la punizione la dovevo subire anch’io. Così è successo che al russo hanno dato 40 nerbate e poi nudo dal giorno fino alla mattina dopo doveva stare fuori della baracca, così pure io. Io con qualche nerbata me la sono cavata, il perché? Adesso qui vi posso dire: il kapò aveva la “moglie”, ma non era una donna, era una del triangolo rosa, e questo si chiamava Hans; ebbene in parte devo proprio la vita a lui. Sì, perché quando mi hanno dato le prime frustate si è avventato contro il marito diciamo, “nein nein nein!”, perché io ero uno dei più giovani del blocco, e si vede che mi aveva preso in simpatia, perché era proprio, a vederlo sembrava proprio il viso di una donna ecco. Ebbene alla sera alle nove, non so che ora era, faceva un freddo, per combattere il freddo trattenevo il respiro, mi gonfiavo più che potevo, muovevo i piedi perché ero nudo coi piedi scalzi, e alle nove ormai sentivo proprio che non ce la facevo più. Combinazione vuole che aprano la porta, e quest’uomo qui, con due spezzini è venuto dentro, mi ha preso e mi ha portato dentro, il dottor Neri mi ha subito preso dalla neve, mi ha massaggiato, mi ha fatto rimuovere, mi han coperto con le coperte, e insomma. Però la schiena ce l’avevo già rovinata di prima, lì si erano aperte anche le altre, allora mi faceva male, non potevo stare con la schiena sdraiata. Ebbene mi spargeva, non so se era sapone o margarina, non c’erano mica medicinali, e io non per non andare al Revier, perché le voci cominciavano già, difatti il dottor Neri m’ha tenuto. Quando veniva l’appello mi accompagnava là fuori, mi teneva, e per fortuna erano giorni che, si vede che la SS era proprio, era destino che io dovessi sopravvivere, perché di solito era un’ora, un’ora e mezzo che dovevi star fermo all’aperto, invece quelle mattine lì chissà come, forse era giunto all’orecchio che avanzavano i russi, più di mezz’ora non facevano, perché dico bene lui cominciava dalla baracca 26, e quindi fino a che non aveva finito tutto dovevi stare sull’attenti fuori, e non ti potevi muovere, perché se ti muovevi erano bacchettate.
Insomma mi portarono dentro, mi misero le coperte, mi allontanarono, sapevano che io ero da quella parte lì, però cominciava a venire molta gente. E qui le razioni cominciavano ad essere molto più scadenti, perché mentre inizialmente quando siamo andati noi, io non so che ordine avessero loro perché il pane c’era, non è che non c’era, c’era una catasta di pane proprio in mezzo al blocco. Cioè alla parete del blocco, dalla baracca dove non si passava, dove non c’era la porta di uscita. Ebbene prima, quando siamo andati su, i primi giorni a noi davano un quarto di pane di questo pane rettangolare, poi via via che la gente veniva era sempre la stessa razione, e loro avevano una taglierina, avevano una tavola con lo scontro e una taglierina che facevano così per tagliare, e tagliavano le fette del pane. Quindi a seconda se c’erano 100 persone loro calcolavano che il solito pane che mettevano per i primi giorni doveva bastare per quelli. C’erano 100 persone? Dovevano venire 100 pezzi, ce n’erano 200? dovevano venire 200 pezzi, adesso esagero però grossomodo la mentalità, e i pani che dovevano adoperare erano sempre gli stessi; se erano venti venti erano sempre quelli, non è che ti dessero sempre la stessa razione, mentre la zuppa effettivamente era un litro di acqua.
E qui succedeva che inizialmente avvenivano un po’, anche tra di noi, delle ripicche, insomma poi ci siamo organizzati, anche lì abbiamo capito come si doveva fare, perché nessuno, cioè il primo giorno è successo così, come è arrivata la zuppa tutti con la fame che avevamo ci siamo buttati per prenderla, caspita! ma quando tiravi su era acqua. Allora il giorno dopo nessuno più voleva essere il primo ad andar lì perché se no ti succedeva, e quindi anche tra di noi avveniva una conflittualità. Allora c’è stato proprio il dottor Neri che aveva detto: State a sentire, noi italiani dobbiamo comportarci in maniera, facciamo così, quanti siamo oggi 80? va bene, i primi 40 vanno per primi, i secondi, gli altri 40, vanno poi. Domani vanno loro per primo e voi dopo, però non va più sempre il primo, quello che è l’ultimo dei 40 passa per primo. E così ci si metteva in fila, non andavamo più là perché ormai sapevamo a che gruppo appartenevo. Insomma ci siamo salvati. Ci siamo salvati fino a che erano ritornati i russi e i polacchi e quegli altri, perché allora lì è ritornato il caos, però noi avevamo trovato la maniera di risolvere questo problema. Per prendere poi cosa? Qualche rapa, qualche pezzo di rapa, qualche pezzo di patata, mentre alla sera ci davano appunto, perché il pane al giorno ti davano la sera, ti davano questa fetta di pane con un po’ di margarina, con un po’ di würstel, con quelle fette di quel salame che hanno loro, insomma diciamo la razione era misera, misera, misera, perché avevi sempre fame, ma se uno stava fermo magari poteva campare forse un mese in più.
Il numero: io avevo il numero a Mauthausen, il 113.986. E qui, anche qui un problema. Come facevo io a dire in tedesco “hundertdreizehntausend…” perché loro l’ultima cifra l’anticipano alla penultima. Per me è stato un supplizio, per fortuna che il dottor Neri, a forza di dirmelo è riuscito a farmelo dire, ma io non lo capivo quando, cioè io non riuscivo, perché io lo dicevo così volgarmente, invece loro lo dicono con un accento. Anche se era il mio numero io non riuscivo. Allora lì erano botte. Però invece se prima ne prendevo spesso lì ne prendevo di meno.
Successe che venne un giorno, abbiamo passato, ripeto, tutto il natale, e a natale, è giusto, credevamo che ci dessero il pranzo, almeno qualche cosa in più, invece è stata più fame delle altre volte, ci han dato tre patate e basta, e manco la sera ci han dato la razione. Sono passate tutte le feste di natale, gli spezzini, il dottor Neri dopo natale è andato al Revier, insomma del mio blocco io ero rimasto ancora lì. Poi ero in mezzo a russi, polacchi, cecoslovacchi. C’erano anche degli altri italiani, milanesi, torinesi, però degli spezzini non c’era più nessuno, erano partiti tutti.
Alle tre del pomeriggio, dopo gennaio, il 4-5 gennaio (1945), il primo dell’anno era passato.

D: Scusa Mario assieme al numero di immatricolazione ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso con scritto “It”, italiano voleva dire, perché gli jugoslavi avevano pure il triangolo rosso, però avevano solo la “J”, fatta differente dalla nostra. E avevo al polso il numero con la targhetta e un fil di ferro, non avevo io la marcatura come ad Auschwitz, il numero tatuato.
Quindi alle tre del pomeriggio, sarà stato il 4 o 5 di gennaio, entra dentro un graduato della SS con l’interprete, il Lagerführer – c’è il capoblocco però sopra di lui c’è quello che comanda tutto il campo – almeno credo che fosse stato lui.
Chiamano il numero in tedesco, ah no prima dicono “Transport Börze”, una cosa così, perché ogni volta che venivano per un trasporto dicevano “Transport Melk“, “Transport Gusen”, lo dichiaravano. E lì è un nome un po’, io non ci ho fatto … Un po’ preso anche alla sprovvista, più che altro quando entravano loro cominciavo ad avere la fifa, perché dico qui succede qualcosa, perché tutte le volte che venivano spariva la gente, andavano via, però solo quella volta lì è venuto, gli altri poi venivano, invece gli ordini dal kapo. Invece quella volta lì c’era questo graduato della SS. Insomma anche gli altri sentivo che bisbigliavano un po’. Quando poi chiamano Ghinardi Mario, io non so, invece in tedesco “g” pronuncia “ghi”, capito. Poi allora l’interprete “Gianardi Mario, 113.996” “Sono presente” e “Perché non hai risposto?” “Scusi, io, vede, non ho sentito, ho toccato questo orecchio qua, mi fa un po’ male, non ho capito bene, mi deve scusare”. Cominciai a tremare come una foglia, tremavo, insomma ho trovato la scusa più appropriata che mi è venuta al momento. Allora io avevo messo che facevo il saldatore elettrico autogeno, però saldatore anche di leghe da farsi al banco. E lui allora mi ha chiesto: cosa vuol dire saldatore di leghe da farsi al banco? Io ero in un’officina di artigiani e pertanto saldavo i carter delle automobili di ghisa, i cosi di alluminio, ottone, bronzo e alluminio, quando ho detto “alluminio” mi hanno detto “Ist gut” (è buono). Allora sono andato via con loro, mi hanno fatto scendere le scale, sono uscito dalla porta, dal Lager, e sono andato sotto dove ci sono i vestiari. Nella piazza dell’appello c’erano tutti i magazzini; mi danno la giacca, un paio di pantaloni militari con le strisce, io non avevo la giacca con le strisce, avevo una giacca, non ce ne avevano più di giacchette a strisce, io avevo roba militare, però avevo il triangolo rosso sia nei pantaloni che dietro la schiena. Mi danno il cappello, mi danno gli scarponi, gli zoccoli e una gamella, e poi mentre sono lì vengono altri quattro. Mi sembra che fossero due cecoslovacchi, un francese e un belga, insomma italiani non ce n’erano, ero solo io, e io ero il più giovane, loro erano già persone più mature.
Ci portano giù a Mauthausen (in stazione), ci aspetta un vagone, un treno, è passata una tradotta con un treno con dei cavalli dentro, le SS ci mette dentro questi vagoni con la Wehrmacht, i soldati che c’erano, lui è salito invece al caldo, e lì abbiamo cominciato a capire. Si faceva un percorso: di giorno quasi stavamo fermi e di notte invece si camminava. Dunque io sono partito come questa sera, sono arrivato all’indomani sera con questo treno così, mi sono venuti a prendere alla stazione con un camion, e ricordo che la fabbrica era, per entrare nella fabbrica dovevo fare un ponte di ferro che aveva le arcate curve così. C’era la neve, non sapevo il tedesco, non potevo leggere, quindi era anche sera praticamente, non sapevo dove potevo essere, se era un lago, se era un fiume, se era … E lì al mattino subito mi hanno portato dentro la fabbrica. Guardate bene che era una fabbrica che i blocchi degli operai come noi che lavoravano erano nel recinto stesso della fabbrica, non era come quando sono andato a Vienna alla fabbrica di un posto che io mi spostavo, lì era guardato da militari. Pertanto, ho pensato, dato che anche il cibo lì non era tanto male, che fosse una fabbrica bellica, di importanza non indifferente. Allora mi hanno subito a saldare delle lastre di alluminio, che erano un metro di lunghezza per due metri di larghezza. Cosa facessero non lo so perché dove c’è la saldatura ci sono i teloni dalle parti per non danneggiare, e poi io non potevo vedere quello che c’era dove andava, ma arrivava sul carrello che io dovevo saldare, stare attento alla saldatura e basta. E lì così il terzo giorno, senza nessun preavviso, è venuto un bombardamento. La fabbrica l’hanno presa, e io col Meister ci siamo messi sotto questa lastra qui. E’ caduta la fabbrica, senonché le esplosioni della bomba, io ho battuto la testa, mi usciva il sangue dalle orecchie, avevo le api, insomma non capivo più niente. La bomba è esplosa vicino. Mi hanno portato, hanno fatto un tendaggio, cioè un ospedale da campo, e lì mi hanno portato insieme a questo Meister e c’erano anche degli altri. Adesso lì io sono un po’ indeciso di quanti giorni ci possa essere stato perché non avevo la cognizione del tempo, e anche quando sono stato dimesso non ero in grado ancora di connettere come si doveva. Comunque a me sembra di esserci stato uno o due giorni, invece devo esserci stato più di una settimana, senz’altro, perché non c’erano più gli incendi, c’era molta tranquillità. Mi liberano da questo ospedale, mi consegnano ad una camionetta delle SS.

D: Ti ricordi più o meno dov’era questa fabbrica? Era lungo il Danubio?

R: Se lo sapessi. Con sincerità non lo so, però dovevo essere oltre Vienna, perché se io al mio ritorno mi sono fermato a Vienna, però c’era anche questi, mi han detto che delle volte da lì ci portavano a Mauthausen, e quindi è difficile se io ero in Austria, forse ero, insomma questo è un problema che mi sono sempre chiesto, e pensavo che la Croce Rossa Internazionale mi desse delle spiegazioni, invece non c’è, non risulta, come non risulta che sono passato da Bolzano, come non risultano altre cose.

D: Scusa ancora Mario, c’erano dei civili a lavorare?

R: Sì sì c’erano dei civili, in fabbrica lì c’erano dei civili.

D: Germanici o austriaci?

R: Per me tedeschi o austriaci tutti tedeschi, difatti il mio era un tedesco, cioè parlava tedesco ed era tedesco il Meister che mi insegnava, no no, non potevano essere slavi o russi, quello sì, perché quella era un’altra lingua che la capivo anche se non sapevo cosa dicevano.

D: Mario, non ti ricordi di aver visto delle scritte magari all’esterno di questa fabbrica, oppure su dei disegni?

R: No, perché prima di tutto, te lo ripeto, io uscivo dalla fabbrica e andavo in baracca; la baracca era recintata dentro la fabbrica, quindi non c’era un’insegna per modo di dire come a Vienna che c’era l’insegna della fabbrica dove lavoravi che io non ricordavo però tramite la Croce Rossa poi ho visto come si chiamava, io credevo fosse la Schefelde, invece è tutto un altro nome.
Io mi stavo raccapezzando, però quello è un fenomeno che dico perché mi è successo, ma non ci sono al momento documentazioni che me lo possano comprovare.
Ebbene lì poi avanzavano o i russi o gli americani, piano piano ci hanno retrocesso, i campi venivano evacuati, perché queste SS che mi hanno preso poi non mi han portato via, mi hanno consegnato ai primi militari, e ci han detto, ci han spiegato, il primo campo che trovavano di me, dei triangoli rossi, di consegnarlo, perché la SS che mi aveva preso non era del campo, transitava, era sulle camionette, capito? Però si vede che quelli dell’ospedale avevano l’ordine di mettermi, cioè di consegnarmi alle SS non di consegnarmi alla Wehrmacht, dovevano consegnarmi alla SS e poi la SS si responsabilizzava verso di me e dava mandato a piedi dove mi dovevano portare. Difatti nel mio pellegrinaggio stavo un giorno, due, tre, quattro, poi avanzavano, non so se erano russi o americani, e anche lì dovevamo evacuare.
Insomma sono arrivato registrato dalla Croce Rossa Internazionale il 29 aprile a Vienna. Adesso io tutto questo mese, dal 5, praticamente in 20 giorni ho girato ma non so dove mi trovavo. Mentre a Vienna, essendoci stato due mesi, ho potuto rendermi conto un po’ di più, anche la fabbrica cos’era e cosa non era.
Quando sono arrivato a Vienna non c’era più da andare a saldare l’alluminio, mi hanno messo a fare il saldatore elettrico in una fabbrica di autocingolati. E saldavo le ruote dei cingoli. Ero insieme a un russo, facevamo 12 ore di giorno e 12 ore di notte. Nel campo dove io mi trovavo poi per andare a dormire non c’era neppure un italiano: erano tutti jugoslavi, polacchi, russi, e io devo dire la verità che da loro, sia dagli jugoslavi che dai polacchi, non sono stato trattato per niente bene. Io stavo meglio in fabbrica che non nella baracca. Sapete perché? Perché quando ero con loro non mi han mai chiamato italiano, mi han sempre chiamato Badoglio, Mussolini, Spaghetti, Maccheroni, Mandolino, Cìngali, mai una volta che avessero detto, e quando c’era da prendere la zuppa dovevo essere sempre il primo. Quindi mi hanno trattato proprio male, non so per quale ragione, ero uno di loro, eppure questo è stato. Io, ripeto, stavo meglio in fabbrica, e anche se si mangiava poche volte, perché tutti i giorni su Vienna un giorno sì e un giorno no avvenivano dei bombardamenti, alle 11 immancabilmente saltavamo il pasto per quella ragione, perché c’erano i bombardamenti.
Ebbene sono stato in questo Lager dal 29 di gennaio al 2 di aprile, che era il giorno dell’Angelo, il secondo giorno di pasqua. Questo lo sapevo perché il Vorarbeiter, che era un austriaco, e tra austriaci e italiani c’è un po’ più di affinità che con i tedeschi, poi questa era una persona anziana, e mi lasciava sempre un po’ di roba dal tegamino, insomma oltre che quella poca razione che mi davano magari una patata, un pochettino di würstel lo lasciava nel tegamino, con la scusa di andarlo a lavare lo lasciava.
E’ stato lui che mi diceva che veniva Ostern, Ostern in tedesco voleva dire pasqua, poi l’ho saputo a suo tempo. E difatti io il 2 di aprile del 1945 sono partito da Vienna per tornare a Mauthausen, a piedi. Dunque ci hanno dato, per partire, una razione, eravamo quattro per fila, io ero capofila e mi trovavo sulla sinistra, allora il peso di pane e di questo pacco di margarina che ci avevano dato lo dovevo tenere io, ma non avevo zaino, non avevo niente, lo dovevo portare sotto il braccio in mano. Mi costava fatica. Poi la paura che mi aggredissero! Quando partii di lì subito il primo giorno, cosa facemmo? Il russo che era vicino a me aveva fatto in fabbrica un cucchiaio schiacciato con una lamiera, e da una parte aveva schiacciato bene la lama per fare una lama da coltello, cioè aveva la possibilità di tagliare il pane o qualche cosa e in più aveva la possibilità di mangiare col cucchiaio. Ebbene me lo dette e io divisi subito il pane e la margarina, così ognuno ne poteva fare quello che voleva. Il primo giorno anch’io lo mangiai convinto che al giorno dopo ci fosse un’altra razione e invece non fu proprio così.
Cominciammo, cammina cammina, siamo partiti in 1300. Appena fuori da Vienna si sono sentiti i primi colpi tum tum.

D: Mario, dicevi della partenza da Vienna.

R: Partiamo da Vienna e sentiamo i primi colpi. Adesso succede che appena usciti da Vienna non prendiamo più la strada principale ma si prese per le campagne, in maniera da non essere di disturbo forse alle truppe che passavano o che venivano che andavano al fronte.
Allora questi colpi di pistola si facevano sempre più frequenti. Domani ci daranno da mangiare, oggi non ce ne hanno dato, pensavo io, domani ci daranno qualche cosa. Invece cammina cammina ma da mangiare … Per fortuna da bere ne potevamo avere perché c’erano canali, c’era la neve, insomma si poteva, c’erano dei posti che trovavamo la neve e ci potevamo dissetare. Senonché i morsi della fame dopo 4-5 giorni si cominciavano a far sentire, senza mangiare perché eravamo completamente a digiuno tutti, allora cominciavamo a mangiare quello che ci capitava. Sapete quelle radici, quella cicoria selvatica che fanno i fiori gialli, noi le chiamiamo “piscialette” in Italia, ebbene vi posso assicurare che erano più dolci dello zucchero che mettevano la mattina nel caffè. Poi quando ci fermavamo in questi ruscelli per dissetarci c’era la terra argillosa, gialla, è dolce sì, è buona la terra gialla, e ci sono i salici. I salici: vedevo che i russi staccavano la corteccia, la masticavano, poi la rigettavano, però il succo lo inghiottivano, io ho provato, era amara, però mi sforzavo anch’io, ho detto: Se la mangiano loro la devo mangiare anch’io. Insomma poi si piantava uno stecco in terra e venivano fuori i lombrichi e mangiavamo i lombrichi. Insomma noi brucavamo l’erba come le capre, come le pecore, dove si passava noi non c’era niente che si mangiava. All’ultimo mi ricordo che ho trovato un osso spugnoso in questo campo, ah com’era buono, l’ho tenuto per un giorno intero poco poco per volta per mangiarlo.
Avevamo trovato una volta in una cascina dove mangiavano i maiali, il truogolo: ci siamo buttati tutti a capofitto, mangiavamo la roba dei porci, se ce n’era leccavamo il truogolo come fosse una pasta.
Ebbene strada facendo via via che arrivavamo a Mauthausen e morivano i nostri, però anche gli altri campi dei nostri evacuavano e si aggregavano a noi. Un bel giorno finalmente sento “Ciao italiani”. Oh signore! io ho sentito per la prima volta dopo tre mesi parlare italiano. Era un certo Panardo di Torino. Anche lui era in solitudine, si vede che veniva da un campo disgraziato come il mio per gli italiani, ci abbracciammo tutti, a me sembrava già di essere a casa, poter parlare in italiano dopo tanti mesi. Insomma ci si confidava, ci si parlava. Abbiamo dormito in un granaio la sera, cioè in un fienile e ricordo che avevamo preso dei granelli di non so di che erba, di segala, si è riempito la tasca e ce li passavamo un po’ per uno. Una notte scapparono 40 russi, 40 prigionieri. Ordine immediato: fucilazione di 10, siamo stati cinque giorni insieme. 10 per ogni nazionalità, noi eravamo in due italiani, lui ritardò a venire all’appello perché si era nel fieno, la stanchezza, si vede chissà poveretto quanto era più stanco di me, era un ragazzo biondo con i capelli tagliati come noi, era dei nostri, presero lui. Sapete dopo averlo fucilato non moriva mai? Quando gli diedero il colpo di grazia persino la SS è inorridita, credo, quando gli dettero il colpo di grazia le sue cervella, eravamo tutti insieme … col triangolo rosso qui, ebbene sono venute ai miei piedi, davanti a me, adesso non dico sui piedi …
Insomma l’hanno fucilato insieme agli altri e non moriva mai, quando gli han dato il colpo di grazia le sue cervella volevano quasi stare ai miei piedi, io ero italiano e quindi lui era un italiano, perfino la SS mi sembrava che fosse rimasta in quel momento.
E così mi ritrovai solo, disperato perché il cammino da Vienna a Mauthausen è stato molto lungo, io non so i chilometri che ci potevano essere, soltanto che quando arrivavamo nei paesi o nelle città, noi non attraversavamo il paese, ma ad esempio se io per andare a La Spezia dovessi venire da Migliarina andare a Porto Venere avrei fatto la via più breve, mentre loro invece mi facevano passare in periferia dai monti addirittura, avrei fatto San Venerio, avrei fatto Buonviaggio, avrei fatto insomma poi Parodi e via. Quindi se c’erano per modo di dire cento chilometri ne abbiamo fatti il doppio. E quindi sono arrivato alla bell’e meglio a Mauthausen.
Arrivo a Mauthausen che ero sfinito: non c’è più posto. Ci portano indietro e ci fanno andare a Gusen, Gusen 1. Io quei 4-5 chilometri lì li ho fatti un po’ in piedi e un po’ carponi, porto ancora i segni nelle gambe, le abrasioni …
La debolezza non ti coglie le gambe, prima di prende alla testa, tu cammini con gli occhi chiusi, sembri un sonnambulo, non so, una foglia e un ragno, una pietra e un serpente, poi chiudi ancora gli occhi: vedi sfilarti i piatti di pastasciutta, il desiderio di mangiare. E poi ti prende le gambe, cioè prima mi ha colpito la testa, sarà perché ho avuto anche l’esplosione io non lo so, ma a me prima vedevo tutte queste cose prima di perdere le forze. Allora dato che è intervenuta la Croce Rossa Internazionale da Mauthausen a Gusen sulla strada erano sospese le esecuzioni, non sparavano più, non davano più il colpo di grazia, ma li caricavano sui carretti e li portavano a Gusen.
Allora guardi un po’, io sfinito com’ero non ci sono salito sul carretto, cioè sentivo che la liberazione doveva essere ormai vicina perché le voci bene o male… Resistevo, resistevo resistevo, fino a che sono arrivato a Gusen. Ebbene a Gusen era sera, pioveva quel giorno, ebbene a me sembrava di andare sotto l’acqua di morire, ma pensate un po’ ero fuori all’acqua e al freddo eppure mi sembrava di morire. Io sono stato uno degli ultimi a entrare nella baracca della doccia a Gusen, però di acqua io non ne ho vista, e vi posso dire una cosa, che nella baracca c’erano delle ditate macchiate di sangue nelle pareti, dopo circa un’ora che eravamo dentro ci hanno aperto, ci hanno abbracciati ma io non mi rendevo conto di che cosa era successo, però io vi assicuro che di docce io non ne ho fatte, e ancora nudo così sono andato ad un blocco di cemento di mattoni rossi, ce ne erano due nel Lager di Mauthausen, uno era della Messerschmitt e l’altro della Steyer, io sono andato nella Messerschmitt, nella Steyer c’erano Natali e Pistelli.

D: Scusa tu adesso stavi dicendo Mauthausen ma intendevi Gusen 1?

R: Sì Gusen 1 e Gusen 2, Gusen 1. Da Mauthausen ci han portato a Gusen perché non c’era più posto.

D: Sì sì ma dico quando tu sei entrato in baracca?

R: A Gusen, sì, la baracca delle docce.

D: Ecco, e dopo sei uscito.

R: Io l’acqua non l’ho fatta, non ho fatto la doccia.

D: E sei andato a finire in questo blocco di muratura ma a Gusen però.

