Longhi don Daniele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.

Messina Francesco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Francesco Messina nato a Pistoia il 24 gennaio 1926, sono stato arrestato il 9 giugno 1944 a Montemurlo, un paese vicino a Pistoia, dalle SS italiane.

Ci hanno portati al Comando SS di Firenze in via Bolognese dove siamo rimasti per tutto quel giorno, di lì alle Carceri di Firenze, le Murate, dove siamo rimasti tre o quattro giorni, di lì a Fossoli di Carpi, Modena.

D: Scusa, Franco: vi hanno arrestati a Montemurlo, perché?

R: C’era stata la scoperta di una radio clandestina, Radio Cora in piazza D’Azeglio a Firenze, vi era stata una delazione per cui avevano arrestato tutti quelli che erano lì, qualcuno (inutile fare i nomi) parlò e portò le SS dove eravamo noi a Montemurlo.

D: Tu facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, andavo e venivo.

D: A Montemurlo avevate il vostro ….

R: Sì, c’era il Comando.

D: Vi ha arrestato la SS tedesca, in quanti vi hanno arrestato?

R: Cinque, due erano soldati italiani del sud, radiotelegrafisti e furono fucilati a metà giugno, i nomi che sapevo io erano Gallo e Panerai, ma non credo fossero i nomi veri.

D: Non sei mai stato interrogato?

R: Sì, sì!

D: Dove?

R: Al Comando SS.

D: A Firenze?

R: A Firenze in via Bolognese ma un interrogatorio abbastanza buono, sapevano già tutto.

D: Dopo quanti giorni ti hanno portato a Fossoli?

R: Tre o quattro giorni.

D: Sempre voi cinque o anche altri?

R: I due li fucilarono quasi subito.

D: A Fossoli in quanti vi hanno portato?

R: In tre.

D: Con cosa vi hanno portato?

R: In pullman.

D: Sei arrivato a Fossoli quando, se ti ricordi?

R: Direi a metà giugno del 1944. A Fossoli sono rimasto abbastanza a lungo fino al 21 luglio del 1944, di lì a Bolzano.

D: Restiamo un attimo a Fossoli, ti hanno immatricolato? Ricordi il tuo numero?

R: Sì, 1695!

D: Ricordi in che baracca eri?

R: Ero al 21°

D: Cosa facevate a Fossoli, lavoravate?

R: Poco, pochissimo, c’era da fare qualche lavoretto, spianare il campo ma si stava bene ….

D: Ricordi se nel campo di Fossoli hai incontrato dei religiosi anche loro deportati?

R: Sì, don Camillo che era di Bormio o di Livigno, poi don Angeli di Livorno, poi vi era uno grosso grosso che era il parroco di Correggio in Emilia. Ero a Fossoli quando ci fu la fucilazione dei 70 (si dice poi che erano 68) …

D: Come è avvenuta quella selezione, te la ricordi?

R: Benissimo! Una sera all’appello chiamano una lista di nomi, soprattutto immaginavamo noi che andavano in un altro campo, cosa che era logica.

Alla mattina si seppe che li avevano fucilati, si seppe in una maniera fortuita e fortunosa perché le donne del campo videro che una donna del campo aveva non so se un foulard che sapevano bene apparteneva a uno di loro, siccome questa donna era l’amica, l’amante, l’interprete spia di un tedesco italiano, parlava francese, tedesco, la bacchettarono bene bene e seppero tutto quello che dovevano sapere. Il comandante del campo disse che erano stati fucilati al Poligono di Carpi dove già correva voce nel campo che gli ebrei delle baracche, ebrei misti, non sapevano se considerarli ebrei o no, erano stati, qualcuno diceva, a scavare una fossa al Poligono di Carpi il che faceva capire il resto.

Conoscevo uno di questi ebrei, mi disse “Siamo andati a scaricare dei mobili”, non poteva fare diversamente, in ogni caso si seppe, mi pare avvenne il 12 luglio.

D: Quando eri deportato a Fossoli potevi comunicare con l’esterno del campo con i tuoi genitori, ricevevi pacchi o lettere?

R: Sì, una lettera la potevi scrivere ma non ci fu nemmeno il tempo.

Dopo nove giorni, il 21, la sera rileggono un altro elenco di nomi e questa volta vi ero anch’io per andare in un altro campo, non si sapeva se era vero o se era un campo come l’altro.

Si partì, questa volta su dei camion, ci portarono fino al Po dove si aspettò un barcone che venne dall’altra parte e si arrivò verso Mantova, lì con altri camion ci portarono a Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bolzano?

R: Piccolo, brutto, mentre Fossoli era bellino nel suo genere di campo di concentramento, lì c’erano queste due baraccone, non c’erano nemmeno i pagliericci, proprio il primo trasporto che arrivò a Bolzano, dentro vi erano dei militi fascisti prigionieri, non ho mai saputo il perché, non abbiamo mai avuto contatti salvo che il capo baracca ci fu assegnato tra questi signori, dicevano che fossero dei fascisti dissidenti, ricordo che avevano un contegno molto militaresco, divise da milizia, marcavano a passo e bersaglieresco, un po’ il militarismo straccione che usava a quei tempi.

D: Ricordi il blocco che numero era?

R: No, perché non avevano ancora i numeri!

D: Il tuo numero di matricola lo ricordi?

R: Rimase quello lì perché ancora non era organizzato Bolzano, fu dopo che fu trasferito il comando del campo di Fossoli, ripeto, fummo il primo trasporto che arrivò e che partì.

D: Vi erano anche delle donne?

R: Quando c’ero io no, dopo so che ci sono state, eravamo un centinaio da Fossoli più i fascisti che abbiamo citato prima.

D: Questo capo baracca chi era?

R: Un fascista.

D: Non ricordi il nome?

R: Assolutamente no, non stava nemmeno con noi, noi non stavamo con lui data la sua origine, non era proprio il tipo adatto, mentre a Fossoli il capo baracca era eletto da noi.

D: Dei tuoi amici di Fossoli in quanti sono venuti in trasporto con te a Bolzano?

R: Un centinaio.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Sì! Luperini, Malagodi, tutti morti! Ve ne erano molti, venivamo tutti dallo stesso campo.

D: Lì siete rimasti quanto tempo?

R: Dieci, quindici giorni!

D: Eravate impiegati a fare che cosa?

R: Portare i pezzi di baracche per costruire il campo per gli altri, so che Bolzano divenne un campo abbastanza importante.

D: Non hai potuto più comunicare con casa?

R: No, no.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno messo su dei vagoni e ci hanno portato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno messo su dei vagoni dove?

R: Credo alla stazione di Gries, non ricordo che fosse una stazione vera con dei passeggeri, probabilmente, era una specie di scalo merci.

D: Nel trasporto in quanti eravate?

R: Eravamo in 120, 130, è passato molto tempo!

D: Più o meno quanto è durato il viaggio?

R: Siamo partiti nel pomeriggio e siamo arrivati la sera a Mauthausen dove si entrava sempre di notte, se arrivavi di mattina rimanevi ad aspettare che fosse notte perché così non vi era gente per le strade, alle 9 o alle 10 aprirono e cominciarono i guai perché fino ad allora non dico fosse una villeggiatura ma quasi e la lunga marcia fino al campo, l’ingresso nel campo e la sosta fino alla mattina al muro del pianto, dove c’erano le docce, quelle vere, non quelle simulate a camera a gas. Era estate, peggio per quelli che ci capitavano d’inverno dove la gente moriva di freddo, doccia, vestiti non con le divise regolamentari a strisce ma con stracci, alcuni erano abiti borghesi, altri divise militare, io avevo un paio di pantaloni rossi militari, forse francesi del tempo di Napoleone, e lì si entrò nei blocchi di quarantena che non era una quarantena sanitaria ma attitudinale, per insegnarci come dovevamo comportarci e lì ci rimasi un mesetto tra una baracca e l’altra.

D: Ricordi le baracche quali erano?

R: Mi sembra che la prima fu la 16. Era la prima che si trovava entrando perché vi era un altro campo della quarantena, poi la 17 e poi per pochi giorni alla 18 che era quella dalla quale poi partimmo vestiti con la divisa, il numero, il mio era 82437. Il triangolo rosso, IT, (si diceva che avevamo la targa), il numero sul petto a sinistra, il numero sulla gamba destra e una cosina di latta attaccata al polso, non lo tatuavano come avveniva nei campi, se si scappava già vi era la pettinatura strana con la striscia rasa, bastava questo per essere ….

D: Cosa ricordi di questo mese di Mauthausen?

R: Abbastanza male, i giorni erano brutti e le notti brutte come i giorni. I giorni erano brutti perché si lavorava generalmente alla cava, 186 scalini senza scarpe, in mutande oppure con questi strani vestiti che avevamo ma niente zoccoli, con le pietre sulle spalle, su e giù, su con la pietra giù senza pietra.

Di notte si dormiva in quattro, vi erano i pagliericci stesi a terra, in quattro per ogni pagliericcio messi piede contro bocca, bocca contro piede, ma eravamo tutti sporchi per cui non aveva importanza.

D: Poi è venuto un altro trasporto con una selezione?

R: No, hanno chiamato un certo numero di persone, ricordo che gli italiani erano solo 7, 8, gli altri ebrei, polacchi, russi, francesi, jugoslavi, greci, e in treno, vagoni non carri bestiame, da Mauthausen a Linz c’è poca distanza. Più che Linz era un sobborgo industriale di Linz e arrivammo al campo che era un po’ meglio di Mauthausen nel senso che dormivamo in due per letto, poi per lungo tempo rimasi solo, avevo il letto, la cuccetta tutta per me e lì rimasi fino al 5 maggio.

D: Questo era Linz III?

R: Linz III, il campo di Linz I era stato distrutto da un bombardamento poco tempo prima che arrivammo noi a Linz III con molti morti e molti compagni miei venivano da Linz I.

D: A Linz III eri impiegato a fare che cosa?

R: Ero impiegato a fare lavori prima di essere assegnato a un lavoro fisso che era a una fabbrica di carri armati che si chiamava ……… per essere esatti la mia fabbrica era ………. Poi ve ne erano altre.

Quando i bombardamenti si intensificarono molte volte non si lavorava in fabbrica e si andava a trovare le bombe, a scavare le buche dove vi erano le bombe inesplose ma non sapevamo se non scoppiavano più o se erano a scoppio ritardato in modo da rendere accessibile, naturalmente, venivano poi gli artificieri tedeschi che pensavano a disinnescare.

D: Il campo Linz III era molto grande, vi erano molte baracche?

R: Saranno state 20 baracche dove si abitava, poi vi erano le altre, cucina ecc. ma dove c’era l’acqua ci si lavava, poi l’acqua non ci fu più per cui non ci lavammo più, siccome i bagni erano una cosa … bisognava spogliarsi in baracca, andare nudi al bagno che era abbastanza lontano nella neve con il freddo, poi un pochino di acqua calda, acqua ghiacciata poi senza asciugarsi tornare in baracca bagnati e rivestirsi, per cui meglio sporco che lavato in quel modo.

Dove abitavamo noi una ventina di baracche, ogni baracca era composta da due Stube, camerate, con in mezzo l’appartamento del capo baracca, vice capo baracca, capo Stube ecc.

D: Eravate in tanti come deportati?

R: Circa seimila!

D: Italiani?

R: Forse trecento.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Ricordo quello che ho detto prima Piccoli, Mugnaini, Cerchiai, penso che siano morti a parte il primo che se non è morto proprio ora, speriamo di no, ma gli altri penso per età, non so se sono ancora vivi. Poi vi era Otto Popper, austriaco di Vienna ma era stato preso in Italia a Milano, quindi, era targato IT, italiano, ebbe ancora fortuna ma poi sfortuna. Non so se interessa ma Popper era una bravissima persona, un caro amico, era quello con cui dividevamo il letto, i primi giorni quando andammo all’appello disse “A me sembra che insieme al vice capo campo ho giocato a poker a Vienna”. Quando ci fu il comando per lasciare il piazzale dell’appello si avvicinò a lui e disse il suo nome non andando direttamente da lui; l’altro si voltò si riconobbero e diventò il segretario del blocco, quello che segnava tanti morti, tanti arrivati, tanti presenti all’appello, dopo poco si ammalò, non so di che cosa e morì. Per essere lì fece la morte migliore che poteva fare, probabilmente, se fosse stato curato meglio se la sarebbe cavata, era giovane, una quarantina d’anni.

D: I posti lavoro rispetto al campo erano molto distanti?

R: Il mio era abbastanza vicino, andando piano dieci minuti un quarto d’ora ci si arrivava.

D: Vi erano anche dei civili?

R: Sì, vi erano i Meister che erano civili, il mio era lussemburghese volontario e poi vi erano molti IMI, non sapendo che nome dare ai prigionieri italiani militari, prigionieri di guerra non erano, civili non erano per cui avevano sulla divisa IMI, Internato Militare Italiano, in tedesco si scrive lo stesso.

Ricordo uno con il quale ci si parlava in tedesco perché era al CRAN, era un paranco che scorre su dei binari e quando doveva caricare dei pezzi ci si parlava in tedesco urlando, un giorno lo vidi scendere dalla scaletta in divisa e gli dissi, era la vigilia di Natale, “Buon Natale paese” e ci si riconobbe e fu quello che venne, dopo che eravamo stati liberati, al campo a cercarmi e mi disse se volevo andare al campo suo che mi avrebbe ospitato con altri italiani, c’era da mangiare, perché lì dove ero io non c’era più niente da mangiare, eravamo liberi ma non sapevamo che cosa fare, viveri non ve ne erano, aspettavamo che gli americani ci portassero qualche cosa ma non ci portarono nulla perché erano occupati a fare la guerra. Il nostro comando del campo che era formato da spagnoli, russi, fra l’altro lo spagnolo era un mio amico, andammo con questo italiano che si chiamava Rosito di Foggia, e chiesi se mi faceva uscire. Rispose: “Per ora non facciamo uscire perché vogliamo responsabilmente che qualcuno si prenda cura di voi, di noi, se poi non si vede nessuno vi si lascia andare via tutti”, così avvenne, nessuno venne, andammo via per i fatti nostri e finì lì.

D: Scusa, Franco, quante ore lavoravate?

R: Dodici ore, la nostra giornata era dalle 6 alle 6, turno di giorno e turno di notte. Naturalmente alle 6 dovevamo essere già sul posto di lavoro, quindi, credo che fosse alle 4,30 perché fra appelli, andarci, alla sera finiva alle 6 con l’intervallo per il lunch a mezzogiorno o a mezzanotte per cui erano 12 ore di presenza perché anche il lunch avveniva in piedi, era quasi lavoro anche quello.

D: Voi eravate addetti alla produzione bellica?

R: Carri armati Tigre.

D: Tu eri addetto in particolare a che cosa?

R: Con una squadra, di italiano vi ero solo io, Emile che era francese, Ivan russo, tre polacchi, e un ebreo polacco. Il lavoro era revisione cioè contare i buchi, non era un lavoro pesante ma vi era molto freddo, era più che altro la presenza. Quando vi furono i bombardamenti diventò molto più pesante perché c’era da sgomberare le macerie e andare ad isolare le bombe cadute.

D: Nella fabbrica vi erano anche delle donne?

R: No, non nella mia, eravamo in massima parte deportati, poi una quindicina di IMI e i Meister che erano tedeschi, il signore di cui parlavo prima era lussemburghese, quindi, equiparato ai tedeschi.

D: Il momento della liberazione te lo ricordi?

R: Lo ricordo male perché stavo molto male. In un primo momento avevano detto che dovevano trasferire il campo a Ebensee che essendo tra le montagne sarebbe stato occupato dopo, anche questa è una mania dei tedeschi: da Auschwitz li portavano a Mauthausen, in quel momento mi ero fatto male ad un dito lavorando ed ero nella baracca 14 che era quella di quelli momentanei invalidi. Dovendo fare questo sgombero fecero una selezione che consisteva nel fatto che sfilavano davanti ad un caporale della sanità e lui ci chiedeva “Puoi marciare?”, ovviamente risposi di sì, mi rimisero in blocco nella mia baracca per marciare su Ebensee, cosa che non è mai avvenuta.

Questo trasporto sarebbe stato a piedi e non fu fatto, non so per quale motivo, tanto che tornai alla baracca 14 con il mio ditone rotto.

Fanno un’altra selezione con la domanda “Puoi marciare?” … va detto che a parte il dito rotto ero in una condizione da non reggermi in piedi. Rispondo di sì e lui fu di parere diverso per cui mi rimise nel blocco 14. Devo dire che nella prima selezione quelli che non potevano marciare li fecero morire di fame nella baracca 14, senza ammazzarli, quindi, quando tornai nella baracca 14 la sgomberammo da tutti i cadaveri che c’erano e li abbiamo portati in una camera dove il camion li portava a Mauthausen, lì non c’era né camera a gas né crematorio, era un piccolo campo. Venne poi un contrordine, il governatore di Linz voleva strade sgombre per via del traffico militare e dei profughi, non ci credo perché eravamo seimila ma per buona fortuna cambiarono idea, ci misero tutti in fila, malati e sani, per muoverci e non sapevamo dove. Ci portarono nelle vicinanze di Linz, un paio d’ore di marcia, a una grande caverna sulla montagna vicino a Linz non più scortati dalle SS, ma scortati da vecchi, sdentati, ricordo che siccome erano senza denti la crosta del pane non la potevano mangiare e ricordo uno, figlio di cane, che aveva visto che stavo aspettando che la buttasse via e allora pestò bene bene questa crosta perché non la mangiassi io.

I russi che erano i più forti, i più numerosi con gli spagnoli che erano pochi ma organizzati molto bene si rifiutarono di entrare nelle baracche pensando che fossero minate.

Non capivo più nulla, ero in uno stato pre-comatoso, dopo qualche ora ci riportarono al campo, in fila scortati da questi vecchi territoriali. Ricordo che quando fummo nelle vicinanze del campo, spagnoli e russi, il piccolo comando che si erano preparati prima, presero i fucili a questi signori che non chiedevano di meglio che tornarsene a casa propria perché era gente di lì e tornammo al campo da liberi, tornammo al campo perché non avevamo altri posti dove andare e ricordo che andai nella mia cuccetta e che sentii sparare a lungo.

D: Questo quando avvenne?

R: La sera del 5 maggio, alla mattina andammo in questa strada alla caverna, qualche ora lì e poi era già scuro.

D: Gli alleati quando sono arrivati?

R: Gli alleati non li ho mai visti, ma non gliene faccio una colpa, evidentemente, erano occupati in altre cose perché come dicevo prima questo comando aveva chiuso il campo per consegnarci in maniera organizzata e responsabile e poi ci sparpagliammo, ognuno andò per conto suo e io andai in questo campo di ex militari italiani che era lì vicino, il campo 34, dove stetti per qualche giorno, ma stavo molto male e mi dissero di andare nelle vicinanze di Linz in un paese dove c’era un ospedale militare e il comandante era un ufficiale italiano, era un campo americano per cui noi italiani avremmo potuto sperare in un trattamento migliore. Mi ci portarono in macchina, una macchina rubata sul posto, e rimasi lì, eravamo rimasti solo italiani e jugoslavi, prigionieri di guerra, della breve guerra del 1941 perché gli americani l’hanno fatta a casa, gli inglesi e i francesi anche, i russi anche se non erano molto contenti di andarci perché so che poi, siccome erano vivi e questo puzzava di collaborazionismo, si erano battuti come potevano, la zona russa era vicinissima a dove eravamo noi, li avevano restituiti per cui si stava benissimo, eravamo in pochi. Fui curato e poi tornai a casa, a Bolzano.

A Bolzano andai all’ospedale civile, di lì venne una commissione svizzera che avevano organizzato a Malles, in Val Venosta vicinissimo al confine svizzero, un ospedale svizzero con personale svizzero, medicinali svizzeri, il cibo arrivava dalla Svizzera tutto a carico loro e stetti lì per una quindicina di giorni.

Di lì di nuovo a Bolzano all’ospedale civile e da Bolzano a Milano, da Milano a Torino e continuavo a stare male, sempre all’ospedale, per farla breve tornai a casa nell’agosto del 1946, avevo bisogno di cure.

D: Un anno dopo la liberazione!

R: Sì, un anno dopo!