R: A Gusen a Gusen, erano due, la Messerschmitt e la Steyer, io sono andato alla Messerschmitt. Questo l’ho saputo poi quando ho cominciato a riprendere conoscenza e sono stato nel campo. E lì ho conosciuto Pistelli e Natali. Io sono arrivato il 30 di aprile a Gusen, il 5 maggio siamo stati liberati, però io ero così sfinito che una volta che sono entrato nel blocco mi sono adagiato sui, c’erano questi castelli qui così, il primo al pian terreno vicino alla stufa io mi ci sono adagiato e non mi sono più mosso. E’ successo che due-tre giorni prima le SS il 2 di maggio credo, la SS ha evacuato il campo, se ne è andata, ha preso la Wehrmacht a Gusen, cioè non era più la SS. E allora hanno cominciato qualcheduno anche a scappare.
Difatti i russi che potevano camminare, tutti, per loro quasi la guerra era finita, ma la liberazione proprio del campo è avvenuta alle cinque del (5 maggio) 1945, perché a mezzogiorno ricordo che era passato un aeroplano a buttare i manifestini “Siete liberi”, però dalla parte del fiume del Danubio, cioè io ero dalla parte di Mauthausen, che non è dalla parte di Linz, dalla parte di Linz sono arrivati i russi e dalla parte di Mauthausen sono arrivati gli americani, c’era un ponte.
Quindi è venuta la liberazione, è arrivata dentro una camionetta. Una camionetta americana con, mi sembra, un militare e una militaressa o due militari erano, io non lo so perché non l’ho visti, però poi per sentito dire. Han lasciato però lì la camionetta. Questa camionetta aveva i menù del mangiare, però c’era anche il sapone in polvere, che a quei tempi io non avevo mai visto, l’Omo quello che usano adesso. C’erano anche quei detersivi lì.
Allora noi, anche io un po’ in piedi, saputo che c’era da mangiare ci siamo precipitati verso questa camionetta, come potevamo. Uno sopra, fino a che avevamo da prendere qualchecosa e ce lo mettevamo in bocca. Il giorno dopo la camionetta era coperta di cadaveri. Infatti l’hanno sepolti insieme a quelli che c’erano nel Lager, fuori dal campo. Quelli io li ho potuti vedere. Appena arrivati poi gli americani io avevo preso la dissenteria, gli ultimi giorni.
Tornando un passo indietro a Gusen, io avevo trovato Natali, Pistelli un certo Elefante e Ruggia, un ragazzo di Migliarina figlio del macellaio della Pieve, lui è morto dentro i gabinetti negli ultimi giorni, il 1° maggio o il 2 di maggio del 1945, è morto dentro i gabinetti, l’unica persona che ho visto del mio trasporto morire nel campo a Gusen.
Ebbene gli americani hanno fatto dove c’era la SS fuori dal Lager, diciamo un ospedale da campo, e così è successo che a me.
Io non mi reggevo in piedi, mi hanno preso mi hanno fatto delle flebo. Ero 32 o 35 chili; lo dico perché gli americani mi hanno fatto una fotografia con tre giacche da una parte sulle anche. Mi sono rivisto al (Cinema) Monteverdi (a La Spezia) con quei filmati che davano dei campi. Ebbene mi facevano queste flebo e il secondo giorno stavo ritto in piedi. Camminavo, barcollavo ma camminavo, dopo sei o sette giorni camminavo abbastanza bene, e mi dicono, dato che avevo riconosciuto un americano figlio di napoletani emigrati in America, questo mi aveva detto se gli facevo da attendente, gli pulivo le scarpe, tenevo a posto la sua roba, e mi aveva promesso che mi avrebbe portato in Italia quando lui sarebbe partito. Mi aveva regalato una fisarmonica.
Un giorno mi dicono “Vai a prendere insieme a degli altri le patate alla Kartoffelmiete”. I tedeschi mettevano le patate nei campi coperte dalla paglia. Era già caldo, insomma c’era odore, io non mi sentivo tanto bene, però tanto per evadere dal campo, ho detto: Vengo anche io. Sono andato. A mezzogiorno mi portano una zuppa di ceci, e non l’ho potuta mangiare: avevo già la febbre alta. Ritorno a Gusen e combinazione c’era la partenza per l’Italia. Dovevamo andare a Mauthausen. Io ero febbricitante ma pur di andare in Italia sono partito per andare a Mauthausen. Arrivo a Mauthausen e lì la febbre è salita e allora mi danno qualche aspirina, perché avevo i brividi di freddo e tutto.
Ci portano con i camion a Linz; ci fanno fare una scarpata dove c’era della carbonella, della ferrovia con i vagoni merci in attesa; quando salgo ho perso i sensi, sono rotolato giù, e mi hanno portato all’aeroporto su un trimotore della Croce Rossa Italiana. Portavano gli ammalati in Italia con l’aereo della CRI. Senonchè quando io sono sull’aereo il medico si accorge che la mia è una malattia infettiva, e allora per non far fare la quarantena agli altri, mi ha fatto sbarcare e sono andato a finire all’ospedale di Haide, non so come si pronuncia. Comunque qui era un ospedale di donne, infettivo, solo donne; eravamo io in camera e un certo Simonelli di Tortona, che era un soldato della guerra del 1915-18. Avevo preso il tifo, prima la dissenteria poi il tifo.
A lui arrivavano i pacchi, perché era un militare, e allora mi aiutava un po’. Mi è venuta una fame, poi il tifo più il campo di concentramento, sono riuscito a mangiare 13 piatti di riso al latte, di quell’orzo che fanno loro. Mi portavo dentro le caramelle addirittura, le portavo via alle donne ammalate che erano chiuse nelle gabbie, non so perché erano chiuse nelle gabbie, adesso penso se era un manicomio.
Lì feci la quarantena e fu la mia salvezza perché mi poterono curare e tutto. Ma dal mangiare e dai patimenti della prigionia sono diventato da magro che ero a pesare 70-80 chili, ero un mostro, avevo gli occhi … non ho più quella fotografia perché l’ho stracciata per non farla vedere ai bambini e a mia moglie perché era… avevo le sacche nere! Faccia conto di avere due mele qui, ero così, una pancia, gonfio, la reazione del cibo. Ero pieno d’acqua, mio papà quando mi faceva i massaggi, schizzava… va bene!
Sono uscito dall’ospedale e di fronte a questo ospedale c’era un campo di lavoratori coatti, diciamo, e c’erano ancora giacenti tutti i greci. Quando io mi sono presentato perché c’era un centro di raccolta, si accorgono di chi sono, questa donna qui una anziana che aveva dei figli: “Italiano, italiano!” Poveretta, la mattina mi dava sempre un uovo da bere. Quindi guardate con quello che abbiamo fatto noi in Grecia, i greci nei miei confronti mi hanno trattato bene.
Passa una camionetta “Se ci sono degli italiani si preparino a partire!”. Venivano dalla Russia nei camion i militari che rimpatriavano; allora io chiamo questo Simonelli, che tra parentesi era ancora in giacenza all’ospedale, lui viene giù e ci imbarcammo subito su questi camion. E abbiamo fatto.
Ci hanno portato alla stazione, dalla stazione siamo arrivati a Bolzano, da Bolzano siamo arrivati a Pescantina. Ed infatti siamo arrivati fino a Tortona, da Tortona a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova, la ferrovia di Genova non funzionava e allora abbiamo aspettato sulla strada un mezzo che ci portasse verso Spezia, difatti passò un camion targato Livorno, in blu con rimorchio. C’era un amico da ragazzo che conoscevo che abitava vicino a me che veniva dalla Russia e quindi ci ha fatto salire.
Io penso che siano state le ore più lunghe della mia vita. Non si arrivava mai a Spezia!
Quando finalmente sono arrivato alla Foce e ho visto la città, mi è venuta l’ansia proprio. Arrivo in via Chiodo, c’erano tram che funzionavano, tram che andavano a Migliarina. Salgo su un tram e c’è un bigliettaio proprio di casa mia. Gli chiedo: Come stanno i miei? Mi ha detto tutto bene (SI COMMUOVE). Mi sono rilassato, mi sono rilassato. Ma non sono andato direttamente a casa perché mio papà soffriva di cuore, allora mi sono fermato da uno zio, però la voce è arrivata prima di me e allora quando ero lì dopo un po’ è arrivato il mio papà e sono andato a casa. E’ stato lì che mi sono reso conto della tragedia di noi spezzini. Io non immaginavo che fosse stata una simile catastrofe!
Tutta la gente ad aspettarmi perché io ero l’ultimo che sono rientrato dalla Germania, io sono rientrato il 1° di agosto (1945), dopo di me non è rientrato più nessuno. Tutti a chiedere “Hai visto mio marito?” “No, era con me fino a Mauthausen” “Hai visto mio figlio?” “No”. Insomma questa gente dove è andata, io non lo so. Ho visto soltanto il povero Lucio morto a Mauthausen, non l’ho detto a loro, l’ho detto a suo fratello che lo dicesse poi a sua madre. Poi gli altri…
Io ero astemio, il primo bicchiere di vino della mia vita l’ho bevuto il primo d’agosto, adesso cosa succede? Succede che io ero come vi dico gonfio, e mio papà, un po’ con la farina di granoturco, un po’ con il borotalco, faceva i turni al Felettino che è una zona di Spezia.
Tempo due o tre mesi sono riuscito a tornare quasi alla normalità, senonchè dò un colpo di tosse (SI COMMUOVE) e sono andato in sanatorio perché avevo la tubercolosi, un fatto cavitario all’apice (del polmone) e va bene!
Ho saltato un pochettino, perché vi racconto un po’ la commedia di quando sono arrivato a casa che non avevo i capelli. Non c’è cosa peggiore per noi giovani, almeno per me, di non avere i capelli.
Prima che fossi arrestato si spaviciava con una ragazza che lavorava in farmacia. Senonché appena venuto, questa ragazza è venuta è rimasta perché effettivamente sembravo un mostriciattolo, poveretta mi ha detto: “Va bene ti preparo io” e io ho detto “Ma non ho i capelli” – mi preoccupavo più dei capelli che della persona – “Ti preparo io delle lozioni, vedrai che ti ritorneranno”. Allora lei mi preparò queste lozioni e mi diceva “Bevi il rosso dell’uovo, il bianco te lo sfreghi in testa”. Effettivamente io facevo così, in casa mia c’era un odore di freschino!
Insomma dal 1° di agosto alla fine di febbraio che è carnevale metà febbraio inizia il carnevale, ebbene non mi erano ancora nati i capelli. Una mattina tolgo questo strato di cerone che avevo in testa con il cotone, questa lozione, avevo la testa tutta nera e ohhh i capelli! Pensate che io da giovane ho sempre avuto i capelli dritti, non avevo le onde, se pioveva maccheroni erano tutti miei. Ebbene tempo due mesi mi è venuta una testa di capelli che se vi faccio vedere una fotografia voi non mi riconoscete. Finalmente ho potuto riprendere la tranquillità, la serenità.
Quando poi ho cominciato a tossire e a buttare il sangue avevano fatto la diagnosi che io avevo la tubercolosi, e ancora oggi devo dire che sembro il rappresentante della salute, invece sono pieno di acciacchi. Pensate che ho avuto tutte e tre le epatite A B C e D, ho la cirrosi, sono stato operato di stomaco, sono stato malato ai polmoni, sono diabetico.

D: Sei un ospedale.

R: Sì, ambulante! Mi si sono bloccate le dita che non posso stringere, sono stato operato sotto perché avevo un polipo, adesso ho avuto una trombosi all’occhio, all’occhio destro e non ci vedo, sono un ospedale viaggiante. Perché io vado sempre in giro con i ragazzi. Sarà conseguenza della prigionia o destino chissà? Chiuso.

Pedrotti don Guido

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Don Guido Pedrotti. Sono nato a Malè il 31 gennaio del 1914.
Ho vissuto prima a Malè, poi a Mezzolombardo e poi a Trento, dove ho intrapreso gli studi nel seminario minore e poi nel seminario maggiore. Consacrato sacerdote nel 1938 sono stato destinato cappellano in Val di Fiemme, a Tesero. Poi da Tesero a Isera e da Isera al duomo di Bolzano.
Eravamo ai tempi del fascismo e non sono mancate le parole dure e di condanna del fascismo; questo forse è stato l’inizio dei sospetti sulla mia persona. Purtroppo giunse la guerra, il duomo (di Bolzano) fu fortemente bombardato con tutta la zona intorno, la stazione fu pure fortemente bombardata. Anche le case della parrocchia furono fortemente bombardate, per cui la maggior parte delle persone rimaste in quel di Bolzano dopo l’8 settembre (1943), dalla parrocchia del duomo trovarono la possibilità di trasferirsi nella zona popolare e nella zona semirurale. Ecco quindi che era logico che io lasciassi la cura d’anime al duomo e mi portassi nella zona popolare e delle Semirurali. E avvenne quel che avvenne.

Dopo l’invasione nazista la cura d’anime era assai difficile. Tanto più che nella mia parrocchia delle Semirurali nel tardo, diciamo, tempo della mia permanenza, sorse il campo di concentramento o Polizeiliches Durchgangaslager di via Resia. Questo mi portò necessariamente a cercare di entrare nel campo a portare aiuto. Un fatto voglio sottolineare, perché è stupendo: quando io distribuivo la santa comunione, le donne delle Semirurali e delle case popolari mi portavano i bollini delle tessere e li deponevano sul piattino della santa comunione, così io avevo la possibilità di acquistare pane nella vicina bottega e mandarlo nel campo di concentramento. Questo mi è stato molto facile perché diversi miei parrocchiani lavoravano vicino al campo di concentramento nel Genio Militare e potevano avvicinare gente che dal campo di concentramento veniva mandata a lavorare proprio al Genio Militare. Un po’ alla volta sono entrato quindi a conoscenza del campo di concentramento e ho trovato una via meravigliosa per fare entrare ogni genere di aiuto, a cominciare dal denaro.
Gli aiuti mi venivano particolarmente da Milano, proprio dal cardinale Schuster e dal suo segretario monsignor Bicchierai. Vi erano anche diverse fonti di denaro da parte di ebrei parenti di deportati chiusi nel Lager.
La cosa andava avanti meravigliosamente bene, specialmente perché nel campo di concentramento di Bolzano vi era un sacerdote che usciva per vari servizi.

D: Chi ti aiutava nella parrocchia delle Semirurali? c’era un altro sacerdote?

R: Vi erano due sacerdoti, uno purtroppo è partito presto per andare nella sua valle, e l’altro era don Daniele Longhi, il quale aveva l’abitazione sopra la chiesetta delle Semirurali. Quello diventò il centro degli smistamenti e degli aiuti. Don Daniele Longhi era sacerdote cappellano dei lavoratori, e lavorava alla zona industriale. Anche da lì partivano le lettere che facevamo entrare, il denaro, gli aiuti, e particolarmente cibi che venivano depositati nelle baracche del Genio Militare e dagli stessi deportati introdotti nel campo di concentramento.

D: Quindi tu e don Daniele Longhi organizzavate gli aiuti dall’esterno?

R: Senz’altro.

D: Parlavi prima di un sacerdote deportato che usciva per lavoro.

R: Era don Andrea Gaggero di Genova. La cosa mi è riuscita particolarmente facile perché veniva condotto sempre a lavorare negli uffici tedeschi con il compito di accendere le stufe a carbone. Ho conosciuto un maresciallo che stava facendo le pratiche per sposare una bolzanina con rito religioso. Da lui avevo quello che volevo, potevo entrare, potevo parlare. Il maresciallo aveva la fidanzata in quel di Merano ed aveva piena fiducia in me. Il guaio è stato che nel campo di concentramento di via Resia quella mattina disgraziata due giovani deportati sono stati scoperti mentre stavano pulendo e oliando un revolver. Io venni a sapere subito la notizia e parlai a padre Gaggero, appunto là nel luogo dove lui si trovava a lavorare. Gli dissi: “Quando entri, mi raccomando, getta tutto quello che ti ho consegnato”. Si trattava di un malloppo consistente. E’ stato anche per la negligenza di don Daniele Longhi, ma è stato anche grazie a Dio un aiuto, poiché così sono potuto andare nei campi di concentramento ad aiutare tutta quella gente.
Dissi a padre Gaggero: “Getta tutto quando arrivi alle Semirurali, dentro i giardini, dentro le casette, qualcuno li raccoglierà, se è onesto mi riporterà il malloppo e se no servirà a quella gente”. Credendo che si trattasse della solita perquisizione, padre Gaggero invece portò il plico, tutti loro furono completamente perquisiti, e il malloppo uscì fuori. Fece un grande errore, e disse: “Me l’ha dato un cappellano militare italiano”. Ero io il solo dei cappellani militari italiani, ero cappellano dei vigili del fuoco, hanno fatto presto a trovarmi.
Quando sono venuto a conoscenza di questo, mi si sono presentate due soluzioni: la prima, di andare all’Adige, cioè fingere di gettarmi nel fiume e lasciare un biglietto d’addio: ma avevo due fratelli che lavoravano alla zona industriale, allo stabilimento Lancia, e senz’altro o loro o i miei genitori sarebbero stati portati in campo di concentramento. La seconda soluzione era quella di fuggire, ma, come nel primo caso, sentii una voce che mi disse: “Coraggio, vai avanti, avrai da soffrire molto ma tutto finirà bene”. Perciò tutta la notte non pensai ad altro che a far sparire dalla mia camera tutti i documenti; rimasero soltanto gli elenchi di presenza e di assenza dei chierichetti. Quando perquisirono la mia stanza e trovarono su questi elenchi un più in rosso e un più in blu, li interpretarono come liste di partigiani, ma io dimostrai loro che uno dell’elenco non aveva nemmeno 12 anni. Ricordo di aver fatto sparire durante la notte tutto quanto era compromettente. E così arrivò il mattino del 2 novembre, giorno della commemorazione di tutti i defunti.

D: Di quale anno stai parlando?

R: Del 1944.

D: Quindi quella mattina andasti a celebrare la messa?

R: Sono andato a celebrare le tre messe dei defunti. Alla seconda messa ho visto un ufficiale della SS e due guardie locali della SOD (Sicherheitsordnungsdienst) ahi ci siamo! Terminata la seconda messa, mi sono recato in confessionale. Si sono avvicinati, hanno aperto la tendina, “Raus!” fuori! e subito mi hanno portato nella mia abitazione. Hanno osservato a destra e a sinistra, e hanno osservato bene perché mi hanno fatto sparire – l’onestà del Terzo Reich era tutto quello che di bello c’era – particolarmente una bella radio Grundig, di valore. È partita la macchina da scrivere, è partita anche la bicicletta, che poi recuperai dopo la guerra, poiché l’avevano data ad un’impiegata della SS.

D: Ti hanno arrestato in quella circostanza?

R: Eh sì, e sono finito subito nel sotterraneo del Corpo d’Armata. Là rimasi chiuso tutto il giorno, ma fortunatamente avevo portato con me una borsa, l’avevano controllata, e c’era dell’ottimo strudel. Venne la notte, ero nel deposito del carbone, l’ho sistemato a forma di letto e ho dormito da prete, grande grazia del Signore. Alla mattina venne un bravo uomo non SS ma anziano, e mi diede uno spintone credendo che fingessi di dormire. Mi sono svegliato e siamo andati agli interrogatori. Io non parlo di torture perché la tortura più grande era la paura di dover parlare, allora giurai in partenza di non rispondere, e ad ogni domanda che mi rivolgevano io rispondevo: “Ich weiß es nicht” (Io non lo so). Dissi che quello che avevo fatto nel campo di concentramento era una cosa autorizzata da Verona, ed era vero, anche se non in quel modo, e che questa autorizzazione si trovava presso un sacerdote cappellano delle carceri. Un’ora dopo me lo vidi, anziano poverino, comparire davanti! Fortunatamente lui presentò questo permesso.
Ricordo un fatto terribile: dentro nel campo di concentramento c’era il famoso dottor Lepetit, che era stato arrestato a Milano e portato nel campo di Bolzano. Gli avevano detto che se avesse portato nel Lager una farmacia con molti farmaci avrebbe fatto il farmacista e sarebbe rimasto fisso a Bolzano. Quando tutto fu portato a cura del povero Lepetit, egli partì per la morte; io feci l’impossibile per fargli coraggio, gli dicevo sempre: “Tutto passa e si scorda, anche Hitler col suo partito”, ma lui negava. Forse perché nella sua vita aveva fatto sempre un lavoro di concetto e non aveva mai provato quello che abbiamo provato noi cappellani militari nell’esercizio del nostro ministero di assistenza ai soldati. Noi non vogliamo nessuna guerra, né l’abbiamo fatta, eravamo solo per l’assistenza, e spesso ho cavato fuori dalle macerie, come cappellano dei vigili del fuoco e comandante, anche tedeschi, e li ho salvati.

D: Dopo il Corpo d’Armata dove ti hanno portato?

R: Dopo il Corpo d’Armata mi hanno portato al campo di concentramento di Via Resia.

D: Ti avevano lasciato la veste talare?

R: Tutto, tutto. Allora ebbi un sentore. Fui chiuso subito nelle famigerate celle e capii che ero destinato ad altra sede. E venne il giorno.

D: Nel campo di Bolzano quanto tempo sei rimasto?

R: Vi sono rimasto tutto il mese di novembre. Venne il famigerato trasporto. Mi hanno dato le vesti sacerdotali e siamo stati condotti alla zona industriale, proprio di fronte allo stabilimento Lancia. Ho avuto dagli operai dello stabilimento Lancia l’ultimo saluto; a loro dissi di dare notizie ai miei fratelli e di andare a casa mia a portar via tutto quello che di bello e di buono c’era, e sono riusciti.
Una cosa è interessante: coloro che mi arrestarono, sulla porta della mia abitazione mi fecero scrivere “Torno subito / ich komme bald”, e da allora incominciarono a parlarmi in tedesco.

D: Del tuo trasporto cosa ricordi? In quanti eravate sul vagone?

R: Eravamo il solito vagone bestiame. Qualcuno è riuscito a segare le assi e a gettarsi dal vagone, alle fermate o durante i rallentamenti. Però ricordo un fatto che è una meraviglia: a Innsbruck sono riuscito ad avvicinare una persona dal finestrino, gettare un biglietto per annunciare alle mie due zie, Maria e Pia ambedue sposate a Innsbruck, che ero diretto alla destinazione che ero riuscito a leggere scritta col gesso sul vagone bestiame: “Mauthausen“.

D: Ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio è durato un giorno e una notte, poi siamo giunti alla stazione che serviva Mauthausen. Lì siamo stati scaricati dai kapò in maniera bestiale, e diretti a piedi al campo di concentramento. Dopo la solita storia di depositare, controllare, dare i dati, i vestiti ed anche i soldi che avevamo addosso, ecco che ad un certo punto io mi trovai nella zona di quarantena. Lì alla mattina la solita conta al freddo, batteva ormai il vento lassù nella famigerata rocca di Mauthausen.
Il nome vuol dire dogana, Maut è dogana, Haus è casa, casa della dogana: la navigazione sul Danubio si fermava lì dove a valle c’erano il controllo e la dogana.

D: Anche tu come gli altri deportati hai subito la spoliazione e la rasatura?

R: E abbondante perché, se purtroppo ne ho pochi in testa, ne avevo tanti sul corpo. Con dei rasoi che erano dei seghetti, con poco rispetto della dignità. Quando poi penso che i kapò era gente che era stata fatta a sua volta prigioniera, e, come è avvenuto nel campo di concentramento di Bolzano, sono poi passati ai tedeschi, la cosa era veramente umiliante. Per me l’umiliazione è sempre stata la peggiore e la più profonda pena, perché a mano a mano che il rasoio passava su di me, io pensavo ai kapò.
Un giorno si presentò un giovane, di cui fornisco particolari perché sarei contento se si facesse una ricerca in quel di Trieste. Mi disse: “Io qui nel campo di concentramento sono Oberschreiber: scrivo, annoto, sono triestino, cresciuto nel collegio di un istituto salesiano; si fidi di me perché c’è la possibilità di trasferire da Mauthausen a Dachau tutti i sacerdoti che sono residenti. Mi faccia un elenco.” Quella famosa notte non dormii, ma alla mattina mi dissi: “Giochiamo!”, e gli consegnai l’elenco. Noi sacerdoti siamo stati subito di nuovo vestiti coi nostri abiti, anzi ci hanno messo come divisa i vestiti della campagna di Russia della Prima Guerra Mondiale, che puzzavano maledettamente di naftalina. Alla stazione ci hanno messo sul vagone di un treno normale Vienna-Dachau, o meglio Vienna-Monaco.

D: Don Guido, ricordi il tuo numero di matricola di Mauthausen?

R: No.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: Il famoso triangolo, eccolo qui. Non l’ho voluto ricordare perché voleva dire essere ridotti come gli animali. La verità è che il numero originale l’ho dato per una mostra, ma quelle mostre sono mostri e nulla mi è più tornato indietro.

D: Assieme a te, quando hai compilato l’elenco dei sacerdoti a Mauthausen, hai messo solamente gli italiani?

R: No no. C’era anche il cardinale Beran, che allora era monsignor Beran, ed era nel campo di concentramento ancora dall’occupazione della Cecoslovacchia; era assistente spirituale degli universitari, e a resistere ai nazisti a Praga gli ultimi sono stati gli universitari. Sono stati fatti prigionieri e poi portati nel campo di concentramento. Però avevano un beneficio: ricevevano pacchi dalla Cecoslovacchia.

D: Ricordi qualche altro sacerdote che era con te a Mauthausen?

R: Al momento non potrei dire. Ci ripenso.

D: Quindi ti hanno portato alla stazione di Mauthausen e ti hanno caricato sul treno, non più sui vagoni bestiame.

R: Era un treno normale che fermava nelle varie stazioni; giunto in quel di Monaco, il vagone finì a 24 chilometri da Monaco, dentro il campo di concentramento di Dachau. Il campo di concentramento di Dachau era un campo di coltivazioni, come si direbbe oggi. Durante la Prima Guerra Mondiale avevano portato dalla Selva Nera tanta terra nera; lì c’erano le cosiddette Gewächshäuser, cioè delle vere e proprie serre. Adesso se volete vi posso dire chi lavorava particolarmente in quelle serre: i sacerdoti. Nel campo di concentramento vi era infatti anche un convento intero di benedettini, dal padre portinaio fino all’abate, che si distinguono nello studio e nelle ricerche di nuove piante e di nuove, diciamo, coltivazioni. Lì dentro eravamo adibiti al lavoro. Volete che vi racconti anche che cosa si faceva lì dentro? Si celebrava la messa. Avevamo una specie di cassa come quella della frutta, e vi avevamo nascosto tutto il necessario per celebrare la messa; noi si lavorava a curare le piante ed a trapiantarle mentre l’altro celebrava la messa; alla fine si faceva la comunione. Un bel giorno capitò uno della SS e trovò che le varie piantine non erano state mosse, ma una invece era stata nascosta. Appena si sentì la porta aprire, mi disse: “Tu maledetto, guarda, non hai fatto niente!”, e io risposi: “Mi scusi, ma quelle sono le piante riservate ad un altro e lui le deve curare”; così ce la siamo cavata. Volete anche qualche cosa sul famoso Plantage? Alla rivendita delle piante e dei vasi veniva sempre una Fräulein in bicicletta; veniva da un istituto di suore. La Fräulein arrivava e comprava. Alla rivendita erano addetti sacerdoti polacchi, e con domande e strategie capirono molte cose. Così fecero un doppio fondo nel cestino della Fräulein e di lì entrarono le ostie, il vino, anche l’olio per la consacrazione di un vescovo, che era uno jugoslavo.

D: Quando siete arrivati da Mauthausen a Dachau, eravate tanti sacerdoti?

R: No, eravamo un vagone. E in quel vagone è avvenuto quel che non doveva avvenire. Io avevo le mutandine corte per paura dei pidocchi, e il povero monsignor Beran si era portato sette paia di mutande di lana, sette paia! Quello della SS imprecò: “Maledetto, guarda quello, che ha le mutandine e tu invece hai tutto questo. Dov’è la tua carità cristiana?”. Mi ordinò di bastonarlo, lo feci con poca forza, e lui mi disse in latino: “Non suaviter sed fortiter”, perché se erano deboli, i colpi non venivano contati, cioè “non soavemente ma forte”, così gli diedi sette colpi forti.

D: Tra i sacerdoti italiani c’era per caso don Valota con te?

R: Sì, don Valota.

D: L’elenco era molto lungo?

R: Era molto lungo, perché vi erano molti sacerdoti, anche belgi e del paese del Papa, polacchi. Finimmo tutti nel Block 26, di cui metà era usata per soggiorno nostro.

D: Guido, ti ricordi se c’era con te anche Don Crovetti?

R: Don Crovetti, sì.

D: E c’era anche qualcuno di Bologna?

R: Anche. E’ una cosa che non dovrebbe essere ma il tempo, ringraziando il cielo, cancella.

D: C’era anche don Paolo Liggeri?

R: Don Paolo Liggeri, che poi tornò in quel di Milano ed ebbe una grande missione.

D: Quando siete arrivati a Dachau avete subito un’altra spoliazione?