Scala Remo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono SCALA REMO sono nato a Verona il 24 ottobre 1924 e alla bella età di 18 anni sono stato chiamato presso il Regio esercito perché eravamo in guerra ovviamente contro la Grecia, contro l’Albania, contro la Russia,  i paesi balcanici poi in definitiva.  Eravamo già alleati del terzo Reich. Essendo stato chiamato alle armi nell’agosto del ’43, ho dovuto presentarmi alla caserma di Belluno presso il Genio marconisti. Sennonché essendomi presentato il 23 di agosto, mi sembra che questa fosse la data, erano momenti in cui la situazione politico-militare italiana era piuttosto nebulosa; era una situazione che non seguivamo ma di cui ne subivamo le conseguenze. Presso la caserma del Genio di Belluno sono rimasto per una decina di giorni, 23 agosto, 31 agosto sono otto giorni, direi 10,12,14 giorni in questo lasso di tempo avrebbero voluto istruirmi per adoperarmi poi in Grecia come marconista. Infatti il primo scaglione della mia classe, mentre io andavo alla Caserma del genio, partiva per la Grecia, avremmo dovuto poi sostituirli successivamente oppure in altri campi comunque.  L’8 settembre i fatti naturalmente hanno sconvolto tutte le tradizioni militari e ognuno di noi ha scelto la libertà, ovviamente come è stato possibile, essendo Belluno discretamente vicino ai luoghi in cui io abitavo, prima degli eventi bellici, ho potuto rientrare in casa perché i miei abitavano a Lozzo, in una frazione di Lozzo Atestino della provincia di Padova.  A quel punto si presentava il dilemma di quale era la scelta da fare e per la verità non eravamo manco educati a fare una scelta, perché a 18 anni io che provenivo dalle scuole, non avevo esperienze politiche, abitavo in un paese di 3/4 mila abitanti,  prevalentemente agricolo e pertanto senza formazioni culturali specifiche, avrei potuto fare una scelta che era quella di nascondere la testa nella sabbia, tanto è vero che molti dei miei compagni di giochi di allora erano propensi a nascondersi nelle campagne.  Ho avuto la fortuna che mia sorella che abitava allora a Torino ed era in contatto ovviamente con l’élite di Torino, quella che ha potuto poi creare le premesse per il seguito delle scelte di una parte del popolo italiano, è venuta a trovarmi e mi ha consigliato e io ho  aderito ben volentieri mi ha consigliato di seguirla qui nel Piemonte. Nel Piemonte si erano formati già degli aggregati. Perché, essendosi sciolta la IV Armata di stanza in Francia, comandata dal generale Vercellino, molti dei nostri soldati alpini, a piedi o con altri mezzi avevano valicato le Alpi e si erano attestati nel cuneese. Perché molti avevano origini venete, altri avevano origini siciliane, del meridione, per cui non potevano ovviamente portarsi immediatamente nelle loro case e attestandosi lì con armi e bagagli hanno creato dei nuclei, nuclei che sono stati – per nostra fortuna – raccolti da eminenti persone politiche con origini di giustizia e di libertà, provenienti anche da formazioni politiche comuniste o comunque di altre estrazioni. Nel caso mio il Duccio Galimberti che allora era avvocato a Cuneo, aveva ovviamente si era buttato allo sbaraglio, tanto è vero che sulla piazza di Cuneo, lui aveva arringato la folla invitandola ovviamente alla ribellione; comunque lui e altri hanno organizzato in un modo embrionale le prime formazioni. Io al primo ottobre sono andato a formare una formazione, guidata dal capitano Cosa – deceduto di recente -, dal tenente Bertoldo di Vicenza, da un sergente dell’esercito, no ho saltato il quinto, poi c’era addirittura un marinaio con noi e poi c’ero io.  Ero la mascotte, perché ero il più giovane di tutti, per cui diciamo che ero guardato con un occhio privilegiato se vogliamo, se non altro perché tutti mi erano superiori, superiori di esperienza oltretutto. Per cui siamo stati i primi cinque a formare questo aggregato, però noi cinque siamo quelli che abbiamo preso le armi che la IV armata abbandonava via via che si allontanava dalle Alpi e creare dei depositi. Abbiamo cominciato a ricevere a ingrossarci tanto che siamo arrivati ad una formazione di inizialmente di 70 / 80 persone, avevamo tre camion con i quali andavamo nei consorzi a rifornirci di mezzi che poi dovevamo dare alla stessa popolazione che in quel momento non poteva essere rifornita direttamente, perché queste formazioni che erano nate in Val Beggio, a Boves, a …, nel moretanese in genere, ovviamente erano condizionate dalle forze nazifasciste che erano di stanza a Cuneo. Infatti quando noi volevamo fare determinate azioni rompevano il posto di blocco che c’era a Furio, facevamo gli affari nostri e tornavamo a casa, questo era possibile agli albori perché l’entusiasmo nostro e c’era anche l’apatia della parte avversa, non certo dei tedeschi, perché i tedeschi arrivavano quando naturalmente noi disturbavamo i loro interessi. Infatti una delle prime azioni è stata quella all’aeroporto di Mondovì, quando abbiamo portato via 80 fusti di benzina, abbiamo distrutto quattro apparecchi di poco conto, penso apparecchi di avvistamento, era qualcosa che andava bene in quelle località.  Indubbiamente Boves,  Pedraglio, Certosa di Pesio, cominciavano ad assumere delle formazioni militari piuttosto preoccupanti perché certe azioni le facevamo unendoci bande con bande, infatti i nomi che ricorrono del cuneese sono il tenente Aceto, il tenente Dunchi, quello che è stato impiccato in Corso Vinzaglio a cui è stato intitolato l’organizzazione a cui ho aderito io, adesso, da sempre; l’hanno impiccato lì, comunque mi sfugge il nome, è la mia memoria che è piuttosto labile nel tempo, è ovvio che naturalmente questo si verifica più facilmente.  Comunque arriviamo alla Pasqua del ’44 ci hanno attaccato due divisioni tedesche con carri armati cannoncini 88, con l’aviazione per l’avvistamento e ci hanno squassato. Io sono scappato, io comandavo un distaccamento, abbiamo sparato fino a che abbiamo avuto munizioni, poi ci siamo ritirati.

D: Dove è avvenuto questo Remo?

R: Nella Val Pesio, in alta Val Pesio. Infatti io che comandavo un distaccamento che non doveva essere attaccato, perché nel mio distaccamento c’ero io e c’era Piero Bertoldo, ed eravamo lui del 22 faceva parte della IV armata con Vercellino, io invece ero nuovo di zecca e mi ero fatto le ossa nelle varie azioni che avevamo intrapreso e subìto per la verità, anche. Siccome il …era uno spazio di traffico tra la Val Pesio e la Val Ellero, perché noi avevamo il dominio della Val Pesio, della Val Ellero, della Val Corsaglia, della Val Casotto, fino a lì. E il mio distaccamento presidiava la Val Ellero e la Val Pesio, invece cosa è successo? Che gli ucraini che erano, quando c’è stato l’attacco di Pasqua da parte dei tedeschi, i tedeschi avevano come elementi di rottura gli ucraini o i russi, almeno così dall’aspetto così era interpretato da noi; la Val Pesio è la continuazione, la Val Pesio è un fondovalle inizia una strada un ex strada militare che non so per quale ragione era stata costruita a suo tempo, probabilmente perché in alto c’erano dei campi di addestramento per alpini per artiglieria alpina, e comunque mentre… Giasmadona…che era appendice di Vallata che partiva dalla Val Pesio si protendeva verso la Val Ellero che era parallela alla Val Pesio, tanto per creare figuratamente le condizioni, lo spartitraffico in cui ero io quando ero stato mandato lì, mi avevano detto “devi andare lì” e mi hanno dato tutto quello che era possibile avere, troverai una malga che usano i malgari d’estate. Siamo arrivati lì e non c’era nessuna malga, non c’era perché era coperta di neve, allora abbiamo fatto un buco lì di due metri di profondità e siamo entrati, lì poi tagliando dei rami di pino abbiamo creato delle posizioni sopraelevate perché sul pavimento scorreva l’acqua naturalmente prodotta dalla neve che si scioglieva. A lato di Giasmadona che era ad angolo retto con la… c’è il Vallone Cavallo. I tedeschi si erano attestati alla Certosa del Pesio, che era una vecchia, una bella costruzione per la verità, e avevano i … avevano salito, erano risaliti il Vallone cavallo, e sono arrivati dove ci trovavamo noi e sono arrivati, presumo verso la mezzanotte. Noi ci siamo accorti e avevamo in postazione un mitragliatore, avevamo una mitragliatrice con un raffreddamento ad acqua, avevamo anche un… e comunque abbiamo sparato, ma si fa presto a consumare le poche munizioni di cui eravamo in possesso. Premetto che noi avevamo con noi sei ragazzi che erano infermi per congelamento, per dolori reumatici, erano per la verità, almeno quattro erano siciliani, per cui non abituati a quelle temperature, allora siccome al di sotto del Giasmadona c’era un altro distaccamento, comandato da un maresciallo, allora avevo fatto allontanare sei dei miei, e li avevo fati fluire presso l’altro distaccamento, perché avevano più possibilità quelli. Siamo arrivati in quattro abbiamo sparacchiato  quanto ci è stato possibile, e poi ho fatto allontanare siamo rimasti in postazione io e Piero Bertoldo, si sono allontanati poco prima gli altri due, l’ultimo colpo che ci hanno sparato ce l’hanno sparato con la pistola. Abbiamo intravisto delle ombre, noi siamo scesi verso l’altro distaccamento, perché poi di lì potevamo congiungerci con il comando, sennonché avevamo almeno due metri di neve, si infilava una gamba e con le mani si tirava fuori la gamba per portare l’altra più avanti, comunque siamo arrivati all’altro distaccamento che era già stato abbandonato perché era in piena offensiva, e siamo arrivati io e Piero Bertoldo in mezzo ai boschi, i pini erano tutti forati dalle pallottole erano. Mi ricordo che eravamo nel cuore della notte, eravamo fermi ed è passata una pattuglia dei tedeschi a cento metri da noi, loro chiacchieravano tranquillamente, siccome avevano già conquistato il comando, il comando si era ritirato verso la Bisalta, che era la montagna più alta lì, erano padroni della zona.  Comunque il mattino dopo noi siamo arrivati a livello della Val Pesio, abbiamo, c’era un carro armato che transitava avanti e indietro, che faceva naturalmente da pattuglia, abbiamo aspettato che ci avesse superato, abbiamo attraversato il Desio, il fiume Desio e siamo passati dall’altra parte, l’altra parte era stata conquistata e controllata precedentemente perché era una collina abbastanza dolce per cui… … … comunque siamo riusciti a uscire dal cerchio, ci siamo poi incamminati verso Alba, perché ad Alba c’era una grossa formazione e per arrivare lì ad Alba abbiamo dovuto ovviamente trovarci con altri piccoli gruppi che comunque erano alle dipendenze di questa grossa formazione, le quali ci hanno ospitato ci hanno rifornito di denaro e di mezzi. E io e Bertoldo siamo andati a casa nostra. Siamo arrivati a casa nostra qualche giorno, poi è arrivata mia sorella, mi ha riportato a Torino, sono stato aggregato alle formazioni del comando regionale, e in questa formazione cittadina ho fatto alcune azioni con alcuni che però via via queste formazioni si sono assottigliate perché il comandante del mio gruppo è stato arrestato ad esempio; successivamente io che abitavo in una certa via di Torino dove aveva accesso anche a volte Duccio Galimberti, però ci spostavamo per mangiare o per dormire in altre abitazioni, io in uno di questi spostamenti sono capitato in Via Pizzecchi 36, mi hanno preso e sono andato a finire alle Nuove. 

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la Questura. Faccio un passo indietro ma molto breve. La mia dotazione era: documenti falsi, avevo un bilingue tedesco che mi dava l’accesso a servirmi di tutti i mezzi mobili, treno, aereo, qualsiasi mezzo, nell’esercizio delle mie funzioni; appartenevo alla questura di Brescia e avevo un tesserino regolamentare a tutti gli effetti; avevo altri documenti, ero armato perché ero un questurino ovviamente in missione a Torino e nel contempo avevo anche una lettera che il Comitato di Liberazione mi aveva affidato che avrei dovuto consegnare mi sembra di ricordare nel pomeriggio. E quella è stata personalmente quella che mi ha messo in difficoltà. Perché evidentemente sono stato seguito o sono stato denunciato, faccio tutte delle ipotesi Sono stato arrestato da dei poliziotti, dalla Questura.

D: Quando questo?

R: Se ricordo bene o il 7 o il 17 luglio del ’44.

D: Ti hanno portato alle carceri Nuove?

R: No, immediatamente mi hanno portato nel Commissariato che stava dietro, dove in quel momento io avevo stabilito il mio domicilio, non ufficiale ovviamente, dove andavo a mangiare e a dormire, per la verità non c’ero ancora andato una volta perché era il primo giorno che mi portavo lì, perché avevamo un appuntamento lì.  Sennonché quando mi hanno portato al Commissariato, la prima cosa è quella che mi hanno preso la pistola, mi hanno preso i  documenti e mi hanno preso la lettera, ovviamente mi hanno messo subito in una cella e mi hanno lasciato lì. I telefoni avranno cominciato a ronzare perché nel tardo pomeriggio mi hanno preso e mi hanno portato alla Questura in Corso Vinzaglio. Lì ho subìto un primo interrogatorio. Dopo questo primi interrogatorio, non ricordo se è stato lo stesso giorno nella notte o il giorno immediatamente successivo, sono stato portato alle Carceri le Nuove che si trovano a Torino in corso Vittorio Emanuele 127.  E lì sono stato aggregato al primo braccio tedesco. Perché c’erano, tutti i carceri hanno dei bracci, sembra che sia l’architettura con cui sono stati ideati a suo tempo.  E lì mi sono fermato, mi sembra, un paio di mesi. Quasi giornalmente venivo preso e portato all’Albergo Nazionale in Piazza San Carlo, e lì a volte a schiaffoni a volte con belle maniere, perché i due sistemi si, insomma evidentemente fanno parte di una casistica……

D: Scusa, lì all’albergo che dici te, cosa c’era, era sede di che cosa?

R: La sede delle SS tedesca.  Infatti tutte le inquisizioni sono state fatte lì, perché invece le brigate nere avevano sede in tutt’altra zona della città che era in Via Asti… io non sono mai stato lì.  Nei primi tempi miei io ho detto sono stato aggregato al braccio tedesco, non è vero il primo tempo ero…, al… molto probabilmente in forza non tanto della Questura, quanto probabilmente delle brigate. Cioè non sapevano bene se io dovevo essere utilizzato dalle brigate nere o dalle SS e sono stato messo nelle cantine che non hanno la luce del giorno, tanto è vero che le lampadine erano accese giorno e notte, però il trattamento era… però per portarmi all’albergo Nazionale comunque mi prelevavano di lì. Evidentemente dopodiché ho assunto una identità specifica e allora sono stato mandato alla cella mi sembra 50/52 del primo braccio tedesco. La cella aveva le dimensioni di tre metri per due, inizialmente ero solo, successivamente hanno, hanno messo con me un partigiano della Valsesia, successivamente hanno aggiunto un terzo membro in questo albergo mio, che era uno di Bardonecchia. E in ultimo hanno messo il dottor Veroi che era il direttore del Banco di Roma, il quale abitava allora all’albergo che c’è in Via Carlo Alberto, che c’è tutt’ora, un albergo di seconda categoria comunque, avevano fatto una retata preso tutti quanti e li avevano…  A questo punto hanno aggiunto un ragazzo tedesco di 16/17 anni, che abitava ad Ivrea con la madre. Siccome in quel momento, in quell’epoca doveva essere stato emanato un editto in Germania che tutti i tedeschi civili dovevano rientrare in patria, nel timore che questo ragazzo non rientrasse l’hanno preso e l’hanno messo in cella con me. Parlava perfettamente l’italiano, era un piacere per me conversare con lui, perché io 18 anni e lui 17, 16/17, eravamo coetanei, comunque mi ha insegnato molte cose, mi ha dato i primi rudimenti di tedesco, mi ha detto cosa vuol dire …… oppure altre cose. Poi, probabilmente constatato, che ero più utile in Germania che rimanere in prigione lì, nonostante tutti i giorni facessero gli appelli per andare a prelevare degli ostaggi da utilizzare a memento per la popolazione, ovviamente, sono partito di lì unitamente a due pullman e siamo andati a Milano; abbiamo prelevato delle altre persone, e siamo andati a Bolzano.

D: Questo quando?

R: Direi i primi giorni di settembre, perché se io sono stato arrestato il 7 luglio, ho trascorso …alle Nuove, luglio agosto due mesi, i primi giorni di settembre.

D: Nel campo di Bolzano quindi ti hanno messo dove?

R: Nel campo di Bolzano mi hanno messo insieme a tutti gli altri, nel capannone, ovviamente, però io a Bolzano mi sono fermato quattro o cinque giorni, direi una settimana sola. Perché probabilmente c’era un trasporto che avrebbe, cioè giornalmente c’erano in atto dei trasporti. Faccio solo una breve pausa. Quando ero su in montagna nella Val Pesio, con noi avevamo un capitano inglese che lui si faceva chiamare Ciro Cavallino, ed era uno del controspionaggio inglese ed era stato paracadutato con la radio per farci avere i lanci.  Quando io ero alle Nuove, un giorno siccome tutte le sere ci affacciavamo alle sbarre e da cella a cella si chiacchierava, ho sentito la voce di un tizio che per me era nota. E l’ho chiamato e gli ho detto “mio Ciro” perché lui diceva che era genovese, allora anziché dire “Ciro Cavallino”, mio Ciro alla genovese, e lui mi ha detto “e tu chi sei?” e io ho detto “io sono il piccolo alpino, quello che tu hai definito piccolo alpino. Ci siamo comunque ritrovati, lui era stato arrestato con la radio a Mondovì, io ero stato, avevo avuto altre vicende, e comunque ci siamo ritrovati a Bolzano. Dovevamo scappare da Bolzano, però scappare da Bolzano era discretamente facile, ma la Valtellina era nominata perché tutti i contadini che riuscivano a prendere uno di noi avrebbe beneficiato di una certa … Lui è partito per Auschwitz e non è più tornato. Io successivamente sono partito per Dachau. Avremmo potuto scappare, perché bastava togliere le assi dei vagoni bestiame ed era forse fattibile, però c’avevano ammonito che per ognuno che scappava sette ne avrebbero ammazzati, e direi che nessuno ha tentato di scappare. Comunque sono arrivato a Dachau.

D: Erano i primi di ottobre, se ti ricordi?

R: No direi ancora settembre, settembre perché io a Bolzano sono rimasto una settimana, non di più. In una settimana a me mi hanno portato due volte a Gargazzone, e mi sembra che ci sia un paese con quel nome, a raccogliere le mele. Per cui sono stato una settimana, un paio di volte a raccogliere mele e un paio di volte a caricarmi dei fasci di legno da portare da un posto all’altro, solo per tenerci occupati ovviamente. E’ un sistema valido in tutti i campi di concentramento. Naturalmente anche in quelli inglesi comunque, almeno il cinema ce ne dà …

D: Ti ricordi se col tuo trasporto c’erano anche dei religiosi con te?

R: Con me da Torino noi siamo partiti, sono partito con padre Girotti e un domenicano, che era un continuatore di una critica, più che di una critica di un qualcosa sulla Bibbia, ed era un uomo molto illuminato, era stato molto in Palestina, molto nell’estremo oriente, doveva conoscere molto bene le lingue, e con me c’era poi anche Padre Girotti. C’era un sacerdote leggermente più vecchio di me, ma che comunque era un uomo veramente dedito alle cure delle sue anime, al di là di qual era la confessione e la colorazione politica.

D: Scusa hai detto Padre Girotti e quell’altro? erano due o uno i sacerdoti?

R. No, due.

D: Don Angelo?

R: Sì, ma il cognome?

D: Dalmasso. E sono partiti con te anche da Bolzano?