R: Sì; il guaio è stato quello che avevano diffuso la voce di stare attenti perché dopo la doccia avrebbero mandato dentro il gas. Per delle ore ci lasciarono nel locale dopo la doccia, fortunatamente soffrimmo tanto il freddo ma non avemmo la condanna al gas. Io anche in quella occasione sono finito in quarantena. Il giorno preciso dell’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, dopo l’appello, si avvicinò a me un sacerdote, il caro canonico rosso. Era redattore del giornale Dolomiten, che era un settimanale di lingua italiana e tedesca. Dopo l’8 settembre (1943) andò in ufficio, e subito fu preso e portato a Innsbruck poi nel campo di concentramento di Dachau.

D: Ti ricordi come si chiamava questo sacerdote?

R: Aiutami.

D: Don Rudolf.

R: Rudolf Posch, Rudolf Posch.

D: Di dove era don Rudolf Posch?

R: Rudolf Posch era proprio bolzanino, e aveva un altro fratello sacerdote, monsignore.

D: Prima accennavi al blocco 26 di Dachau. Nel blocco 28 chi avevano concentrato?

R: Praticamente di fronte al nostro blocco, nel blocco 27, c’erano jugoslavi. Alla fine i tedeschi se la prendevano con tutti coloro che avevano rallentato la loro marcia e la possibilità della loro finale vittoria, e volevano anche giustiziare i deportati jugoslavi. Noi italiani avevamo la “I” di Italia a forma di colonnina, loro avevano la “J” di Jugoslavia con un riccetto: io ho fatto tagliare il loro riccetto e sono diventati italiani.

D: Quando dici che celebravate la messa al Plantage, intendi dire che lo facevate di nascosto?

R: Senz’altro, come avevamo tutto clandestinamente. La ragazza poi è diventata suora e c’è anche un film su questo fatto tedesco molto importante ed interessante. A noi è andata sempre franca.

D: Anche in baracca celebravate messa?

R: Sì, avevamo una vera cappella, anche se povera; quando è stato consacrato il sacerdote deportato, malato di tbc, avevamo il pastorale in legno e l’ostensorio in legno, erano meravigliosi! Lì abbiamo deciso quello che è poi stato l’esito del Concilio Vaticano II. Abbiamo infatti deciso che, finita la prova e se il Signore ci avesse dato la grazia di poter ritornare a casa, allora avremmo unito tutte le vere fedi in un solo sforzo per ricordare che, se in nome di quel Cristo e in nome di Dio eravamo stati nemici, avremmo dovuto creare una nuova Europa.

D: Oltre ai cattolici nel blocco 26 e nel blocco 28, c’erano anche appartenenti ad altre religioni deportati con voi?

R: Sì, specialmente erano da notare i protestanti e poi quelli della nuova religione cecoslovacca, che cioè avevano aderito al regime comunista.

D: Voi sacerdoti deportati portavate la zebrata?

R: Eh sì, quello era il distintivo. Un fatto è interessante, che è valso poco per don Guido, ma quelli che più erano propensi alla fuga, ovvero i russi e gli italiani, venivano rapati con un rialzo, e poi in mezzo alla testa vi era una striscia rasata a zero che noi abbiamo soprannominato l’asse Roma – Berlino.

D: Don Guido, c’era qualche differenza tra voi sacerdoti deportati e gli altri deportati?

R: Sì.

D: Nell’alimentazione?

R: No, non nell’alimentazione, che era in mano ad un capoblocco, sacerdote pure lui, e che faceva i controlli del mattino e della sera. Sono arrivato al punto di ottenere che se uno aveva 40 gradi di febbre non doveva essere portato fuori e il Blockältester, cioè il sacerdote capoblocco diceva: “Più uno che ha la febbre”. Così abbiamo evitato, almeno per la nostra baracca, di portare fuori i moribondi.

D: Ricordi altri sacerdoti italiani con te nel blocco 26?

R: Sì, purtroppo quel povero padre milanese che è arrivato pieno di pidocchi. Era confessore. Lo conoscete, lo avete trovato? Era a Milano in duomo, proveniva dalla Val di Non.

D: Forse padre Giannantonio?

R: Padre Giannantonio. Ebbene era distrutto dai pidocchi, lo abbiamo aiutato. Quando uscivamo al lavoro, eravamo bestie da macello. Come tutti. Quando eravamo dentro…credo che ci sia stato anche un miglioramento perchè a un certo momento hanno chiamato sacerdoti che si trovavano dentro al campo di concentramento, ma le loro parrocchie erano ai confini della guerra russa che avanzava; venivano lavati, con doccia e bagno, e rivestiti e mandati ai loro paesi, per far vedere che non li avevano uccisi e si poteva mettere a tacere qualcosa.

D: Don Guido, ti ricordi di don Fortin?

R: Anche di Don Fortin.

D: E di padre Manziana?

R: Padre Manziana, poverino, in che stato era ridotto! Ricordo anche padre Girotti, il grande domenicano, il quale teneva conferenze che erano qualche cosa di stupendo e di meraviglioso perché era uno dei commentatori ufficiali della sacra scrittura, credo dei salmi. Anche quello in che condizioni. Se fossero rimasti in un altro blocco, Manziana e padre Girotti e altri sarebbero finiti male.

D: Don Aldrighetti te lo ricordi?

R: Come!? Chi dimentica Aldrighetti, che non capiva niente di tedesco, e mi stava sempre alla destra e a sinistra a chiedermi cosa avessero detto? Quando è stato il momento che gli americani hanno sfondato e sono sbarcati e hanno costruito il ponte, fuori a Dachau era una giornata di vento dalle Alpi Bavaresi e il discorso di Hitler era questo:”è un bene che gli Alleati siano sbarcati, perché oro sono più forti per mare e per aria, ma noi siamo più forti e fortificati: sbarcheranno 10 Alleati e ne annienteremo 100; 100 Alleati e ne annienteremo 1000; 1000 Alleati e ne annienteremo 10000 e così via.

D: Cosa ricordi della liberazione?

R: Della liberazione mi ricordo che abbiamo sentito sparare a salve da lontano i cannoni degli americani che puntavano su Dachau. Basta forni crematori per la povera gente! Bruciarono giorno e notte tutte le possibili documentazioni, tutti gli scritti, tutte le cose compromettenti, e girava per l’aria la carta bruciata.
La vergogna più grande era però questa: arrivarono nel campo di Dachau dei vagoni con dentro poveri figlioli che avevano come indumento una coperta con un buco, e basta. E basta. Dovemmo salire sui vagoni con le maschere, a causa dell’odore e del fetore, perché erano stati abbandonati a morirvi di fame e di sete.
Il giorno della liberazione fu intorno al 25 aprile, 27 aprile. Finalmente, alla mattina entrò un carro armato americano, sfondò il famigerato cancello dove era scritto Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) ed entrarono. Ecco che sulla torre di comando apparve un ufficiale che lesse queste parole e le tradusse in varie lingue: “Non è da discutere l’ordine: nessun deportato politico deve cadere vivo nelle mani degli alleati, usate qualsiasi mezzo, firmato Hitler. E tutti siamo rientrati nelle baracche avviliti. Io invece cantavo: “non hai sentito durante questa guerra, vedrai il giorno in cui ci sarà il crack. Ecco quale sarebbe stata la vostra fine, se la provvidenza di Dio non ci avesse mandati a liberarvi.” Poi incominciò a fotografare, recitò il padrenostro in diverse lingue, era cappellano militare, e alla fine gettò sigarette, confetti e biscotti, ogni ben di Dio dal comando. E lì in quel di Dachau, con il cardinale Beran, all’indomani fu eretto un grande altare e fu celebrata una grande messa di ringraziamento. Il cardinale disse queste parole testuali: “Confessando Cristo siamo entrati in questo campo di concentramento, dobbiamo essere pronti a ritornarci, se fosse necessario.” Così fu poi per lui, perché anche in seguito fu perseguitato e si dovette nascondere quando i russi giunsero a Praga.
Per finire, posso raccontare l’arrivo al Brennero? Arrivati al Brennero si diceva: “Giunti al Brennero, canteremo Fratelli d’Italia, Giovinezza – c’erano anche i nostalgici – Bandiera Rossa”. Io dissi: “Giunti al Brennero, canterò io!” E così, giunti al Brennero, andai al microfono e cantai: “Mamma son tanto felice, perché ritorno da te!”, e si fusero le lacrime e il canto.

Pedrotti Ginevra

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Pedrotti Ginevra. Sono nata a Novaledo il 26.07.1921.

D: Ginevra, quando Vi hanno arrestata?

R: Penso sia stato nell’anno 1944, prima del Natale del ’44, non mi ricordo di preciso il giorno, no.

D: Dove Vi hanno arrestato?

R: A Novaledo.

D: Perché?

R: Perché mio fratello era nella FLAK a Bolzano. Un dì moriva questo, un dì moriva quello e lui per paura è scappato. E’ scappato ma non era partigiano. Forse dopo sarebbe andato coi partigiani ma dopo l’han preso a casa. L’han preso a casa, era a letto; era nascosto ma gli era venuta la bronchite ed era tornato a casa malato e lo hanno trovato a letto. L’hanno preso e l’hanno portato fino a Campiello. A Campiello però mentre stavano arrivando per arrestarne altri due è di nuovo scappato. Gli hanno sparato dietro, ci sono ancora sui meleti tutti i bossoli. Lui e il cane, che era con lui sul camion, scappavano a zig zag e poi è scappato. Subito dopo essere scappato alla mattina sono venuti a prendere noi. Mio padre quando ha visto arrivare il camion delle SS è scappato anche lui. Hanno caricato un mucchio di roba che avevamo, una cassa di calzini nuovi, tutto quello che han voluto, poi hanno caricato anche noi e via. Ci hanno portato in carcere a Borgo Valsugana.

D: Hanno arrestato te e chi?

R: E la mamma. Io e mia madre ci hanno portato a Borgo, in carcere, e là ci hanno tenute 15 giorni prima di interrogarci. Mia madre non era neanche capace di parlare dallo spavento e le ho detto: “Noi non c’entriamo niente, che colpa abbiamo se questo ragazzo è venuto a casa! Chi è la mamma che non accoglie in casa un figlio?”. E ci hanno caricati sul camion dopo l’interrogatorio.

D: In carcere c’erano fascisti o tedeschi?

R: Italiani. Il carceriere era di Borgo. Il carceriere era uno di Borgo.

D: In cella ti hanno lasciato insieme a tua mamma?

R: Sì sì.

D: Assieme ad altre persone?

R: C’erano altre che non conoscevo. Sono venuti fuori 3 preti, 3 ragazzi, studenti preti. Sa che una volta dovevano portare la tunica, non erano preti ancora. Ecco quando poi ci hanno caricati sul camion ci siam trovati tutti assieme, ‘sti tre ragazzi, noi, e altre 4 o 5 persone che venivano da Castel Tesino.

D: Ginevra, quanto tempo siete rimasti nel carcere?

R: 15 giorni.

D: In 15 giorni avete subìto degli interrogatori?

R: Uno.

D: Chi ve lo ha fatto e cosa vi si chiedeva?

R: La SS mi domandava se avessimo dato da mangiare ai partigiani. Noi abbiamo detto: “Siamo gente che lavora e che non si preoccupa di altro”. Ecco, e la mamma continuava a piangere. Rispondevo io. Dicevo così. Loro non han capito ragione e ci han portati via.

D: Una bella mattina vi hanno caricati su un camion…

R: … camion e a Bolzano. Fino al Ponte di Vodi (a nord di Trento) e se non fosse andata bene sarei rimasta lì ma per fortuna si vede che hanno pensato che sul camion c’erano prigionieri e non hanno bombardato il camion, hanno bombardato il ponte di Vodi.

D: Sul camion in quanti eravate?

R: Saremo stati in 7, 8. Non mi ricordo bene.

D: C’eravate tu e la tua mamma.

R: E poi quei 3 preti e altre 2, 3 persone e il militare che ci faceva la guardia, 2 militari che ci facevano la guardia.

D: Tedeschi o italiani?

R: Oh, italiani e tedeschi.

D: Vi hanno detto dove vi portavano?

R: No, ci hanno caricato senza dirci niente, niente, niente, niente. Alè, andiamo!

D: Quindi quando è stato bombardato il ponte vi siete fermati?

R: Sì, dopo siamo ripartiti perché l’aereo è andato via. Siam ripartiti e siamo arrivati a Bolzano e in Bolzano ci han messo nel blocco A, nel blocco A.

D: Subito al campo di concentramento vi hanno portati?

R: Subito.

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano quando sei entrata con tua mamma?

R: Un formicaio di gente. Un formicaio di gente disperata. E la paura che prendessero mio papà! Tutti i giorni guardavo fuori quando arrivavano i camion. Un bel giorno m’ha sorpresa l’ucraina, mi ha dato 2 o 3 bastonate e mi ha fatto stare tutto il giorno con la faccia al muro perché guardavo fuori chi arrivava. Invece il mio papà non l’hanno mai preso, neanche mio fratello, è stato nella tana della volpe tutti i mesi.

D: Cos’è la tana della volpe?

R: Un buco dentro nella montagna.

D: Dove? In che zona era?

R: Sempre a Novaledo, sopra vicino al Sella.

D: Nel blocco A, quando siete entrati nel campo di Bolzano, vi hanno tolto i vestiti?

R: Sì, mi han fatto spogliare e mi han dato la tuta di sacco col triangolo rosso perché noi eravamo ostaggio politico.

D: Vi hanno dato anche un numero?

R: Sì, ce l’avevo, ho un numero, l’ho scritto sul libro.

D: Te lo ricordi adesso il tuo numero?

R: No, ho il libro lì, basta andare a prenderlo. Non mi ricordo il numero, no.

D: Tu sei sempre rimasta con la mamma?

R: Io no, ero lavoratrice libera.

D: Ma quando sei rimasta e t’hanno portato lì?

R: Sì, sempre con la mamma son rimasta. Guai se mia mamma vedeva che mancavo! Non mi hanno mai staccata da lei; sono stati bravi a non staccarmi mai. Perché sennò sarebbe morta lì dalla disperazione.

D: Ricordi se c’erano altre donne nel campo?

R: Sì, certo mi ricordo. Ce n’era una di Levico con la figlia anche quella, e son già morte; c’era la professoressa Zasso di Belluno, proprio vicino al mio letto, carina, era dentro anche lei come ostaggio per il figlio.
Nel blocco E c’era uno di Levico: lo portavano fuori a prendere il sole, sembrava uno scheletro vivente e quando è finita la guerra a Vetriolo tutti gli anni mi veniva a portare le fragole. Mi han messa sì lavoratrice libera ma prima m’han messo in sartoria e lavoravo. Lavoravo? Non facevo niente, dormivo sul tavolo. E quando veniva il maresciallo a controllare, i ragazzi mi venivano a chiamare perché mi alzassi.
Sull’angolo del campo c’era la Polizia Trentina che ci guardava, e gli dicevo: “Ehi, traditore della patria, beh, domani devi portarmi pane per quei tuoi amici che dentro stanno morendo!” Mi portava filoni di pane, di nascosto, e sigarette perché ero giovane allora e ‘sto ragazzo diceva: “Guardo che vengo a trovarti dopo la guerra!”, “Sì, sì ven ti caro – dico – intanto portami il pane adesso e sigarette!”.
Guarda che avevo fame anche io, sai. Ma mi facevano tanta pena. Aveva il cuoco che mi faceva la corte. Veniva con il taschino pieno de zucchero, diceva: “Bisogna che tu mi sposi dopo la guerra”, ero bellina allora. E gli dicevo: “Non solo zucchero, portami anca qualcos’altro, il sale per salare”: Mi dava torsi di verza senza sale, senza niente.
A me le mestruazioni duravano 25 giorni al mese e sono venuta fuori dal sanatorio; le mie amiche, due, son morte in sanatorio, una di Torino e una di Levico.

D: Deportate anche loro?

R: Sì.

D: Come si chiamavano? Te lo ricordi?

R: Quella di Levico aveva un nome lungo lungo, ma tanti anni sono passati, e una di Torino, e anche di lei ho dimenticato il nome.

D: Ginevra, ti ricordi se hai visto anche dei ragazzini, dei bambini nel campo?

R: Un ragazzino si chiamava Giuseppe Maria. L’avevano messo con gli uomini, dopo lo chiamavano Maria e l’han messo con le donne. C’era dentro il rastrellamento di Bologna delle case di tolleranza, tutte lo volevano nel letto ‘sto Giuseppe Maria per vedere se era un uomo o una donna. Succedevano anche ilarità fra le lacrime e i pianti. Mi ricordo i ragazzini, i piccoli; una signora con 2 bambini, ebrea di Milano; quella è sparita, è stata dentro un po’ di tempo, poi è scomparsa come altre 2 ebree, mamma e figlia, sono state dentro un po’ di tempo e poi sono sparite. E dopo ho visto, han detto, passava fuori uno o due con una cassa sulla schiena, una cassa frugale e ha detto: “Lì ci sono dentro quelle due povere donne ebree, le hanno uccise, nel blocco chiuso.”

D: Il blocco celle?

R: Sì, le han messe nelle celle e dopo sono venute fuori morte.
Dopo hanno ucciso un uomo davanti a noi perché era uscito dalla fila andando a lavorar. Andava a lavorar in galleria: ha messo fuori un braccio per prendere un tozzo di pane da un signore e l’hanno portato in campo, l’hanno ucciso lì, col mitra, in terra morto.

D: Ti ricordi quando è avvenuto?

R: Sai che non mi ricordo, è passato tanto tempo. Sarà stato un mese che ero dentro, un mese e mezzo. Poi noi avevamo il terrore che tutte le notti ci caricassero perché tutte le notti partivano camion de uomini per la Germania, tutte le notti partivano uomini che andavano in altri campi di concentramento e noi vivevamo col terrore che portassero via anche noi.
Ma siccome dopo m’hanno messa come lavoratrice libera a fare il letto alle loro donne in una villa io uscivo dal campo, facevo il giro sulla strada che va a Bolzano, andavo dentro una stradina e andavo a fare i letti e un po’ di pulizia.

D: Tu da sola uscivi dal campo?

R: Da sola, mi dicevano: “Kaputt”: se non fossi tornata avrebbero ucciso la mamma, puoi immaginarti se scappo! mi premeva la mia mamma, l’ho sempre avuta cara, anche dopo.

D: Uscivi con la tuta?

R: Col bollo sulla schiena, col triangolo sulla schiena.

D: E le persone che incontravi ti guardavano?

R: Non c’erano mica tanti bolzanini che mi parlavano; c’era l’attendente del colonnello, c’era anche il colonnello.
Un bel giorno andando fuori mi son buttata in mezzo a un prato di margherite a dormire. Invece che andare a lavorare dissi: “Va bene, me la dormo qui in mezzo a un prato.” Mi son messa in mezzo a un prato di margherite, era tutto margherite, era di maggio, appena prima che finisse la guerra. Passa il colonnello con la macchina e mi dico: “Zitta, ormai non mi alzo, sto qui ferma”. Ha mandato l’attendente a portarmi il cuscino da mettermi sotto la testa. Ma te lo giuro, sai? E l’attendente me l’ha portato ma li giorno dopo mi ha detto: “Ginevra! Se ti prendo dopo la guerra! Era un bolzanino; ma guarda, c’è gente cattiva ma non c’è come quei bastardi di bolzanini che non sono né italiani né tedeschi, tremendi come i diavoli, è vera sai, erano figli di puttana quelli.
Sa che non mi hanno mai offerto niente, c’erano scatole grandi di caramelle buone, non mi hanno mai offerto una caramella quelle donne, mogli di colonnelli, di capitani, di tenenti, di SS: mai offerto una caramella. Ma io mi arrangiavo.

D: Ginevra, ma quando rientravi andavi sempre nel blocco A o vi hanno cambiato di blocco poi?

R: Sempre nel solito posto.

D: Sempre nel blocco A?

R: Sempre nel blocco A.

D: E mamma cosa faceva dentro?

R: La mamma stava dentro con la professoressa Zasso, anche quella non l’han messa a lavorare. Stavano assieme loro due; passeggiava tutto il giorno, sembrava impazzita, passeggiava indietro avanti, indietro avanti, nel blocco. Loro non potevano neanche uscire dal blocco; io come lavoratrice libera andavo nelle cucine, gli inglesi avevano la cucina e si facevano da mangiare, gli americani.

D: Dopo la guerra?

R: No, durante. Loro si facevano il mangiare a parte.

D: Ma scusa, nel campo c’erano degli inglesi?

R: Inglesi di quelli che cascavano con gli aerei, e americani.

D: E si facevano loro da mangiare?

R: Loro si faceva da mangiare, e io andavo a lavare i loro piatti e mi davano qualcosa; allora potevo rientrare nel campo.

D: A proposito di alimentazione, prima dicevi che il cuoco ti faceva la corte.

R: Sì.

D: Ricordi di che nazionalità era quel cuoco lì?

R: Uno di Belluno era, un bellunese. E’ arrivato a casa dopo, ah è venuto dopo la guerra e gli ho detto: “Tu credi che per una scorzella di zucchero prendi una donna?” E mia madre gli ha detto: “E’ lì mia figlia”. Sapeva che ero scaltra di carattere, non scaltra no, ma capace di difendermi alla mia maniera. Disse: “Lì è mia figlia”. Mamma poi se la rideva da morire.

D: Ginevra, anche la tua mamma aveva la tuta con un numero?

R: No, solo io. A mia mamma hanno lasciato i vestiti.

D: Senza numero?

R: Senza numero.

D: Senza triangolo?

R: C’era il numero ma non lo aveva attaccato sulla schiena.

D: Al lavoro sei sempre andata fuori da sola?

R: Sempre da sola.

D: A fare le pulizie?

R: Sì, quando ero arrabbiata le facevo come le facevo; facevo il letto, per ogni letto c’era un mitra, avevo anche paura. Qui c’è il letto, il comodino e fra il comodino e il letto, un mitra. Anche loro … avevano paura anche loro.

D: Mentre uscivi non hai avuto contatti con persone esterne?

R: Non mi parlavano, avevano paura di parlare a gente che usciva dal campo di concentramento. Si vedeva che si scansavano, i bolzanini tenevano ai tedeschi; lì erano tutti di quelli che avevano la campagna e l’hanno lasciata per seguir (Hitler). PARLA DEGLI OPTANTI PER IL TERZO REICH. Lo sa che hanno lasciato la campagna dove si erano trasferiti, poi hanno voluto venir dentro ma non l’hanno più trovata la campagna, non gliela hanno più data. Qui da noi c’è uno che ha una bellissima casa con un sacco di campagna: suo padre l’ha comperata da quelli che volevano andarsene. Abita qui nella nostra casa.

D: Ti ricordi nel campo di Bolzano di quella donna che veniva soprannominata la Tigre? E i due ucraini, te li ricordi, quelli del blocco celle?

R: Ma quelli erano quelli che davano botte! Sì mi ricordo, quelli erano quelli che davano legnate. Sì, anch’io avevo un’ucraina che mi faceva la guardia. Ma me la sono fatta buona l’ucraina. Dopo mi ha chiesto se fossi capace di lavorare a maglia, allora ho cominciato a farle le mutande di lana. “Si tenga calda, le faccio io le mutandine”. Sono sempre stata così di carattere, guai se non avessi avuto ‘sto carattere… Le facevo le mutande e dopo mia mamma e la professoressa ridevano. Le facevo due pezzi col triangolato, attaccavo il triangoletto bellino e lei mi diceva: “Oh Danke, Danke Ginevra, Danke Genf”. Genf mi diceva in tedesco. Un dì venne, mi portò della lana bianca e mi disse di farle una giacca. Beh non mi è mai riuscita così bene, glie l’ho fatta bellissima. E sai che cosa m’ha dato? Due scacchetti di cioccolata. Ho detto, un’altra volta non te la faccio più.

D: Ginevra, quando hai lavorato il primo periodo in sartoria, la sartoria era nel campo o fuori?

R: Dentro, sotto la garitta, sotto l’ultima garitta, sotto a quella d’angolo che guardava….allora erano tutti prati là.

D: Tu lavoravi sola?

R: Sì, io come donna ero sola con uomini da Torino, ero il jolly perché dicevano: “Arriva la nostra piccola”. Tutta brava gente e nessuno che mi ha mai fatto scherzo, mai. Tutta brava gente.

D: Ricordi se potevate scrivere o ricevere lettere o dei pacchi?

R: Nessuno mi ha mai mandato niente. Avevo un ragazzo che lavorava; l’unico che m’ha mandato delle mutande e dei pannolini è stato un signore che lavorava alla centrale di Albiano. Sopra Bolzano c’è una centrale.

D: Quella di Prato Isarco?

R: Lui lavorava nella centrale e aveva una forte simpatia per me, lo conoscevo prima. Dov’è?

D: Forse Appiano?

R: Appiano. (NB: è Cardano) Veniva qualche volta sulla porta a veder se mi scorgeva. Si vede che aveva dei permessi speciali, vestiva in divisa, veniva e mi portava mutande e pannolini perché ne avevo estremo bisogno, perché allora non c’erano i pannolini. Sempre lavarsi con l’acqua fredda e fuori passavano le finestrelle a questa altezza: così vedevano dentro la Polizia Trentina e le SS che passava a far guardia di notte, venivano dentro urlando. C’era da nascondersi perché c’era come un corridoio lungo con tutte fontanelle come gli abbeveratoi della bestie.

D: Da mangiare cosa vi davano?

R: Solo minestra. E il giorno di Pasqua hanno fatto la pastasciutta.

D: Il giorno di Pasqua è successo un altro fatto però, è entrato qualcuno nel campo, no?

R: E’ venuto il vescovo di Belluno a portare la comunione, ha portato pacchi a tutti i suoi bellunesi, a tutti.
E dopo era scappato uno di Levico, una persona altolocata, era un po’ maneggione dentro, non so come dirlo: aveva un compito dentro nel campo, e uno di quei giorni è scappato.

D: Ricordi se dentro nel campo voi avevate dei soldi per poter comperare qualcosa?

R: Niente, mai comprato niente mì.

D: Quindi non c’era uno spaccio dentro nel campo?

R: Io non ho mai comprato niente.

D: Non entrava un camioncino a vendere le mele?

R: Niente. Io non l’ho mai visto.

D: Ti ricordi di una deportata che veniva soprannominata “Cicci”? piccolina?

R: Ce n’erano dentro tante tante. Sì ci sarà stata ma io, siccome andavo a lavorare e dopo quando avevo tempo andavo a guardare i bambini ebrei e a giocar con sti popi ebrei. Dopo andavo sotto la garitta a prendere il pan e portarlo a quegli altri e le sigarette perché sa, uno che ha il vizio! E dopo ero sempre un po’ occupata, io e la, come si chiamava quella di Levico? Ha un nome strano, veniva anche lei insieme a me, aveva 2 o 3 anni più di me. E andavamo ma non me ricordo.

D: Ginevra, ti ricordi la liberazione?

R: Sì, me la ricordo. Mi han fatto una carta che ho perso, mia mamma l’ha persa. Per fortuna che avevo il libro io perché quando è morto il papà la mia casa è stata messa sotto sopra e mia cognata ha bruciato tutte le carte che ha trovato nel cassettone; ho una cognata calabrese, di quelle che non sanno né leggere né scrivere.

D: E alla liberazione tu e tua mamma dove eravate?

R: Eravamo in campo però fuori dal campo abbiamo trovato una famiglia di Bolzano che ci ha portate a casa sua e ci ha dato da mangiare e da dormire quella notte. Ho tanto mangiato che son stata male. E il giorno dopo noi ci siamo avviate a piedi, ma quella notte son venuti a bombardar Bolzano; un mucchio de prigionieri che dormiva sotto le porte del Duomo sono morti dopo.

D: Ma voi siete uscite dal campo, vi hanno detto che eravate libere?

R: Libere, mi han dato una carta, un biglietto così: a me e anche alla mamma.

D: E siete andate da questa famiglia?

R: C’era fuori questa famiglia. Lui era un commerciante di verdure, portava col camion le verdure dal Veneto e son venuti a prenderci e mi ricordo che c’han portati a casa loro. Abbiamo dormito lì, ci han dato da mangiare e poi la mattina presto a piedi ci siamo avviate. Siamo arrivati fino a Ora, penso. A Ora passa un camioncino di tedeschi e ci chiede dove andiamo. Abbiamo detto: “Andiamo in Valsugana”. Ci han caricati e portati fino a Levico, perché a Levico c’era ancora il comando, c’era ancora qualche rimasuglio. La mamma l’ho lasciata a Levico in famiglia a dormire e sono andata a Novaledo, 5 chilometri a piedi. Incontravo i tedeschi con buoi, con mucche, con vettovaglie che si portavano a casa.
Ma per noi è stata una distruzione: la nostra famiglia aveva 6 bestie nella stalla, 6 mucche, 2 maiali, pecore, conigli, galline, perché noi eravamo i “baccani” dicono, cioè i benestanti, prima della guerra. E’ stata una disfatta per noi. Abbiamo recuperato una mucca e era malata di polmoni, l’abbiamo dovuta vender anche lei. La mia famiglia è stata distrutta.

D: Ginevra, tu non hai mai raccontato di questa tua esperienza di deportazione?

R: Mai a nessuno, no. La racconto a qualche mia amica quando mi viene a trovare, per esempio se vado al mare, e dico: “Io sono stata anche al campo de concentramento”; allora mi chiedono qualche cosa ma non ci credono.

D: Ai tuoi figli lo hai raccontato?

R: Ai miei figli sì, e mi dicono: “E tu sei sopravvissuta?” Ma và, mia figlia ha un carattere diverso dal mio, io la sovrasto col mio carattere. Quando andiamo al mare assieme, siamo sempre andate insieme fino all’anno scorso, lei si sente più piccola perché dove vado io mi faccio il nido con il mio carattere; non so come, ma tutti mi vengono dietro: “Dov’è la Ginevra? Dov’è la Ginevra?” perché piace stare in mia compagnia.

D: Ginevra, cos’è stato per te e per tua mamma l’esperienza del campo di concentramento?

R: La disfatta della famiglia, per noi una tristezza tremenda, non abbiamo più trovato noi che eran tutte case e famiglie. D’estate venivo qua a aiutare a far da mangiare, a far le pulizie, a tener puliti gli uomini perché avevano la campagna e mio padre era capo al Genio civile. Mio papà era papà del secondo matrimonio, era della provincia di Sondrio mio padre, non è della Valsugana, e venivo ad aiutare la famiglia perché c’era bisogno di una persona.
D’inverno andavo a Novara e lavorava come commessa al Galtrucco, un negozio di stoffe, sì, sì. Tutti gli inverni trovavo il posto: “Arriva la Ginevra”. Il signor Galtrucco che era sulla via principale sotto ai portici: “Arriva!” e mi offriva il nome, non mi ricordo più come diceva, in novarese me lo diceva. E tutto contento mi dava lavoro, 3, 4, 5 mesi come volevo stare.

D: E poi l’arresto e il campo di concentramento?

R: E dopo là tutta la disfatta e dopo quando son venuta fuori: “Adesso – dico – voglio andare in Svizzera per imparar il tedesco”. E son andata 5 mesi a Laufen e lavoravo in un ristorante, ho lavorato in un ristorante. Si faceva di tutto, dalla cucina alla lavanderia, bisognava far di tutto, una settimana ci si alzava alle 7, una settimana alle 8, però mi son trovata benissimo perché erano perfetti nel modo di trattare; se facevo un’ora di straordinario la sera la pagavano subito, in contanti. Davano subito i due, com’erano i soldi là?

D: Franchi?

R: Due franchi, alla sera per un’ora davano due franchi, subito.

D: Ginevra, e tuo fratello che era in Germania?

R: E’ venuto dalla Germania a piedi, da in cima alla Germania in due; l’avevano portato vicino alla Polonia, a piedi è venuto fino a non so che città dell’Austria, sempre a piedi, sempre a piedi; l’ha attraversata tutta. Era del ’16. Pensa che è sempre stato militare tutta la sua vita, ha fatto l’attivo, stava a casa tre mesi, e poi richiamato, è sempre sta via a militare.

D: Lui era prigioniero in Germania?

R: In Germania prigioniero, sì, sì. E invece l’altro fratello che non doveva far neanche un giorno perché erano orfani di guerra, della guerra del ’14, quello è stato richiamato dai tedeschi e mandato in Sicilia, era in Sicilia. Non mi viene il nome, mi scriveva, mi metteva il nome della città. E lì è stato preso prigioniero degli americani e l’hanno mandato in Africa, in Marocco. E da là mi ha scritto una cartolina dal Marocco, ma è arrivata dopo la guerra perché non c’era il permesso.

D: Ginevra, cosa ricordi ancora del campo di concentramento di Bolzano?

R: Di male ricordo il maresciallo Haage, non l’ho mai dimenticato; stavamo ore e ore all’adunata anche fino a mezzanotte la sera. Avanti col frustino perché non gli tornava il numero, fuori nel cortile grande. E là tutti in fila passavano e contavano eins zwei drei si sbagliavano allora anche fino a mezzanotte in piedi a far l’adunata.

D: Anche se c’era brutto tempo?

R: Anche se c’era brutto tempo. Sì, sì.

D: E poi cosa ti ricordi ancora del campo do Bolzano?

R: Il letto comodo. Il letto di piume, un sacco di segature!! C’erano le stecche, le segature andavano giù e restavano le stecche.

D: C’era un’infermeria nel campo do Bolzano?

R: Ho sentito nominare era qualche medico e che qualcuno lo aiutava, gli dava qualcosa ma non ho mai voluto, non ho mai chiesto niente, avevo paura che mi avvelenassero, dico: “Mi danno la medicina e mi fanno morire quelli lì”, non son mai andata, mai chiesto niente.

D: Di mamma cosa ti ricordi, quando era nel campo con te?

R: La mamma continuava a piangere. Tutti i giorni diceva: “Tutta la vita ho lavorato” perché veniva da una famiglia benestante e il primo marito l’ha sposato povero, ha dovuto piantarlo povero con la sua roba insomma. Dopo questo è andato in guerra, ogni volta che veniva a casa la metteva incinta, ne ha avuti 4. A 26 anni era vedova con 4 figli! A 30 anni ha sposato mio padre, 5 anni più giovane, lui aveva 25 anni. Io ho 25 anni di differenza da mio padre.

Pichler Erich

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Pichler Erich Florian. Sono nato il 14 ottobre 1926 a San Leonardo in Passiria.
D: è stato in carcere a Silandro?
R: Sì. Ci siamo dovuti presentare a Silandro per evitare che a causa della Sippenhaft, arrestassero i nostri genitori (come ostaggi familiari) e li portassero nel Lager di Bolzano. Mio padre, che si era già fatto quattro anni di prigionia in Russia, dall’agosto del 1914 fino all’agosto del 1918, non voleva assolutamente essere arrestato e ha voluto che noi andassimo a costituirci.
L’abbiamo fatto e ci hanno incarcerati. Ci siamo consegnati il 19 agosto 1944 a Silandro e il 22 agosto ci hanno incarcerati nelle caserme del paese. A Malles è poi arrivato il reggimento e per un certo tempo hanno portato a Malles anche noi, ma alla fine hanno deciso di incarcerarci definitivamente e ci hanno riportato nella prigione di Silandro.
D: A Merano non c’era il carcere?
R: A Merano ci sarà stato certamente un carcere, ma noi siamo stati rinchiusi in quello di Silandro.
D: Sa per quale motivo a Silandro e non a Merano?
R: Perché noi siamo stati incarcerati a Silandro e la competenza l’avevano là. Da Silandro ci hanno portati a Bolzano per il processo.
D: Dove?
R: A Gries, nelle caserme. Là hanno condannato sia me che mio fratello a tre anni. Dopodichè ci hanno riportato a Silandro. Forse era il 10 di ottobre. Siamo rimasti lì e non abbiamo più sentito nulla fino all’11 novembre.
L’11 novembre ci è stato detto che dovevamo tornare a Bolzano per un nuovo processo, perché l’ultimo non era stato fatto bene, forse saremmo stati assolti. Sono venuti con noi a Bolzano. Ci hanno fatto un nuovo processo. Ci hanno condannato a 11 anni per diserzione, perché ci eravamo rifiutati di andare in guerra.
D: Chi erano i giudici in questo processo?
R: Erano uomini della giurisdizione speciale delle SS e della polizia.
D: Dove si trovava esattamente questo edificio?
R: Non lo so con precisione. Era a Gries, nelle caserme.
D: In piazza Gries o in un altro luogo?
R: Fuori Gries, nelle caserme.
D: In Via Vittorio Veneto? Sulla strada per Merano?
R: Sì, là fuori. Ci hanno condannati a 11 anni. Siamo rimasti per cinque giorni nel carcere di Bolzano.
D: Dove si trovava il carcere a Bolzano?
R: Dove si trova ancora oggi, vicino al Talvera. Da lì ci hanno prelevato il 16 novembre tra molti insulti: “Verrete fucilati!” “Credevate di poter disertare?” Ci hanno messo le manette, poi però ce le hanno tolte perché ci hanno portati in stazione. In quel momento è scattato l’allarme aereo e siamo entrati nel tunnel, quello dall’altra parte, per trovare rifugio. Passato l’allarme ci hanno ricondotti in stazione e spediti a Dachau. Ci hanno tolto le manette perché dicevano che non avevamo fatto resistenza e che non potevamo fare resistenza. Il 17 novembre siamo arrivati a Dachau.
D: Prima di passare a parlare di Dachau, può spiegarci cosa esattamente significa diserzione?
R: Ci siamo presentati alle armi il 2 giugno ed il 6 giugno ci siamo allontanati dalla truppa, siamo scappati e dal 6 giugno al 19 agosto siamo rimasti nascosti vicino a casa. Alla fine abbiamo dovuto costituirci per evitare che i nostri genitori finissero nel Lager di Bolzano.
D: Lei sapeva che a Bolzano c’era un Lager?
R: Sì, si sapeva che c’era un Lager, ma nessuno sapeva che aspetto avesse. Lo chiamavano Lager Kaiserau, ma noi non abbiamo avuto nulla a che farci. Noi siamo arrivati a Dachau. Arrivati là abbiamo dovuto …
D: Si ricorda di come siete arrivati a Dachau? In autobus? In treno?
R: In treno. La ferrovia era distrutta e abbiamo dovuto fare una deviazione per la Val Pusteria fino a Lienz e poi da Lienz a Dachau. È stato un viaggio lungo. Abbiamo impiegato una notte ed un giorno interi. Fino a Monaco abbiamo viaggiato in treno. A Monaco ci hanno fatti scendere e ci hanno anche dato qualcosa da mangiare.
D: Eravate su un treno o su un vagone merci?
R: No, era proprio un treno, ma con i finestrini rotti. Faceva freddo.
D: Quanti eravate su questo treno per Dachau?
R: Io, mio fratello e Haller Franz: eravamo in tre con tre guardie.
D: SS?
R: Sì, e polizia.
D: Siete arrivati alla stazione di Monaco?
R: Sì. Da qualche parte in un ristorante ci hanno dato da mangiare. Hanno mangiato anche le guardie. Con un camion ci hanno portato al Lager di Dachau, che si trovava a circa 30 chilometri di distanza. Siamo arrivati verso sera. Ci hanno consegnati davanti al portone.
Subito abbiamo dovuto correre dentro. Beninteso, noi non eravamo deportati del campo di concentramento. I deportati avevano un abito a righe bianche e blu mentre a noi, quando finalmente ci hanno dato degli abiti, hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno fatto vestire così perché avevamo abbandonato l’esercito ed eravamo disertori.
D: Avete ricevuto anche un numero di matricola?
R: No, i militari processati e condannati (Strafgefangene) non avevano numero di matricola. Lo avevano solo i deportati.
D: Non avete ricevuto alcun contrassegno a forma di triangolo?
R: No, proprio nulla.
D: In quale blocco è stato portato?
R: C’era una baracca apposta per gli Strafgefangene. Si trovava in fondo al campo. C’erano anche tante celle, era una caserma o una baracca di sole celle. C’era anche un lungo corridoio. Quella sera ci hanno portati in una di queste celle.
Ci hanno fatti spogliare. Nudi abbiamo corso per circa 30 metri. Siamo arrivati in una stanza dove ci hanno dato un paio di mutande ed una camicia. Questo era tutto.
Più tardi ci hanno portato nel Bunker, nel blocco celle e ci hanno rinchiusi in una cella. La cella era larga 2 metri e lunga 3. In questa cella erano rinchiusi 23 uomini appena arrivati.
Eravamo io, mio fratello, Haller Franz e tanti sconosciuti, 20 altri sconosciuti. 23 uomini sono rimasti rinchiusi in questa cella dalla sera alla sera successiva. Da mangiare ci hanno dato una pessima zuppa. Questo era tutto.
D: C’erano solo sudtirolesi in questo blocco per gli Strafgefangene?
R: No. C’erano prigionieri da ogni dove: tantissimi croati, poi italiani, francesi, olandesi, persino norvegesi, ungheresi.
D: C’erano anche tedeschi?
R: Sì, perché era un blocco per Strafgefangene.
D: Questo blocco aveva un numero o una sigla?
R: Non me lo ricordo. Era una baracca a se stante. Aveva 15 camerate e in ogni camerata c’erano 24 uomini. Erano piene. Quando era tutto pieno, trasferivano i deportati in un campo esterno
D: Da questo blocco per Strafgefangene si poteva vedere il forno crematorio?
R: No, il crematorio no. Era separato. Noi eravamo isolati. C’era un cortile. Quando uscivamo dal cortile arrivavamo sulla strada principale. Fuori c’erano ovunque baracche del Lager. Da qualche parte c’erano anche le baracche delle SS e le postazioni di guardia delle SS. Le SS sorvegliavano anche noi, proprio come facevano con gli altri.
Non ce la passavamo tanto meglio, forse in alcuni giorni andava meglio, in altri peggio. Ci hanno tormentati e affamati nello stesso modo. Avevamo una fame spaventosa.
D: Quanto è rimasto nel blocco celle?
R: Nel blocco celle siamo rimasti un giorno, fino alla sera del giorno successivo. Poi ci hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno vestiti con quella. Eravamo Strafgefangene, ognuno aveva questa divisa.
D: Le hanno rasato la testa o no?
R: No. Ci hanno rasati, ma non completamente. Nella baracca io e mio fratello siamo stati assegnati alla camerata. E bisognava innanzitutto pregare per avere il permesso di andare dove eravamo stati effettivamente assegnati. Si usava così.
Abbiamo ricevuto il posto. C’erano tre tavolacci uno sopra l’altro e letti per alloggiare 24 uomini. C’era anche un tavolino. E questo era tutto. All’esterno della camerata c’era un ampio corridoio, largo tre metri, dalla prima all’ultima baracca attraverso 15 camerate e da qualche parte c’era il lavatoio, non riesco a ricordare bene, e la latrina.
Al mattino dovevamo alzarci alle 5 per fare le esercitazioni, dovevamo anche marciare attraverso il campo di concentramento. Molto spesso c’era un uomo sul piazzale, ben visibile a tutti, che aveva tentato di scappare durante il lavoro all’esterno e reggeva un cartello con la scritta “Ho avuto sfortuna” oppure “Sono stato troppo stupido” oppure qualche altra frase simile. Rimaneva là dalla mattina presto alla sera tardi. Non riceveva nulla da mangiare. Doveva stare sempre in piedi.
Cosa hanno fatto di questi uomini non si sa, non sappiamo proprio se li hanno fucilati o se li hanno riportati dai loro camerati. Non lo so. Li riacciuffavano quasi tutti quelli che tentavano di fuggire. Anche noi avremmo avuto un’occasione per fuggire, ma era solo una fantasticheria, perché li riprendevano sempre. Noi non l’abbiamo fatto.
Uscivamo per circa 2-3 chilometri. Fuori c’era una collinetta. C’erano degli alberi. Ai piedi della collina dovevamo costruire un Bunker, un rifugio antiaereo, ma il terreno era tutto sabbioso. Si doveva rivestire tutto con blocchi. Con la carriola dovevamo trasportare fuori il materiale, zig-zag e fuori. Era un lavoro difficile. Il materiale veniva reinterrato fuori, accanto ai binari, e camuffato perché non venisse visto. Non abbiamo continuato a lungo con questo lavoro perché la caserma o la baracca erano troppo affollate, dopo pochi giorni hanno spedito Franz Haller a Norimberga e il 3 dicembre hanno portato via anche me e mio fratello. Siamo arrivati a Mosbach, nell’attuale Baden-Wüttemberg, dove c’era un Lager chiamato Goldfisch. Siamo rimasti là dal 7 dicembre 1944 fino al 27 marzo (1945). Poi hanno evacuato l’intero campo e ci hanno portati via.
Ci hanno fatti tornare a Dachau a piedi. Abbiamo marciato dal 27 marzo fino al 24 aprile. Il cibo era sempre terribile, avevamo tanta fame, eravamo estremamente deboli.
D: A Mosbach c’era un campo di concentramento o una caserma?
R: C’erano diverse baracche per Strafgefangene.
D: Solo per Strafgefangene?
R: Sì, solo per Strafgefangene.
D: Durante il trasporto da Dachau a Mosbach eravate soli, Lei e suo fratello, o c’erano anche altri Strafgefangene?
R: C’erano altri 300/400 Strafgefangene. Ci hanno caricati sui carri bestiame e ci hanno portato in ferrovia fino a Mosbach, dove ci hanno fatto scendere e ci hanno fatto camminare per una mezz’ora o forse più per raggiungere le baracche. Il campo era in costruzione.
Io lavoravo nella squadra “U”, cioè Unterkunft (alloggiamento) e dovevo coprire di ghiaia i vari sentieri, c’era un binario e dovevamo prendere la ghiaia da un vagoncino. Dovevamo anche mescolare il cemento, fare le gettate per i pavimenti e costruire i tetti delle baracche.
Quando il grosso del lavoro era stato fatto, mi hanno mandato alla fabbrica. Mio fratello aveva cominciato a lavorare alla fabbrica sin da subito. Era a un’ora di cammino dal campo. Dovevamo uscire e andare verso Neckarelz. Là scorreva il fiume Neckar e sul fiume c’era un ponte ferroviario con un passaggio pedonale. Tutti i giorni attraversavamo questo ponte.
Dall’altra parte c’erano 150 scalini da salire. Proprio in cima c’era una ripida scala in legno, con altri 35 scalini. Lassù c’era l’ingresso della fabbrica. La fabbrica era tutta all’interno di una collina. In questa fabbrica c’erano tanti stanzoni molto grandi, tutti scavati nella roccia.
Camminavamo un quarto d’ora per raggiungere la nostra postazione di lavoro. Venivamo divisi. Ciascuno doveva lavorare al proprio posto. Non ricordo più quanti stanzoni ci fossero, dieci, undici o forse anche di più. Non l’ho mai saputo perché non ho mai visto tutta la fabbrica per intero.
D: Cosa si produceva nella fabbrica?
R: Si produceva materiale bellico. Parti di carro armato, parti di aeroplano. Le parti non venivano assemblate in fabbrica, venivano mandate a Berlino e lì si provvedeva all’assemblaggio.
Mio fratello ha lavorato più a lungo di me nella fabbrica perché io all’inizio ero nella squadra “U”. È andata avanti così fino a febbraio e poi ha iniziato a cedere, a sgretolarsi. Gli aeroplani erano molto fastidiosi. C’erano molti bombardamenti e c’erano moltissimi allarmi aerei. Venne colpito anche il ponte ferroviario. La prima volta lo hanno ricostruito, ma venne subito bombardato di nuovo. La seconda volta non sono più riusciti a sistemarlo. È stato verso la fine di febbraio.
D: Nelle gallerie c’erano solo Strafgefangene o anche deportati?
R: La fabbrica era separata. Era a un’ora di cammino dal campo. Al mattino dovevamo camminare un’ora per andare e alla sera un’altra ora per tornare. Nella fabbrica c’erano dei civili, c’erano anche prigionieri italiani, altri prigionieri, civili, tedeschi. C’erano persone di diverse nazionalità.
D: Il suo preposto era un civile?
R: Si, il mio preposto era un civile, e anche quello di mio fratello lo era. Poi c’erano le SS. Il loro compito era solo di accompagnarci alla fabbrica e di restare lì tutto il giorno di guardia, ma non avevano nulla da dire sul lavoro. Per il lavoro avevamo un preposto civile e con lui dovevamo lavorare.
D: Ha notato differenze tra Dachau, Mosbach e Goldfisch per quanto riguarda la disciplina e le esecuzioni ?
R: Devo fare un distinguo. Goldfisch era il nome del Lager. Che si trovava nei pressi di Mosbach. Mosbach era solo la città. Il nostro Lager era vicino a Mosbach. Un paio di volte, non spesso, siamo andati a Mosbach per fare la doccia perché si doveva curare un minimo di igiene. Eravamo comunque sempre pieni di pidocchi. I nostri vestiti erano tutti pieni di pidocchi che ci davano il tormento.
D: Com’era la disciplina nelle gallerie? Ci sono stati dei morti?
R: Non lo so. Credo che là ci siano stati pochi decessi. Se capitava era in seguito a incidenti; forse qualche prigioniero è morto di fame. Questo è assolutamente possibile. C’erano anche dei deportati che lavoravano, perché una volta ho parlato con uno di loro.
È arrivato un sergente delle SS che non conoscevo e che mi ha visto. Ha urlato contro di me se non sapevo che non fosse permesso parlare contro i principali nemici dello Stato. Io gli ho detto: “No, non lo sapevo”. Ed io davvero non lo sapevo. Poi lui ha chiesto: “Da dove vieni?” e io ho detto: “Dall’Alto Adige”. “Che mestiere fai?” “Lavoro in agricoltura” “Come?” ha detto “Vuole sapere ancora del mio lavoro?”. Allora mi ha schiaffeggiato e insultato per un bel po’ di tempo. Alla fine sono riuscito a cavarmela. Mi ha lasciato andare. Ho avuto sfortuna. Il giorno dopo l’ho incontrato di nuovo ed è incominciato tutto daccapo. “Tu! Tu sei quello di ieri, vieni qui!”. Mi ha di nuovo preso a schiaffi. Per un bel po’. Me lo sono ben tenuto a mente e mi sono detto: “Te non voglio proprio incontrarti più!”
Non l’ho più incontrato perché lo evitavo, ho pensato che non volevo proprio farmi picchiare senza motivo. Sapevo di non avere colpe. E poi era un sergente delle SS sconosciuto, uno che non aveva nulla a che fare con il nostro Lager Goldfisch a Mosbach. Non lo conoscevo. Era un estraneo. Forse aveva a che fare con i deportati, ma non con noi Strafgefangene.
D: Quanti eravate nel Lager di Mosbach? Centinaia o migliaia?
R: Qualche centinaio, 500/600. Non lo so di preciso, all’incirca 300 / 600 / 700 Strafgefangene. Alcuni eravamo stati condannati per diserzione; altri per furto, altri per omicidio, altri ancora per storie di donne, avevano commesso crimini diversi.
D: E lei ha davvero commesso un crimine?
R: Il nostro unico crimine è stato di non esserci arruolati con i tedeschi.
D: E’ stato davvero un crimine?
R: Ai loro occhi sì. Non potevamo abbandonare la truppa. L’abbiamo abbandonata. Siamo diventati disertori ma abbiamo dovuto costituirci perché altrimenti avrebbero portato i nostri genitori in campo di concentramento. Nostro padre ha detto: “Vi dovete costituire prima che finiamo tutti nel Lager. Voi siete solo in due e noi siamo in tanti”.
D: Ritorniamo ancora per un momento alla Sua storia. Poi è tornato a Dachau?
R: Sì.
D: E poi?
R: Il 24 aprile siamo tornati a Dachau. C’era una gran confusione, perché la guerra stava finendo. Non c’era quasi più nulla da mangiare. Ricevevamo caffè da bere, ma pochissimo cibo. È andata avanti così fino al 29 aprile (1945). Il 28 aprile ci hanno scartati alla visita. Quelli come noi avrebbero dovuto prestare servizio in guerra. Io e mio fratello eravamo troppo male in arnese, secondo loro. Non ci hanno preso. Avremmo potuto offrirci volontari. Non l’abbiamo fatto. Non ci siamo offerti. Siamo rimasti nel Lager. Il 28 aprile ci hanno restituito gli abiti che ci avevano tolto in novembre, anche i soldi, non più in lire ma in marchi tedeschi. Non abbiamo saputo fare nulla di più furbo che indossare i nostri abiti civili. Oggi non lo rifarei più, perché questa decisione ci è stata quasi fatale.
Oggi mi procurerei il vestiario dei deportati. Sarebbe stato meglio anche allora, ma eravamo solo dei ragazzi e non sapevamo cosa fosse la guerra e cosa sarebbe successo.
Il 29 aprile sono arrivati gli americani. Gli americani ci hanno presi prigionieri insieme alla SS. Ci hanno catturati e messi insieme a loro semplicemente perché noi indossavamo i nostri abiti civili. Glielo abbiamo ben detto che noi eravamo detenuti nel Lager. Ci hanno chiesto se eravamo stati soldati. Si, per quattro giorni. E allora dovevano trattenerci. Ci hanno portato fuori con gli uomini delle SS e con tutti i prigionieri che avevano catturato. Improvvisamente ci siamo trovati dietro un muro, un muro di pietra, lungo forse 30-40-50 metri e alto 3 metri, o forse di più.
Fuori avevano due mitragliatrici pronte, nessun uomo accanto a loro ma tutte le guardie che ci avevano accompagnato là. Abbiamo dovuto metterci lungo il muro, con la faccia rivolta al muro e le braccia in alto. Volevano fucilarci sul posto, immediatamente. All’ultimo minuto è arrivato un ufficiale americano di grado elevato. Ha fatto fermare tutto.
Ci è stato permesso di rientrare nei ranghi. Così ci hanno fatti uscire dal Lager e ci hanno portato a Dachau, forse in un edificio pubblico. Era una casa grande a due piani, con un grande piazzale. Hanno portato lì tutti i prigionieri che avevano.
C’eravamo anche noi. Nel giro di due giorni, o forse di un giorno solo, si è riempito tutto l’edificio. C’erano forse 300 prigionieri al primo piano e 300 al secondo. Dopo due giorni ci hanno portati a Fürstenfeldbruck. Là avevano preparato un campo per prigionieri nuovo di zecca. Ai quattro angoli del campo c’era una torre con illuminazione e con sentinelle americane. Erano molto preoccupati che i prigionieri potessero scappare.
Hanno disegnato una riga bianca, un quadrato che racchiudeva il campo. Nessuno poteva oltrepassarla. Chi l’ha fatto è stato immancabilmente ucciso a colpi di fucile. Ogni mattina c’erano dei morti perché molti prigionieri credevano di potersene andare inosservati. C’erano anche dei posti di guardia intermedi, il quadrato disegnato in bianco misurava forse 150 x 150 m. C’erano continui arrivi di nuovi prigionieri. Era il primo maggio (1945). Ha nevicato e piovuto. Faceva freddo. Noi gelavamo.
I prigionieri si sono scavati delle buche, con le mani o con qualsiasi altra cosa potesse servire. Perlopiù avevamo a disposizione solo le nostre mani. Ci trovavamo in un campo in cui erano appena stati interrati i tuberi delle patate. Avevamo tantissima fame. Scavando le buche abbiamo scoperto le patate, che erano ancora fresche di semina. Le abbiamo dissotterrate tutte. La notizia si è diffusa immediatamente tra i prigionieri. In un giorno solo tutte le patate sono state dissotterrate. Le abbiamo arrostite o lessate e mangiate, perché c’era della legna che si poteva usare.
Per otto giorni gli americani non ci hanno dato assolutamente nulla da mangiare. Avevamo una fame tremenda. Eravamo io e mio fratello e poi c’era un certo Franz Thaler di San Martino in Val Sarentina, era molto debilitato, zoppicava. Era triste e disperato. Io gli dicevo spesso: “Franz, adesso che la guerra è finita, che siamo fuori dal Lager non devi disperare, riusciremo a tornare a casa”. Era molto scettico perché era malato.
Dopo otto giorni gli americani ci hanno dato due scatolette, una con biscotti e un paio di dolci e l’altra con un pasto, pasta e fagioli o roba simile. Era tutto buono, ma troppo poco. Nel campo noi abbiamo mendicato. Ma abbiamo ricevuto ben poco, perché ognuno si teneva il poco che aveva. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri. Sono arrivati anche Franz Haller e suo fratello. Stavamo insieme.
Loro rubavano. Questa era la nostra unica possibilità di sopravvivere, perché altrimenti saremmo morti di fame e poco ci mancava. Rubavamo ciò che ci serviva. Però ci hanno scoperti. Hanno detto in tutto il Lager che noi eravamo ladri. Quello stesso giorno sono arrivati gli americani con dei grossi camion per trasferire i prigionieri da qualche altra parte. Noi ci siamo subito fatti avanti e siamo partiti. C’erano 12 camion in tutto.
Su ogni camion hanno fatto salire almeno 50 uomini. Correvano come dannati, in colonna, c’erano tre/quattro metri di distanza tra uno e l’altro e viaggiavano a grande velocità. Siamo poi arrivati in una città. Da qualche parte c’era un ostacolo, forse a un incrocio. Il primo camion ha inchiodato. Tutti gli altri si sono fermati in pochissimo spazio. Non ci sono stati tamponamenti. Abbiamo proseguito verso Ulma.
Siamo rimasti lì un paio di giorni, sempre senza mangiare. Prima di partire con i camion da Fürstenfeldbruck, la Croce Bianca tedesca aveva distribuito del cibo e noi ne avevamo quel tanto che ci avrebbe permesso di vivere per un giorno. Ci hanno trasferiti da Ulma a Heilbronn in un campo per prigionieri molto grande. Si diceva che ci fossero più di un milione di prigionieri, suddivisi in gruppi più piccoli. Giungemmo anche noi in uno di questi gruppi.
Gli americani erano di solito buoni e non ci stressavamo mai, ma da mangiare non ci davano nulla, quasi nulla. Almeno tre settimane abbiamo passato così. Adesso non ricordo con precisione, ma è stato all’incirca da metà maggio fino a giugno, forse fino alla metà di giugno. Ricevevamo da mangiare una volta al giorno, mezzo litro/tre quarti di litro di zuppa liquida. Così è stato all’inizio. Dopo ci è stato dato del cibo tedesco in più, prima da dividere tra 18 uomini poi tra 14, oltre a una piccola fettina di pane. Ma non bastava. Eravamo molto deboli e smagriti. Dormivamo 16-17 ore al giorno, come i bambini piccoli. Ogni tanto volevamo e dovevamo alzarci, per andare a prendere da mangiare o perché magari avevamo qualcosa da fare, ma altrimenti ci lasciavano in pace per quanto potevano.
In tutta la Germania non c’era più nulla da mangiare. Prima di tutti venivano i soldati americani, loro ricevevano tutto, come sempre. Poi venivano i lazzaretti e i campi degli ammalati. Poi veniva la popolazione civile e alla fine i prigionieri. Per noi quindi non rimaneva molto.
D: Quanto è rimasto a Heilbronn?
R: Tra le tre e le quattro settimane. Non ricordo più bene. È passato troppo tempo. Alla fine siamo andati via anche da Heilbronn. Ci hanno caricati su un treno, migliaia di uomini. Abbiamo attraversato la Germania e siamo andati in Francia. In Francia, nei dintorni di Parigi, a Soissons.
Dalla stazione partiva una strada ripida che conduceva su un’altura. Abbiamo camminato di sicuro per una buona mezz’ora, o forse di più. Non eravamo quasi più in grado di camminare. Avevamo semplicemente esaurito le forze, perché anche ad Heilbronn non riuscivamo a stare in piedi e continuavamo a cadere. Tutto diventava grigio e per breve tempo svenivamo. Cascavamo e poi riprendevamo i sensi.
Poi ci rialzavamo, sempre molto lentamente, ma non ce la facevamo. Eravamo così deboli e talmente sfiniti che proprio non riuscivamo a stare in piedi. Cadevamo di nuovo, non sempre, ma spesso. Solo al terzo tentativo riuscivamo davvero ad alzarci ed a camminare, per fare quello che dovevamo, per prendere il cibo e cose così.
Dopo che avevamo fatto tutto, tornavamo nella nostra tenda e dormivamo, dormivamo, dormivamo.
D: La vostra situazione è migliorata in Francia?
R: È migliorata perché tutti sapevano che noi, eravamo sette o otto, eravamo stati prigionieri a Dachau. Lo sapeva tutto il campo. L’amministrazione del Lager, dove c’erano naturalmente tutti prigionieri austriaci ed italiani, ci ha diviso per nazionalità. Nel nostro campo c’erano solo austriaci e italiani con la cittadinanza italiana, come noi l’abbiamo sempre avuta. Noi eravamo e siamo rimasti cittadini italiani.
A noi, quando distribuivano il cibo, che veniva preparato fuori dal campo e distribuito poi all’interno, a noi davano sempre uno/due litri di zuppa in più, perché sapevano che eravamo stati a Dachau, e se ne avanzava ce ne davano ancora. Ogni giorno ricevevamo tre, quattro, anche cinque litri di zuppa. E la zuppa non era per niente male. Ne avevamo bisogno.
Era il cibo più adatto per superare la nostra totale debilitazione, il nostro stato di denutrizione. Era una zuppa né troppo grassa né troppo ricca. In questo modo siamo riusciti a riprenderci. Avevamo cibo quasi a sufficienza. Ricevevamo anche un pane americano, le “aggiunte americane” o come chiamavamo le pagnotte. Si trattava di pane bianco. Dovevano essere suddivise in quattro parti, c’era una pagnotta ogni quattro uomini.
D: In Francia?
R: Sì, in Francia.
D: Quando è arrivato a casa?
R: In questo campo stavamo meglio e siamo rimasti fino al 17 agosto. Alcuni giorni prima, forse tra il 10 ed il 12 agosto, è arrivato un colonnello italiano. Ci ha consolati e ci ha detto che saremmo tornati a casa. Era venuto apposta. Non sapeva che nel campo ci fossero prigionieri italiani, dovevamo scusarlo, altrimenti sarebbe venuto prima.
Si è subito dato da fare. Due giorni dopo hanno fatto partire gli ammalati. Poi sono partiti i prigionieri fino alla lettera “H”, che erano proprio tanti, e poi quelli dalla lettera “H” alla “Z”. Noi, con la lettera “P”, eravamo tra gli ultimi. Siamo usciti dal campo il 17 agosto e abbiamo ripercorso la strada fino alla stazione.
Ci hanno fatto salire di nuovo sui vagoni, sempre con gli americani di guardia. Quello è stato un bene, perché i francesi ce l’avevano a morte con i prigionieri. I francesi pensavano fossimo tutti tedeschi. Venivano con le pietre e le lanciavano contro i vagoni, ma gli americani sapevano come tenerli a bada. Gli americani ci hanno accompagnato fino al confine con la Svizzera. E poi sono spariti. Ci hanno lasciati soli. Finalmente, intorno al 19/20 agosto, eravamo di nuovo uomini liberi.
Ci siamo fermati là per un giorno e mezzo. Poi siamo partiti per l’Italia, attraverso la galleria del San Gottardo siamo arrivati a Domodossola e da lì siamo andati a Novara. A Novara ci hanno dato un foglio di congedo. Abbiamo potuto proseguire, fino a Milano il gruppo è rimasto unito, da Milano a Verona eravamo ancora numerosi e poi siamo rimasti in pochi. Alla fine siamo rimasti soli e ci siamo dovuti arrangiare per tornare a casa, dove siamo arrivati il 23 agosto.
D: Finalmente.
R: Finalmente! Avevo un fratello più vecchio. Era nato nel 1922. Era nell’esercito italiano di stanza in Italia. Avremmo dovuto combattere contro nostro fratello. Non l’abbiamo fatto e non abbiamo mai voluto farlo. Mio fratello è tornato in congedo proprio quando noi siamo arrivati a casa. Ci siamo incontrati da una delle nostre sorelle. Ci ha detto “Cosa? Siete i miei fratelli? Così gracili? Così scheletrici? Macilenti? Siete allampanati, vi si può vedere attraverso”. Gli abbiamo detto: “Avresti dovuto vederci due o tre mesi fa. Allora avresti potuto dire queste cose, ora non più”. Infatti ci eravamo ripresi abbastanza. Siamo arrivati a casa il 23 agosto 1945.
D: Posso farle ancora una domanda: Riesce a dimenticare? Vuole dimenticare? Oppure non vuole farlo?
R: Ho dimenticato tante cose, ma è impossibile dimenticare tutto. È proprio fuori discussione. È un pezzo della mia vita, un pezzo crudele della mia vita. I tedeschi ci hanno martoriati e torturati e stressati e ci hanno fatto soffrire la fame.
Dormivamo poco. Alle 10 potevamo andare a dormire, ma verso le 11, le 12 partiva l’allarme aereo che durava circa due ore. Era estremamente raro che non ci fossero allarmi aerei. Forse all’inizio di dicembre, ma da febbraio in poi l’allarme aereo suonava due volte quasi ogni notte. Con l’allarme dovevamo andare nel Bunker e nel Bunker nessuno poteva dormire. E adesso Lei sa quante ore ci rimanevamo per dormire, se andavamo a letto alle 10 di sera, stavamo quattro ore nel Bunker ed alle 5 del mattino dovevamo di nuovo alzarci. Tempo per dormire non ce n’era più tanto.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano / Dr.ssa Maddalena Rudari, giugno 2017)