R: Sì tutti e due, tutti e due sono partiti con me e siamo arrivati a Dachau. E a Dachau ovviamente siamo arrivati in questo megacomplesso Dachau e un altro nel 1933, Dachau che è il primo campo di concentramento tedesco nato unicamente perché per i sommovimenti socialistoidi, oltre credo che quelli degli ebrei, diciamo, siano stati successivi perché il mio capo campo del mio blocco era dentro, era 11 anni che era dentro, era dentro nel 33, ed era un tedesco. Era un tedesco, ed era dentro perché, a detta sua, perché era un socialista. A Dachau inizialmente siamo stati messi nei blocchi chiusi perché era molto organizzato Dachau. Dachau immaginatevi un campo immenso nel quale conviveva un campo da football, convivevano le docce, e poi c’era tutto un reparto che diviso da viali fiancheggiati da alberati, da cipressi. A destra e a sinistra c’erano blocchi chiusi e blocchi aperti, blocchi dei ciechi e blocchi dei sacerdoti, c’erano i blocchi, c’erano i … dei blocchi particolari che in questo momento non mi sovviene qual è la definizione che potrei dare. Io ero in un blocco chiuso, blocco chiuso perché avrei dovuto, nelle teorie, stare lì 40 giorni, dopo di che visto che non ero contagioso avrei dovuto essere immesso nei lavori comuni. Invece non è vero. Padre Girotti e Don Dalmasso invece sono andati a finire ad alimentare il blocco dei sacerdoti. Dietro il mio blocco chiuso c’era il blocco dei ciechi. A Dachau io sono stato prelevato, assieme a molti altri, venivamo prelevati alle tre di notte perché c’era la solita conta che durava da un’ora a due ore, venivo portato a Dachau, a Monaco di Baviera, per mettere a posto i pilari evidentemente, perché avevano subito dei bombardamenti o altro genere di infortuni.

D: Il tuo numero di immatricolazione di Dachau te lo ricordi?

R: Ce l’ho a casa.

D: Però ti hanno immatricolato?

R: Certo, certo, io ce li ho tutti e due i numeri, uno più alto e uno più basso, perché ovviamente il secondo probabilmente quello chiuso, comunque te lo posso comunicare per telefono quello, eventualmente se lo puoi inserire. E’ un numero di 6 cifre comunque quello di Dachau. Però … che comunque non sono mai stato uno sprovveduto, ho sempre cercato di proclamare, per quanto è possibile, la mia vita, Dachau comunque era una prospettiva che era quantomai dolorosa e difficile, e non mi consentiva delle possibilità. A Dachau si poteva scappare, ma molti di quelli che erano scappati erano rientrati e portavano sulla schiena un grosso cerchio rosso per cui evidentemente non era una strada da seguire. Nel frattempo evidentemente si era creata la necessità da parte delle formazioni tedesche, dell’intelligenza tedesca, di attivare delle fabbriche per alimentare la guerra. Per cui cercavano degli operai specializzati per appunto popolare queste fabbriche. Cercavano un po’ di tutto. Io siccome eravamo alle soglie dell’inverno, ovviamente l’inverno nelle condizioni che avevo, gli indumenti che era una giacca di canapa, una camicia che doveva essere, provenire dall’Ungheria perché era tutta istoriata, era splendida, ma era trasparente, pantaloni e una specie di paletot, il paletot era la stessa giacca leggermente più lunga. Le prospettive comunque, l’alimentazione era quella che … Diciamo che in quelle condizioni io potevo sopravvivere ancora per qualche mese perché provenivo già da un ambiente che mi aveva alimentato, mi aveva riempito fisicamente, mi aveva consentito di sopportare anche disagi. Comunque io … Mi sono messo in lista per andare ad unirmi a questo gruppo. Mi hanno chiesto qual era la mia specializzazione, io avevo detto che ero un collaudatore della Fiat, che conoscevo il …, il dico metro, … conoscevo un po’ tutte le strumentazioni, il che non è vero, le ho scoperte dopo … E loro, per carità, sapendo che provenivo dalla Fiat era vangelo il mio. E assieme con me è partito un altro col quale sono sempre, c’era un mulatto che è sempre stato assieme con me, Dino Miniti si chiama. Comunque il trasporto era diretto a Buchenwald, però le necessità, tutti i grossi campi di concentramento, Auschwitz, Buchenwald, Dachau, e non lo so quanti altri, Ravensbrück, avevano dei sottocampi che venivano utilizzati nei modi più svariati, vuoi perché c’era una sovrappopolazione, e allora per esempio a Dachau correvo il rischio di andare ad Allach, ad Allach era morto il tenente Franco, che era il comandante della … Per cui diciamo che andando in fabbrica è vero che avrei reso più difficoltoso la fine di questa guerra, però diciamo che tutto sommato, io una parte l’avevo fatta, la seconda parte me la sarei gestita per conto mio, per cui avrei potuto collaborare o tentare anche qualcosa d’altro.

Comunque siamo stati portati a Bad Gandersheim, che è un sottocampo di Buchenwald. A Bad Gandersheim c’era una fabbrica che probabilmente era stata abbandonata per la semplice fatto che la popolazione attiva era stata mandata in Russia.

D: Scusa, quindi a Buchenwald non ti hanno portato in quel trasporto lì? E ti hanno immatricolato nel sottocampo?

R: Certo. Arrivati a Bad Gandersheim ci hanno ricoverati nella chiesa sconsacrata, perché il campo non c’era. Allora abbiamo creato il campo, le baracche, abbiamo creato, l’abbiamo circondato col filo spinato, con l’alta tensione, coi vari trespoli dove le guardie ci controllavano giorno e notte, e nell’ambito del campo era inserita anche la fabbrica.  Niente, io ho preso posto al collaudo dei pezzi, la fabbrica produceva aeroplani, i caccia. Nel tempo che sono rimasto lì ne abbiamo costruito uno, non ne è uscito nessuno. Nel frattempo, anche perché la Russia avanzava, infatti dietro al mio banco di lavoro c’erano dei carsuoli che avevano delle dimensioni di 3 metri per 2, ed erano le masserizie dei tedeschi, dei tecnici tedeschi che erano in Polonia o oltre Polonia, e che arretrando rimandavano alle loro origini le loro cose. Tanto è vero che io ho tolto un’asse da questo e ho trovato delle carte geografiche che ho potuto dare a un cecoslovacco il quale è scappato. Lui conosceva la lingua tedesca abbastanza bene.

D: Il trasporto da Dachau a questo sottocampo di Buchenwald, ti ricordi quando più o meno è avvenuto? Prima dell’inverno? Prima di Natale o dopo Natale?

R: prima di Natale, direi che è avvenuto nei primi giorni, nella prima decade o quindicina di ottobre.

D: Quindi appena arrivato tu a Dachau in sostanza

R: A Dachau io ci sono stato 15-20 giorni, forse anche 20 giorni, sono andato cinque o sei volte a Monaco di Baviera a lavorare, e poi basta.

D: Ti ricordi invece ritornando in questo sottocampo di Buchenwald, dicevi costruivate degli apparecchi voi, degli aeroplani, ti ricordi per che ditta?

R: Io ho sempre detto che è la Messerschmitt, però una dottoressa di Berlino che è venuta ad intervistarmi, e che io ho …., mi ha detto che non era la Messerschmitt, non era neanche la Yunker, era un altro nome molto probabilmente il governo tedesco, come il governo italiano, dava mandato alla Fiat la quale Fiat poi passava, diciamo, certe competenze ad altre. Comunque il nome è diverso.

D: E tu sei rimasto lì sempre in questo sottocampo di Buchenwald?

R: Sempre nel sottocampo di Buchenwald, inizialmente abbiamo fatto questi aeroplani,  in un secondo tempo abbiamo creato ……, era un imbuto alto direi cinque-sei metri, ma proprio ad imbuto, ed è rimasto tale. Il terzo aggiornamento di produzione sono state zappe, vanghe, tridenti e cose del genere. Comunque il tutto è rimasto dentro perché le ferrovie tedesche non avevano possibilità di spostamenti, perché i bombardamenti erano tali infatti a volte io ho osservato che c’erano delle incursioni che duravano per delle ore, oscuravano il sole, c’era una grossa ombra sul terreno. Per cui, ecco perché la fabbrica ha prodotto senza essere d’aiuto.

D: Remo eravate in tanti in questo sottocampo qui di deportati?

R: In questo sottocampo faccio un calcolo a memoria, c’era un blocco italiano, un blocco di russi, un blocco di francesi, un blocco di polacchi, un blocco eterogeneo, e direi che per ogni blocco potevano esserci, sei blocchi diciamo e non cinque, sei blocchi un 500 persone. Forse anche di più.

D: E lì sei rimasto, in questo sottocampo sei rimasto fino a quando?

R: Siamo rimasti fino all’incirca alle soglie della Pasqua del ‘45, che non so in che mese sia caduta. Premetto che gli ultimi giorni ci è stata fatta una ricca offerta da parte del comandante del campo, ha detto chi di noi vuol vestire la divisa tedesca avremmo potuto avere gioie, denaro e oltretutto, ma invece qual era la voce di sottofondo? che ci avrebbero incatenato alle mitragliatrici perché eravamo tutti militari validi, eravamo.  Faccio una premessa che nel campo avevamo un Revier, cioè un ospedale, un’infermeria. Io sono stato ammalato, sono svenuto in fabbrica, febbre a 40, mi portano in infermeria e il medico dell’infermeria era uno spagnolo, il quale aveva fatto la guerra contro Franco. Poi ha vinto Franco e lui è passato in Francia. E’ stato preso dai tedeschi quando hanno conquistato la Francia e l’hanno portato lì. Gli ultimi tre giorni del campo c’è stata fatta prima l’offerta di vestire la divisa, successivamente il comandante del campo ha detto che ci avrebbe spostato perché stavano avanzando inglesi, francesi e americani. E noi ci trovavamo in un cul de sac, come si dice. Pertanto chi era in condizioni di camminare sarebbe stato, avrebbe fatto parte della colonna, chi non era in condizioni di camminare sarebbe stato aiutato, caricato su dei carri. Molti hanno aderito, alcuni hanno aderito a questa seconda offerta, possibilità, e mentre noi ci siamo rivolti eravamo in un buon rapporto col medico, andiamo dal medico gli diciamo “cosa dobbiamo scegliere?” e lui ci ha risposto “marchez, marchez, marchez”, tre volte ce lo ha detto. Noi ce ne siamo andati via, il mattino dopo verso l’alba, verso le 4 del mattino, mi sono andato per andare a quella specie di toilette che era poi una fossa con una specie di panca da una parte e dall’altra, ci si accomodava come si poteva lì, e nel frattempo hanno raggruppato quello che avevano aderito ad essere … Dietro il campo c’era un boschetto un po’ più in alto, li hanno portati lì, avevano piazzato le mitragliatrici, non se ne è salvato uno. E lì ce ne saranno rimasti poco poco una cinquantina. Poi ci hanno intruppato, siamo partiti. Prima di partire hanno impiccato un prigioniero, perché doveva aver commesso qualcosa che non era gradito ai tedeschi. Probabilmente era un ammonimento, perché quello era palese, invece l’assassinio nel bosco era qualcosa di occulto, e pertanto non otteneva lo stesso effetto. Ci hanno portato via, ci siamo incamminati, non lo so in quale direzione ovviamente, doveva esserci un’apertura ovviamente ad un certo, e il primo giorno, la prima sera, ovviamente siamo partiti, non ci hanno dato né alimenti né nulla, ognuno di noi ha portato tutti i propri bagagli. Ci hanno fatto accomodare in una chiesa, cristiana, cattolica, apostolica. Infatti le pie donne ci hanno aperto la porta, siamo entrati, hanno chiuso a chiave. Faccio la premessa che abbiamo, siamo andati, prima di partire siamo andati nelle cucine e nei magazzini, e tutto ciò che abbiamo potuto arraffare lo abbiamo arraffato. E molti di noi, io compreso, abbiamo preso delle patate, ma delle patate di quelle che mangiano i ragazzi, mi sfugge il nome comunque. Le abbiamo mangiate, non avremmo dovuto. Comunque entrati in questa chiesa con noi c’era un gruppo di polacchi, i quali si sono avvicinati … e hanno suonato l’Ave Maria. Le lacrime, sembrava il Mississipi sembrava. Dopo di che ovviamente tutti avevamo la dissenteria, non potevamo, non c’era una toilette, ci siamo accomodati per quanto, il mattino dopo, dopo questo oltraggio da parte nostra ovviamente le pie donne che hanno inveito, con ragione sotto un certo aspetto perché abbiamo sconsacrato qualcosa che era un mito da guardare col massimo del rispetto, ma nel contempo avrebbero dovuto provvedere in qualche modo. Comunque la punizione per quello che avevamo commesso, ne hanno scelto un certo numero e chi li sceglieva il comandante. Faccio un passo indietro: il comandante del campo non ha scortato la colonna, la colonna era guidata da un sergente polacco delle SS, una vera figura del militare classico per tradizione, il quale aveva il compito di scegliere chi di noi era sacrificabile. Dopo di che c’erano i soliti due russi dietro alla colonna, i quali avevano unicamente il compito naturalmente di non far soffrire per quanto era possibile, e poi la mentina era quella che mascherava e annullava in parte, perché non poteva annullare tutto quanto. Tutto questo si è verificato per nove giorni, e per nove giorni la colonna che è partita, perché abbiamo formato varie colonne, la mia colonna che eravamo 1.500 in partenza, ho detto 1.500 mentre prima parlavo di un cinquecento, probabilmente non so quale dei due sia il valore esatto, ma comunque ammettendo che fossimo anche un cinquecento, io ero ad un certo momento, dopo che sono scappato tre volte, l’ultima volta ero il 35° vivo.

D: E di questi quanti italiani Remo?

R: C’era uno di Roma, direi che eravamo equidistanti, forse eravamo 5-6 italiani, 5-6 francesi, qualche polacco, c’erano degli ungheresi, c’erano dei cecoslovacchi, c’era tutta l’Europa.

D: Remo tu sei scappato dove più o meno, ti ricordi?

R: Sono scappato, oso dire, la prima volta sono scappato forse al terzo giorno di marcia, sono scappato perché io non avevo futuro perché i vestimenti, i pantaloni e la giacca di canapa nel camminare strusciavano sulla pelle e mi avevano scoperto le ossa delle ginocchia. Nel contempo, siccome io ero partito con gli zoccoli olandesi, erano zoccoli non adatti al mio piede cosa succedeva.. che  un po’ strusciavo in avanti e un po’ invece  a seconda del terreno. E mi sono rovinato totalmente i piedi. Un mio compagno di Milano mi ha prestato le sue scarpe, disgraziatamente nel tallone c’era un chiodo che si è infilato nel mio tallone. Comunque il medico spagnolo mi ha medicato, mi ha messo le garze di carta, che sono durate lo spazio non di una notte lo spazio di un paio d’ore, perché l’umore del liquido che usciva dalle ginocchia e dai piedi ovviamente … Comunque al terzo giorno ho detto “tanto per andare oltre”, si era creata l’opportunità, mi era sembrato che eravamo già diminuiti di numero, mi sembra che ci fosse una certa forma di lassismo da parte delle SS tedesche che erano tutti molto anziani per la verità, perché i giovani erano sui fronti, sui vari fronti. E io e Minetti di Torino ci siamo allontanati in una sosta. Avremo fatto 300 metri, un ragazzino che poteva avere 8-11 anni non di più, con un fucile, un … che era più lungo di lui, ci ha fermato, ci ha portato in paese perché evidentemente c’era stata la segnalazione, e i tedeschi avevano ovviamente schierato dei vigilanti.

D: Scusa Remo, tu quindi la tua Liberazione tu sei scappato per liberarti?

R: Mi sono liberato.

Varini Valter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Varini Walter, nato a La Spezia il 4.12.1926, residente a La Spezia.

Il 21 novembre 1944 è stata rastrellata Migliarina dalle Brigate Nere, portato alla Caserma XXI a La Spezia, stetti un giorno alla Caserma e all’indomani ci hanno portato con i camion a San Bartolomeo dove ci hanno imbarcati sulle motozattere e via mare siamo arrivati a Varazze, siamo arrivati il 22 notte.

Ci hanno messo nelle celle cubicole in attesa del processo. Dopo quindici giorni ci hanno chiamati al processo in ordine alfabetico, mi dicono questa è la condanna, ventuno, “Lei deve dire la verità, altrimenti, la portiamo su un quattro”. Io sapevo tutto, essendo nei cubicoli avevo spaccato il cancelletto ed ero andato giù a parlare con i rastrellati del 21 novembre 1944 e mi avevano detto: “Le accuse sono così e così, non devi dire sempre sì o no, un po’ sì e un po’ no, altrimenti, vi ammazzano di botte”, infatti, loro erano tutti rovinati.

Quando sono andato su l’ho detto e anche Borrelli ha sentito. Vado all’interrogatorio e vi era il Brigadiere Morelli e mi chiede “Come ti chiami?”, rispondo “Varini Valter”. Mi dice “Saresti quel partigiano che era in Garfagnana?”, chiedo “Come fate a saperlo?”, risponde “Abbiamo catturato i nomi del Comitato”. Ero giovane e potevo anche sfottere; ho risposto “Siete stati in gamba, come avete fatto?”, mi ha risposto “Non ci pensare!”

In quel mentre entra Batisti, un altro Capitano delle Brigate Nere. Aveva un braccio al collo e all’attaccapanni vi era una pistola fuori ordinanza e chiede “Cosa c’è Morelli che non vuole parlare?” “Non vuole dire chi lo ha iscritto al Comitato Liberazione“. “Lo faccio parlare io!”, ha preso la pistola e gli ho detto “Mi ammazzi pure”. “No, no, troppo onore ammazzarti, devi dire chi ti ha iscritto al Comitato di Liberazione”. “Ho tirato fuori dei nomi … Non quelli che mi hanno portato ai monti”

“Le accuse sono 21 e le leggiamo: ha partecipato all’attacco in Val Durasca contro le Brigate Nere e i tedeschi e ha ammazzato questo …” Rispondevo “No” …”Ha ammazzato questo …” Rispondevo “Sì” , non era vero. “Ero armato con un boschetto” “Chi te lo ha dato?”

Vi era gente catturata e seviziata, accusatori e ho risposto “Me l’ha dato il Tizio” “Guarda che lo vado a chiamare” “Vada pure, se lo dico è la verità”.

Lo va a chiamare e chiede “Ivano conosci questo?” “No, non, non lo conosco!” “Ma come non mi conosci, tuo padre lavorava con il mio, come fai a non conoscermi?”

“Questo dice che tu gli hai dato il moschetto, ha fatto l’attacco in Val Durasca” “Non lo conosco!”

Allora mi chiede ancora dove l’ho preso, non rispondo e ordina “Picchialo”. Questo mi ha messo contro il muro e mi ha conciato ai fianchi a pugni.

Ho risposto “L’ho preso l’8 settembre” “Dove lo nascondi?” “In cantina”, dove l’avevo davvero, a casa ero armato.

Finito quello viene fuori chi mi ha iscritto al Comitato Liberazione che era il prete, don Streti, e ho risposto “E’ stato don Streti” “Sei sicuro, guarda che vado a chiamarlo, che non succeda come prima”

Va a chiamare don Streti e chiede “Lo conosci questo” “No” “Come don Streti, non mi conosce” “Dice che lo hai iscritto tu al Comitato Liberazione” “Non lo conosco, non ricordo, dove ti ho iscritto al Comitato Liberazione?” “Da Ilinari, il forno” “Sei un bugiardo, non è vero perché io iscrivevo al Comitato Liberazione in cantina sotto al Cavallo Bianco, il bar”.

A questo punto Batisti ha messo il suo piede sopra il mio e mi ha dato quattro ceffoni sulla bocca.

Le accuse erano quelle, ho ammazzato un altro maresciallo sopra La Spezia, tutte cose che non erano vere … li avessi ammazzate davvero!

Me la sono cavata con quattro pugni e quattro schiaffi.

Non ci hanno portati, finito l’interrogatorio, nei cubicoli ma ci hanno portati in seconda sezione dove siamo stati un giorno.

All’indomani ci hanno chiamati e ci hanno preso in una sessantina e ci portano in quarta sezione dove abbiamo fatto un mese, pronti per andare alla morte.

Un giorno viene l’ufficiale tedesco con l’interprete che era un ebreo e il brigadiere delle prigioni. “Ieri sera fuori dalle mura del carcere hanno ammazzato un camerata, eravamo in sei, e ci siamo guardati senza muovere gli occhi”, dicono “il Comando tedesco ordina a questa rete 48 ore senza mangiare”. Ci siamo ripresi, si mangiava un panino a mezzogiorno e una minestra alla sera.

Siamo stati in sei in quella cella, avevano messo uno di Arma di Taggia e uno di Imperia ed erano due spie, uno aveva ancora la divisa di Brigata Nera, i miei sapevano che ero un partigiano … ho scelto al mia strada …

Abbiamo fatto un mese, il 2 febbraio ci chiamano per partire per andare a Bolzano, ci ammanettano insieme e ci imbarcano sui pullman, Genova-Imperia-Milano, un giorno a San Vittore sempre ammanettati. All’indomani siamo partiti, si camminava di notte, alla mattina alle 3 siamo arrivati a Bolzano, appena scesi dal pullman con le scarpe senza lacci, senza cintola, e ci mandano poi agli uffici dove vi erano due donne tedesche che parlavano italiano.