Ich heiße Pichler Erich Florian. Ich bin geboren am 14. Oktober 1926 in St. Leonhard in Passeier.
FRAGE: Waren Sie in Schlanders im Gefängnis?
ANTWORT: Ja. Wir mussten uns dort zurückmelden wegen der Sippenhaft. Man wollte unsere Eltern hier nach Bozen ins Lager bringen. Das hat der Vater nicht angenommen, weil er schon vier Jahre russische Gefangenschaft mitgemacht hat von 1914 August bis 1918, vielleicht auch August. So hat er von uns verlangt, dass wir uns zurückmelden.
Das haben wir uns und dann haben sie uns eingekerkert. Wir haben uns am 19. August 1944 gestellt in Schlanders und dann haben sie uns am 22. August eingekerkert in Schlanders in den Kasernen. Das Reglement kam dann nach Mals. Auch uns brachten sie nach Mals eine Zeit lang. Dann haben sie entschieden uns endgültig eingekerkert zu lassen und haben uns in das Gerichtsgefängnis nach Schlanders zurückgebracht.
FRAGE: In Meran gab es kein Gerichtsgefängnis?
ANTWORT: In Meran wird es schon ein Gefängnis gegeben haben, aber uns haben sie in Schlanders eingekerkert im Gerichtsgefängnis.
FRAGE: Wissen Sie warum genau in Schlanders und warum nicht in Meran?
ANTWORT: Weil wir eigentlich in Schlanders eingekerkert wurden und dort zuständig waren. Von Schlanders hat man uns nach Bozen gebracht zu einem Prozess.
FRAGE: Wo?
ANTWORT: In Gries in den Kasernen. Dort haben sie uns dann verurteilt, mich und meinen Bruder, weil ich war nicht alleine. Dann haben sie uns drei Jahre Zuchthaus gegeben. Dann brachten sie uns wieder nach Schlanders zurück. Das war vielleicht um den 10. Oktober. Dann blieben wir wieder in Schlanders, haben nichts mehr gehört bis zum 11. November.
Am 11. November hieß es wir müssten noch einmal zu einem Prozess nach Bozen, weil das letzte Mal ist nicht richtig gewesen, vielleicht werden wir freigesprochen. Dann sind sie mit uns nach Bozen. Dann haben wir noch einmal einen Prozess gehabt. Da haben sie uns 11 Jahre Zuchthaus gegeben für die Fahnenflucht, weil wir uns geweigert haben, Kriegsdienst zu machen.
FRAGE: Wer waren die Richter bei jenem Prozess?
ANTWORT: SS und Polizeigerichtsbarkeit war das.
FRAGE: Wo war genau dieses Gebäude?
ANTWORT: Das kann ich nicht genau sagen. Draußen in den Kasernen, hier in Gries, Bozen.
FRAGE: Am Grieserplatz genau oder an einem anderen Ort?
ANTWORT: In den Kasernen draußen.
FRAGE: In der Vittorio-Veneto-Straße? Auf der Straße nach Meran?
ANTWORT: Ja, dort draußen. Dann haben sie uns die 11 Jahre gegeben. Dann brachten sie uns ins Gerichtsgefängnis hier in Bozen für fünf Tage.
FRAGE: Wo war dieses Gerichtsgefängnis hier in Bozen?
ANTWORT: Wo es auch heute noch ist, draußen an der Talfer. Von dort haben sie uns am 16. November geholt mit viel Schimpfen: “Ihr werdet erschossen! Was glaubt ihr Fahnenflucht zu begehen?” Sie haben uns dann in Handschellen gelegt. Später haben sie sie uns wieder abgenommen, weil man hat uns hinausgebracht zum Bahnhof.
Dann war gerade Fliegeralarm und wir mussten dann in das Tunnel, das auf der anderen Seite um Luftschutz gehen. Wenn der Fliegeralarm vorbei war dann haben sie uns auf die Bahn gebracht und nach Dachau abgeschoben. Sie haben uns die Handschellen abgenommen, weil sie sagten, dass wir eigentlich uns ja nicht wehrten oder wehren konnten. Dann sind wir am 17. November in Dachau angekommen.
FRAGE: Bevor wir von Dachau sprechen. Können Sie uns genau erklären was Fahnenflucht bedeutet?
ANTWORT: Wir sind eingerückt am 2. Juni und am 6. Juni haben wir uns von der Truppe entfernt, sind geflohen und dann haben wir uns zu Hause in der Nähe oder so aufgehalten, vom 6. Juni bis zum 19. August. Dann haben wir uns stellen müssen damit die Eltern nicht ins Lager nach Bozen gekommen sind.
FRAGE: Wussten Sie, dass es ein Lager in Bozen gab?
ANTWORT: Ja, das wusste man schon, dass es ein Lager gab, aber wie das aussah wusste eigentlich niemand. Das Lager Kaiserau hat man es geheißen, aber wir haben mit dem nichts zu tun gehabt.
Wir sind nach Dachau gekommen. Dort angekommen mussten wir…
FRAGE: Erinnern Sie sich wie Sie nach Dachau gekommen sind? Mit einem Bus? Mit dem Zug?
ANTWORT: Mit dem Zug. Der Zug war demoliert worden und so mussten wir einen Umweg fahren über Pustertal nach Lienz und von Lienz nach Dachau. Das war eine lange Strecke. Somit brauchten wir die ganze Nacht und den ganzen Tag. Bis nach München sind wir mit dem Zug gefahren. In München, da haben sie uns aussteigen machen, bekamen wir auch einmal etwas zu essen.
FRAGE: Waren Sie in einem Zug oder in einem Wagon?
ANTWORT: Nein, in einem Personenzug, aber mit kaputten Fenstern. Es war kalt.
FRAGE: Wie viele ward ihr in diesem Zug nach Dachau?
ANTWORT: Ich und mein Bruder und Haller Franz, unsere drei und drei Posten.
FRAGE: SS?
ANTWORT: Ja, und Polizei.
FRAGE: Dann kamen Sie auf den Münchner Bahnhof?
ANTWORT: Ja. Dann haben sie uns irgendwo in einem Restaurant ein Essen gegeben, auch die Wache hat gegessen. Dann haben sie uns mit einem Camion nach dem Lager Dachau gebracht. Das sind circa 30 Kilometer entfernt. Dort sind wir gegen Abend angekommen. Da haben sie uns am Tor abgegeben.
Dann mussten wir schon sofort hineinlaufen. Wir waren nicht KZ-ler, wohlgemerkt. Die KZ-ler hatten einen weißblau gestreiften Anzug und wir wenn wir einmal eine Kleidung erhielten, dann war es eine italienische Infanteriemondur. Mit dem haben sie uns Strafgefangene eingekleidet, weil wir die Truppe verlassen haben und fahnenflüchtig waren.
FRAGE: Haben Sie auch eine Matrikelnummer bekommen?
ANTWORT: Nein, die Strafgefangenen hatten keine Matrikelnummer. Das hatten nur die KZ-ler.
FRAGE: Auch kein Dreieck haben Sie bekommen?
ANTWORT: Nein, gar nichts.
FRAGE: In welchen Block wurden Sie gebracht?
ANTWORT: Das war eine extra Baracke für die Strafgefangenen. Das war ganz hinten drinnen. Da waren auch viele Zellen, eine Kaserne oder eine Baracke mit nur Zellen. Es war auch ein langer Gang. In eine dieser Zellen haben sie uns an diesem Abend hineingebracht.
Man hat uns zuerst die Kleidung abgenommen. Dann mussten wir nackt, vielleicht 30 Meter laufen. Dann sind wir in eine Stube gekommen wo sie uns eine Unterhose und ein Hemd gaben. Das war alles.
Dann haben sie uns später in den Bunkerbau gebracht, in einen Zellenbau und in eine Zelle gesperrt. Die Zelle war 2 Meter breit und 3 Meter lang circa. In dieser Zelle waren 23 Mann Neuzugänge eingesperrt.
FRAGE: Waren Sie zusammen mit den anderen drei…
ANTWORT: Ich, mein Bruder und Haller Franz und dann viele Fremde, 20 andere Fremde. 23 Mann waren in diese Zelle gesperrt vom Abend bis zum nächsten Abend. Zu essen haben sie uns einmal eine schlechte Suppe gegeben. Das war alles.
FRAGE: Waren nur Südtiroler in diesem Strafgefangenenblock?
ANTWORT: Nein. Da waren von allen Ländern Gefangene, Kroaten sehr viele, Italiener, Franzosen, Holländer, sogar Norweger, Ungarn.
FRAGE: Deutsche auch?
ANTWORT: Auch Deutsche, weil das war ein Strafgefangenenblock.
FRAGE: Dieser Block trug keine Nummer oder eine Ziffer?
ANTWORT: Das kann ich mich nicht erinnern. Das war eine extra Baracke. Die hatte 15 Stuben und in jeder Stube waren 24 Mann. Da war voll. Wenn voll war haben sie die Häftlinge abgeschoben und in ein Außenlager.
FRAGE: Konnten Sie von diesem Strafgefangenenblock das Krematorium sehen?
ANTWORT: Nein, das Krematorium nicht. Also das war separat. Wir waren abgeschlossen. Es war ein Hof. Wenn wir von diesem Hof hinauskamen, kamen wir auf die Hauptstraße. Draußen waren die KZ-Baracken überall herum. Irgendwo sind auch SS-Baracken gewesen und SS-Wache untergebracht. Auch wir wurden von der SS bewacht genau so wie die anderen.
Es ging uns nicht viel besser, vielleicht in manchen Tagen besser, in manchen schlechter. Uns hatte man genauso gestresst und hungern lassen. Wir hatten schrecklichen Hunger.
FRAGE: Wie lange blieben Sie im Zellenbau?
ANTWORT: Im Zellenbau waren wir einen Tag, bis zum nächsten Tag Abend. Dann gaben sie uns die italienische Infanteriemondur. Mit der haben sie uns eingekleidet. Das waren wir Strafgefangene. Jeder Strafgefangene hatte diese Mondur.
FRAGE: Wurden Sie auch rasiert am Kopf oder nicht?
ANTWORT: Nein. Sie hatten uns wohl geschoren, aber nicht kahl. In der Baracke sind ich und mein Bruder in die Stube eingeteilt worden. Dort mussten wir uns einbettlen, weil das war so üblich, dass man erst muss bitten, dass wir hier kommen dürfen, wo man uns doch zugeteilt hat.
Dann haben wir auch den Platz erhalten. Es waren drei Bridgen übereinander und so viele Betten, dass 24 Mann untergebracht waren. Es war noch ein kleiner Tisch dran. Das war eigentlich alles. Da war draußen ein breiter Gang, 3 Meter breit, von der letzten bis zur ersten Baracke, über alle 15 Stuben hinauf und da war auch noch der Waschraum irgendwo, kann ich mich nicht mehr genau erinnern, das Klosett.
Dann mussten wir am Morgen um fünf Uhr aufstehen zum Exerzieren, mussten auch hinausmarschieren durch das KZ-Lager. Dort stand sehr oft gut sichtbar auf dem Platz ein Mann, der geflohen war bei der Arbeit aus dem Lager und er trug eine Tafel: “Ich habe Pech gehabt.” oder “Ich war zu dumm.” oder irgend so ein Spruch. Er ist immer vom frühen Morgen bis zum späten Abend dort gestanden. Er bekam nichts zu essen. Er musste immer stehen.
Was sie damit getan haben, das wissen wir überhaupt nicht, haben sie sie erschossen oder wieder zurückgebracht zu ihren Kameraden. Das weiß ich nicht. Die meisten haben sie immer eingefangen, die stiften gegangen sind. Wir hätten auch einmal eine Gelegenheit gehabt abzuhauen, aber das waren Flausen, weil die haben sie immer erwischt. Das haben wir nicht getan.
Wir mussten 2-3 Kilometer hinausgehen. Draußen war ein kleiner Hügel. Dort waren Bäume drauf. Am Fuße des Hügels mussten wir einen Bunker machen, einen Luftschutzkeller, aber das war alles Sand. Da musste alles mit Blöcken ausgefüttert werden. Da war es nur “so” breit. Da mussten wir mit dem Schiebekarren das Material herausfahren, zickzack heraus. Das war eine schwierige Arbeit. Draußen wurde das neben dem Bahngleis irgendwo aufgeschüttet und getarnt damit sie das nicht sehen konnten. Das ging so nicht lange, weil die Kaserne war voll oder die Baracke.
Den Haller Franz haben sie nach wenigen Tagen nach Nürnberg geschickt und mich und meinen Bruder haben sie auch am 3. Dezember herausgesucht. Wir kamen dann noch Moosbach in Baden. Das Lager haben sie Goldfisch genannt. Dort sind wir gewesen vom 7. Dezember 1944. Dann mussten wir dort bleiben bis zum 27. März. Da wurde das ganze Lager geräumt. Sie haben uns fort.
Wir mussten zu Fuß nach Dachau zurückgehen. Vom 27. März bis zum 24. April sind wir wieder zu Fuß in Dachau angekommen. Das Essen war immer sehr schlecht und wir hungerten sehr und wir waren äußerst geschwächt.
FRAGE: War in Moosbach ein KZ oder eine Kaserne?
ANTWORT: Da waren mehrere Baracken für die Strafgefangenen.
FRAGE: Nur für Strafgefangene?
ANTWORT: Ja, nur für Strafgefangene.
FRAGE: Bei Ihrem Transport von Dachau nach Moosbach, waren Sie nur mit Ihrem Bruder oder mit anderen Strafgefangenen auch?
ANTWORT: Mit 300 / 400 Strafgefangenen. Da haben sie uns mit Viehwagon mit der Bahn nach Moosbach gebracht und dort auswagoniert, mussten auch eine halbe Stunde oder länger zu Fuß gehen bis wir zu diesen Baracken kam. Das Lager war erst im Aufbau.
Ich musste dann im Baustab U, das heißt Unterkunft, arbeiten, Wege einschottern, da war ein Gleis gelegt, und mussten Schotter holen in einer Lore. Wir mussten auch Beton mischen, Barackenböden herausgießen und auf den Baracken Dächer draufmachen.
Wenn das Meiste gemacht war, da kam auch in die Fabrik. Mein Bruder ist sofort in die Fabrik gekommen. Die Fabrik war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten da hinausgehen nach Neckarelz. Dort ging die Neckar und über die Neckar war eine Eisenbahnbrücke und auch ein Fußweg. Wir mussten jeden Tag über diese Brücke.
Auf der anderen Seite waren 150 Stufen hinauf. Ganz oben war noch eine steile Holzstiege. Da waren auch noch so 35 Stufen. Dann kamen wir hinauf. Da war der Eingang in die Fabrik. Die Fabrik war alle unterirdisch. Das war ein Hügel. In dieser Fabrik waren viele Hallen, große Hallen, alles im Felsen herausgehauen.
Wir brauchten eine Viertelstunde hinein bis wir auf den Arbeitsplatz kamen. Dann wurden wir verteilt. Jeder musste auf seinem Platz arbeiten gehen. Ich weiß nicht mehr wie viele Hallen waren, 10-11 oder mehr. Ich habe es auch nie gewusst, weil ich nie durch die ganze Halle der unterirdischen Fabrik gekommen bin.
FRAGE: Was wurde in dieser Fabrik produziert?
ANTWORT: Da haben sie Kriegsmaterial produziert. Ich glaube, Panzerteile, Flugzeugteile. Die ganzen Teile wurden nicht zusammengestellt dort, sondern sie kamen alle nach Berlin und dort wurden sie zusammengefügt und -gestellt und aufgebaut.
Mein Bruder war länger in der Fabrik und ich weniger lang, weil ich im Baustab U war. Das ging so bis Mitte Februar. Dann hat es angefangen etwas abzubröckeln. Nicht mehr die Flieger waren sehr lästig. Es wurde viel bombardiert und es gab sehr viel Fliegeralarm. Auch die Eisenbahnbrücke wurde getroffen. Die haben sie das erste Mal wieder so zur Not herstellen können. Doch sie wurde bald wieder bombardiert. Das zweite Mal haben sie sie nicht wiederherstellen können. Das war dann so gegen Ende Februar.
FRAGE: In den Stollen gab es nur Strafgefangene oder auch andere Häftlinge?
ANTWORT: Die Fabrik war separat. Sie war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten am Morgen eine Stunde und am Abend eine Stunde zurückgehen ins Lager. Die Fabrik, da waren Zivilpersonen, da waren auch italienische Gefangene so und auch anders Gefangene, Zivilpersonen, Deutsche. Da waren auch mehrere Nationen bei der Arbeit.
FRAGE: Hatten Sie einen Zivilmeister?
ANTWORT: Ja, ich hatte einen Zivilmeister als Vorarbeiter, mein Bruder auch. Da waren die SS. Die haben uns nur hingebracht und waren den ganzen Tag als Posten irgendwie da, aber die hatten nicht rein zu reden bei der Arbeit. Arbeit, da unterstanden wir einem Zivilmeisterchef und mussten mit dem arbeiten.
FRAGE: Haben Sie Unterschiede bemerkt bei der Disziplin, bei der Todesstrafe zwischen Dachau und Moosbach und Goldfisch?
ANTWORT: Ich muss unterscheiden. Goldfisch hieß das Lager. Das war ganz nahe an Moosbach. Moosbach war nur die Stadt. Unser Lager war nahe an Moosbach. Wir konnten einige Male, nicht oft, aber einige Male nach Moosbach um zu duschen, weil für ein bisschen Hygiene musste auch gesorgt werden.
Verlaust waren wir sowieso immer. Die ganzen Kleider waren voll Läuse und die plagten uns sehr.
FRAGE: In den Stollen, wie war die Disziplin? Gab es Todesfälle?
ANTWORT: Ich weiß das nicht. Ich glaube, es sind dort wenig Todesfälle gewesen. Wenn vielleicht irgendwann ein Unglück war oder tatsächlich ein Gefangener verhungert ist. Das ist schon möglich. Es gab auch KZ-Arbeiter dort, einige wenige, weil ich habe einmal mit einem KZ-ler geredet.
Da kam ein fremder SS-Unterscharführer und er hat mich gesehen. Dann hat er mich zusammen geschumpfen ob ich nicht weiß, dass man mit diesen Staatsfeinden Nr. 1 nicht sprechen darf. Ich habe ihm gesagt: “Nein, das weiß ich nicht.” Ich wusste es auch nicht. Dann sagt er: “Von wo kommen Sie?” Ich sage: “Von Südtirol.” “Was sind Sie von Beruf?” “Ich arbeite in der Landwirtschaft.” “Was?” hat er gesagt. “Von meinem Beruf auch noch?”
Dann hat er mich geohrfeigt eine ganze Zeit lang und beschumpfen. Schließlich bin ich schon einmal davon gekommen. Er hat mich entlassen. Ich habe Pech gehabt. Am nächsten Tag begegnete ich ihm wieder. Dann ging es von vorne los. “Sie da! Sie sind ja der Mann von gestern, kommen Sie her!” Dann hat er mich wieder geohrfeigt, auch eine längere Zeit. Dann habe ich es mir gemerkt. Ich habe mir gesagt: “Mann, dir begegne ich nie wieder.”
Ich bin ihm nie wieder begegnet, weil ich bin ihm schon früh genug ausgestellt, weil ich dachte mir: Ich lasse mich nicht hauen für nichts. Ich weiß mich nicht schuldig. Dann ist das auch ein fremder SS-Unterscharführer gewesen, der mit unserem Lager Goldfisch in Dachau nichts zu tun hatte. Den kannte ich nicht. Das war ein anderer. Der hat vielleicht wohl mit KZ-ler zu tun, aber nicht mit uns Strafgefangenen.
FRAGE: Wie viele Strafgefangene ward ihr im Lager Moosbach? Hunderte oder tausende?
ANTWORT: Da waren mehrer hunderte, 500 / 600. Ich weiß das nicht genau, so herum, zwischen 300 / 600 / 700 herum, Strafgefangene. Wir waren Gefangene wegen Fahnenflucht, andere wegen Diebstahl, andere wegen Totschlag, andere wegen Frauengeschichten. Die hatten alle andere Delikte begangen.
FRAGE: Haben Sie wirklich ein Delikt begangen?
ANTWORT: Wir haben kein anderes Delikt begangen als, dass wir den Deutschen nicht gedient haben, den Soldaten.
FRAGE: War das wirklich ein Delikt?
ANTWORT: In ihren Augen schon. Wir durften die Truppe nicht verlassen. Wir haben sie verlassen. Wir sind fahnenflüchtig geworden, weil wir mussten uns stellen, weil sie sonst die Eltern ins Lager gebracht hätten. Der Vater hat gesagt: “Bevor wir alle ins Lager gehen, müsst ihr euch stellen. Ihr seid nur zwei und wir sind mehrere.”
FRAGE: Noch eine Minute zurück zu Ihrer Geschichte. Danach kommen Sie wieder nach Dachau.
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Und dann?
ANTWORT: Am 24. April sind wir in Dachau zurückgekommen. Dann war auch alles nicht mehr in Ordnung, weil der Krieg ja zu Ende ging. Es gab kaum mehr zu essen. Man bekam sehr wohl Kaffee, aber zu essen sehr wenig. Das ging bis zum 29. April. Am 28. April haben sie uns noch ausgemustert. Die Strafgefangenen hätten sollen Kriegsdienst leisten. Sie bekamen eine Bewährung an die Front zu gehen oder auch nicht.
Ich und mein Bruder waren ihnen zu schlecht. Uns haben sie nicht genommen. Wir hätten uns dann freiwillig melden können. Das haben wir nicht. Wir haben uns nicht gemeldet. Also sind wir im Lager geblieben. Am 28. haben sie uns die im November abgenommenen Kleider zurückgegeben, auch das Geld, nicht mehr in Lire, sondern in Deutsche Mark. Wir wussten nichts Gescheiteres zu tun als unsere Zivilkleidung anzuziehen.
Heute würde ich das nicht mehr tun, weil das ist uns ziemlich zum Verhängnis geworden. Ich würde mir heute eine KZ-Kleidung besorgen. Das wäre besser gewesen, aber wir waren Kinder und wir wussten nicht was Krieg ist und was da kommt. Am 29. April sind die Amerikaner gekommen. Dann haben uns die Amerikaner gefangen genommen mit den deutschen SS und allen wie sie waren. Sie haben uns einfach mit denen zusammen gefangen, weil wir hatten unsere Zivilkleidung an.
Wir haben ihnen schon gesagt wir sind im KZ gefangen gewesen. Ja, ob wir einmal eingerückt sind? Ja, vier Tage. Ja, dann müssen sie uns behalten. Sie haben uns hinaus mit den SS-Männern und mit den ganzen Gefangenen, die sie hatten. Plötzlich waren wir hinter einer Mauer, eine Steinmauer, die war vielleicht 30-40-50 Meter lang, etwa 3 Meter hoch oder auch mehr.
Draußen hatten sie zwei Maschinengewehre stehen, aber keinen Mann dabei und die ganzen Posten, die uns dort hingebracht hatten. Dann mussten wir uns an die Mauer stellen mit dem Gesicht an die Mauer, mit den Händen hoch. Sie wollten uns da erschießen, ganz augenscheinlich. Doch dann kam ein höherer amerikanischer Offizier noch rechtzeitig. Er hat dann alles abgeblasen.
Dann haben wir wieder können in die Reihe gehen. Dann haben sie uns dort weg und hinausgebracht nach Dachau in ein Staatsgebäude wahrscheinlich. Das war ein großes Haus mit einem großen Platz, einen Stock unten und einen oben. Da haben sie die Gefangenen, die sie hatten, hineingebracht.
Wir waren auch da. Da war vielleicht innerhalb nur zweit Tagen das alles voll, ja, schon nach einem Tag. Es sind vielleicht untenauf 300 Gefangene gewesen und obenauf auch 300 Gefangene. Nach zwei Tagen mussten wir gehen nach Fürstenfeldbruck hinaus. Dort hatten sie ein nagelneues Gefangenenlager bereitet. Auf allen vier Ecken da stand ein Turm mit Beleuchtung und mit amerikanischen Posten. Sie haben zu sorgen gehabt, dass die Gefangenen nicht abhauen.
Man hatte einen weißen Streifen gezogen, viereckig. Dort durfte niemand hinaus. Wer da hinausgetreten ist, den haben sie unweigerlich erschossen. Jeden Morgen gab es dort Tote, weil viele Gefangene glaubten sie kommen fort, sie können sich fortschleichen. Es waren auch Zwischenposten, weil das war vielleicht 150 m x 150 m eingekreist mit diesem weißen Band. Dort haben sie dauernd neue Gefangene gebracht. Das war am ersten Mai. Dann hat es geschneit und geregnet. Es war kühl. Wir froren.
Die Gefangenen haben sich dort Löcher herausgemacht mit den Händen oder mit was immer. Wir haben meistens nur die Hände gehabt. Es war dies ein Acker. Dort waren gerade Kartoffel gesetzt. Hunger hatten wir sehr. Mit Löchermachen haben wir entdeckt, dass Kartoffeln angepflanzt sind und die waren erst frisch da. Die haben wir alle herausgegraben. Das wussten die Gefangenen sofort. In einem Tag sind die alle herausgegraben gewesen. Die haben wir uns gebraten oder gekocht und gegessen, weil es war auch ein bisschen Holz herum.
Die Amerikaner haben uns acht Tage überhaupt nichts zu essen gegeben. Wir hatten großen Hunger. Ich und mein Bruder, wir waren nur wir zwei, auch ein gewisser Thaler Franz aus Sarnthein, aus Reinswald, der war sehr behindert, er hinkte sehr. Er war trostlos und verzweifelt. Ich habe ihm oft gesagt: “Franz, jetzt wo der Krieg zu Ende ist, wo wir aus dem Lager heraus sind, darfst du nicht verzweifelt, wir werden schon nach Hause kommen.” Er war sehr skeptisch, weil er war krank.
Dann haben uns die Amerikaner nach acht Tagen zwei Dosen gegeben, eine mit Kekse und ein paar Süßigkeiten und eine mit einem Essen, Nudeln und Bohnen und so. Das war gut, aber viel zu wenig. Wir haben wohl im Lager gebettelt. Doch da haben wir kaum etwas bekommen, weil ja jeder das bisschen, das er hatte, nicht hergeben wollte. Es kamen täglich Neuzugänge, neue Gefangene. Da kam auch Haller Franz und sein Bruder. Dann sind wir zusammen gegangen.
Sie haben geklaut. Das war eigentlich die einzige Überlebenschance für uns, sonst wären wir verhungert. Wir wären es ja schon so fast.
Wir haben dann geklaut was wir gerade brauchten. Doch dann haben sie uns erwischt. Dann haben sie das im ganzen Lager veröffentlicht, dass wir Diebe sind. Da kamen die Amerikaner genau an dem Tag mit großen Camion um Gefangene aus dem Lager anderswo hinzubringen. Wir haben uns sofort gemeldet und sind mit 12 Camion weiter gefahren.
In jeden Camion haben sie zumindest 50 Mann hineingepfercht. Sie sind gefahren wie die Neger, im Tempo und alle kurz hintereinander mit drei-vier Meter Abstand, großer Geschwindigkeit. Dann kamen wir in eine Stadt. Dort war irgendein Hindernis, vielleicht an einer Kreuzung. Der erste hat schnell abgestoppt. Alle anderen haben sofort in kürzester Strecke abgestoppt gehabt. Sie sind nicht aufeinander aufgefahren. Als es wieder weiter ging, sind wir weiter gefahren nach Ulm.
Dort sind wir ein oder zwei Tage gewesen, auch ohne Essen, aber bevor wir in Fürstenfeldbruck fort sind mit den Camion hat das weiße Kreuz Deutschlands Essen ausgeteilt und wir haben gerade soviel zusammengebracht, dass wir auch tatsächlich einen Tag leben konnten. Dann haben sie uns von Ulm nach Heilbronn in ein großes Gefangenenlager dort. Da waren, so sagte man, mehr als eine Million Gefangene in vielen kleinen Abteilungen. In so eine Abteilung kamen auch wir.
Die Amerikaner waren sonst sehr gutmütig und haben uns nie gestresst, aber zu essen gab es nichts, fast nichts. Das ging mindestens drei Wochen so, wenn nicht länger. Ich weiß es nicht mehr genau, von Mitte Mai herum bis ein Stück in den Juni hinein, vielleicht bis Mitte Juni. Einmal am Tag haben wir zu essen bekommen, eine dünne Summe zwischen einem halben und einem dreiviertel Liter. Das war alles am Anfang.
Später gab es dann einen deutschen Kommis zu 18 Mann am Anfang, dann zu 14, drauf nur so ein kleines Schnittchen Brot. Das reichte einfach nicht aus. Da waren wir so schwach und so ausgehungert. Wir haben von den 24 Stunden so 16-17 Stunden geschlafen wie die kleinen Kinder. Als wir aufstehen wollten und auch mussten zum Essen holen oder was immer, irgendwas wurde verlangt von uns, von den Gefangenen, sie haben uns gewiss in Ruhe gelassen soviel sie konnten, aber irgendetwas war eben manchmal.
Ganz Deutschland hatte nichts mehr zu essen. Zuerst kamen die amerikanischen Soldaten, die haben alles bekommen wie immer. Dann kamen die Lazarette und die Krankenlager. Dann kam die Zivilbevölkerung und dann kamen erst die Gefangenen. Für uns ist nicht viel übrig gewesen.
FRAGE: Wie lange blieben Sie in Heilbronn?
ANTWORT: Das muss so drei bis vier Wochen gegangen sein. Ich weiß es nicht mehr genau. Es ist zu lange her. Dann sind wir von dort weiter gekommen. Sie haben uns auf die Bahn gebracht, einen ganzen Zug voll, mehrere tausend Mann. Dann sind sie mit uns durch Deutschland hinaus, nach Frankreich gefahren. In Frankreich, so in die Nähe von Paris, nach Soissons.
Dann ging dort vom Bahnhof ein bisschen ein steiler Weg hinauf auf eine Anhöhe. Wir hatten dort sicher eine halbe Stunde oder mehr Fußweg. Wir waren auch kaum im Stande dort hinaufzugehen. Wir waren einfach am Ende unserer Kräfte, weil in Heilbronn wenn wir aufstehen wollten, sind wir immer hinunter gefallen. Es wurde alles grau und das Gedächtnis hat uns verlassen für kurze Zeit. Wir sind hinunter gefallen, dann sind wir wieder zum Bewusstsein gekommen.
Dann sind wir wieder aufgestanden, immer sehr langsam, aber es reichte einfach nicht. Wir waren so schwach und so herunter gekommen, dass es nicht ging. Auch ein zweites Mal sind wir herunter gefallen, nicht immer, aber oft. Erst das dritte Mal ist es gelungen wirklich aufstehen zu können und gehen zu können und das zu tun was wir mussten, unser Essen holen und so.
Sobald wir das alles wieder hatten, gingen wir wieder in unser Zelt um zu schlafen, schlafen und schlafen.
FRAGE: In Frankreich wurde Ihre Lage besser?
ANTWORT: In Frankreich wurde die Lage besser, weil da wussten sie schon, es waren unsere sieben-acht aus Dachau, Gefangene. Das wusste das ganze Lager. Die Lagerführung, es waren alles Gefangene natürlich, Österreicher und Italiener, die haben uns nach Nationen sortiert. In unserem Lager waren nur Österreicher und Italiener mit italienischer Staatsbürgerschaft, weil die hatten wir immer gehabt. Wir sind italienische Staatsbürger gewesen und geblieben.
Dort sind wir gewesen. Uns haben sie immer dann, wo sie das Essen ausgaben, in der Küche, es war nicht die Küche, gekocht haben sie draußen, aber sie haben das ins Lager gebracht, zur Obrigkeit, dort wurde es verteilt, weil sie wussten, dass wir in Dachau waren, haben sie stets um ein-zwei Liter Suppe mehr gegeben und wenn noch eine übrig war noch den Rest, einen Nachschlag. So haben wir am Tag drei, vier, auch fünf Liter Suppe erhalten. Die Suppe war nicht gerade schlecht. Man konnte sie schon gebrauchen.
Das war eine passende Kost zum Übergang von unserer Heruntergekommenheit, von unserer Unterernährung. Sie war nicht zu fett oder zu üppig. So haben wir uns erholen können. Wir haben annähernd genügend zu essen gehabt. Wir bekamen auch dort ein amerikanisches Brot, die amerikanischen Militärkommiss oder wie man die hieß, die Brote. Es waren weiße Brote. Sie mussten in vier Teile geteilt werden und zu vier Mann bekamen wir ein solches Brot.
FRAGE: Das in Frankreich?
ANTWORT: In Frankreich.
FRAGE: Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: In diesem Lager ist es uns besser gegangen und dort sind wir gewesen bis zum 17. August. Einige Tage vorher, so vielleicht zwischen 10. und 12. August kam ein italienischer colonnello. Er hat uns getröstet und hat gesagt wir kommen nach Hause. Er ist deswegen hier. Er wusste nicht, dass hier italienische Gefangene waren, wir sollen entschuldigen, sonst wäre er früher gekommen.
Er hat dann alles in die Wege geleitet. Die Kranken haben sie schon zwei Tage später fort. Dann haben sie die Gefangenen bis zum Buchstaben H genommen, weil ja viele waren und dann zuletzt vom H bis Z. Ich mit “P”, wir waren bei den Letzten. Wir sind am 17. August aus diesem Lager herausgekommen und wieder den Weg hinunter auf den Bahnhof, wo wir herauf waren.
Man hat uns wieder einwagoniert, immer mit den amerikanischen Posten. Das war gut, weil die Franzosen waren sehr erpicht auf die Gefangenen. Sie glaubten wir waren Deutsche. Sie sind dann auch mit Steinen gekommen, haben die Wagons gesteinigt, aber die Amerikaner haben sich schon gewusst fernzuhalten. Die Amerikaner haben uns begleitet bis an die Schweizer Grenze. Dann sind die Amerikaner verschwunden. Dann haben sie uns allein gelassen. Endlich waren wir freie Menschen, so um den 20. August herum, 19.
Dort hatten wir eineinhalb Tage Aufenthalt. Dann ging es nach Italien durch den Gotthardtunnel, nach Domodossola, von Domodossola nach Novara. In Novara haben sie uns einen Entlassungsschein gegeben. Dann haben wir können, bis Mailand ist die Gruppe noch zusammen gewesen, von Mailand bis Verona sind noch einige wenige gewesen und dann sind nicht mehr viele gewesen. Dann sind wir auf uns alleingestellt gewesen und mussten sehen wie wir nach Hause kamen.
Wir sind am 23. August nach Hause gekommen.
FRAGE: Endlich am Ende?
ANTWORT: Endlich am Ende. Ich hatte einen Bruder, der älter war. Er war 1922 geboren. Er war beim italienischen Heer in Italien unten stationiert. Wir hätten sollen gegen unseren Bruder kämpfen. Das haben wir nicht getan und auch nie wollen. Der Bruder kam gerade auch in Urlaub als wir nach Hause kamen. Wir haben uns bei einer unserer Schwestern getroffen. Er sagte: “Was? Ihr seid meine Brüder? So dünn? So dürr? So mager? Ihr seid wie eine Laterne, man kann durch euch durchsehen.”
Wir haben ihm gesagt: “Da hättest du uns müssen vor zwei Monaten sehen oder drei. Dann könntest du das sagen, aber jetzt nicht mehr.” Wir hatten uns ziemlich erholt. So sind wir nach Hause gekommen am 23. August 1945.
FRAGE: Noch eine kurze Frage? Können Sie das vergessen oder möchten Sie das vergessen oder wollen Sie das nicht vergessen?
ANTWORT: Ich habe vieles vergessen, aber ich kann unmöglich alles vergessen. Das ist ganz ausgeschlossen. Das ist ein Lebensstück und ein böses Lebensstück. Die Deutschen haben uns sehr gequält und gepeinigt und gestresst und Hunger leiden lassen. Schlafen konnten wir wenig, weil um zehn Uhr durften wir schlafen gehen, aber um elf Uhr-zwölf Uhr war Fliegeralarm, der dauerte durchwegs zwei Stunden. Das war äußerst selten, dass kein Fliegeralarm war. Am Anfang im Dezember noch, wenn aber Februar wurde, dann war fast jede Nacht zweimal Fliegeralarm. Wir mussten immer in den Bunker gehen und im Bunker konnte niemand schlafen. Dann wissen Sie wie viele Stunden uns noch blieben zum Schlafen, wenn wir vier Stunden mussten im Bunker sein, um zehn Uhr abends ins Bett kamen und fünf Uhr morgens aufstehen mussten. Dann gab es Schlaf nicht mehr viel.

Thaler Franz

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franz Thaler, sono nato il 6 marzo 1925. Negli anni Trenta, dal 1931 al 1939, ho frequentato la scuola italiana. Poi quando avevo 14 anni. Mio padre… Ci sono state le opzioni. Mio padre ha scelto di rimanere, ha scelto l’Italia. Dunque io ero italiano.
E poi la gente un pochino… “Tu sei un italiano!” (Walscher!, dispregiativo). Sono stato messo in disparte. Erano tempi brutti. Erano pochi quelli che avevano scelto di restare e sono stati un poco angariati. Dicevano: “L’italiano!” (“Der Walsche!”)
Poi è arrivato un maestro tedesco che doveva insegnare il tedesco ai ragazzi e ai bambini. Una domenica siamo andati tutti a scuola. Il maestro si scriveva i nomi e quando è stato il mio turno anch’io volevo dirgli il mio nome. Però sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno urlato “Lui è un Walscher!”
Allora questo maestro mi ha guardato per un po’ e poi mi ha detto che dovevo andarmene, lui voleva insegnare solo ai bambini tedeschi. Questo è stato, per dire, il primo colpo. È andata avanti così. Avevo dei bravi compagni. Se qualche volta non andavamo d’accordo allora mi dicevano “maiale italiano!”.

D: In che paese abitava Lei all’epoca?

R: A Valdurna. È una frazione di Sarentino, proprio in fondo alla valle. Poi vennero tempi in cui molti dei tedeschi dovettero arruolarsi, anche degli italiani. Poi presto si cominciò a sentire che dei soldati erano caduti in guerra. E allora il grande entusiasmo per la Germania cominciò a scemare. C’erano quelli che imprecavano contro Hitler e che prima avevano gridato “Heil Hitler!”. Avevano visto che non andava bene.
Nel 1943 ci fu la capitolazione di Mussolini. Da lì in poi Hitler ha avuto tutto il potere su di noi. Si sono gettati su di noi. Abbiamo dovuto fare la visita di leva, tutti insieme, gente dai 16 ai 50 anni. Ovviamente la maggior parte era abile all’arruolamento. E anch’io lo ero.
Poi ho pensato che presto avrei dovuto arruolarmi. Sono scappato. Poi un accanito nazista del nostro paese ha detto a mio padre: “Se il Franz non si presenta, verranno messi in carcere suo padre e sua madre”. Allora mio padre mi ha cercato. Sapeva più o meno dove mi nascondevo. Stavo in montagna, non potevo farmi vedere da nessuno.
Quando volevo prendere qualcosa da mangiare dovevo muovermi di notte, senza luce. Avevo un fratello dall’altra parte (della montagna), andavo da lui. Mi dava burro e formaggio, lassù faceva il malgaro … la notte potevo andare a prendere qualcosa. C’erano anche un paio di altri compagni, da cui potevo andare.
Così la vita è andata avanti. Era estate. Mi sembrava di essere un animale selvatico. Appena sentivo un rumore mi spaventavo molto, volevo scappare
Un giorno passavo per il bosco, ho visto due uomini dietro un albero e volevo già scappare. Poi uno mi ha chiamato: “Fermati Franz! Non ti facciamo nulla!” Allora ho subito riconosciuto la voce. Era un collega di Vilandro. Ci conoscevamo da tanto tempo. Mi sono fermato, mi sono avvicinato un po’ a loro, abbiamo parlato e poi loro sono andati per la loro strada. Non è successo nulla..
Dovevo spostare continuamente il campo. Una volta sono stato forse tre settimane in una distilleria di pino mugo, ma me ne sono dovuto andare. Sono stato in un fienile, forse per due-tre settimane, e poi di nuovo in un altro fienile. Avevo tre fienili e la distilleria. Lì trascorrevo le notti.
Non era bello, tuttavia più bello di quello che è venuto dopo. Poi mio padre mi ha cercato e mi ha pregato: “Ti prego Franz, consegnati, altrimenti rinchiudono me e la mamma”. E tu cosa fai, allora? Volevo risparmiare un dolore ai miei genitori e mi sono consegnato. Sembrava che se mi fossi consegnato non sarebbe successo niente a me e ai miei genitori.
Io non ci credevo, ma la sera sono andato a casa. Poi è arrivato il comandante del posto (Ortsleiter), il nazista, e ha detto: “È bello, Franz, che tu adesso ti arruoli. Aiuti a combattere per Hitler.” Il giorno dopo sarei dovuto andare a Bolzano. Poi hanno chiesto un po’ e quindi mi hanno dato un foglio, una convocazione a Silandro per il servizio militare.
Sono arrivato là. C’erano molti conoscenti delle mie parti. “Come mai sei venuto qui?” Ho raccontato loro come era andata. Ho fatto due mesi di addestramento.

D: Quando sono stati questi due mesi?

R: Dal 21 settembre fino a due mesi dopo, in novembre. Terminato l’addestramento gli altri sono stati mandati giù in Italia, a Belluno ed io sono stato messo in prigione. Sono dovuto andare dal comandante del battaglione e lui mi ha letto una lettera: “Dovevi arruolarti a giugno e sei rimasto a gironzolare in montagna”. Mi ha chiesto se era vero. Ho pensato che ormai non potevo più negare.
Poi mi ha detto: “Domani andrai a Bolzano al Tribunale di Guerra!”. Il sergente (Wachtmeister) della mia compagnia mi ha portato a Bolzano. Sono entrato in una grande sala. C’era un tavolo. Dietro al tavolo sedevano otto/dieci SS. Erano i giudici. Uno di loro ha letto un foglio, il codice penale: “Per coloro che rifiutano il servizio militare c’è la pena di morte”. Ho pensato “In nome di Dio, qui mi fucilano.”
Le cose sono andate in modo diverso. Hanno guardato un po’. Pensavano che sarei svenuto, ma non l’ho fatto. Ho sorriso loro. Poi un SS ha preso un altro foglio e ha letto la sentenza: “Poiché l’imputato è minorenne”, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni ed io ne avevo solo diciannove, “e poiché si è presentato volontariamente, egli non viene condannato a morte, ma a 10 anni nel campo di concentramento di Dachau“.
In un primo momento ho pensato che mi fosse andata di nuovo bene, visto che non venivo fucilato. La parola Dachau non mi diceva nulla, non l’avevo mai sentita prima.
Sono rimasto altre tre settimane in prigione a Silandro. Quindi mi hanno portato a Dachau. Già il viaggio è stato un po’ duro, in viaggio verso Dachau, ho visto e vissuto tante cose. Quando siamo arrivati a Dachau un gruppo di lavoratori usciva proprio in quel momento dal portone, tutti magri, pallidi. Ho pensato a cosa si dovesse vivere in quel posto per avere quell’aspetto. L’ho capito più tardi.
Mi sono dovuto togliere i vestiti. Mi hanno chiesto perché ero lì, qual era la mia pena e la mia religione. Io ho detto: “Sono cattolico!” L’uomo delle SS allora mi ha risposto: “Qui da noi imparerà a pregare in modo diverso”.
Sono stato fotografato da tutti i lati. Ho ricevuto una camicia logora e un paio di mutande. Poi un SS mi ha portato nel bunker. È un edificio lungo, a destra e sinistra lungo il corridoio si aprono le celle, l’SS ha aperto una porta nel mezzo, mi ha dato uno spintone e buttato dentro. Mi sono guardato intorno. In alto c’era una finestra a bilico. Era stata verniciata di bianco, poi un castello, due letti. Non c’erano letti, solo… Non c’erano coperte, non c’era proprio niente.
Volevo sedermi. Era pressoché impossibile. Mi sono seduto sul coperchio del gabinetto e ho pensato: “Cosa mi succederà adesso?”. Erano già un paio di giorni che non mangiavo nulla. Mi sembrava che mi succedesse quello che accadeva alle bestie dei contadini, forse ai maiali, anche i maiali non venivano più nutriti al mattino. Mi sembrava di essere così: Oggi mi affamano e domani mi fanno fuori. Poi ho sentito dei passi nel corridoio. Ho sentito che veniva aperta la cella accanto alla mia e ho sentito urlare: “Fuori subito”. Ho sentito un uomo che usciva in corridoio. Poi è stata aperto la mia cella: “Fuori subito!”. Abbiamo dovuto pulire il lungo corridoio. All’ingresso c’era un lavatoio. Dovevamo prendere le pezze, un secchio con l’acqua, la paletta e la scopa. Ho pensato che la cosa più semplice era lavorare con la scopa e la paletta.
Allora l’uomo delle SS mi ha subito urlato addosso: “Fannullone! Imparerà con cosa si inizia!”, perché si doveva sempre iniziare dalle cose più pesanti, poi si passava a quelle più leggere. Quando vedevano che tu iniziavi dalle cose più facili, per loro eri il fannullone che voleva cavarsela.