Nella via dove abitavo a Migliarina eravamo diversi, Sarzana, tutti ragazzi che non sono più tornati.

Hanno detto “In quella via siete tutti dei delinquenti” “Con questo?”. Ho risposto perché ormai la nostra sorte era quella. Ci danno il numero, il mio era 9053, e il triangolo rosso e ci portavano nel blocco E in attesa.

E’ stato un bel giorno che i tedeschi erano in ritirata, il fronte era a Verona, i russi avanzavano e cercavano di prendere la gente per mandarli a lavorare, prendere le macerie e altro.

Come oggi hanno fatto il bombardamento a Bolzano; all’indomani ci hanno chiesto di andare a levare le bombe!

Morte per morte era per mangiare un pezzo di pane in più, volontari, quando siamo stati in mezzo ai binari suona l’allarme e i tedeschi sono spaccati prima di noi. Ci siamo buttati, c’era il fiume, di là la galleria, gli operai, il triangolo rosa, noi avevamo la gavetta con il cucchiaio di legno, ci davano da mangiare, nella gavetta un cucchiaio a me e uno a te e alla fine abbiamo bevuto l’acqua. Alla sera siamo rientrati …

D: Valter, come ti ricordi il campo di Bolzano?

R: L’ingresso me lo ricordo benissimo, c’era l’entrata con il cartellone in lamiera che poi hanno spostato di là … Sapete come è il campo? Vi era l’insegna in lamiera sopra i due pilastri nel campo ma l’hanno spostato vicino all’officina, appena entrati vi era un ufficio, una baracca, poi il capannone, in fondo le donne, noi blocco E e andava fino in fondo all’alfabeto A-B-C. In centro vi era la mensa dei tedeschi, la cambusa dei tedeschi che spalancavano, pane, mortadella … avevamo una fame …

D: I tuoi vestiti te li hanno tolti?

R: Mi hanno dato una tuta intera con il contrassegno, una striscia di traverso e una nella gamba e poi la testa pelata, hanno rasato fino a qua e poi hanno fatto i disegni in testa, a loro faceva piacere!

Hanno fatto l’assemblea come a dire che il fronte era a Verona, “Come sapete il comando tedesco vi lascerà andare perché il fronte è a Verona, i russi avanzano, noi vi lasciamo andare pochi alla volta ma i primi che vanno fuori li teniamo come ostaggi, voi siete come ostaggi”

D: Scusa, Valter, prima di arrivare alla liberazione, quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Sono rimasto da febbraio fino al 1 maggio.

D: Come lavoro sei andato a raccogliere macerie e bombe?

R: Sono andato solo a togliere le bombe, poi ho lavorato …. Siccome gli americani erano a Verona, vi era da fare il trasloco a un avvocato bolzanino, abitava in una bella villa sottoposta alle bombe, i tedeschi hanno detto “Vai là” e abbiamo fatto il trasloco, sua moglie ci ha dato un panino con burro e marmellata, una tazzina di latte e caffè e anche dei soldi, 250 lire.

D: Quando uscivi dal campo trovavi dei civili, avevi contatto con la popolazione civile?

R: L’ho avuta ma i tedeschi non volevano, ci volevano dare delle mele poi alla fine ho fatto attaccato al muro del campo un basamento per una parata militare, comandava un maggiore dell’esercito, un carrista che era prigioniero, italiano, vi era la strada che arrivava dove c’era il monumento, la strada convogliava verso Verona e verso le officine Lancia e a tutti quelli che passavano gli si cedeva del pane. E’ passata una donna “Signora ha del pane?”, sul muro vi erano le garitte e i russi, questa donna non risponde e l’abbiamo chiesto in tedesco …

E’ passato poi un vigile del fuoco e avevamo chiesto del fumo, ci ha risposto che sarebbe andato a prenderlo, è partito in biciclette ed è andato a prendere delle sigarette che ci ha lanciato ma a noi non sono arrivate, sono rimaste in mezzo, tra la strada e noi e vi erano lì gli ucraini, ma abbiamo fatto una volata e siamo andati a prenderle e ce le siamo divise.

Hanno poi lanciato i panini ed è successa la stessa cosa.

D: A proposito del campo ti ricordi del blocco celle?

R: Il blocco celle era in fondo, qua vi era l’ospedale con la mensa dei tedeschi, dietro l’altro capannone dove vi erano gli uomini ebrei, i prigionieri di guerra, i piloti inglesi e in fondo la cucina. Al blocco celle la famosa tigre che picchiava. Vi era anche una donna che aveva preso delle patate, l’hanno picchiata e le hanno buttato secchi d’acqua fredda addosso.

Tornando indietro a quando mi hanno preso, a Genova quando è venuta mia sorella a portare i vestiti e qualche soldo ha detto “Dammi i soldi che li faccio avere”, invece non me li ha fatti avere, è arrivato a Bolzano anche lui, non l’hanno messo con noi ma subito dalla parte dove vi erano gli uomini ebrei e hanno fatto una farsa alla notte. Si sono passati la voce di notte, hanno preso un paio di scarponi di uno e l’hanno messo alla sua testa, questo si è alzato dicendo che gli avevano portato via le scarpe.

Gira gira sono andati a finire all’asta del capitano e lì botte!

Il capo blocco ha parlato poi con i tedeschi e l’hanno messo in cella di punizione, prendeva un’ora d’aria al giorno, mi vedeva e diceva “Quando passiamo da Milano ti do i soldi … prima non me li hai rubati, adesso me li hai rubati” … Non potevo farci niente.

Arriva la liberazione l’hanno lasciato andare il 28 aprile e a me il 1 maggio, alla mattina alle 9,15 ero con altri miei amici, Ferrato, Costa, Rossetti Gino che non è venuto qua, abbiamo fatto la strada insieme e ci siamo fermati a Trento e ho detto “Ragazzi, se il Capitani è a Trento o lo faccio fuori, anche se ci sono i tedeschi, in qualche modo lo faccio fuori”, ero deciso!

Vi era Montefiori a Trento, vi era il posto di ristoro dal prete, davano … vi è anche una canzone “Quattro fagioli nel pugnatino, brodoleo, brodoleo” e ci ha dato 250 lire.

Vi era anche il dottor Campodonico che è stato picchiato forte a Genova e dico “Dove è il Capitani?” “Non farti vedere che ha paura di te!”. “Paura o no lo voglio far fuori” “Lascialo stare lo portiamo a casa”

Mi ha convinto e ho chiesto a Montefiori, “Lo porti a casa te? Lo mettiamo a Migliarina davanti alla Chiesa dentro una gabbia e la festa la devono fare le madri o le spose dei detenuti” “Sì, sì, io qua non rimango, voglio passare il fronte, tedesco o non tedesco voglio passare”.

Passo il fronte, abbiamo trovato tedeschi e non hanno detto niente, una brigata di fascisti ci ha chiesto i documenti, in quel mentre è passato un aereo inglese e questi scappano.

Dopo un po’ capitiamo in un rastrellamento tedesco, avevano sentito sparare e abbiamo detto: “Adesso come facciamo?”

Andare indietro non si può, andare avanti non si sa ….. andiamo avanti!

Non ci dicono niente e montano sul monte per il rastrellamento.

Dopo un po’ troviamo un battaglione di Brigate Nere, italiani.

D: Quando eri nel campo di Bolzano ricordi se deportati con voi vi erano anche sacerdoti?

R: Sì, c’erano!

D: Ricordi anche i loro nomi?

R: Non li ricordo, anche a Bolzano ho fatto la Comunione per Pasqua, da ragazzo andavo in chiesa a servire la Messa e da quella volta ho detto non ci vado più, mi hanno insegnato di essere a digiuno a fare la Comunione, fare la Comunione senza essere a digiuno, poi ho avuto episodi ai monti… per la fame chiedere al sacerdote, al prete qualche cosa da mangiare, siamo in 12 e siamo senza soldi, dove andiamo a mangiare?

Chiama la sorella, tira fuori una formaggetta di pecora e una pagnotta.

“Dammi il coltello” dice la sorella, prende il coltello, taglia una fetta di pane e due fettine di formaggio … non ci ho più visto, avevo le mani sulle bombe, ho detto “Siamo in 12, come facciamo?” Siamo tornati indietro e glielo ho buttata in faccia, “Grazie lo stesso”, se volevo con le armi potevo prendere quello che volevo invece non l’ho fatto.

D: Ricordi se vi erano bambini nel campo di Bolzano?

R: I piccoli non li ho visti, avevamo un’ora d’aria al giorno, al mattino vi era la conta poi mandavano fuori a lavorare e gli altri erano fuori a prendere l’aria e noi avevamo un’ora d’aria al giorno.

D: Ricordi se hai visto azioni di violenza nel campo di Bolzano?

R: Ho visto la tigre che snervava bene, picchiava!

D: E’ successo un episodio, quello pugnalato, dove è successo?

R: A Bolzano vi è quel castello in alto che si vede, lo avevano anche fatto saltare, era un deposito di munizioni e i partigiani l’hanno fatto saltare, credo che sia stato su quelle montagne, questo preparava la legna con il tedesco di guardia, dai oggi dai domani, con la confidenza, lo ha disarmato, il tedesco è andato …è stato pugnalato, l’hanno portato dentro al campo di concentramento con un telo da tenda, hanno fatto l’assemblea, tutti quanti a vedere, ha spiegato che questo andava a tagliare la legna, con la confidenza con il tedesco ha avuto la meglio e lo ha pugnalato.

“Dovete stare attenti, a chi va fuori succede qualche cosa, la stessa cosa succede a voi, come questo!” Noi non potevamo nemmeno scappare perché avevamo una taglia di 500 lire.

D: Quando è successo questo, te lo ricordi?

R: A marzo o aprile.

D: Parlavi prima della Pasqua, che cosa è successo?

R: Non ho preso la Comunione, sono stato dentro con questo Opicini, eravamo liberi, si poteva camminare, vi era un frate di Belluno, sono andato dalla parte delle donne e ci hanno dato quattro pagnottine e abbiamo detto “Bruno, questa è una bella Comunione, non quella là” …

D: Valter, ricordi quando eri nel campo di Bolzano se potevate scrivere o ricevere posta o pacchi?

R: Io no non ho saputo niente.

D: Ricordi se era entrata la Croce Rossa nel campo di Bolzano prima della liberazione?

R: Vi era un prete che faceva parte del Comitato di Liberazione e mandava dei pacchi, anche le donne, la Cicci, la Marta riceveva i pacchi da casa e i pacchi che ci dava la Croce Rossa li passava a me.

D: Chi era questa Marta, una deportata?

R: Una deportata, suo padre era uno del Comitato di Liberazione, un partigiano, lei mi ha detto che era di Merano e poi ho chiesto alle donne “Di che parti era Marta, di Merano?” “No, verso Belluno!”

D: Hai nominato prima la Cicci, chi era?

R: La Cicci faceva la Kapò nel campo delle donne, era milanese, alla mattina era sempre fuori a fare ginnastica.

D: Ti ricordi degli ucraini?

R: Erano due che facevano sempre la guardia sulle garitte, erano fetenti perché chi comandava lì dentro era Colonia che era di Verona, delle SS, Lanz di Trento, era una SS alpina, aveva il cappello con tutte le stelle alpine, non era cattivo. Colonia era cattivo.

D: Non hai mai avuto bisogno di andare in infermeria?

R: Sono andato perché c’era uno, quando davano il rancio, che era stato nelle Brigate Nere, nella Repubblica di Salò, quello lo avevo come fumo negli occhi, questo mi passa avanti e ci siamo presi, lui si è girato con la gavetta di ferro e me l’ha data in testa e sono andato in infermeria. Lì ho trovato l’avvocato Duci, mi hanno messo la benda, non il cerotto, per quello che quella donna ebrea voleva la marmellata, mi davano da mangiare per quello.

D: Quando parlavi di Trento, la liberazione, siete arrivati a Trento, siete andati da un sacerdote, ricordi chi era questo prete?

R: Non chiedermelo, alla sera il problema era andare nella case bombardate, dove andiamo, in galleria, abbiamo visto un vigile del fuoco, un ragazzo, e ho detto “Domandiamo dove è la caserma dei pompieri”. Infatti ci ha detto di andare dal comandante e ci hanno ospitato lì, ha detto: “Non abbiamo letti ma vi do delle coperte e dormite sul pavimento di legno”. Alla sera ci hanno dato da mangiare e siamo stati abbastanza bene. Vi era il problema di fare la scorta per il viaggio, facciamo la conta ed è toccato a me e ad un altro. “Ora c’è la tessera, chi va a prendere la roba?” Andiamo ai forni e chiediamo da mangiare, qualche soldo lo avevamo, 250 lire, allora erano qualche cosa, chiediamo del pane, e diciamo che veniamo dal campo di concentramento e le donne quando sentivano così pagavano e ci davano i bollini e abbiamo fatto la scorta per la strada.

D: Ricordi dove era il posto di ristoro a Trento?

R: Me lo ricordo …

D: Quasi vicino alla stazione?

R: Quasi vicino alla stazione, vi è un anfiteatro, un portico, dietro vi era la stazione, era lì vicino.

D: Non era un frate …

R: No, no, era un prete, tanti sono ritornati due volte a prendere la razione e anche i soldi, da buoni italiani.

D: L’ultima cosa del campo di Bolzano. Ricordi quando eri nel campo di Bolzano se vi era un Comitato di Liberazione interna?

R: C’era, tanti hanno avuto lo scontrino che non erano partigiani, io che lo ero non l’avevo.

D: Valter, grazie!

R: Prego!

Banterla Arturo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Arturo Banterla.

Sono stato arrestato dalle Brigate Nere e mi hanno portato alla Caserma del Teatro romano, dove torturavano per far parlare e per far dire anche quello che non si sapeva.

Vi ho passato un periodo di pochi giorni, poi mi hanno trasferito alle SS in Corso Porta Nuova.

In Corso Porta Nuova mi hanno interrogato le SS; quindi mi hanno portato al Forte San Leonardo.

Dal Forte San Leonardo dopo pochi giorni mi hanno caricato su un camion con tanti altri, e ci hanno portato nel Lager di Bolzano. Tutto questo in sintesi …

A Bolzano siamo stati nel blocco E; a quanto ho capito lì c’era dentro di tutto, non erano mica tutti politici.

Il nostro blocco era chiuso, era un campo dentro nel campo, era un blocco circondato e chiuso da reticolati. Dietro al nostro blocco c’erano anche le donne, e ci divideva una parete.

E’ successo – per quel che mi ricordo – che ad un certo punto alcuni deportati stavano scavando una buca nel terreno per uscire, per scappare fuori. Ma il giorno di Natale, il 25 dicembre 1944, uno che si diceva fosse il capo-campo, e che era un colonnello dell’esercito a sua volta prigioniero, ha fatto la spia. Allora ci hanno tenuto fuori tutto il giorno sulla piazza dell’appello, al freddo, senza mangiare: dalle nostre fila dovevano uscire i colpevoli, e due o tre sono in effetti usciti; mi sembra che abbiano fatto una brutta fine, qualcuno lo hanno attaccato a un palo …

Tutta la faccenda non l’ho mica vista, e non ricordo granché della fine che ha fatto, credo che però l’abbiano fatta brutta, la fine. Da lì, a gennaio, c’è stato il trasporto per Mauthausen.

D: Scusa Arturo, ti ricordi quando sei stato arrestato?

R: A dicembre ero a Bolzano, quindi sarà stato settembre.

D: Settembre 1944?

R: Sì.

DOMANDA: Quanti anni avevi?

R: Fai il conto: sono del 1923, quindi avevo 21 anni e mezzo.

D: Tu facevi parte di qualche movimento resistenziale?

R: Sì, facevo parte della missione militare RYE.

D: Ci puoi spiegare che tipo di missione era?

R: Era una missione di sabotaggio e spionaggio di comunicazioni; ne sapevamo poco. Eravamo introdotti nei forti con documentazioni, e dovevamo fornire armi possibilmente ai partigiani, favorendoli; ci siamo introdotti nei forti con documenti, abbiamo fatto la guardia ai forti. Ci siamo anche sparati, con i fascisti, qualche volta, ma dico che è andata bene. Poi c’è stata una spia, che ha fregato me.

Sempre di Verona parliamo: nel forte S. Procolo c’erano munizioni e armi che servivano ai partigiani. Portarle fuori non era mica facile, perché la guardia sulle porte era fascista. Cercavamo il momento buono per agire: uno solo di noi era dentro, 3 / 4 di noi eravamo armati come loro; te lo immagini? Da fuori riuscimmo a fare entrare anche dei carrettini, pensa un po’, e li abbiamo portati fuori.

Una notte – mi viene in mente parlandone ora – siamo usciti, con me c’era un certo Giovannino, che era tornato dalla Russia; era uno scalmanato, non aveva paura di nessuno. Aveva una pistola, come la mia, calibro 9. Ci hanno sorpresi a portare il carrettino che altri dovevano prendere in consegna e portare fuori: alle spalle c’erano due ufficiali tedeschi. Ero davanti, Giovannino era un po’ dietro, mi disse: “Tu cammina piano, fai finta di niente”; e io dietro, facendo finta di niente… fino a che l’ufficiale tedesco che era lì vicino si avvicinò un po’ troppo al mio amico: il mio amico si girò improvvisamente, lo prese, lo buttò a terra e gli sparò. L’altro ufficiale scappò, noi abbiamo consegnato il carrettino e siamo rientrati. Non sapevamo dove fosse finito l’ufficiale, non so come abbiano fatto a portare via il morto, non sappiamo niente, neanche che fosse morto sapevo. Giovannino non perdonava nessuno.

Con un altro carro ci siamo invece imbattuti nella pattuglia fascista, ed abbiamo fatto un piccolo conflitto a fuoco: il mio amico è rimasto ferito ad un polpaccio ed io sono riuscito a portarlo fuori dal combattimento in spalla, riuscendo a salvare entrambi in qualche modo.

D: Arturo, RYE cosa significa?

R: Sono domande a cui è difficile rispondere, prima di tutto perché anche fra noi non ci conoscevamo. Le botte che ho preso dai fascisti, meno ne ho prese dalle SS, erano terribili, i fascisti erano peggio, fra fratelli eravamo peggio; volevano sapere quello che io non sapevo. Le domande erano: chi comandava? chi era il comandante che dirigeva le operazioni? Era proprio il maresciallo che comandava il forte, hai capito? ma noi non sapevamo che era lui a dare gli ordini, non sapevamo niente. Quando uno ci chiedeva: “Ma chi era che comandava le cose?” rispondevo: “E che ne so io, non conosco nessun nome”.

Non sapevo mai con chi collaborassi, noi dovevamo fare delle cose, portare materiali ed informazione, li portavamo e basta; avevamo i lasciapassare, era tutto in regola.

Poi un giorno, quando mi hanno arrestato, ho mostrato i miei documenti; mi dice: “Li teniamo noi, tu devi venire a fare un controllo”. Erano le Brigate Nere, e sono stati fortunati perché era la prima volta che mi fidavo ad andar dentro in un ambiente, era un bar e volevo bere un bicchier di vino, porca la miseria, non lo avessi mai fatto. C’era la spia … ho sentito le armi puntate alle spalle; era ben difficile che mi girassi, pensa se mi avessero trovato la pistola, che avevo in tasca. Erano tanto cretini, quella era una massa di ignoranti, non ce n’era di furbi; Mussolini era giornalista e sapeva qualcosa.

Lì sono stato arrestato e mi hanno portato proprio al Teatro Romano, e sono passato attraverso Umana.

Sono andato al processo come accusato ma avevo con me la pistola: ero in carcere con la pistola ancora in tasca!!  Loro sono stati stupidi, ma il problema per me era di liberarmi della pistola, ed era un problemissimo.

Sennonché telefonarono a mia madre che ero lì, e lei mi portò qualcosa da mangiare, dello zucchero; io l’ho rifiutato, poi ho chiamato la guardia ed ho infilato la pistola dentro la roba che mi ha portato e me ne sono liberato.

D: Come venivate reclutati voi della RYE?