Mi ha preso a ceffoni. Io avevo la paletta e la scopa, l’altro un secchio con l’acqua e le pezze. Mi sono dovuto accucciare e ho dovuto dare la paletta e la scopa all’altro. Poi mi ha dato una scopa. Accucciato ho dovuto saltellare due volte su e giù per tutto il corridoio. Alla fine ero stremato. E poi pulire in fretta il corridoio. Tutto doveva avvenire a passo di corsa.
Finito il lavoro abbiamo riportato indietro le cose e siamo rientrati nelle celle. Ho avuto tempo di pensare a quello che avevo fatto di sbagliato. È andata avanti così. Per cena mi hanno versato in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa di cavolo. Sulla porta della cella c’era uno sportello che si poteva aprire e formava una specie di tavolino. Lì bisognava appoggiare la ciotola che veniva riempita. Ho mangiato quello che mi hanno dato, ma era troppo poco. Col dito ho pulito bene tutto.
Era ora di dormire. Non sapevo dove mettermi. Sulla cosa di legno, che era lunga ma nel mezzo aveva una trave, non ci si poteva quasi sdraiare. Quando hanno spento la luce mi sono messo sul pavimento. C’era un termosifone con due elementi ma sicuramente non scaldava. Io gelavo.
Al mattino presto ho sentivo che veniva distribuito il caffè. Si è aperto lo sportello, ci ho messo la ciotola e ho pensato: Mi daranno ben del pane. Sono rimasto così. Allora l’altro mi ha chiesto urlando che cosa aspettavo, mica il pane, vero? Io ho detto “Si.” “No, non c’è pane”. Allora ho bevuto il caffè, era solo acqua sporca. Sono rimasto tre giorni nella cella.
Una volta, finito di pulire il corridoio, dovevamo consegnare le cose e abbiamo sentito urla provenire dal bunker. Poi si è aperta la porta e sono entrate 8-10 persone, rasate a zero, in camicia e mutande. Abbiamo sentito: “Mamma mia!” e abbiamo capito che erano italiani. Li hanno rinchiusi tutti insieme nella stessa cella.
E di nuovo si doveva pulire il corridoio. Sono passati davanti alla mia cella e hanno aperto quella dopo. E l’SS ha urlato “Due uomini subito fuori!”, ma loro non capivano che cosa aveva detto. Così l’SS è entrato nella cella, ha buttato due ragazzi in corridoio e li ha picchiati duramente. Loro hanno dovuto pulire il corridoio.
Da quel giorno la pulizia del corridoio la facevano gli italiani. Dopo tre giorni ho ricevuto dei vestiti. Non era un abito a righe, era un’uniforme dell’esercito italiano. Mi hanno messo in una baracca. C’erano quattro/cinque diversi …Come si dice? Francesi, svizzeri, russi, appunto diversi.
È arrivato il Natale. Abbiamo detto, forse potevamo suonare qualcosa per Natale. Abbiamo persino fatto un alberello con appesi un paio di pezzi di carta colorata.

D: Ha ricevuto un numero di matricola a Dachau?

R: No. Eravamo un pochino separati dal campo principale. Per noi era previsto che andassimo in un campo esterno e avevamo “Frontbewährung”, cioè se avevano bisogno di noi potevano mandarci al fronte. Noi non abbiamo ricevuto l’abito a righe.

D: La sua baracca aveva un numero?

R: No, era separata, ma annessa all’edificio del bunker

D: Accanto al grande muro del campo di concentramento?

R: Ben dentro, dietro il muro. Ho visto come era fatta la recinzione. Prima c’era un fossato con l’acqua dentro. Poi c’era il filo spinato, in rotoli. Poi c’era anche il muro, con filo spinato sulla sommità. Tutto aveva la corrente ad alta tensione, perché non si poteva scappare, non c’era possibilità.
Ci hanno detto che il 27 saremmo andati in un campo esterno, a Hersbruck. Al mattino presto ci hanno detto “Preparate tutto per il trasporto“. Non avevamo tanto da preparare: la ciotola e il cucchiaio e una coperta, no, nessuna coperta. Poi ci hanno stipati in un carro bestiame, hanno chiuso le porte. Sulla parte alta c’era una finestrella con una grata.
Siamo partiti. Quando c’era l’allarme aereo il treno si fermava. In qualche modo ci mettevano al riparo. Stavamo fermi anche una mezza giornata, una mezza nottata o una notte intera. Poi si proseguiva. Penso che ci abbiamo messo due giorni ed una notte per arrivare a Hersbruck. Siamo arrivati di sera. Nevicava.
Le SS ci stavano aspettando. Siamo scesi dal treno. In fila per tre ci siamo avviati per un sentiero ripido e dovevamo camminare svelti, le SS ci davano addosso con i manganelli ed i calci dei fucili. Abbiamo camminato un bel po’ sotto la pioggia e la neve. Eravamo stremati. La notte non avevamo dormito e non avevamo mangiato. Ci avevano dato un pochino di rancio, che ognuno di noi aveva divorato subito. Abbiamo continuato la salita. Abbiamo visto delle luci. Allora era lì che saremmo andati? E invece no, siamo passati oltre. Poi siamo arrivati in un avvallamento. C’era un grande edificio. C’era un torrente. Abbiamo attraversato un ponte. Poi hanno distribuito delle fettine di pane che dovevano essere suddivise tra quattro persone: dovevamo stare attenti a dove andava l’uomo che aveva ricevuto il pane, altrimenti saremmo rimasti senza… Siamo arrivati.
Nel grande edificio, mi hanno mandato al secondo piano. Erano già passate le tre di notte. Hanno acceso le luci. C’erano dei tavolati a tre piani. Con la luce qualcuno ha guardato giù dalle cuccette e ha urlato. “Franz, sei qui anche tu adesso?” Con lui ero stato in prigione a Silandro. Mi ha fatto piacere trovare persone conosciute.
Mi hanno assegnato un giaciglio e mi sono potuto sdraiare. C’erano un pagliericcio sottilissimo ed una coperta. Ho preso la coperta, mi sono sdraiato, mi sono infilato sotto la coperta, mi sono tolto i vestiti e li ho messi sopra la coperta. Ero così stanco. Mi sono addormentato subito.
Al mattino ci svegliavano i fischietti. Tutti fuori in fretta dalle cuccette per andare a lavarsi. Bisognava togliersi la camicia e scendere al lavatoio al piano di sotto. Era andato tutto bene. Il giorno dopo lo stesso. C’era un italiano, era più giovane di me di un anno, che nella fretta dimenticò di togliersi la camicia. Arrivò al lavatoio con la camicia addosso. Le SS non aspettavano altro che arrivasse qualcuno con la camicia addosso. L’italiano ha dovuto spogliarsi completamente. Con un tubo gli hanno gettato addosso acqua gelata ed un altro con uno spazzolone lo ha spazzolato fino a che non era tutto rosso di sangue. Non lo abbiamo più rivisto. Abbiamo pensato che fosse morto …
Il giorno dopo ancora una visita. Ho dovuto raccontare perché ero lì e per quanto tempo. Poi siamo stati pesati. Pesavo ancora 45 chili. Prima di costituirmi ne pesavo 69.

D: Ho capito bene? Lei è stato pesato a Hersbruck?

R: Si.

D: Dalle SS?

R: Si. No, c’erano anche dei prigionieri. Ho pensato: Più giù di così non può andare. E invece è andato ancora tanto più giù. Per il lavoro pesante, il cibo scadente, al mattino l’acqua sporca senza pane, senza zucchero, a mezzogiorno la zuppa di cavolo o forse una volta la zuppa di piselli o se tutto era andato davvero bene, a Pasqua abbiamo ricevuto due patate lessate, se erano piccole tre patate, se erano grandi due. Non si toglieva la buccia. Si riceveva anche un cucchiaio. Si mangiava tutto insieme. Questo era il cibo buono.
Oggi non riesco più a immaginarmi com’era con quel cibo, quel lavoro. Si faceva il possibile per sopravvivere…
Ero contento che ci fossero tanti italiani con me, italiani, croati, la maggior parte erano però italiani, ho imparato un po’ di italiano. Il mio miglior compagno era uno che veniva dal Trentino. Si chiamava Filzi, credo, Giovanni Filzi.
Più di tanto non potevamo parlare durante il lavoro. Solo quando tornavamo alle baracche avevamo forse una mezz’ora libera. Allora potevamo parlare. Di cosa volete che si parlasse? Di cosa sarebbe successo? Si parlava del cibo. Era sempre il primo pensiero. Avevamo tutti una tale fame.

D: Che lavoro faceva?

R: Ero alla cava.

D: Andava a piedi alla cava?

R: A piedi. Fino alla cava ci si metteva circa 10 minuti. Abbiamo costruito noi un Lager vicino. Era mezzo finito quando siamo arrivati. Dovevamo sistemare le pietre.
Un prigioniero francese con una slitta ed un cavallo trasportava le pietre al Lager. Era un lavoro tremendo senza guanti. Le pietre coperte di neve… Era duro. Avevamo pessime scarpe, senza calze. Stavamo tutto il giorno nella neve.
Era tremendo alzarsi al mattino e infilare i piedi nudi nelle scarpe gelate. Non era piacevole. Così è andata avanti.
Poi mi è venuta la scabbia. È una malattia che comincia tra le dita. A me è venuta su tutto il corpo, ero tutto ulcerato. Se si faceva pressione, dalle ulcerazioni uscivano sangue e pus. Stavo sempre peggio, e la scabbia è una malattia contagiosa. I miei migliori compagni mi evitavano. Questo non l’ho più sopportato.
Ho detto al kapò: “Per favore, domani mi dia malato.” Non ci si dava malati volentieri, perché se si era malati troppo poco la si sarebbe pagata cara. Io non ce la facevo più. C’era anche un italiano, quasi con la stessa malattia. Il giorno dopo ci siamo presentati. Dietro la scrivania sedeva un SS. Ci siamo spogliati. Mi ha guardato. Cosa c’era che non andava? “Guardi lei stesso!”
Allora mi ha guardato da capo a piedi: “Porco! Perché non l’ha detto prima?”. E così sono stato mandato via. Poi si è presentato il prossimo. Gli ha subito gridato addosso. Ci hanno cosparso tutto il corpo con un liquido. Sembrava olio da cucina.
Poi dovevamo tornare al lavoro. Dopo una settimana eravamo quasi guariti. Ho trovato di nuovo il coraggio per vivere ancora. Si andava avanti così. Un mattino avevo brividi tremendi. Ho pensato che non potevo più darmi malato. Poi ho pensato che se avessi ricevuto un caffè caldo e acqua calda mi sarei scaldato. Sono andato al lavoro. Dovevo continuamente andare di corpo. Avevo la dissenteria. Cioè, dovevo andare sempre alla toilette. Lo stomaco, tutto andava fuori.
Il kapò della squadra di lavoro se ne accorse. Dovevo sempre chiedere. Uno delle SS mi ha urlato “Vuoi forse scansare il lavoro?” Il kapò mi ha detto che non dovevo più lavorare, mi potevo sedere. Dovevo comunque svuotarmi continuamente.
A mezzogiorno tornavamo sempre alla baracca per mangiare.
Ho detto al kapò che non c’era niente da fare, doveva darmi malato. Allora qualcuno mi ha portato un termometro. Avevo la febbre ben oltre i 39°. Ero idoneo all’infermeria. Ci sono andato. Nella cuccetta c’erano già tre uomini. Non sapevo se erano ancora vivi o no. Erano pallidi. I vivi si distinguevano dai morti per il respiro e per gli occhi che si muovevano.
Alla sera stavo malissimo. Ci hanno portato una zuppa. Ero talmente debole che non ero neppure in grado di mangiarla. Il mio vicino si era già un pochino ripreso e continuava a guardare la mia zuppa. Ho detto “La puoi mangiare. Io non ce la faccio.”
Era il giorno del mio compleanno, il 6 marzo. Ho pensato che fosse la fine, in nome di Dio, adesso mi addormento e non mi sveglio più. Poi ho perso conoscenza. Il giorno dopo quando mi sono svegliato stavo un pochino meglio. Ho mangiato metà della zuppa. lentamente ho cominciato a stare meglio. È venuta un’infermiera e ci ha dato un cucchiaio pieno di carbone macinato. Questa era la medicina per la dissenteria. Poi ci ha prelevato il sangue, per cosa poi non sono ancora riuscito a capirlo.
La volta dopo è venuta un’infermiera della Croce Rossa. Non so se era un’infermiera della Croce Rossa o meno. Doveva farci un prelievo di sangue. Quattro, cinque volte ha mancato la vena, non l’ha trovata. Allora è andata da un altro. È successa la stessa cosa. È un po’ arrossita e se ne è andata. È tornata allora l’altra infermiera. Era vecchia, non ha detto assolutamente niente. Lei ce l’ha fatta.
Ho dimenticato qualcosa. Abbiamo pregato l’infermiera… Io dovevo ancora svuotarmi. Ho pensato “Come faccio?” Non ero in grado. In quello stesso momento me la sono fatta addosso. Non si poteva chiamare nessuno per fare pulire. Sono rimasto nei miei escrementi.
Il giorno dopo abbiamo chiesto all’altra infermiera se ci portava un vaso da notte. Si, ce l’ha portato. Però non l’abbiamo usato. Dovevamo restare nei nostri escrementi.
Miglioravo. Il terzo giorno al mattino ho visto che due uomini non c’erano più. Ho chiesto al mio vicino cosa fosse loro successo. Non sapeva se erano morti o se li avevano solo portati via, probabilmente erano morti. Siamo rimasti 16 giorni all’infermeria. Poi siamo tornati al lavoro.
Con la coperta sotto il braccio, il cucchiaio e la ciotola in mano… Da una parte tornavamo volentieri dai nostri compagni, dall’altra avevamo già di nuovo paura della vita del Lager, di quanto accadeva. Eravamo così deboli che potevamo stare appena in piedi e fare qualche passo.
Non siamo più andati al lavoro fuori nella cava, nel Lager c’erano diversi lavori da fare. C’erano un francese ed un tedesco. Non avevano alcun interesse a maltrattarci. Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta. I tempo era bello, il sole splendeva. Eravamo alla fine di marzo.
Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta, purtroppo il cibo era scadente. Poi ci hanno detto che tornavamo a Dachau. Il fronte si avvicinava sempre più, arrivavano gli americani. Hanno sgomberato il Lager. Non so più con precisione se il 4 o il 5 aprile ci hanno detto: “Prepararsi per il trasporto a Dachau”. Anche quello fu un brutto viaggio.
Arrivavano gli aerei americani a bassa quota. Quando vedevano un treno sparavano. So che una volta dovevamo andare al bagno, abbiamo bussato alla parete. Ci hanno urlato dentro: “Fatela come la fanno tutti i maiali!”. Ognuno l’ha fatta nel posto dove si trovava. C’era una puzza tremenda.
Una volta stavamo mangiando, siamo potuti scendere e abbiamo ricevuto da mangiare. Mentre eravamo fuori sono arrivati gli aerei americani, sono passati oltre ma hanno visto che c’era qualcosa. Allora sono tornati indietro. Su una strada c’erano 5-6 uomini delle SS. Gli hanno sparato…
Due erano feriti in modo grave, abbiamo visto, ed un paio feriti in modo più leggero li hanno caricati nel vagone, noi ci hanno chiusi di nuovo nel carro bestiame. Siamo ripartiti.

D: Purtroppo il tempo passa molto in fretta. Abbiamo ancora cinque minuti. Può raccontarci dove è stato liberato? Quando? Cosa Le accadde dopo la liberazione ufficiale?

R: Giunse il 29 aprile. Avevamo sempre il fronte … sentivamo gli spari e vedevamo tutto. Eravamo contenti che arrivavano gli americani, ma avevamo anche paura, cosa avrebbero fatto di noi prima di lasciarci liberi?
Giunse il 29 aprile. La guardia era un po’ sparita. Abbiamo pensato, io e due della Val Passiria e diversi italiani, adesso guardiamo in cucina. Non c’erano guardie da nessuna parte.
Uno ha detto: “Guardiamo se la porta del Lager è aperta”. Siamo andati e era aperta. Siamo usciti dal Lager e siamo arrivati agli alloggiamenti delle SS. È stato uno sbaglio. Ho pensato di cercare qualcosa da mangiare. Non abbiamo trovato nulla.
Siamo entrati in una baracca. C’erano divise delle SS. Uno ha detto: “Cambiamo le nostre camicie sporche e piene di pidocchi”. Detto fatto. Dopo che ci siamo cambiati sono arrivati due americani e ci hanno fatto segno di seguirli. Siamo andati. Abbiamo sorriso loro. Erano i nostri liberatori! Abbiamo camminato un po’, c’era un grande cortile, un grande portone. Abbiamo visto che avevano fucilato un gran numero di SS, gli americani.
Abbiamo pensato: “Giusto che vi succeda questo!”. Siamo andati avanti ancora per 25 m. Poi ci hanno messo al muro, con la faccia verso il muro e le mani sopra la testa. Abbiamo pensato, adesso fanno a noi quello che abbiamo visto hanno fatto agli altri. Siamo rimasti lì un bel po’.
C’erano due o tre ufficiali americani ed un paio di soldati. Ci hanno detto: “Abbassate le mani e giratevi!” Discutevano su cosa fare di noi. Eravamo vestiti per metà da SS e per metà da prigionieri. Ne siamo usciti vivi. Non ci hanno rimandato nel Lager, bensì con i soldati tedeschi prigionieri. Il sesto giorno abbiamo ricevuto per la prima volta da mangiare.
Ancora una volta mi sono lasciato andare. Avevo perso i miei compagni della Val Passiria. Pioveva e nevicava. “Così” alto era il sudiciume. Non ci si poteva sdraiare. Il quinto giorno ho pensato: non ce la faccio più, mi lascio cadere, mi addormento e non mi sveglio più. Quelli della Val Passiria mi hanno visto, hanno detto: “Franz, alzati! Così muori!” Io ho detto: “Non ce la faccio più”.
Mi hanno aiutato ad alzarmi: “Si, ce la farai!” Ho pensato che a casa sarei tornato volentieri. ma non ci credevo proprio tanto. Gli altri: “Certo. Ce la faremo. Ora siamo pronti”. Poi ci è stato detto che il giorno dopo avremmo ricevuto di sicuro qualcosa da mangiare. Ero contento, forse era vero che avremmo ricevuto qualcosa da mangiare.
Si, è successo. Il giorno dopo abbiamo visto dei furgoni davanti al Lager, era tutto all’aperto, hanno scaricato delle scatole di cartone, hanno cominciato a distribuire, due piccole scatolette. In una c’erano fagioli, un po’ d’olio e nell’altra un paio di biscotti e delle caramelle. Io ero l’ultimo. Guardavo continuamente. Chissà, forse non ce n’era abbastanza anche per me.
E invece ce n’era abbastanza! Mi sono seduto con le gambe incrociate, ho cominciato a mangiare, ho pianto. Poi è andato tutto meglio. Sono rimasto quattro mesi prigioniero degli americani. Ci davano poco da mangiare, ma quello che ci davano era buono.

D: In quali Lager, in quali città ha trascorso questi quattro mesi?

R: Dapprima un mese in Germania in diversi Lager, sempre all’aperto, e poi in Francia, in un grande campo di prigionia. Lì i malati o i deboli avevano una tenda separata… C’erano grandi tende. Io sono finito in una tenda per malati. Poi è andata un pochino meglio.

D: L’ultima domanda. Quando è arrivato finalmente a casa?

R: Il 19 agosto.

D: Di che anno?

R: 1945.

D: Si è pesato?

R: Poco dopo essere uscito dal Lager mi sono pesato. Pesavo poco più di 30 kg, forse 31.

D: Grazie infinite, signor Thaler.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano)