R: A dir la verità non lo sappiamo; ci siamo trovati lì, e siamo stati quasi costretti. All’8 settembre ero in marina ad Ancona, poi ero venuto a casa, e il comandante ci ha lasciati liberi dicendoci: “Abbiamo fatto prima la resistenza contro i tedeschi, ma poiché a terra ci hanno abbandonato tutti, dividiamo quello che c’è sulla nave tra chi vuole andare a casa”, cioè i pochi soldi che c’erano. Eravamo sul “Savoia”, sulla nave reale, che era armata pochissimo. Ci disse: “Io vado in Bassa Italia, a Gallipoli, parto con la nave”; la nave poi è stata affondata appena fuori dal porto dai tedeschi, io ho fatto bene a tornare a casa.

Arrivato a casa c’è poi stata la mobilitazione, hanno fatto il governo fantoccio, hanno fatto quel famoso governo. Porca la miseria, una volta mi hanno beccato sotto casa: andavo a casa perché andavo a sentire Radio Londra. Poi avevo anche un’altra casa; un giorno ho trovato un tedesco, un tedesco che raccontava della Grande Guerra; era un anziano, diceva di essere stato con Cadorna, e raccontava della guerra. Siamo entrati in confidenza; mi dice: “Tu ascolti Radio Londra?”. Allora parlavo abbastanza bene il tedesco – adesso l’ho dimenticato – mi dice: “Sappimi dire qualcosa, di come va questa guerra”.  Avevo paura, ma mi disse: “Non preoccuparti finché io sono là fuori”; era un maresciallo della Wehrmacht non della SS, dunque di conseguenza quando finivo di sentire la radio lui voleva sapere le ultime notizie. Gli dico: “Guarda che va male per voialtri, guarda che è finita!”. Aveva più paura di me, era spaventato perché aveva famiglia, ed anche figli militari; era anziano.

Io giravo per la città dappertutto, con tutti i documenti regolari, con i timbri tedeschi; non so dove andavano a farli, però li trovavano.

D: Comunque non ricordi come siete stati reclutati per entrare nella RYE?

R: No, non lo saprei neanche io.

D: La vostra zona operativa era solo qui a Verona?

R: Sì, noi operavamo in città, a Verona.

D: Oltre alla RYE, c’erano altri gruppi con i quali eravate in contatto?

R: E’ possibile, ma noi non sapevamo un bel niente, non sapevamo con chi fossimo. Quando incontravamo qualcuno … per la miseria! incontro una persona alla quale devo consegnare delle cose e penso solo: “Quella persona mi vedrà”. In realtà quella persona non la conoscevo; una volta finito non sapevo niente, neanche cosa ci fosse dentro le cose da consegnare, tra l’altro. Nessuno ci diceva niente.

D: Hai parlato di Umana.

R: Umana si chiamava, Umana era il suo nome.

D: Chi era?

R: Era uno della Bassa Italia: era il carceriere del Teatro Romano, quello che dopo la guerra è stato condannato a morte dalla Corte d’Assise di Verona. Ho ricevuto un sacco di raccomandazioni a casa mia; c’era una fila di gente, tra cui preti, tutti sono venuti lì per salvare la vita a questo uomo, ma cosa potevo fare io?

Il problema mio era questo: abitavo in un quartiere nel quale tre miei amici che sono venuti con me sono morti a Mauthausen; i loro genitori dicevano: “Mica perdonerai? Lo sai che noi ci abbiamo rimesso il figlio?”. Io vedevo un uomo finito, vedevo un uomo che ormai moriva da solo, non riuscivo a condannarlo, non riuscivo. Comunque ho detto la verità nel modo più assoluto. Il giudice mi disse: “Cosa ti ha fatto Umana?” “Per la verità non mi ha fatto niente, a me non ha fatto proprio niente, non mi ha neanche toccato; mi ha accompagnato in prigione e mi ci ha chiuso”. Se gli avessi detto che mi aveva salvato perché mi ha portato fuori la pistola … lui neanche se ne era accorto. Mi ha quasi salvato, ma ad ogni buon conto. Dalla pena di morte con questa storia è passato all’ergastolo, che è già qualcosa; qualcosa ero riuscito a fare. Poi sono venuti i suoi parenti a ringraziare. Io dissi: “Non ho fatto niente, non ho detto altro che la verità” e basta, non ho detto altro.

D: Arturo, adesso iniziamo il discorso della tua deportazione. Qui a Verona, oltre agli interrogatori, hai subìto torture?

R: Sì, abbastanza.

D: Dove e da parte di chi?

R: Dai fascisti soprattutto: botte. Ti facevano una domanda e non ti facevano dare la risposta perché ti davano come minimo un pugno in bocca, ti sbattevano per terra; non riuscivi a parlare, non ti lasciavano rispondere. Al contrario, le SS, che pure erano tremende …  Ricordo che

sono stato interrogato dal maggiore, era di una gentilezza squisita: “Se non lo sai non me lo dici, ma io ti credo”, mi diceva sempre così. Ti veniva vicino in un modo tale da voler farti parlare senza picchiare, con modi gentili ed educati. Ti offriva la sigaretta e diceva: “Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene, tu non c’entri per niente, a quanto ho capito io, cosa vuoi”. Questo sistema i fascisti non ce l’avevano.

Le SS mi hanno chiuso in una cella da un metro per mezzo metro, non si poteva neanche star distesi, comunque. Lì siamo stati per una ventina di giorni.

D: Questo accadeva al Teatro Romano?

R: No, questo nelle prigioni delle SS; al Teatro Romano ci sono stato per pochi giorni.

D: Dov’era il comando della SS?

R: La sede delle SS era nel Palazzo delle Assicurazioni in Corso Porta Nuova, nei sotterranei.

D: Da lì ti hanno preso una bella mattina; eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Quando mi hanno preso ero solo, le altre persone le ho trovate dentro; gli altri miei amici sono stati presi nei giorni successivi; ne hanno preso 1 o 2 alla volta, perché i fascisti avevano coraggio solo quando erano in tanti. Non li vedevo fare quel lavoro, erano forti solo se erano in tanti; quando uno scappava i fascisti avevano paura se erano in pochi. Io solo e loro in tanti, allora erano i padroni. Questo è il fatto.

D: Tu sei partito per Bolzano dal Palazzo dell’INA?

R: No, dal Palazzo dell’INA sono stato trasferito al Forte San Leonardo.

D: Quindi è dal Forte San Leonardo che ti hanno portato a Bolzano?

R: Sì.

D: Con cosa ti hanno portato?

R: Col camion sono venuto a Verona insieme con quelli che erano là; qui a Verona abbiamo trovato altri due camion pieni di gente, e siamo partiti insieme.  Prima di arrivare a Bolzano un camion si è rotto; tutti e tre i camion erano fermi sulla strada ed era quasi notte. Ci trasferirono da un camion all’altro; scendevamo a due a due; ogni tanto invece qualcuno passava sotto il camion.  Loro intanto continuavano a chiamare.  Quando toccava a me non son potuto più andar là sotto perché ormai non c’era più posto. Allora noi siamo partiti e loro sono rimasti a terra sotto il camion rotto, e così sono scappati. Gran parte li hanno poi ripresi sulle montagne del Trentino, perché erano soli, non erano stati aiutati da nessuno. Quella era una brutta zona per farsi aiutare, meglio sarebbe stato qui a Verona.

Siamo arrivati a Bolzano; ci mettono dentro al blocco E; non lo conoscevo, era la prima prigionia che facevo lì dentro.

D: Vi hanno spogliato?

R: No, a Bolzano no.

D: Vi hanno dato numero e triangolo?

R: A Bolzano no, perché era considerato un campo di smistamento; era un campo di passaggio per i campi di sterminio. Nei campi di sterminio creavano posto giornalmente: ammazzavano 100 persone e 100 deportati erano pronti da portare dentro. Nei campi di sterminio hanno eliminato tante persone, è quello il fatto.

D: Eri l’unico del tuo gruppo della RYE nel Lager di Bolzano?

R: No, ero con tutti i miei amici; il fatto brutto è che sono morti tutti.

D: Ti ricordi quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Sono partito nel gennaio 1945, quindi ero là un po’ prima di Natale: sarà stato fra novembre e dicembre, un mese circa.

D: Ricordi qualche nome dei tuoi compagni della RYE che erano nel Lager di Bolzano con te?

R:  Ricordo i nomi di quelli morti; un certo Bragantin di Giovanni, Predoni Attilio, Marani Enrico, tutti morti. Poi c’era un altro di cui ora mi sfugge il nome; la vedova abita proprio vicino a me, lui è morto a Flossenbürg.

D: Nel corso della tua permanenza nel Lager di Bolzano ricordi se vi erano anche dei religiosi?

R: Certo, un prete c’era.

D: Te ne ricordi il nome?

R: No, l’ho sentito nominare tante volte ma ho poca memoria in questo momento; in questi ultimi anni ho perso quasi tutta la memoria. Non riesco più a ricordare, ho tanti vuoti. Comunque questo prete lo ricordo perché usciva dal campo, andava a fare la messa, non so dove; entrava ed usciva, continuava a dire “preghiamo”. Ma cosa vuoi pregare?  Dovevamo lottare con le cimici là dentro, facevamo la guerra con le cimici.

D: Era un prete veronese o di altre zone?

R: Non lo so.

D: Provo a farti dei nomi: padre Piola ti dice nulla?

R: Io non l’ho mai saputo come si chiamava quel prete.

D: Era un deportato anche lui?

R: Era deportato anche lui, è finito a Mauthausen con me; ma è morto, l’ho visto morire là io.

D: Di Bolzano non ti ricordi qualcosa in più? Cosa facevate tutto il giorno dentro il blocco?

R: Stavamo sempre chiusi dentro, a parte il fatto accaduto in quel giorno di Natale, quando ci hanno fatto stare in piedi invece che mangiare il pranzo di Natale fuori al freddo.

D: Arturo, ricordi se potevi scrivere o ricevere lettere o pacchi a Bolzano?

R: Io ho fatto una lettera, dicevano che i pacchi ce li avrebbero dati, ma io non ho mai ricevuto pacchi, perché li mangiavano loro, quello è il fatto. Ho scritto e ho chiesto, e ho ancora una lettera che ho portato qui oggi. Sulle lettere si doveva scrivere poco, quello che volevano loro; non potevamo mica dire quello che volevamo noi! Prima di partire siamo riusciti a contattare le donne, che erano dall’altra parte dell’asse che divideva i due blocchi; si poteva parlare, si sentiva dalle fessure il parlare delle donne. Siccome le donne avevano probabilmente più libertà di noi, non so se erano come noi o no, ci hanno procurato degli attrezzi per la fuga, ci hanno dato delle seghette e delle pinze. Avevamo della roba che pian piano le donne ci hanno passato. Siamo riusciti a salire sul treno con questa roba, poi abbiamo tentato di aprire lo sportello ma – fatalità! – sul vagone dove mi trovavo c’era anche il prete, e non voleva che si facesse la fuga, mentre invece noi speravamo di riuscire ad aprire un buco.  Sul vagone c’era una guardia dietro ed una davanti. E quando il treno arrivava a qualche curva e poi rallentava si poteva saltare, se va va, ma non c’era altro da fare. Sennonché ad un certo punto il treno si ferma, proprio quando avevamo quasi aperto il buco, mamma mia ragazzi! avevano dei cani, sono venuti, hanno perquisito i vagoni, sono arrivati lì, hanno aperto perché era già tagliato tutto. Sono venuti dentro con i fucili. Botte da orbi! Lì ho avuto una fortuna sfacciata ad essere stato dietro, mentre i primi erano davanti; posso dire che in quell’occasione il prete si è fatto avanti. Parlava benissimo il tedesco; è andato davanti alla guardia, si è preso la responsabilità, garantendo che non sarebbe successo più. Noi consegnammo gli attrezzi; portarono via tutti gli attrezzi che avevamo per la fuga, capito?

Basta, siamo arrivati fino a Linz, poi siamo scesi dai vagoni a Mauthausen, abbiamo fatto qualche bel chilometro a piedi in mezzo alla neve.

Siamo arrivati nel campo … Ne ho fatti tre di campi io; non sapevo neanche dove andavo a finire, là non si sapeva niente, non si sapeva neanche il nome della gente con cui eri assieme. Io mi domando come certa gente può aver fatto 10 / 12 mesi là dentro, non lo so; o facevano i kapo o erano impiegati in ufficio, perché in quei campi lì non si può mica stare; passare tre mesi era già un successo, tre mesi in un campo del genere significano che uno era molto forte. Resistevo perché nella mia vita ho sempre sofferto; ero anche un po’ abituato a soffrire, perché la mia vita è così; sono rimasto orfano troppo giovane, allora di conseguenza ho dovuto arrangiarmi, vivere, guadagnarmi il pane fin da piccolo, non avevo tempo neanche di andare a scuola, io. Pertanto ero un po’ abituato alle sofferenze, e le sopportavo un po’ meglio degli altri.

Arriviamo alla spoliazione: siamo arrivati in mezzo alla piazza dell’appello, tutti nel piazzale, tutti in fila, tutti là: “Spogliarsi!” Io credo che ci fossero 20 gradi sotto zero quel giorno. Spogliarsi tutti quanti, là in mezzo al piazzale! Là ci sono stati i primi morti. Mi ricordo di due uno che mi ha detto che faceva l’orologiaio a Verona, ma non li conoscevo. Sono morti dal freddo, era gente delicata.

Dovevi aspettare di arrivare al tuo turno poi facevi la rasatura e la doccia fredda. La rasatura era totale, totale, compreso la riga, la riga da qua a qua (in testa), dal di dietro. Poi ci hanno dato degli stracci, perché non c’erano più divise quando siamo arrivati noi, quelli con le righe; ci hanno dato stracci di morti, che venivano smessi e restavano lì. Ti ritagliavano sul dietro della giacca un quadretto, ci mettevano sopra 4 righe; il numero di matricola qua (sul petto), lì (sulla gamba) ed uno sul polso, di lamierino. A me l’hanno dato di lamierino legato con filo di ferro. Ci chiamavano solo con quel numero.

Ecco perché si poteva morire spesso: per chi non capiva bene il tedesco erano guai. Chiamavano il numero ma lo chiamavano in tedesco, hai voglia te! A quelli che avevo vicino lo ripetevo io, ma quelli più distanti non rispondevano. Ecco il guaio, e se non rispondevi erano guai; se cadevi eri morto, ti ammazzavano, era proibito cadere per terra, e se non cadevi ti gettavano per terra. Comunque, passata quella cosa …

D: Ricordi il tuo numero di Mauthausen?

R: 115.356; devo averlo in tasca comunque.

D: E in tedesco come fa?

R: 115 mila dunque, aspetta che non mi ricordo adesso … einhundertfünfzehn-dreihundertsechs-undfünfzig. E’ giusto?

D: Ti hanno mandato nel Wascheraum?

R:No, ci hanno fatto la doccia lì, e dopo ci hanno mandato in una baracca, dove non c’erano brande, non c’era niente, tutti per terra. Stavamo tutti se messi di fianco, per terra. Dunque, hai voglia te!

I primi giorni ci avevano messo in quelle condizioni e, puoi figurarti, quando di notte passavano per … il problema era quello. Allora ogni tanto, per allargare, passavano col frustino e chi era colpito doveva uscire. E quelli non li vedevi più, li trovavi poi … in attesa del forno crematorio. Ho preso tante pacche, tutte col frustino, non mi sono mai mosso, ho fatto finta … Lì bisogna imparare a salvarsi, là il cervello era mobilitato solo per salvare la vita e basta. Dopo che lì ho fatto un po’ di giorni, hanno fatto posto e ci hanno messo in una baracca un po’ più larga; c’erano delle brande, eravamo in 6 per materasso, dico sul materasso da uno in 6, l’uno sopra l’altro; da sopra, non parliamo, veniva giù l’orina, perché il pericolo era quello … no, non a Mauthausen.

Da Mauthausen mi hanno mandato via dopo una settimana, sono andato in un campo più piccolo che non sapevo dove fosse. Non so dov’era perché non sapevo niente di niente, non ti dicevano niente, e mi hanno fatto lavorare in una montagna, dove facevano pezzi d’aeroplano.

Siccome facevo il saldatore mi hanno fatto saldare gli alettoni degli apparecchi. Ma poi non ho fatto tante saldature, non potevi farne tante potevi farle perché era un pericolo perché … ti fucilano, perché quegli alettoni lì, se cedevano, l’aereo precipitava …

D: Arturo, il nome di questo sottocampo lo ricordi?

R: No, non sapevo neanche dove fosse. Invece quell’altro sì, lo ricordo: era Gusen 2. Quando sono venuto via da là non sono più tornato a Mauthausen, sono andato nel sottocampo di Mauthausen, sono andato a Gusen 2.

D: Prima di andare a Gusen 2 ti hanno mandato in un altro sottocampo?

R: Sì dove ho detto che dovevo saldare gli alettoni degli aerei.

D: E come si chiama questo sottocampo?

R: Questo non lo so, non ne ho mai avuto idea, non sapevo neanche dove fosse, perché avevo fatto le strade tutte di notte. Non avevamo mai visto niente. Là vedevo solo la galleria sotto la montagna, non sapevo neanche dov’ero io, là.

D: Eri con altri italiani?

R: In quel campo lì no, ero il solo italiano. Ero insieme coi russi, pensa come ci capivamo bene! Ci si capiva che era una meraviglia coi russi! Neanche una parola, beh, insomma, pazienza. Lì abbiamo trascorso una ventina di giorni, non molto; non si stava neanche male, eravamo in pochi.

Poi siamo rientrati a Gusen 2, lì cominciò la tragedia. Purtroppo lì siamo finiti. Entrando abbiamo visto la prima baracca dove c’erano degli ebrei, quasi tutti ebrei, le donne, mamma mia! Tutte squartate, ho visto delle cose che io non … roba impressionante, vedere le donne incinte che le tagliavano per vedere … si son viste delle cose che fanno ribrezzo al solo pensarci. Il medico mi ricordo che mi ha detto quando siamo usciti: “Arturo non raccontarlo a nessuno, non ti crederanno.”

Io non posso credere alla gente perché le belve sono più umane, almeno verso i loro figli o fratelli, ma scherziamo! lì eravamo peggio delle belve. Per quello che riguarda me, li avrei ammazzati tutti i tedeschi, tutti dal primo all’ultimo, dal bambino al grande, perché quando si passava per la strada, passavi un pezzo di strada dove c’era il pubblico, e ti sputavano addosso, ti buttavano la mezza sigaretta lì davanti. Se facevi per prenderla te la pestava e ti sputava addosso, se era un civile; se era una guardia, hai voglia! alla fine ti bastonava e basta, ti dava col fucile.

Quando siamo arrivati a Gusen 2 ci hanno dato la baracca con le brande; erano tre file, adesso non ricordo esattamente, eravamo in sei su un materassino da una persona, tre di qua e tre di là.

Dovevi avere la fortuna che qualcuno morisse, perché se qualcuno moriva durante la notte lo buttavi giù dal letto e stavi più largo. “Morte tua vita mia” dicevano; a quel punto lì non c’era più niente da fare.

C’è un episodio che ricordo: all’ora di mangiare, allora eravamo dentro nella galleria, portavano anche marmitte, ma non so cosa ci fosse dentro; c’era una specie di brodaglia scura, nera, c’era della roba dentro, e c’era un certo Morra di Milano. Disse: “Se vai a casa, saluta i miei”, perché lui stava morendo, stava morendo stava morendo. Insomma è spirato lì, e io avevo in mano la sua scodella per mangiare; visto che è morto lui l’ho mangiata io, cosa potevo fare? mica la buttavo via.  Poi c’era anche un ragazzo lì, un ragazzo russo, avrà avuto 13 anni, piangeva sempre, aveva sempre fame; gli dicevo: “Ma io cosa posso fare? io non posso darti niente”. Allora quello che racimolavo …

Avevo trovato un tedesco, questo non l’ho mica raccontato; era un invalido della Grande Guerra, l’ho convinto un giorno a portarmi delle bucce di patata; gli dissi: “Non voglio niente, solo che quelle che butta via tua moglie invece che nell’immondizia portale qua” “Mi ammazzano – dice – non lo posso fare”. Aveva paura anche lui, una paura tremenda. Finché un giorno mi fa un segno; c’era un banco con gli attrezzi, mi fa cenno di guardare e lui se ne va, fa il giro. Io vado là e trovo patate, bucce di patata erano. Tra l’altro anche un po’ grossette, però crude. Allora bisogna provvedere perché mangiarle crude così è un problema. Mi sono preso una ciotola dove c’era l’olio per ungere le macchine, ho versato l’olio, ho messo dell’acqua dentro; però per scaldare non avevo niente, ma avevo la corrente elettrica lì, avevo da attaccare la corrente. Cosa ho fatto? Siccome mi sono sempre arrangiato anche per l’elettricità, ho pensato: “Se provoco un corto circuito in acqua, scaldo l’acqua”. L’ho fatto, ho preso due lame, le ho unite – ne avevamo finché volevamo – le ho messe vicine, isolate in testa, i due capi con i due poli, le ho messe nell’acqua, una volta mi è saltata la valvola e una volta no, ha tenuto: bolliva che era un piacere, l’acqua!

Allora ho detto al ragazzo: “Continua!” Se la guardia vede il vapore, hai voglia tu! Siamo rovinati. Dopo una mezz’oretta che bolliva le abbiamo tirate fuori. Poi hanno portato il famoso rancio, abbiamo riempito la scodella con quelle, abbiamo aggiunto mezza io e mezza lui, abbiamo fatto la pancia piena. Poi ci siamo riempiti di acqua per finirlo perché lì c’era, nella galleria, una specie di rubinetto che continuava a mandare acqua, ma c’era scritto: “Acqua non potabile, proibito bere”, quando invece noi avevamo sete, fame e sete.

Per riempire la pancia quando ci passavo davanti mettevo la bocca sotto e mi riempivo la pancia. Allora dicevo: “Se devo morire muoio, ma almeno bevo!” Non mi ha mai fatto male l’acqua, stavo bene quando avevo piena la pancia, avevo sempre fame. Un po’ d’erba magari la trovavi da mangiare qua e là e qualcos’altro facevi.

Quando rientravamo la sera il problema era che, non so gli altri, ma io non riuscivo più a tenere niente, il corpo non teneva più né l’orina né niente; avevi bisogno di andare alla latrina e la latrina non era mica nella baracca. Era fuori in piazza, si doveva traversare il piazzale. Attraversare il cortile era un problema perché c’erano le guardie che si divertivano a sparare ai birilli, e camminavi in mezzo alla neve. Dunque dovevi stare attento che non ci fosse la guardia e passare al momento giusto. Sennonché quando avevi bisogno della latrina, prima di arrivarci avevi già fatto tutto per strada e ti restava tutto addosso. Addirittura avevamo una branda sopra di noi, e quelli sopra facevano tutto sul materasso, e sotto pioveva. Quella era la vita che si faceva lì.

D: Tu parli di Gusen 2 e di una galleria. Gusen 2 è il campo vicino a Gusen 1, dove c’erano le tue baracche?

R: Gusen 1 e Gusen 2 erano vicini.

D: E la galleria dove lavoravate era vicino alla baracca?

R: No no no, c’era molta strada da fare.

D: Prendevate un trenino?

R: Un trenino, sì.

D: Andavate a Sankt Georgen?

R: Non lo so dove: si finiva sotto la montagna e poi si andava a piedi, non so.

D: E lì cosa costruivate?

R: Io lavoravo ad una saldatrice, continuavo a saldare le stesse cose; non sapevo neanche a cosa servissero; cercavo qualche cosa per fuggire, volevo costruirmi una pinza per tagliare i reticolati, erano con l’alta tensione.

Avevo promesso di resistere ai miei amici che erano con me e che sono morti. Loro non volevano, dicevano: “Non ce la facciamo più!”. Avevano piaghe sulle gambe, anch’io le avevo, e gli stracci facevano pus; ci pulivamo con stracci unti che trovavamo per terra, non avevamo altro.

Se vai in infermeria sei morto. Sai cosa faceva l’infermeria? Quando uno andava là dentro, dopo un giorno gli chiedevano: “Sei guarito?” “No” “Allora domani viene il medico, vai di là, ti fanno l’iniezione e in due giorni sei guarito e non hai più niente.” Infatti guariva subito perché poi andava in forno crematorio e non parlava più. Gli facevano l’iniezione e dopo un’ora erano morti, erano già guariti quelli: i miei amici purtroppo hanno fatto quella fine, sono morti.

D: Ci puoi raccontare una tua giornata? Partivate da Gusen 2, prendevate il trenino, arrivavate vicino alla galleria, e poi proseguivate a piedi; erano grandi queste gallerie?

R: Io ne conoscevo una o due, cioè quel poco che potevo girare, perché dovevi avere tanta forza per girare. Con la scusa che magari mi occorrevano degli elettrodi, andavo a cercarli nel fondo della galleria; continuavo a camminare, andavo a cercare dove non c’erano, tanto per vedere se trovavo qualche amico, anche solo per poter parlare. E’ brutto non poter parlare con nessuno; c’erano un sacco di lingue là, francesi, spagnoli, c’erano tutte le nazionalità là dentro. Italiani ne trovavi pochi; se avessi trovato un italiano mi avrebbe fatto molto piacere parlarci assieme; poteva essere un po’ di consolazione. Invece non ce n’era dove ero io; mi hanno messo in una squadra che chiamavano “la bea fia”: erano tutti russi. Poi sono venuti una decina di italiani che hanno messo con noi. Lì ci hanno fatto fare un lavoro in un luogo che adesso non ricordo; mi hanno levato da lì e mi hanno messo in un’altra galleria, e si mangiava per conto nostro, tra l’altro. Per tutto questo gruppo mandavano una marmitta, che era tutta per noi. Questo gruppo di russi aveva un capo; io non sapevo come chiamarlo, lo chiamavo Molotov. “Ehi, Molotov, vieni qua!”, allora dice lui: “Io sono la maggioranza, io distribuisco il mangiare”, con la guardia lì. Questo succedeva perché era tutto brodo e poca roba dentro, tutta sul fondo; quando noi italiani andavamo là pescava il brodo, quando arrivavano gli amici suoi pescava sul fondo. Una volta, due, tre, poi gli dissi: “Senti amico, guarda che qua siamo nelle stesse condizioni, così non andiamo mica bene.” Sennonché la guardia ci vide discutere e cosa successe? Venne lì e chiese: “Cosa succede?” “Qualcosa non quadra,” dico “vede, questa è tutta acqua”. La vede, poi fortunatamente … mise giù il mestolo. Fece piegare il capo dei russi e gli diede 25 frustate. “Allora da domani tu distribuire rancio, ma attenzione fai la stessa fine se fai …”.

Siamo tutti uguali, se vediamo un italiano cerchiamo di aiutarlo di più. Se riuscivo, la mia gabella era sempre la migliore comunque, perché ovviamente ero l’ultimo e pescavo il fondo, anche se c’era il rischio di restar senza.

D: Con voi in galleria c’erano anche dei civili a lavorare?

R: Io non li ho mai visti, forse da altre parti può anche darsi, ma io non ne ho mai visti di civili; ho sempre visto guardie militari e prigionieri che lavoravano.

D: Non c’erano neanche capi officina, Meister?

R: No no no no, i capi officina li conoscevo, li ho avuti nel 1941. C’ero già stato nel 1940 io in Germania a lavorare, e a quel tempo li ho avuti, conoscevo ingegneri, conoscevo tutti, ho conosciuto anche della brava gente come si trova come dappertutto, ma lì dentro brava gente non ce n’era proprio.

D: Quando parlavi di donne hai parlato di un medico che t’ha detto: “Non raccontare a nessuno”; era il medico del Revier?

R: No, erano in due: c’era un medico russo ed uno americano, quando sono venuto a curarmi all’ospedale, dopo la Liberazione.

D: Dove eri al momento della Liberazione?

R: Ero a Gusen 2. Me lo sentivo nel corpo che c’era qualcosa che non andava; vedevo ormai gli aerei che passavano a filo del campo e non sparavano un colpo, sul campo non hanno mai sparato, mai lanciato una bomba, nonostante bombardassero dappertutto.

Lì, cosa hanno fatto i tedeschi? Quando venivano i bombardamenti ci facevano uscire dal campo e ci facevano andar fuori 100 metri nel campo libero, in piedi, come se i piloti fossero fessi e non potessero segnalarci con il ricognitore agli aerei dietro. Non abbiamo mai preso una bomba dagli aerei alleati, mai un colpo è arrivato nel campo, mai assolutamente niente.

Gli ultimi giorni vedevo i tedeschi che continuavano a parlottare, non riuscivo a capire, allora ho chiesto a Molotov: “Come la capisci questa cosa?” e lui ha risposto: “Se finisce ti levo gli occhi e te li faccio mangiare”, poiché aveva ricevuto 25 bastonate.

Eravamo vicini, vedevo che le guardie cominciavano a non picchiare più, però c’era il pericolo che ci ammazzassero tutti prima di andar via; non credevamo che arrivasse così rapidamente la Croce Rossa. La Croce Rossa è arrivata per prima nel campo, ha raccomandato di star tutti fermi nelle baracche, di non muoversi, parlando in tutte le lingue.

Poi è venuta dentro tutta la truppa, hanno disarmato le guardie che così non hanno fatto in tempo ad uccidere più nessuno …  tanto si moriva da soli, perché quando gli americani hanno detto che eravamo liberi ci hanno anche detto di restare nel campo, in attesa dei soccorsi; dovevamo però prima lasciar passare le truppe di occupazione, perché l’assistenza è dietro, mica davanti.

Sembrava un manicomio nel campo, tutti quanti correvano dove c’era il rifornimento di generi alimentari; c’era burro, c’era un po’ di tutto là dentro. Fortunatamente non ho perso il cervello, lo avevo ancora, se riuscivo ancora a tenerlo; non ho preso niente, sono rimasto come ero. Di quelli c’è stata una moria; sono morti quasi la metà, in che modo? mangiando, per l’assalto ai viveri, tutti quanti dentro a mangiare, a mangiare; gli altri invece morivano per la diarrea. Non capisco come ho fatto ad arrivare all’ospedale, qua sono nel vuoto. Mi sono trovato all’ospedale ma era già passato un mese dalla ferita; io non sapevo niente, un mese dopo ero ancora all’ospedale. Quando ho potuto vedere, prendevo il latte che mi davano con una specie di succhiotto. Ho sentito ciò che un maggiore medico americano ed un medico russo dicevano: “Questo ragazzo ce la fa; questo no. Facevano la selezione, loro. Quello di fianco a me era tubercoloso ma mi bevevo la sua roba, roba da matti!

D: La Liberazione la ricordi così. E il ritorno come lo ricordi?

R: Quello è stato peggio, per ignoranza mia, tra l’altro.

Mi sono dimenticato di dire che nell’ultimo periodo si era arrivati al punto in cui c’era un’apatia … ormai non sentivi più niente, non ti interessava che battessero o non battessero. Ho avuto la lezione una volta che ho rischiato fortemente la vita, perché mi hanno bastonato per cosa non ricordo. Ogni stupidaggine bastava per prendere le botte. Passando, ho urtato col braccio una guardia, e mi ha dato 25 frustrate, per un affare del genere. Dopo mi disse: “Tu devi morire perché sei un fascista”. Ero a terra e ho radunato in un attimo l’orgoglio e tutte le forze che avevo, mi sono raddrizzato e mi sono messo faccia a faccia con lui. Gli ho detto: “Non ripetere più quello che hai detto, nel tuo interesse ammazzati subito ma non passarmi più davanti, altrimenti, pur con le mie poche forze, ti distruggerò”. Non ha avuto neanche il coraggio di replicare, mi ha lasciato stare. Ho detto soltanto: “Non ripetere più quella frase”. Non m’ha neanche toccato, credevo di aver finito con quel discorso.

Tornando all’ospedale, quando ero in grado di camminare, ma non ancora di mangiare, perché mangiavo appena appena un po’ di brodo – mi ci sono voluti anni prima di cominciare a mangiare, ho impiegato un bel po’ di tempo anche a casa per riuscire a mangiare, perché rigettavo tutto, l’intestino non teneva più niente – allora, quando cominciai a camminare, feci la spedizione per l’Italia.

Prima c’era il programma “Dammi la nota”: avevano preso i nomi dei superstiti che trasmettevano poi per radio, e mi hanno dichiarato disperso. Invece avevo dato la giusta posizione a quelli della radio ma c’era una confusione tremenda. C’erano i treni che caricavano ogni tanto un gruppo di persone che andava in Italia, verso il Brennero. Un giorno esco dall’ospedale, cammino, cominciavo a fare le passeggiate intorno all’ospedale; lì vicino c’era a 50-60 metri il binario della ferrovia; i treni passavano di lì, si fermavano e ricaricavano i prigionieri da portare in Italia. Avevano un sacchettino con dello zucchero che avevano dato loro per fare il viaggio, delle cose da mettere in bocca. Io non avevo niente perché non ero neanche sulla lista dei partenti per l’Italia, assolutamente no. Cosa ho fatto? Ho visto il treno fermo e ho chiesto: “Scusate, dove andate, in Italia?” “Sì, stiamo andando in Italia”, allora dico: “Posso salire anch’io?” “Sali”. Senza dir niente a nessuno prendo il treno. Quando sono arrivato al Brennero, gli altri mangiavano quello che avevano io non avevo niente, ero tanto debole che credevo di morire proprio. Allora dopo un po’ mi hanno dato qualcosa e sono arrivato fino a Bolzano. A Bolzano il guaio era che c’era la quarantena da fare, io non la volevo mica fare; volevo andare a casa, volevo andare a casa.

Il fatto è che invece a Bolzano c’era una confusione che non si poteva neanche camminare, neanche rientrare nel campo. C’era un baraccone, c’era della gente che scriveva a macchina. Con un altoparlante hanno gridato forte: “Quelli provenienti dai campi di sterminio KZ devono passare davanti a tutti”. Allora sono passato avanti, mi hanno fatto un biglietto che non mi è stato né timbrato né firmato; mi hanno chiesto la provenienza, hanno scritto tutte quelle cose lì, da dove vengo e da dove non vengo. Poi mi hanno detto di aspettare, mi hanno dato un panino imbottito ma … chi lo mangiava un panino imbottito, in quelle condizioni?

Vengo fuori, mi mettono in coda, e un signore dice: “Di dove sei? di Verona?” “Sì” “Vuoi venire a Verona?” “Magari! sto aspettando qua, devo fare la quarantena” “Vieni qua, sali, sali”. Aveva la macchina, salgo, parte e via … ospite. Me ne vado da Bolzano e arrivo a Verona.

Loredan Onesimo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Allora io sono Onesimo Loredan, sono nato nel Comune di Muggia provincia di Trieste, ho sempre lavorato nei cantieri, sono stato nei partigiani.

D: Ma quando sei nato?

R: Nato il 20 luglio del 1921.

D: Ecco, poi quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato nel marzo 1944.

D: Dove?

R: A Kocevje, passato Lubiana.

D: Chi ti ha arrestato e perché?

R: Perché eravamo dei partigiani. Eravamo in trasferta, da un luogo per andare in un altro ed una mattina ci hanno aspettato, si vede che qualcuno ha fatto la spia, perché la sera sono scappati due di noi, e alla mattina tutto un fuoco e ci hanno arrestati.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Ci ha arrestato prima erano i famosi domobranzi, come si chiamano? Quelli che difendevano, gli sloveni, sarebbero i partigiani del Governo.

Loro. Poi ventiquattro tedeschi con delle tute bianche con croce rossa davanti e croce dietro, noi eravamo già contro il muro, con le mani alzate. Vengono loro, ci prendono in consegna loro, eravamo circa un battaglione, circa 110, ed un terzo sono riusciti a scappare, un altro terzo feriti, morti là ed un altro terzo come noi che siamo rimasti fuori e di lì erano un cinque chilometri per andare, perché era sotto un monte. Lì la segretaria del comandante che era una piccola grossetta, è stata ferita qua sul petto, come quando si ammazza il porco. Dovevamo noi portare i feriti, tutti quanti, lei l’abbiamo messa su di una carriola, ed un po’ ognuno, brutto, bruttissimo da vedere.

Siamo arrivati a Kocevje, ci hanno messo in una scuola, in un’aula grande con tutti questi affari qua, con le mani su così, per terra, le gambe incrociate e bon. Poi interrogatori con i tedeschi. Mamma mia. Come siamo andati su, perché siamo andati, chi ci ha mandato. Noi abbiamo detto che non sapevamo niente, che ci hanno presi e bon. Loro volevano che andassimo con loro perché avevano quei cappotti lunghi di pelle, perché si stava bene, si mangiava bene, quello e quell’altro. Oppure, visto che, allora andrete a lavorare in Germania. Noi siamo operai, andiamo a lavorare, piuttosto che nel bosco.

Prima dei partigiani sono stato ferito, ho quattro buchi, una palla sola qua dentro e qua fuori, qua dentro e qua fuori. Una. Una e cadi per terra. Il comandante mi ha preso e mi ha portato di dietro e bon.

Poi otto giorni in un, loro dicevano, ospedale militare, erano tre baite, senza porte e senza finestre, con un po’ di paglia per terra, e lì. All’ottavo giorno ci hanno dato il permesso di montare di guardia a queste quattro baite che erano e portare il fucile mitragliatore sulla sinistra perché sulla destra era ancora la ferita fresca. Niente, un po’ di alcol e via, non c’era nessuna altra cosa.

Poi di lì da Kocevje, andate a lavorare in Germania, con un trasporto ci hanno portato a Lubiana, in prigione. Allora appena siamo arrivati chi aveva la febbre andava in infermeria al quarto piano e ci davano il termometro, io un po’ più furbo degli altri, ho fatto così è andato su e sono andato su. Un dieci giorni ho fatto su, perché abbiamo fatto la quarantena.

Dopo ci hanno mandato, allora non potevano fare perché c’era il binario rotto, non potevano fare il trasporto da Lubiana e ci hanno portato a Begunie. Begunie sarebbe su là, brutto posto. Di là abbiamo fatto cinque giorni là, su ancora, eravamo a visitare con la famiglia, guardi là, lei si chiama così e così, tal mese,il tal giorno. Dice è da pagare No, no, lei e famiglia non pagano niente” e la stessa cosa quando siamo entrati in campo in Germania.

Allora di là dopo il quinto giorno ci portano giù e giù al treno e ci mettono su questi vagoni piombati sopra, con il filo spinato, uomini, donne, bambini, tutti assieme. Due giorni siamo stati là dentro, in quello là. Perché siamo andati su, su fino a Mauthausen. Per fare i bisogni che cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso una tavola su dal pianale e lì facevamo i bisogni tutti, uomini e donne, tutti. Come niente fosse. E ci hanno portato a Mauthausen, giù in stazione e ci aspettavano quelli del campo, ci hanno preso in consegna loro. Quelli erano bestie. Quelli erano veramente bestie.

Ci portano su, sulla prima cosa, quando siamo entrati ci registrano e dopo, spogliarsi nudi, rasati tutti, sopra e sotto, non dovevi avere un pelo addosso. Niente. Tagliavano e poi rasavano. Lì ci hanno dato un piccolo pezzettino di sapone e ci hanno messo dentro questo grande stanzone con delle serpentine sopra, con dei buchi, hanno chiuso le porte e tutto e mollano l’acqua. L’acqua era tiepida. Ci siamo insaponati, mollano l’acqua fredda e nessuno poteva scappare, tutto chiuso. Perché dopo lo stesso locale lo hanno adoperato per gasare, lo stesso locale. Adesso è ancora là.

Eravamo adesso in settembre con il Professor Sarti, il famoso registra di Strelher, eravamo su ed abbiamo visitato tutto, ero io a Mauthausen perché ero là dentro.

Là ci hanno vestito, zoccoli. Tutti vestiti, che cosa hanno fatto. Quei sacchi grossi di cemento, ma sono alti, alti, tutto dentro, cappotto, scarpe, tutto là, hanno chiuso ed hanno messo il nome, che dopo ci daranno indietro. Ecco là.

Là ci hanno portato ed abbiamo fatto la quarantena.

D: Ti hanno immatricolato là a Mauthausen?

R: Sì.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Lo dico in tedesco o in italiano?

D: Tutte e due.

R: In tedesco è …. 65807.

D: Assieme al numero ti hanno dato un’altra cosa?

R: Sì, il triangolo con la punta in giù. Il triangolo rosso. Che noi eravamo considerati politici. Perché gli ebrei avevano tutta un’altra cosa, loro avevano la stella di Davide, e gli ultimi neanche quello là. Una pennellata gialla, con un pennello largo, uno sulla schiena, non avevano né numero né niente.

D: Poi ti hanno portato al blocco di quarantena?