Ich heiße Franz Thaler, bin geboren am 6. März 1925.
Dann bin ich den 30er Jahren, von 1931 bis 1939 in die italienische Schule gegangen. Da war ich dann 14 Jahre alt. Mein Vater… Da kamen die Wahlen. Mein Vater hat sich für das Hierbleiben, für Italien entschlossen. Dann war ich ein Italiener.
Da haben die Leute dann ein bisschen… “Du bist ein Walscher!” Da war ich auf die Seite geschoben worden. Das waren damals schlimme Zeiten. Es waren wenige, die für das Dableiben gewählt haben und die hat man schon ein bisschen schikaniert. Es hat geheißen: “Der Walsche!”
Dann kam ein deutscher Lehrer in die Ortschaft und er sollte die Jugendlichen und die Kinder Deutsch unterrichten. An einem Sonntag gingen die Jugendlichen und die Kinder alle zur Schule. Der Lehrer hat den Namen aufgeschrieben und als er zu mir kam wollte ich auch meinen Namen sagen. Dann kamen schon welche vor und schrieen: “Das ist ein Walscher!”
Da hat mich dieser Lehrer ein bisschen angeschaut und hat gesagt ich soll gehen er möchte nur deutsche Kinder unterrichten. Es war so zu sagen der erste Schlag. Dann ging es so weiter. Ich hatte gute Kollegen. Wenn wir einmal nicht gut auskamen dann war ich “Der walsche Schwein!”.
FRAGE: In welchem Dorf wohnten Sie zu jener Zeit?
ANTWORT: Durnholz. Das ist eine Fraktion von Sarnthein, ganz hinten drein. Dann kamen die Zeiten, es mussten ziemlich viele einrücken von den Deutschen, auch Italiener. Dann hörte man bald einmal, dass Soldaten gefallen sind. Da war dann die große Begeisterung für Deutschland schon ein bisschen gesunken. Da waren schon manche, die über Hitler geschimpft haben, die vorher “Heil Hitler!” geschrieen haben. Sie haben dann gesehen es geht nicht gut.
Im Jahre 1943 hat Mussolini kapituliert. Dann hat Hitler die Macht gehabt über uns. Dann ging es auf uns los. Da wurden wir gemustert, von 16 Jahre bis 50 Jahre alte Leute, alle zusammen. Natürlich waren die meisten tauglich zum Einrücken. Ich eben auch.
Dann habe ich mir gedacht ich werde müssen bald einmal einrücken. Ich bin geflüchtet. Dann hat ein großer Nazi von unserem Dorf zum Vater gesagt: “Wenn sich der Franz nicht stellt, wird der Vater und die Mutter eingesperrt.” Dann hat mich mein Vater gesucht. Er hat ungefähr gewusst wo ich mich aufhalte. Ich war am Berg droben, durfte mich von niemandem sehen lassen.
Wenn ich etwas zum Essen holen wollte oder so, habe ich immer nachts gehen müssen ohne Licht. Ich hatte einen Bruder auf der anderen Seite, bin zu dem hingegangen. Er hat mich mit Butter und Käse, er war Senner droben… habe ich können nachts hingehen ein bisschen etwas holen. Es waren noch ein paar Kollegen, zu denen ich konnte hingehen.
So ist das Leben weiter gegangen. Es war Sommer. Ich bin mir irgendwie vorgekommen wie ein wildes Tier. Wenn ich ein Geräusch hörte, bin ich immer aufgeschreckt, wollte davonlaufen.
Einmal bin ich durch den Wald gegangen, da sah ich zwei Männer hinter einem Baum stehen und ich wollte schon die Flucht ergreifen. Dann hat mir einer nachgerufen: “Halt Franz! Wir tun dir nichts!” Dann habe ich gleich die Stimme erkannt. Es war ein Kollege aus Villanders. Wir hatten uns vorher schon lange gekannt. Da habe ich gehalten, bin ein bisschen näher zu ihnen gegangen, haben ein bisschen gesprochen und sie sind ihre Wege gegangen, ich meine. Es ist nichts passiert.
Ich musste immer das Lager wechseln. Einmal war ich in einer Latschen Brennerei, war vielleicht drei Wochen, musste wieder gehen. Ich war in einem Heuschuppen, vielleicht zwei-drei Wochen, dann wieder zum nächsten Heuschuppen. Ich hatte drei Heuschuppen und die Latschen Brennerei. Das war mein Nachtlager.
Es war nicht schön, aber trotzdem schöner als nachher. Dann hat mich mein Vater gesucht und hat mich gefunden und hat mich gebeten: “Bitte Franz, stell dich, sonst sperren sie mich und die Mutter ein!” Was machst du dann? Ich wollte den Eltern ein Leid ersparen, dann habe ich mich gestellt. Dann hat es noch geheißen wenn ich mich stelle passiert mir nichts und auch den Eltern nichts.
Geglaubt habe ich es nicht, aber ich bin abends nach Hause. Dann kam der Ortsleiter, der Nazi, hat gesagt: “Das ist schön Franz, dass du jetzt einrückst. Hilf für den Hitler kämpfen.” Am nächsten Tag hätte ich sollen nach Bozen gehen. Da haben sie ein bisschen gefragt und nachher einen Zettel gegeben, eine Einberufung nach Schlanders zum Militär.
Dann bin ich da hingekommen. Da waren viele Bekannte aus meiner Ortschaft. “Wieso kommst du da her?” Ich habe ihnen erzählt wie es gegangen ist. Dann habe ich zwei Monate Ausbildung gemacht.
FRAGE: Wann waren diese zwei Monate?
ANTWORT: Das war vom 21. September, zwei Monate weiter dann war November. Als die Ausbildung fertig war, die anderen kamen in Einsatz in Italien unten, Belluno und mich haben sie ins Gefängnis getan. Da musste ich dann zum Bataillonskommandeur gehen und der hat mir dann einen Brief vorgelesen: “Du solltest im Juni einrücken und hast dich im Berg herumgetrieben.” Er hat gefragt ob das stimmt. Ich habe mir gedacht jetzt kann ich auch nicht mehr leugnen.
Dann sagt er: “Morgen kommst du nach Bozen auf das Kriegsgericht!” Da hat mich dann mein Wachmeister von meiner Kompanie, wo ich vorher war, nach Bozen gebracht. Da kam ich in einen großen Raum hinein. Da war ein Tisch. Dahinter saßen 8-10 SS-Männer. Das waren die Richter. Dann hat einer einen Zettel herunter gelesen, das Strafgesetz: “Für diejenigen, die den Kriegsdienst verweigern ist die Todesstrafe.” Ich habe mir gedacht: “In Gottesnamen, werde ich eben erschossen.”
Da kam es ein bisschen anders. Sie haben ein bisschen geschaut. Sie haben gemeint ich werde in Ohnmacht fallen, aber das bin ich nicht. Ich habe ihnen entgegen gelächelt. Dann hat einer einen anderen Zettel aufgeklaubt, hat das Urteil herunter gelesen. Da hat es geheißen: “Weil der Angeklagte minderjährig ist”, weil damals warst du mit 21 Jahren volljährig und ich war erst 19, “und, weil er sich freiwillig gestellt hat, wird er nicht zum Tode verurteilt, sondern zu 10 Jahren KZ Dachau.”
Im ersten Moment habe ich mir gedacht es ist noch einmal gut gegangen, dass ich nicht erschossen werde. Mit Dachau wusste ich nicht was anfangen, habe ich noch nie gehört davor.
Dann war ich wieder in Schlanders im Gefängnis drei Wochen. Nachher haben sie mich nach Dachau geführt. Das war schon ein bisschen ein harter Weg, schon der Weg nach Dachau, habe ich viel gesehen und erlebt. Als wir in Dachau ankamen, da ging gerade eine Gruppe Arbeiter heraus beim Tor, alle mager, blass. Ich habe mir gedacht was wird man da erleben müssen damit man so aussieht? Das bin ich später draufgekommen.
Ich habe müssen die Kleider ausziehen. Sie haben mich gefragt warum ich hier bin und welche Strafe ich habe, welchen Glauben ich habe. Ich habe gesagt: “Einen katholischen.” Dann sagt der SS-Mann: “Hier bei uns werden Sie einmal anders beten lernen.”
Dann wurde ich fotografiert von allen Seiten. Dann bekam ich so ein abgenutztes Hemd und Unterhose. Dann hat mich ein SS-Mann in den Bunker geführt. Das ist ein ganz langes Gebäude, links und rechts die Zellen und mitten drinnen hat er aufgesperrt und hat mir einen Schubs gegeben und hinein. Ich habe einmal geschaut. Dann war oben ein Klappfenster. Es war mit weiß überstrichen gewesen, dann ein Stockbett, zwei Betten. Es waren keine Betten da, nur… Keine Decke und gar nichts war da.
Dann wollte ich mich niedersetzen. Das war fast nicht möglich. Dann habe ich mich auf den Klosettdeckel hingesetzt und nachgedacht: “Was wird jetzt gehen mit mir?” Ich hatte schon ein paar Tage nichts mehr gegessen gehabt. Ich kam mir vor wie früher beim Bauern, vielleicht ein Schwein, den hat man auch nicht mehr gefüttert am Vormittag. Ich bin mir so vorgekommen: Heute werden sie mich aushungern und morgen wird es drüber gehen.
Dann hörte ich auf dem Gang draußen Tritte. Ich habe gehört neben meiner Zelle hat er aufgesperrt. Dann hat er geschrieen: “Sofort heraus!” Ich habe gehört, dass ein Mann auf den Gang hinausgeht. Dann hat er bei meiner Zelle aufgesperrt: “Sofort heraus!” Dann sollten wir den langen Gang putzen. Beim Eingang war ein Waschraum. Wir sollten Waschlappen, einen Eimer mit Wasser, Kehrschaufel und Besen nehmen. Ich habe mir gedacht leichter ist es mit dem Besen und der Kehrschaufel.
Da schrie mich der SS-Mann an: “Sie Faulpelz! Sie werden schon noch lehren was man zuerst anfängt!”, weil man musste immer auf das Schwerere hingehen, dann kamst du eher auf das Leichtere. Wenn sie sahen, dass du auf das Leichte gehst, bist du der Faulpelz, wolltest dich sträuben.
Dann haut er mir schon links und rechts eine herunter. Ich hatte die Kehrschaufel und den Besen und der andere einen Eimer mit Wasser und einen Waschlappen. Ich musste in die Hocke gehen und den Besen und die Kehrschaufel dem anderen lassen. Dann gab er mir einen Besen. Dann musste ich zweimal den ganzen Gang in der Hocke abhüpfen. Da war ich total fertig. Danach schnell den Gang putzen. Da musste alles im Laufschritt gehen.
Als wir fertig hatten haben wir die Sachen zurückgetragen, dann wieder in die Zelle hinein. Da hatte ich Zeit nachzudenken was ich falsch gemacht hatte. Da ging es so weiter. Zum Essen kam am Abend so eine Aluminiumschale, ein bisschen eine Krautsuppe bekommen. In der Tür war eine Luke aufzuklappen. Sie hat einen Tisch gebildet. Da hat man müssen die Schale hinstellen. Da haben sie reingeschöpft. Ich habe dies gegessen. Es war viel zu wenig. Ich strich mit dem Finger sauber aus.
Dann kam es zum Schlafen. Ich wusste nicht wo hinlegen. Auf der Holzding, der war recht lang, aber inzwischen war ein Balken durchgezogen, dass man fast nicht liegen konnte. Als das Licht ausging, habe ich mich am Boden hingelegt. Da war eine Zentralheizung mit zwei Streifen, aber bestimmt nicht zum Verbrennen. Ich habe gefroren da.
In der Früh habe ich gehört, dass man Kaffee austeilt. Dann ist das Ding aufgegangen, habe die Schale hingestellt und habe mir gedacht: Da wird schon noch ein Brot kommen. Ich stand da. Dann schrie der andere auf was ich warte, etwa nicht auf Brot? Ich habe gesagt: “Ja.” “Nein, da gibt es kein Brot.” Ich habe dann den Kaffee getrunken, es war nur ein trübes Wasser. Dann war ich da drei Tage drein in der Zelle.
Einmal nach dem Putzen des Ganges als wir fertig hatten, haben wir müssen die Sachen abgeben, dann haben wir schreien hören aus dem Bunker. Dann ging die Tür auf. Dann kamen so 8-10 Leute herein, kahl geschoren, Hemd und Unterhose. Dann haben wir gehört: “Mamma mia!” Dann haben wir gewusst es sind Italiener. Die haben sie alle zusammen in der gleichen Zelle hinein getan.
Dann kam wieder das Putzen des Ganges. Dann gingen sie bei meiner Zelle vorbei und in der nächsten aufgesperrt. Dann schrie der SS-Mann: “Sofort zwei Mann heraus!” und die verstanden nicht was er gesagt hatte. Dann ging er hinein, warf zwei Bursche auf den Gang hinaus, hat sie richtig hin- und hergeschlagen. Dann haben sie den Gang putzen müssen.
Von nun an haben dann müssen die Italiener den Gang putzen. Nach drei Tagen habe ich Kleider bekommen. Das wird nicht ein gestreiftes Kleid, sondern ein italienisches Militärgewandt. Dann kam ich in eine Baracke hin. Da waren für vier-fünf verschiedene… Wie sagt man? Franzosen, Schweizer, Russen, eben verschiedene.
Dann kam Weihnachten. Wir haben gesagt ob wir vielleicht etwas spielen für Weihnachten. Ja, da wurde sogar ein kleines Bäumchen aufgestellt und ein paar farbige Papierfetzen drangehängt.
FRAGE: Hatten Sie eine Matrikelnummer bekommen in Dachau?
ANTWORT: Nein. Wir waren vom großen Lager ein bisschen abgeschlossen. Für uns war vorgesehen wir kommen in ein Außenlager und wir hatten Frontbewährung, d.h. wenn es uns braucht kann man uns auch an die Front schicken. Wir bekamen nicht das gestreifte Gewandt.
FRAGE: Hatte Ihre Baracke eine Nummer?
ANTWORT: Nein, das war ganz separat im Bunkerbau angebaut.
FRAGE: Neben der großen Mauer des KZ?
ANTWORT: Schon drinnen, hinter der Mauer. Da sah ich wie die Umzäunung ausgeschaut hat. Zuerst war ein Wassergraben und Wasser drinnen. Dann war ein Stacheldraht, Rollen. Dann ist die Mauer gewesen und mit oben hinauf auch Stacheldraht. Das war mit Starkstrom alles, weil da abhauen das gab es nicht, keine Möglichkeit.
Dann hat es geheißen am 27. kommen wir in ein Außenlager nach Hersbruck. In der Früh hat es geheißen: “Alles packen zum Abtransport.” Wir hatten nicht viel zu packen, die Essschale und den Löffel und eine Decke, nein, keine Decke. Da haben sie uns in einen Viehwagon hinein gepfercht, haben die Türen geschlossen. Auf der Seite oben war ein ganz kleines Fenster vergittert.
Dann fuhren wir los. Wenn einmal Fliegeralarm war hat der Zug gehalten. Uns haben sie irgendwie auf die Seite geschoben. Wir haben manchmal einen halben Tag gewartet, eine halbe Nacht oder eine ganze Nacht. Dann ging es wieder weiter. Ich glaube, wir haben zwei Tage und eine Nacht gebraucht nach Hersbruck zu kommen. Da kamen wir abends an. Es hat geschneit.
Dort haben sie schon auf uns gewartet, die SS-Leute. Wir sind ausgestiegen. In 3er Reihen mussten wir steil über einen Weg hinauf und es sollte immer schnell gehen, die SS-Männer hinter uns mit den Gummiknüppeln oder Gewährkolben. Wir sind eine Zeit lang gegangen, geregnet, geschneit. Wir waren ein bisschen fertig schon. Wir haben eine Nacht nicht mehr geschlafen, kein Essen. Wir haben schon Marschverpflegung bekommen, ganz wenig. Das hat jeder schon gleich aufgegessen. Wir sind hinauf. Dann sahen wir auf der Seite Lichter. Dann werden wir da hinkommen.
Nein, da sind wir vorbei. Dann kamen wir in einen Graben. Da war ein großes Haus. Da war ein kleiner Bach. Wir mussten über eine Brücke gehen. Da hat dann jeder vierte einen kleinen Laib Brot bekommen. Das war zu teilen gewesen für vier Mann. Da hat man müssen aufpassen wo der Mann mit dem Brot hingeht, sonst wärst du leer ausgegangen. Wir sind da hingekommen.
Ich bin dann in dem großen Haus da, mich hat man in den zweiten Stock hinauf. Es war schon nach drei Uhr. Dann haben sie Licht gemacht. Da waren dreistöckige Bridgen. Die anderen, als wieder Licht war, hat der eine und der andere ein bisschen herunter geschaut, und schreit: “Franz, bist du jetzt auch hier?” Ich war mit dem in Schlanders im Gefängnis. Mich hat es gefreut, dass da auch Bekannte sind.
Dann haben sie mir eine Bridge gegeben, habe mich können reinlegen. Es war ein ganz dünner Strohsack und eine Decke zum Übernehmen. Ich habe die Decke genommen, habe mich nieder gelegt, habe die Decke übergenommen, habe das Kleid ausgezogen, auch über die Decke gelegt. Da war ich so müde. Ich habe gleich geschlafen.
In der Früh gingen große Pfeifen. Da musste alles schnell heraus aus den Bridgen zum Abwaschen. Man hat müssen das Hemd ausziehen und in den Waschraum hinunter. Alles gut gegangen. Am nächsten Tag wieder dasselbe. Da war ein Italiener, er war um ein Jahr jünger als ich, der in der Eile vergaß das Hemd auszuziehen. Dann kam er mit dem Hemd im Waschraum unten an. Da haben schon SS-Männer gewartet sollte jemand mit dem Hemd an kommen, dann fehlt es.
Der Italiener hat müssen die Hose und alles ausziehen. Sie haben ihn mit einem Schlauch und eiskaltem Wasser abgespritzt und ein anderer mit einer groben Bürste abgerieben bis er blutig rot war. Dann haben wir den nie mehr gesehen. Wir haben uns gedacht er wird zu Grunde gegangen sein.
Am nächsten Tag wieder einmal Visite. Ich habe müssen erzählen warum ich hier bin und wie lange. Dann wurden wir noch gewogen. Ich hatte noch 45 Kg. Bevor ich mich gestellt habe, habe ich 69 Kg gewogen.
FRAGE: Habe ich richtig verstanden? In Hersbruck wurden Sie gewogen?
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Von der SS?
ANTWORT: Ja. Nein, da waren schon auch Häftlinge. Ich habe mir gedacht: Weiter runter kann es nicht mehr gehen. Es ging aber noch viel weiter hinunter. Durch die schwere Arbeit, das schlechte Essen, in der Früh das trübe Wasser ohne Brot, ohne Zucker, zu Mittag Krautsuppe oder vielleicht einmal eine Erbsensuppe oder wenn es ganz gut gegangen ist zu Ostern hat man drei Pellkartoffeln bekommen, wenn es kleinere waren drei, wenn es größere waren zwei. Da hat man nicht die Schale herunter getan. Man bekam noch einen Löffel. Das hat man alles zusammen gegessen. Das war das gute Essen.
Ich kann mir das heute nicht mehr vorstellen mit dem Essen und die Arbeit noch. Man hat getan was möglich war um zu überleben.
Mich hat es gefreut, es waren ziemlich viele Italiener bei mir, Italiener, Kroaten, meistens Italiener, da habe ich ein bisschen Italiener gelernt. Mein bester Kollege war einer von der Trientner Gegend. Er schrieb sich Filz, Filzi, glaube ich, Giovanni Filzi.
Mehrer reden durften wir nicht bei der Arbeit. Nur als wir in das Lager der Baracken kamen, hatten wir vielleicht eine halbe Stunde frei. Da durften wir zusammen reden. Was redest du dann? Wie wird das weiter gehen? Man hat über das Essen gesprochen. Das war das Erste immer. Alle haben so einen Hunger gehabt.
FRAGE: Was für eine Arbeit machten Sie?
ANTWORT: Ich war im Steinbruch.
FRAGE: Kamen Sie zu Fuß zum Steinbruch?
ANTWORT: Zu Fuß. Ungefähr 10 Minuten zu Fuß zum Steinbruch. Da haben wir uns selber ein nahes Lager gebaut. Es war halb fertig als wir da ankamen. Wir mussten die Steine herrichten.
Ein gefangener Franzose hat mit einem Pferd und einem Schlitten die Steine zum Lager hingefahren. Das war eine harte Arbeit ohne Handschuhe. Die schneeigen Steine… Es war hart. Wir hatten schlechte Schuhe, ohne Socken. Man hat den ganzen Tag im Schnee herum müssen.
Ganz schlimm war in der Früh als man aufstand, da musste man in die gefrorenen Schuhe barfuß hineinschlüpfen. Es war kein Vergnügen. So ist es weiter gegangen.
Dann bekam ich die Krätze. Das ist eine Krankheit. Das fängt zwischen den Fingern an. Das habe ich auf dem ganzen Körper bekommen, alles ein Geschwür, der ganze Körper. Wenn man gedrückt hat ging Blut und Eiter heraus. Ich wurde immer schlechter und das war eine ansteckende Krankheit. Da haben mich die besten Kollegen gemieden. Das habe ich dann nicht mehr vertragen.
Ich habe zum Capo gesagt: “Bitte, möchten Sie mich morgen krank melden.” Man hat sich nicht gerne krank gemeldet, weil wenn man zu wenig krank war, der hat drauf gezahlt. Ich habe es nicht mehr ausgehalten. Es war noch ein Italiener, fast mit derselben Krankheit. Wir sind hingekommen am nächsten Tag. Da war ein SS-Mann hinter dem Tisch. Wir haben ausgezogen gehabt. Dann schaut er mich an. Was mir fehlt? “Das sehen Sie doch.”
Dann hat er mich von unten bis oben angeschaut: “Sie Schwein! Warum haben Sie es nicht früher gemeldet?” Dann war ich entlassen. Dann kam der nächste dran. Den hat er gleich angeschrieen. Dann hat man uns mit einer Flüssigkeit bestrichen, den ganzen Körper. Man hat ausgesehen wie ein Kochöl ungefähr.
Wir mussten dann wieder zur Arbeit gehen. Nach einer Woche waren wir fast heil. Da habe ich wieder Mut bekommen zum Weiterleben. Da ging es so weiter. Einmal in der Früh habe ich so einen Schüttelfrost bekommen. Ich habe mir gedacht krank melden kann ich mich nicht. Dann habe ich mir gedacht wenn ich einen warmen Kaffe bekomme und warmes Wasser werde ich schon wieder warm bekommen. Dann bin ich zur Arbeit hin. Ich musste dann immer wieder austreten. Ich hatte die Ruhr. Das ist, eben immer auf die Toilette gehen. Der Magen, ging alles nach außen.
Das hat der Arbeitskapo gesehen. Ich habe immer fragen müssen. Dann war ein SS-Mann, der schrie mich an: “Willst du dich vielleicht von der Arbeit drücken?” Der Capo von der Arbeit hat gesagt ich brauche nicht mehr arbeiten, darf mich hinsetzen. Ich habe trotzdem immer wieder müssen austreten. Zu Mittag haben wir immer zur Baracke zurück müssen um zu essen.
Da habe ich zum Capo gesagt es geht nicht mehr, er soll mich krank melden. Dann brachte mir einer einen Fiebermesser. Ich hatte ein Stück über 39 Grad Fieber. Dann war ich für das Krankenrevier tauglich. Dann kam ich dahin. Es waren schon drei Männer in der Bridge. Ich habe nicht gekannt: Leben sie noch oder nicht mehr. Sie haben ausgeschaut blass. Da hat man nur von Lebenden und Toten den Unterschied gekannt durch das Atmen und die suchenden Augen tief drein.
Dann am Abend war ich ganz schlecht beisammen. Man hat uns eine Suppe gebracht. Ich war so schwach. Ich war nicht mehr im Stande die Suppe zu essen. Mein Nachbar hat es schon ein bisschen überstanden gehabt, hat immer auf meine Suppe geschaut. Ich habe gesagt: “Die kannst du essen. Ich schaffe es nicht.”
Das war mein Geburtstag. Der 6. März. Ich habe mir gedacht jetzt wird es am Ende sein, in Gottesnamen, schlafe ich ein und wache nicht mehr auf. Dann verlor ich das Bewusstsein. Am nächsten Tag als ich aufwachte ging es ein bisschen besser. Dann habe ich die Hälfte von der Suppe gegessen dann. Da ging es langsam aufwärts. Dann kam eine Krankenschwester. Sie hat uns einen Löffel voll gemahlene Kohle gegeben. Das war die Medizin gegen den Durchfall. Dann hat sie uns Blut abgenommen, für was weiß ich heute noch nicht.
Das nächste Mal kam eine andere Schwester vom Roten Kreuz. Ich weiß nicht war es eine Schwester vom Roten Kreuz oder nicht. Sie sollte uns Blut abnehmen. Sie hat vier-, fünfmal die Ader abgefehlt, nicht getroffen. Dann ging sie zum nächsten. Da war dasselbe. Dann bekam sie ein bisschen einen roten Kopf und ging fort. Dann kam wieder die andere. Es war eine alte, die hat überhaupt nicht gesprochen. Die hat es schon gemacht.
Ich habe vorher etwas vergessen. Da haben wir die Krankenschwester gebeten… Ich musste wieder austreten. Ich habe mir gedacht: Wie mache ich das? Ich bin nicht im Stande. In dem Moment ging es schon in die Hose. Man konnte niemanden rufen um vielleicht auszuräumen. Dann lag ich im eigenen Kot.
Am nächsten Tag haben wir die andere Krankenschwester gefragt ob sie uns einen Nachttopf bringt. Ja, hat sie uns gebracht. Wir sind trotzdem nicht raus gegangen. Im eigenen Kot haben wir liegen müssen.
Dann ging es ein bisschen aufwärts. Am dritten Tag in der Früh habe ich gesehen, dass zwei Männer weg sind. Ich habe meinen Nachbar gefragt was mit denen los gewesen ist. Er weiß nicht waren sie tot oder haben sie sie sonst weg, wahrscheinlich waren sie tot. Dann waren wir 16 Tage im Krankenrevier. Dann hat es geheißen wir müssen wieder zu den Arbeitern zurück.
Mit der Decke unter dem Arm, dem Löffel und der Essschale in der Hand sind wir… Einerseits sind wir gerne zu den Kollegen zurück gegangen, aber andererseits hatten wir schon wieder Angst vom normalen Lagerleben was alles passiert ist. Wir waren so schwach, gerade so, dass wir stehen haben können und ein bisschen gehen.
Dann haben wir nicht mehr zur Arbeit gebraucht hinaus in den Steinbruch, aber im Lager waren so verschiedene Arbeiten zu tun. Es war ein Franzose und ein Deutscher. Sie hatten auch kein Interesse uns zu sekkieren. Wenn wir genug zum Essen hätten bekommen, hätten wir uns schneller erholen können. Es war damals schönes Wetter, die Sonne hat geschienen. Es war so Ende März.
Wenn wir genug zu essen bekommen hätten, hätten wir uns können erholen, aber leider war das Essen schlecht. Dann hieß es wir kommen wieder nach Dachau zurück. Da kam die Front immer näher, die Amerikaner. Da haben sie die Lager geräumt. Ich weiß nicht mehr genau, am 4., 5. April hat es geheißen: “Packen zum Abtransport nach Dachau zurück.” Das war auch eine schlimme Fahrt.
Es kamen immer wieder die Tiefflieger, die Amerikaner. Wenn sie einen Zug gesehen haben, haben sie meistens herunter geschossen. Ich weiß einmal, da haben wir austreten müssen, haben an die Wand geklopft. Da haben sie herein geschrieen: “Scheißt hin wie ein normales Schwein!” Jeder wo er gestanden ist hat er hingemacht. Es war ein Gestank.
Einmal waren wir beim Essen, haben wir können aussteigen, haben wir ein Essen bekommen. Während wir raus sind kommen wieder die Tiefflieger, sind sie vorbei gewesen, haben aber gerade gesehen, dass da etwas los ist. Dann haben sie umgedreht und sind die gleiche Richtung her. Da auf einer Straße standen vielleicht 5-6 SS-Männer. Dann haben sie auf die hingeschossen.
Zwei waren schwer verletzt, haben wir gesehen, und ein paar weniger verletzte haben sie in den Wagon hinein getan und wir schnell wieder in den Viehwagon hinein. Dann ging es wieder weiter.
FRAGE: Leider geht die Zeit sehr schnell weg. Wir haben noch fünf Minuten. Können Sie uns erzählen wo Sie befreit wurden? Wann? Was geschah nach der offiziellen Befreiung für Sie?
ANTWORT: Es kam der 29. April. Wir haben schon immer die Front… schießen gehört und alles gesehen. Wir hatten uns gefreut, dass die Amerikaner jetzt kommen, aber wir hatten noch Angst was würden sie mit uns machen bevor sie uns frei lassen?
Da kam der 29. April. Der Wachmann ist ein bisschen verschwunden. Dann haben wir uns gedacht, ich und zwei Passeirer und etliche Italiener, jetzt schauen wir in der Küche. Es war nirgends eine Wache.
Es hat einer geschaut: “Schauen wir ob das Lagertor offen ist.” Wir sind hin, ja es war offen. Wir sind beim Lagertor hinaus, da kamen wir ins SS-Lager hinaus. Das war ganz falsch. Ich denke mir da herum auch etwas zum Essen suchen. Wir haben nichts gefunden.
Da sind wir in eine Baracke hinein. Da war SS-Bekleidung. Da hat einer gesagt: “Tauschen wir unsere verlausten und schmutzigen Hemden aus.” Gesagt getan. Während wir das gemacht haben kamen zwei Amerikaner bei der Tür herein, haben uns gewunken wir sollen mitgehen. Dann sind wir mitgegangen. Wir haben ihnen entgegen gelächelt. Das sind ja unsere Befreier! Wir gingen ein Stück hinaus. Da war ein großer Hof, ein großes Tor. Wir haben gesehen da haben sie eine menge SS-Leute erschossen gehabt, die Amerikaner.
Wir haben uns gedacht: Recht geschieht euch! Dann ging es vielleicht noch 25 Meter weiter. Da haben sie uns an die Mauer hingestellt, mit dem Gesicht zur Mauer, den Händen über dem Kopf zusammen. Wir haben uns gedacht jetzt machen sie es gleich wie wir die anderen vorher gesehen haben. Wir sind eine Zeit lang gestanden.
Da sind zwei-drei amerikanische Offiziere gewesen und ein paar Soldaten. Es hat geheißen: “Hände herunter und umdrehen!” Sie haben beraten was sie mit uns machen. Wir sind halb SS-bekleidet gewesen und halb Sträfling. Wir sind dann davon gekommen mit dem Leben. Dann haben sie uns nicht ins Lager zurück, sondern zu den Gefangenen, den deutschen Soldaten. Da haben wir am sechsten Tag das erste Essen bekommen.
Da habe ich noch einmal aufgegeben. Ich habe meine Kollegen verloren, die Passeirer. Da hat es geregnet und geschneit. “So” tief war Kot gewesen. Man hat sich nicht können hinlegen. Am 5. Tag habe ich mir gedacht ich packe es nicht mehr, ich lasse mich fallen, einschlafen und nicht mehr aufwachen. Die Passeirer haben mich gesehen, haben gesagt: “Franz, steh auf! Da gehst du zu Grund!” Ich habe gesagt: “Es geht nicht mehr.”
Sie haben mir aufgeholfen: “Doch, es wird schon gehen!” Ich habe mir gedacht nach Hause käme ich gern wieder. Ich glaube nicht mehr recht. Die anderen: “Doch. Das werden wir schon. Jetzt sind wir soweit.” Dann hat es geheißen morgen bekommen wir bestimmt etwas zum Essen. Ich habe mich gefreut: Vielleicht stimmt es, dass wir etwas zu essen bekommen.
Ja, es ist dann gegangen. Am nächsten Tag haben wir gesehen Lastwagen vor dem Lager herum, es war alles im Freien, haben Kartons abgeladen, haben angefangen auszuteilen, zwei kleine Dosen. In einer waren Bohnen, ein bisschen Öl und in der anderen Dose waren ein paar Kekse, ein paar Bonbons. Ich war der Letzte. Ich habe immer geschaut. Vielleicht reicht es für mich nicht mehr?
Doch! Es hat gereicht. Ich habe mich hingesetzt im Schneidersitz, angefangen zu essen, geweint. Dann ist es wieder aufwärts gegangen. Ich bin noch vier Monate in amerikanischer Gefangenschaft gewesen. Wir haben wenig zu essen bekommen, aber was wir bekommen haben war gut.
FRAGE: In welchen Lagern, in welchen Städten wurden Sie in diesen vier Monaten…
ANTWORT: Zuerst ein Monat in Deutschland in verschiedenen Lagern, immer im Freien, nachher in Frankreich in einem großen Gefangenenlager. Dort haben sie diejenigen, die krank oder schwach waren, separat ein Zelt… Dort waren große Zelte. Ich kam dort in ein Krankenzelt hinein.
Da ging es ein bisschen besser dann.
FRAGE: Die letzte Frage. Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: Am 19. August.
FRAGE: Des Jahres?
ANTWORT: 1945.
FRAGE: Haben Sie sich gewogen?
ANTWORT: Als ich vom Lager herauskam habe ich mich bald einmal gewogen. Da wog ich noch ganz wenig über 30 Kg, vielleicht 31 Kg ungefähr.