R: Sì, al blocco 14, poi eravamo al blocco 16, mi pare, non lo so. Al 14 di sicuro e là dentro si stava tutti per terra. Non si poteva stare con la schiena giù, bisognava stare così e lui era sulla porta con il fucile mitragliatore e qualcuno voleva fare il furbo e si metteva giù. Lui ha camminato sopra tutti e quello lì era finito. Sul viso, sul corpo, basta quello, era finito, rimaneva là. Basta.

D: Lì nella quarantena che cosa hai fatto?

R: Nella quarantena ci hanno anche portato fuori là, dove allargavano il campo, su questo binario, lavorare, spianare e bon.

Poi finito là ci hanno portato davanti, davanti all’entrata e facevamo la massicciata per la strada che viene su, eccolo. Lì ho fatto quaranta giorni, sarebbe come dire quarantena, in agosto.

Di là ci hanno fatto il trasporto, mandavano di qua e di là, a me hanno mandato a Gusen che è subito sotto un paio di chilometri.

D: Quale Gusen?

R: Gusen 2.

D: Che cosa facevi a Gusen 2?

R: A Gusen 2 siccome io ero dei cantieri, operaio specializzato, allora mi hanno mandato nella fabbrica di apparecchi. Tutto quanto in galleria. Ogni mattina venivano con il treno dentro, ci caricavano sui vagoni aperti, non chiusi, e lì come bestie andare su e ci portavano dentro in galleria. Dentro addirittura dentro, non fuori. Niente, dal campo dentro. Lì si lavorava. Ero nel reparto carlinghe, dovevamo fare in 12 ore che si lavorava tredici fianchi di carlinga del caccia bombardiere monoposto. Caccia bombardiere quel famoso che il pilota faceva tutto lui. Allora l’asse dell’elica era la mitraglia, poi davanti due mitraglie sincronizzate con le pale dell’elica, una cosa enorme. Però la cabina non veniva fatta. Veniva fatta in un altro reparto fuori. Lì era il reparto ali, reparto carlinga, e così.

D: Tutto nelle gallerie?

R: Tutto dentro, tutto, tutto dentro. Dentro che cosa facevamo. Noi dovevamo prendere la lamiera di alluminio, metterla già su quello pronto, fermarla, bucare, mettere di dietro l’ossatura e ribattere. Ribattere con le brocche di alluminio, però duravano due ore, dopo due ore bisognava portarle al bagno galvanico perché, se era vero non lo so, dopo non si strozzava più. Quando si sbagliava passava la SS, il capo reparto, che era un lavoratore civile italiano, in quel reparto là, un lavoratore civile italiano, era lui il responsabile del reparto carlinghe e quando passava questo SS lui doveva fargli il rapporto, che cosa hanno fatto e lì erano botte.

D: Ma non è un deportato questo lavoratore?

R: No, no, era un lavoratore civile che lavorava in Germania, come era non lo so. Ma dopo viene il bello.

Allora io ho sbagliato qualche cosa e ne ho prese cinque con il nerbo e mi ha dato anche un pugno, io avevo qui un dente d’oro con la capsula, mi è caduto per terra. E cosa succede? Il tedesco mi ha dato la sua punizione, io mi sono preso il dente, viene questo lavoratore civile e mi dice: “Se me lo dai ti do un pane, questo e quell’altro”. Insomma, mi ha dato un pane di un chilo, io gli ho dato quello là. Ma poi viene il bello. Perché adesso bisogna riportarsi direttamente a quando siamo usciti dal campo.

Quando siamo usciti dal campo ci hanno liberato gli americani, poi torneremo indietro. Lì, strada facendo, prima di Linz, c’era il campo dei lavoratori civili, e lì c’erano già gli americani e li prendevano in consegna e lì ci hanno dato una piccola puntura con una piccola siringa qua, per la scabbia, orticaria. Facevi così e tutta una materia. E la scabbia è bruttissima perché ti penetra sotto, e dentro, mamma mia.

Adesso dovrei finire questo qua. Finisco perché finisco? Lì si parlava, io parlavo con uno e con l’altro, com’è, come non era, dico è lui, il capo del mio reparto come lavoratore civile, così e così. Loro hanno rapportato al comando del campo e mi hanno chiamato così ed io sì, è così e così. Vanno nella baracca sua, lui aveva quelle valigie di legno ed aveva un sacchetto così pieno di oro, denti, quello e quell’altro, su e giù e mi dice, prende questo lo mette sul tavolo e mi dice, cercati il tuo dente. A me, quelli là del comitato. Fatto sta che l’ho trovato, me lo hanno presentato e tutto. Alla sera hanno fatto la riunione in campo. E spiegano a tutti cosa è successo, questo e questo. Sa cosa hanno fatto di lui? Una cosa che ancora adesso mi vengono i brividi, lo hanno legato sul cofano di una doge vecchia che era là, lo hanno legato, lo hanno bagnato di benzina e gli hanno dato fuoco perché tutti si sono messi a gridare “Dagli fuoco, dagli fuoco”. Io non volevo fare queste cose qua. Questa è una testimonianza, e basta. Possiamo tornare indietro.

D: Gli hanno dato fuoco?

R: Fuoco, sì. Per noi era una cosa normale, perché a Mauthausen dentro là, si passeggia, quello grida “Due uomini con me, due uomini con me”, bisogna andare perché lì non si poteva scappare o dire di no. E ci hanno portato giù ai forni crematori, giù ad aprire questo portellone di questa stanza, come una cella frigorifera, c’erano tutti questi cadaveri e lì a prendere le pale, aprire il forno, il portello di ghisa, prendere il carrello, dargli una scassata che vada la cenere di quelli di prima giù, poi con la pala si metteva di fuori, da parte, era pronto per metterne su altri. Ma noi non abbiamo visto, abbiamo solo pulito il forno e ci hanno dato anche due sigarette, cosa rarissima e bon.

Quella l’unica volta che sono stato là. Poi si caricava. Questa è bella. Quando si rientrava dal lavoro si faceva la decimazione. Sai cos’è la decimazione? Tutti in fila. Il dieci fuori. Qui avevamo il numero, levavano tutto via, con la matita copiativa scrivevano il numero così in grande, un colpo in testa e se non andavi ti facevano, e restavi là. Finito tutto quei cinquanta, sessanta di loro, col carro, metti sul carro e porta sul mucchio.

Quando io sono entrato nel campo non c’erano ancora i forni crematori, c’erano le fosse comuni e sono proprio di dietro, al fianco del campo, un’enorme fossa con uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, quella lì non era ancora riempita bene, già era pronta quell’altra là. Così erano quattro fosse. E poi hanno fatto il primo forno, il secondo, il terzo ed il quarto.

Adesso a Gusen dopo che ci hanno mandato in quell’altro campo sono rimasti solo i forni crematori perché i proprietari dei terreni ci hanno fatto le case sopra a migliaia e migliaia e migliaia di morti.

D: Ascolta, quando andavate al lavoro, vi chiamavano a Gusen 2, dal campo di Gusen 2, vi facevano salire su un trenino.

R: Un treno a scartamento ridotto, praticamente.

D: E vi portavano direttamente alla galleria.

R: Dentro. Facciamo conto come qua sarebbe il monte Pantaleone, tutto traforato di gallerie dentro. Tutto. Tutto dentro, tutto. Il lavoro si svolgeva tutto dentro. Verso l’ultimo tutte le imboccature erano già pronte per farle saltare per aria, poi non lo hanno fatto e non so perché.

Tre giorni prima non ci hanno portato sul lavoro, ci hanno lasciato in campo e basta, poi sono venuti gli americani.

D: Quando tornavate al campo, il treno veniva dentro?

R: Dentro, dentro. Tutto dentro, in campo.

D: Dentro nelle gallerie?

R: Sì, per andare sul lavoro dentro le gallerie, e dalle gallerie si andava direttamente in campo, a passo d’uomo. Non scappava nessuno.

D: Ti ricordi che baracca avevi tu a Gusen 2?

R: No, no, troppo.

D: Ti ricordi degli altri compagni tuoi che c’erano a Gusen 2?

R: Mi ricordo che alla sera ci si trovava anche del paese mio e si faceva qualche cosa, con il tabacco, perché si dava via il pane per una presa di tabacco.

La sera ci si trovava, il giorno dopo non c’era più. Dov’è? Lo hanno portato in Revier. Là sul mucchio.

D: Tu al Revier non sei mai andato?

R: Sì. Sì sono andato. Per questa scabbia, orticaria, ho marcato visita, che sarebbe meglio di no, perché lì se marcavi visita andavi dentro e bon. Allora che cosa ci hanno dato? Sulla mano un po’ di quella pomata, se non fai il bagno a cosa serve mettersi quella pomata. Invece dopo gli americani ci hanno fatto bagni nelle vasche di zolfo, è andato tutto via. Mi è solo rimasto una cosa, è brutto da parlare, sono rimaste le creste di gallo. Sai cosa sono le creste di gallo? La sporcizia. Chi si lavava? Dov’era l’acqua?

Poi il dottore nostro a casa ci bruciava quelle, mamma mia che male, quello era il peggio di tutto il resto, a parte le piaghe, una cosa e l’altra.

D: Alla liberazione tu eri a Gusen 2?

R: Sì.

D: Alla liberazione eri a Gusen 2. Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione. Siccome la strada era un po’ più sopra elevata ed il campo era più basso sotto due metri. Sono venuti gli americani con due carri armati grossi e basta. E lì hanno preso via tutti, le guardie, i comandanti del campo e tutto.

D: Allora sono arrivati gli americani; tu dov’eri?

R: Dentro in campo. Là. E basta. Quando loro hanno preso tutti quelli là, non comandava nessuno. Chi andava in cerca di amici, chi andava in cerca per fare giustizia con i capi blocco e lì hanno messo un carro armato davanti, e tutti in fila in mezzo agli altri, tutti quanti ed un altro carro armato di dietro e sono andati via e noi basta, alla mercé. Chi andava via subito alla sera, perché questa cosa alle quattro di pomeriggio, al 10 di maggio.

Strada facendo che si andava giù verso Linz, venivano su gli americani con questi carri armati e ci buttavano fuori quei pacchetti conforto, dentro tre sigarette, tre carte igieniche, tutto a tre, perché non lo so, tre cioccolate e questi qua mangiavano, e poi li trovavi nel canale. Perché lo stomaco non era così. Ci davano un litro di brodaglia. Un litro di brodaglia con le rape. Le rape dieci minuti dopo non c’erano più. Allora cosa bisognava fare, legarsi qua i pantaloni perché se loro ti vedevano che con la dissenteria perdevi, ti portavano anche in pieno inverno e con la manica dei pompieri ti lavavano e rimanevi perché non eri più niente. Eravamo ossa e pelle. Da non potersi sedere, perché non ci si può sedere sull’osso, noi vediamo ancora qua, quando ci appoggiamo sull’osso, di dietro non era così, era così.

Quando si rientrava dal lavoro, levarsi la camicia e fare così, anche niente, guardare ed anche via, qua sotto era così, fare così e niente altro, ed una volta al mese, circa, ti portavano a disinfettare, quindi tutti quanti a levarsi la giacca, metterla per terra, tutto il resto dentro, che resti fuori il numero, il nome non esisteva, perché la prima cosa che facevano, ti spersonificavano, tu non sei più tu, con il terrore, è un terrore continuo, nessuno reagiva, niente, niente.

D: Quindi alla liberazione tu sei uscito subito dal campo?

R: No, no, siamo andati in cucina, io ed altri, non so chi, perché eravamo degli automi, non eravamo più noi, noi eravamo niente, non so. Si camminava così. In cucina abbiamo trovato quei piccoli pacchetti di cipolla secca, abbiamo fatto un po’ di polpette. Con questo stomachino che non era niente. Abbiamo dormito là in cucina. E la mattina ci siamo incamminati verso Linz che è a circa 27 chilometri da Gusen.

D: Sei andato a Linz?

R: Sì, verso Linz e strada facendo prima di arrivare a Linz ci hanno intercettato gli americani. E ci portano dentro in quel campo, nel campo dei lavoratori civili, dove è successa quella cosa.

D: Lì quanto tempo sei rimasto?

R: Una quarantena. Praticamente. Hanno incominciato con una zuppetta, praticamente niente, poi sempre di più, un po’ di riso, sempre più, fino a che negli ultimi giorni ci stava il cucchiaio con pasta e fagioli, così ci hanno proprio rimesso a posto, ci facevano il bagno nelle vasche di zolfo, dieci minuti dentro in questo zolfo, poi fuori, poi la doccia, è scappato tutto, scabbia, orticaria. Sono rimaste solo quelle là. Dolori.

D: Per il rientro in Italia?

R: Il rientro in Italia, il ponte di Linz, la stazione di Linz non era più niente. Il ponte di Linz lo hanno fatto provvisorio. Si vede per il treno e siamo passati con il treno, vagoni normali di terza classe e bon, giù, in mezzo alla campagna, ci si fermava, perché non lo so. E lì si andava giù, si andava in cerca di rape o qualche cosa da mangiare, non c’era niente, non ci hanno dato niente.

Siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano ci hanno messo nelle baracche. Lì eravamo quattro, cinque giorni, non so, e lì venivano da Milano, da Torino, da Genova, a prendersi ognuno i suoi, allora era sempre l’auto parlante che gracchiava, un trasporto per il rientro.

Noi per Trieste, ma Trieste non si può, perché c’era Tito. Allora niente. Allora siamo andati giù per Trento, ci hanno fermati a Verona, e a Verona non si può andare, si rimane là. Invece poi è arrivato l’ordine che Tito si è ritirato e bon, a casa.

Veniamo a casa e a Bolzano ci vengono a prendere i pompieri di Muggia, con il loro camion e bon, ci hanno portato giù a Muggia. Lì in piazza ci hanno fatto la piazza piena così, hanno fatto un paio di tavoli, hanno spiegato qualche cosa, ma noi non eravamo noi. A parte che oggi siamo diversi, ma quella volta eravamo proprio niente.

D: Dei tuoi amici, del tuo Transport, vi siete salvati in tanti?

R: Non lo so, perché non mi ricordo quelle cose. Anche del campo non ci si ricorda mica tutto. Allora che cosa era il campo, che cosa mi ha colpito? La baracca che avevano loro i tedeschi che erano prigionieri come i nostri, solo che per fare quei servizi, andavano dentro e si vedevano che andavano su e giù e quando non avevano lavoro si vedeva che erano appoggiati alla finestra. Poi si vedeva il comandante del campo vicino al portone, un soldato, un piccolo bambino, di pochi mesi, forse, a buttarlo per aria e lui si allenava con la pistola. Quello mi è rimasto, si rimaneva colpiti perché erano cose. Il terrore e basta. Allora dormire, specialmente negli ultimi giorni in quattro su di un posto, non era una branda, era solo legno, due con la testa in su e gambe in giù e gli altri due con la testa in giù e le gambe in bocca. Era quasi una cosa normale, però ci si ricorda poco di queste cose.

D: Quando sei rimasto a Mauthausen e poi a Gusen 2, ti ricordi se potevi scrivere o ricevere pacchi?

R: Niente, niente, che scrivere. No, niente, pacchi, niente, niente, non riceveva nessuno. Noi eravamo completamente isolati dal mondo, niente, niente, giornali, neanche roba vecchia, niente. Niente.

D: Ti ricordi se assieme a te c’erano anche dei religiosi?

R: Come no. C’erano anche i Geova. C’erano gli omosessuali. Ognuno aveva il suo triangolo, il suo colore. Però noi più di tanto. Che cosa sapevo io.

D: Hai visto anche sacerdoti?

R: Come no, sacerdoti, professori, ingegneri, ma tutti, di tutto, trattamento unico. Tutti uguali. Solo che agli ebrei gli davano gli ultimi giorni un pane in ventiquattro.

Cattarossi Guido

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Cattarossi Guido, nato a Tarcento il 30 maggio 1925.

D: Guido, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato l’8 dicembre 1944.

D: Perché?

R: Per un rastrellamento; ero armato, eravamo di pattuglia. Pioveva che Dio la mandava e c’era nebbia che non si vedeva, quando abbiamo individuato la postazione eravamo già in trappola. Una raffica, una pallottola mi è entrata e due sono andate nel cappotto.

D: Tu eri partigiano?

R: Io ero partigiano armato.

D: In quale formazione eri?

R:Nella Garibaldi, Battaglione Manin, Brigata Bozzi, non so, me l’hanno cambiata da un po’.

D: Chi ti ha arrestato?

R: I tedeschi assieme ai fascisti.

D: Dove ti hanno portato?

R: Subito dopo mi hanno portato da Monte Fosca a Rividischia, mentre facevano il rastrellamento. Abbiamo fatto un giorno e mezzo in un paesetto in montagna.

D: Che è dove?

R: È sopra Canebola.

D: Guido, è lì che ti hanno arrestato?

R: Sì. Sopra Canebola, dietro la buchetta di Sant’Antonio.

D: E ti hanno portato?

R: Dopo mi hanno portato a Ribilisi mentre facevano il rastrelamento, un giorno e mezzo siamo stati fermi lì. Io non potevo camminare, ma poi siamo partiti e siamo andati su a Monte Fosca per andare giù a Pulfero. Io che non potevo camminare avevo due compagni, a destra e a sinistra, che mi tiravano per il braccio. Ad un certo punto si fermano i due comandanti, due tedeschi, un sergente e un tenente; mi guardano e l’uno parla all’altro, io non capivo un bel corno e mi parla; quando siamo arrivati al Pulfero ho saputo tutto. Siamo ripartiti e via siamo arrivati fino al Pulfero; è lunga la strada, eppure siamo arrivati. A quel punto il tenente ha detto al capitano: “A quel ferito non è meglio sparare un altro colpo?” Quello che era con me sapeva il tedesco e l’altro ha risposto: “No, sono i suoi colleghi che lo tirano”. Una volta è passata bene.

Arrivati al Pulfero, il primo degli otto presi nel rastrellamento ero io e sono stato portato al Comando e interrogato, visitato. Due mesi di lazzaretto, l’ospedale. E invece dopo aver finito l’interrogatorio ci hanno caricati e giù in Via Spalato.

D: Scusa Guido, a quale Comando ti hanno portato? Comando di dove?

R: Il comando tedesco che era al Pulfero. Era in un distaccamento che avevano loro; lì mi hanno visitato, hanno interrogato tutti gli altri e poi siamo andati in Via Spalato.

D: Il Pulfero che cos’è?

R: Un paesetto prima di arrivare al confine con Stupiza, più in su, il confine di Stato con la Jugoslavia.

D: Poi ti hanno portato a Cividale?

R: A Cividale al Comando, ma non siamo scesi, andammo diritti per Udine.

D: Quindi ti hanno portato alle carceri.

R: In Via Spalato. L’unico degli otto ferito ero io, perciò mi hanno portato in infermeria, gli altri nelle celle. Due giorni dopo, sono stato catturato il 9 dicembre, l’11 dicembre sono entrato in Via Spalato; il 13 o il 14 dicembre non ricordo bene, o il 12, viene l’impiegato in infermeria e dice: “Cattarossi!” “Comandi!” “Alzarsi, andare al processo”. Io non ho risposto. Avevo l’infermiere vicino, rispose lui. “Scherziamo, dice, orina sangue”. Difatti per sette giorni ho orinato sangue.

Parte, fa un segno sulla sua carta e dopopranzo l’infermiere mi dice, visto che poteva girare a fare iniezioni e punture a destra e a sinistra, dice: “Molini, mi chiamava col nome del paese, vuoi sapere l’ultima? I tuoi colleghi, i tuoi sette, non tu, sono stati al processo”. “E allora com’è andata?” “Quattordici condannati a morte e uno graziato”. “Chi è graziato?” “Quello che ti ha fatto la puntura in montagna, un infermiere”. Quello che mi aveva accompagnato fino a Pulfero. Adesso mi curano e dopo avrò la mia sorte. Difatti il giorno 13 o 14, il 18 dicembre al mattino ci sono due camion che attendono: partono questi poveri condannati che sarebbero i miei compagni, anche un paesano. Otto sono partiti per Cividale, abbiamo saputo dopo anche dal giornale, e sei per Gemona, fucilati. Il mio paesano è stato fucilato a Gemona.

D: Tu invece sei rimasto lì…

R: Invece io sono rimasto lì. Finito l’anno, ci hanno mandato al gennaio del ’45. Vengono chiamati altri 26 al processo. Mi dice l’infermiere: “Basta che non tocchi a te!” “Boh, dico, se è destino accettiamolo, ormai siamo qua”. Sono fortunato un’altra volta, non sono chiamato. Processo: 23 condannati a morte e 3 graziati.

D: Il processo dei 23, dicevi?

R: Di questi non so niente, che fine abbiano fatto, com’è andata.

D: E tu al processo non hai partecipato?

R: No, al processo non ho partecipato. Io ero in infermeria fino al 15-20 gennaio. Agli ultimi di gennaio l’infermiere dice: “Penso che ci sia una partenza per la Germania”. “Perché?” “Perché il maresciallo che comanda mi ha chiesto di te e come stai”. “Io dico: sta abbastanza bene”. Allora mi prende e mi manda in cella. Vado in cella e faccio tre giorni in cella. Il terzo giorno alle 11 di sera dormo. “Cattarossi, Cattarossi!” mi svegliano gli amici con me. “Alzarsi, domani c’è la partenza per la Germania”. Si immagini, trattando di uscire di lì ho fatto un salto di contentezza. Andavo nelle celle per vedere chi parte e chi non parte. Di lì è avvenuta la partenza per la Germania, due o tre giorni dopo siamo partiti.

D: Da dove siete partiti?

R: Da Via Spalato.

D: E vi hanno portato?

R: Alla stazione.

D: Eravate in tanti?

R: Non so, abbiamo fatto la notte in un vagone a Udine per aspettare il treno che veniva da Trieste, ammassati, ammucchiati. All’indomani ci hanno divisi quando è arrivato il treno e siamo partiti. L’1 febbraio o il 2 siamo partiti.

D: Eravate tutti uomini o c’erano anche donne?

R: Che sappia io eravamo tutti uomini, dopo sul treno che veniva da Trieste…

D: Vi hanno agganciato al treno in arrivo da Trieste; erano carri bestiame?

R: Si immagini, si pensava di scappare per strada come tanti sono scappati, ma c’era la scorta perfino nel vagone, con noialtri, i tedeschi nel vagone.

D: Quanto avete viaggiato in treno?

R: Abbiamo viaggiato … siamo partiti il 2 e arrivati il 7 a Mauthausen. Sono tanti chilometri, lo sa dov’è Mauthausen in Austria? Perciò…

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen.

R: Cinque chilometri fatti a piedi, dopo. Ho preso anche il tango per strada, mi hanno battuto perché non potevo camminare, dico la verità, mi faceva male la schiena. Io non ero ben inquadrato secondo i tedeschi, anzi non i tedeschi ma gli italiani perché c’era la scorta fino al campo. Non ero ben inquadrato allora mi hanno dato col calcio del fucile sulla schiena e sono cascato per terra. I miei compagni mi hanno preso, tirato su. Hanno portato lo zaino e siamo arrivati al campo. Alle sei, alle cinque di sera ci siamo ammassati, siamo arrivati e dopo ci hanno messo da parte e abbiamo aspettato prima di andare al bagno la bellezza di cinque o sei ore.

Tornando un momento indietro: quando siamo passati per Tarcento, io quella volta a 19 anni avevo già una fidanzatina sul lavoro. La serva del padrone che era a Tarcento, il padrone della fornace, è venuta a darci qualcosa. Sapeva che io passavo, alle quattro del mattino il capostazione ha dato un falso allarme, ha rallentato, hanno caricato la ragazza e la serva sul treno. Le hanno portate a Gemona perché sapevano che Gemona era in allarme, dovevano bombardare il ponte di … tutto il giorno fermi a Gemona.

E di lì quando si era fermato treno, sento: “Cattarossi, Cattarossi Guido”. Battevano nel vagone e allora i tedeschi hanno capito, le hanno fatte girare dall’altra parte dove hanno aperto la porta e volevano che scendessi. “Io non posso scendere!” Ci siamo baciati sulla porta e mi ha consegnato un cesto di roba che abbiamo mangiato per strada: pane, robe che si cercava di tenere, salame, formaggio. “Andremo a lavorare, teniamo qualcosa”. Invece la roba fece un’altra fine; prima di andare al bagno, quelle cinque o sei ore che stiamo stati fuori, ci hanno detto che dal bagno non si portava fuori niente. “Se avete qualcosa mangiatelo, se avete orologi, gioielli, dateci i nomi che alla fine vi torna tutto. Cominciate a tirarle fuori.”

Io ho detto: “Ragazzi, mangiamo tutto!” e mentre si parlava l’uno con l’altro ho trovato il mio amico con cui eravamo di pattuglia; uno è stato fucilato a Gemona, quello lì è riuscito a scappare. Lo hanno preso un mese dopo per andare in Jugoslavia. Quando siamo arrivati al campo l’ho trovato!. Mi diceva: “Guido, come sei qui, sei ancora vivo?” “Sì. Mi hanno preso così e così”. Ci siamo abbracciati e allora mi ha detto: “Io pensavo che fossi morto come il povero Aldo”. “No, ancora sono qua”.

Lì ci siamo lasciati, abbiamo mangiato. Dico la verità, abbiamo mangiato. Sono entrato verso mezzanotte al bagno, ma ero pieno. Avevo 20 anni! Dopo è partito tutto. Di lì abbiamo iniziato il bagno di disinfezione, attraversato tutto il campo, nudi completamente, senza un pelo addosso! Si immagini, era il 7 febbraio, era freddo. Ci siamo schierati. Nei blocchi di quarantena dove ho fatto una buona parte non ho dormito mai né sui materassi né sul castello, ma per terra: svestirsi sulla porta, fare il cuscino coi vestiti e dormire sempre di fianco. Io non mi sono mai buttato diritto così, ci si metteva l’uno di fianco all’altro, uno, due, tre, quattro, cinque, dovevamo stare in dieci metri, in quindici, quindici da una parte e quindici dall’altra e dopo diceva: “Giù, testa e piedi in fianco”. Io ho dormito tanto così e mi è capitata tre volte la dissenteria: allora toccava prendere il cuscino fatto di vestiti, andare fuori e passare quelle due ore, tre, cosa rimaneva per arrivare all’alba sulla porta. L’ho fatta due, tre, quattro volte, poi tornando il mio posto era perso, non c’era più.

Fare attenzione a non camminare, nell’uscire per andare fuori, sopra la pancia di qualcun altro! Capitava una rivoluzione e ti facevano rotolare fuori.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: All’indomani. La mia matricola era il numero 126.670.

D: E assieme al numero cosa ti hanno dato?

R: Il triangolo.

D: Di che colore?

R: Rosso, italiano.

D: Dopo il blocco di quarantena dove ti hanno portato?

R: Sempre lì. Una buona parte della mia vita l’ho fatta lì. Andavamo fuori e venivano a prenderci, dovevamo fare dei lavori e ci portavano via col camion lontano, altrimenti si andava a piedi e si tornava lì. Io non ho avuto un posto fisso mai; solo una volta verso i primi di aprile, a metà aprile, ad Amstetten, una stazione a 60 chilometri fuori che era proprio distrutta. Là eravamo 7.000 prigionieri, era un putiferio.

D: Sei stato lì a un Kommando?

R: No, siamo stati al lavoro alla stazione per riattivare un binario per i treni e sistemarla, visto che era bombardata. Abbiamo subito dopo tre giorni che eravamo lì un altro bombardamento di quattro ore, senza un colpo di contraerea; era un disastro.

D: Vi portavano fuori dal campo al mattino e tornavate alla sera?

R: Per lavorare a Mauthausen ma poche volte, il più siamo stati fermi a Mauthausen. Fermi a Mauthausen, non lavorare; si preferiva lavorare piuttosto che star dentro là fermi. Pioveva, fermi, stretti l’uno con l’altro in mezzo al cortile, perché era freddo. Se pioveva c’era umidità, eravamo bagnati. Ci si ammucchiava in 300/400, quanti eravamo, ci si metteva schiena contro schiena per stare caldi. Ogni tanto capitava il capoblocco, uno della SS col nerbo e allora si cercava di non andare in mezzo al mucchio: tanti di loro sono stati morti calpestati.

D: Quindi sei rimasto sempre nel blocco di quarantena?

R: Sì.

D: Fino a quando?

R: Fino alla Liberazione. Perché dopo che sono ritornato da Amstetten sono tornato a Mauthausen.

D: Ma ad Amstetten tu stavi a dormire?

R:Sì, siamo stati lì otto o dieci giorni e ho dormito lì. Anche lì le ho prese. C’erano due russi vicino a me che non lavoravano Vedo un tedesco che con un pezzo di traversina di legno li picchia sulla schiena e a me che avevo un carico di mattoni sul braccio non va per traverso? Ho mollato i mattoni e hanno preso questo dito che è stato frantumato. Alle dieci di mezza di sera, pioveva, e alle undici smontava, a quelle ore lì le ho prese. In pochi giorni il dito è divenuto così. Mi pare che dopo tre quattro giorni dopo il secondo bombardamento ci hanno detto di rientrare. Siamo rientrati a Mauthausen di nuovo, passato al bagno, la stessa cosa che abbiamo fatto alla partenza. Sono andato dal medico per il dito che era così. E mi dice di cavare l’unghia. “No, qua tagliare”. E lui: “No”. Io il mio e lui il suo, l’ha vinta lui, perciò ha preso l’unghia e mi ha fatto male. Sono svenuto. Sono andato fuori, non ho neanche preso la disinfezione, sono andato fuori, ho tirato quel dito, ci ho orinato sopra, ho mandato un compagno a prendere un pezzo di carta igienica e l’ho fasciato.

All’indomani ho cambiato la benda e negli ultimi giorni avevo ancora il dito gonfio e cotto; è guarito nelle cucine quando sono stato liberato, perché andavo a cercare da mangiare. Non mi vergogno a dirlo, ero là.

D: Guido, scusa un attimo. Quando sei arrivato nel campo di Amstetten …

R: Non era un campo ad Amstetten, era una stazione di smistamento.

D: Ma dopo, quando andavate a dormire, dove vi portavano?

R: In un capannone con la paglia, là c’era la paglia e dormivi. Lavorare di giorno e di notte quasi all’aperto.

D: Eravate in tanti?

R: Sì, eravamo in tanti. Non eravamo solamente quelli partiti da Mauthausen, ce n’erano da tante parti, da tutte le parti. Siamo a migliaia, degli altri non posso dire, so dei nostri in quanti eravamo.

D: E poi ti hanno riportato ancora a Mauthausen?

R: Sì.

D: Sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco di quarantena.

D: Ti ricordi che numero era il blocco di quarantena tuo?

R: Io avevo la terza baracca, entrando dal campo libero, in fondo a sinistra c’erano i blocchi di quarantena e la terza baracca era la mia.

Vorrei raccontare un altro episodio. Non vorrei ma lo racconto perché un povero disgraziato ha lasciato la vita a tre metri di distanza da me.

Mentre eravamo incolonnati per l’appello nella nostra baracca ne mancava uno. Un tenente va su e giù per tutti i blocchi, controlla le baracche e non lo trova. Il capoblocco è partito a cercarlo nel campo libero, dietro le cucine. L’ha trovato che cercava di tirar fuori qualcosa; io ero proprio all’entrata del cancello in testa alle baracche, vicino. Veniva avanti. Il tedesco non era lì, era nella baracca dietro. Il tenente viene giù, lo trova, a tre metri distanti da me parlano i due tedeschi, il capoblocco e il tenente: “Dov’era?” “Nelle cucine, dietro le cucine, nelle immondizie a cercare”.

Gli va vicino, gli dà un pugno nella testa, è cascato per terra; gli salta sulla pancia. Quella volta mi sono voltato dall’altra parte. Dopo cosa ha fatto? E’ rimasto lì, gli ha tirato giù il numero di matricola, l’ha registrato sul suo libro.

Crematorio , sa cosa vuol dire? “Auf Wiedersehen!”, ha fatto una risata e via. Rotte le file, non so se l’ha portato nel crematorio direttamente oppure all’infermeria, ma di lì non si è alzato più e lo hanno portato via. Posso dirlo perché l’ho visto io, era a tre metri.

D: Guido, al momento della Liberazione tu dov’eri?

R: Nei blocchi di quarantena.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Me la ricordo perché il giorno prima non si aveva pace; i tedeschi venivano dentro e toccavano quelli che non riuscivano a stare in piedi, sfiniti, alzarsi in piedi, reggere il berretto e fare il saluto. Le ho prese anche lì. Sono stato fortunato perché sono qua a raccontarla, ma quante botte!

Ho avuto la fortuna della ferita che mi ha salvato, ma sono rimasto lì, quando venivano loro mi toccava alzarmi per fare il saluto e via. “Speriamo che oggi sia l’ultimo giorno, che domani venga qualcuno a liberarci”, si sentivano i colpi vicino. L’indomani alle 7 di mattino andiamo fuori, comandi non ce n’erano più, viene innalzata la bandiera sui crematori. La SS era partita, quell’altro comando era già indifferente, è entrato il carro armato!

E’ entrato il carro armato, si è presentato a tutta quella gente che c’era, ha cominciato con l’altoparlante a dire di stare fermi e calmi: loro sapevano tutto quel che era stato e quello che non era stato, dovevamo portare pazienza, piano piano avrebbero sistemano tutto.

Subito ho cercato di uscire a cercare da mangiare; fuori del campo c’erano le cucine delle SS. Siamo andati a prendere da mangiare.

Un altro particolare, fa senso ma era normale, erano le caldaie dove facevano da mangiare, come trattavano il formaggio in latteria. Una di qua una là erano in questa cucina, dentro la minestra che bolliva c’era l’uomo che girava. Una persona per andare a mangiare l’ha spinto, è andato dentro, vestito. Ma non si guardava questo, si cercava di prenderci qualcosa da mangiare.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Il 5 maggio, non potrei dire l’ora, dopo pranzo, no, al mattino, al mattino sono entrati verso le 11 mi pare.

D: E poi cosa è successo, poi cosa hai fatto?

R: Non ho fatto niente. Piano piano ho cominciato. In due notti c’erano 500/1.000 morti perché erano nei forni crematori, erano accatastati. Poi hanno cominciato a far venire le casse. Prima di arrivare al campo, per la strada venendo su, dove adesso mettono le corriere, da quelle parti lì hanno fatto una fossa comune e li hanno messi lì. Non so se li hanno tolti da lì e portati non so dove o se sono rimasti lì. Dopo ci siamo divisi per nazionalità: io con gli italiani, gli altri coi francesi e via. Abbiamo preso la baracca e lì abbiamo fatto un mese. Ci hanno liberati il 5 maggio e io sono rimpatriato il 2 giugno. Il 30 maggio ho terminato vent’anni. Se non vado errato mi pare così, ’25 e ’45.

D: Ascolta, sei rimpatriato dove, come sei rimpatriato?

R: Con la Croce Rossa Internazionale. Abbiamo fatto il permesso della Svizzera per passare ed è passato un convoglio di militari italiani prigionieri; il nostro comando ha chiesto se potevamo salire. Sì, siamo saliti. Eravamo sfiniti, depressi, siamo andati persino dove frenano, al posto di quello che frena, pur di arrivare a Innsbruck. A Innsbruck ci hanno detto che chi non si fosse sentito di camminare coi suoi mezzi sarebbe stato portato al campo. Dico al mio compagno: “La facciamo a piedi. Quanti chilometri sono?” “Due”. “Tentiamo di farla a piedi”. Pentiti dopo perché non si andava avanti. Non erano due chilometri, erano più di quattro per arrivare al Lager. Nel campo troviamo 10.000 italiani espatriati.

D: A Innsbruck?

R: A Innsbruck, al campo di Innsbruck. Ci hanno avvertito che noi altri saremmo stati i primi a partire e infatti quella sera siamo andati a dormire; ci hanno messo nei castelli io e il mio amico. Accendi la luce: c’era il cuscino pieno zeppo di quelle bestie, allora qua non si dorme! Siamo andati a prendere un mucchio di fieno nei campi, quello fresco, siamo venuti su, c’era un armadio, un guardaroba, l’abbiamo steso a terra, ci abbiamo buttato il fieno e abbiamo dormito lì. Al mattino ci chiamano: quelli in arrivo da Mauthausen dovevano presentarsi al cancello, lì ci hanno chiamati, di lì siamo partiti verso Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano, ce n’erano provenienti da tutte le parti d’Italia tranne che da Udine: noi eravamo i più vicini ed eravamo gli ultimi a prendere le corriere. Abbiamo aspettato, è arrivata all’indomani, un giorno è stata a Bolzano. Anzi ero salito su un’altra corriera. Mi hanno detto: “Lei non deve salire”. “Ma perché?” “E’ di Pordenone”. “Ma arrivo fino a Pordenone!”. “No”. Sono tornato a prendere da mangiare, ho mangiato un altro piatto di riso. E così fino a quando è arrivata quella di Udine, siamo partiti dopo per Udine.

Volevo anche raccontarle che, tornando indietro, prima di partire da Mauthausen hanno dato anche i nomi degli altri per radio. Quando una missione è arrivata a Milano ci hanno detto: “Il tal giorno vi avvertiremo che i vostri nomi saranno letti per radio. Ascoltate alle sette del mattino”. E’ stato vero. Di notte io andavo a pelare patate, perché si trovava da lavorare per noi altri dopo. Al mattino, prima di andare a dormire, passato di lì alle sette, mi metto davanti alla radio e sento: “Tizio, Caio, Sempronio, Cattarossi Guido”. Presente! Qualcuno avrà sentito … difatti è stato vero.

D: A Bolzano sei rimasto fermo un giorno?

R: Sì, un giorno, un giorno e mezzo. Due giorni.

D: Ti ricordi dov’eri, dove vi avevano alloggiati?

R: Alle caserme mi pare, alle caserme di Bolzano. Un altro particolare. Una signora viene vicino e dice, eravamo in mezzo alla strada, per passare la strada come i bambini ci davamo la mano: “Da dove venite?” “Da Mauthausen”.

E’ andata a prendere le ciliegie.

D: Questo a Bolzano.

R: A Bolzano. E di lì siamo partiti con la corriera e siamo arrivati a casa, a Udine.

D: E sei arrivato a Udine quando?

R: Il 9 giugno.

Capuozzo Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Capuozzo Raffaele, nato a Milano il 24.5.24.

D: Perchè sei stato arrestato?

R: Ancora oggi non lo so. Comunque penso che la causa sia stata che ero stato sospettato di far parte del primo Comitato di Liberazione di Verona, quando invece non c’entravo niente.

I guai miei si riferiscono al fatto che nel 1943 accompagnavo a Verona l’avvocato Carlo Caldera e l’avvocato Antonio Alberti, residenti sul Lago di Garda, e mio padre, funzionario di pubblica sicurezza. Venivamo a  Verona, io guidavo una 1100 con le bombole di metano; li portavo a Verona alla mattina e li riprendevo alla sera. L’appuntamento per tutti era alle ore 17.00 vicino all’Arena, di fronte al famoso Bar Cillario, frequentato dalla Verona bene, dai fascisti, dai capi. Lì li caricavo e si tornava a Pacengo.

Della scoperta del primo Comitato di Liberazione, di cui facevano parte i nomi che ho indicato, io non sapevo niente. Mi presero tre soldati della SS e mi portarono in corso già Vittorio Emanuele, al numero civico 11, al Palazzo dell’INA. Là in quel periodo aveva sede il comando delle SS in Italia del famoso generale Harster.

All’entrata 15 o 16 uomini mi diedero chi un pugno, chi una sberla. Mi hanno portato in cortile, dove c’erano i garages. Nei garages c’erano le celle; entrai in cella e trovai un personaggio che diceva di chiamarsi Borgoncini Luca, era ex colonnello dell’esercito e comandante dell’Accademia di Modena; penso facesse parte dei famosi servizi segreti dell’esercito. Era un uomo meraviglioso che il tempo mi ha fatto conoscere molto bene; era il cugino del famoso monsignor Borgoncini, nunzio apostolico firmatario dei famosi Patti del Laterano.

Io in quel periodo ero a Verona, fuggito da Bolzano l’8 settembre (1943), dove ero al  IV Genio Alpino.

L’8 settembre (1943) alla mattina eravamo tutti sul greto del fiume Talvera; dopo tre giorni riuscii ad allontanarmi dal Talvera perché una crocerossina mi disse: “Dì che hai l’angina”. Mi portarono fuori; il capo disse: “Perché viene fuori questo?” “Ha l’angina”, e per i tedeschi angina significava malattia infettiva. Mi portarono due / tre giorni all’ospedale civile di Bolzano. Rimasi all’ospedale di Bolzano, quando si seppe che sarebbe arrivata la Gendarmerie, come la chiamavano, per fare un controllo degli ammalati; sospettavano che vi fossero anche dei non malati. Un certo professor Casanova, che era un primario, mi diede allora un paio di pantaloni e una camicia; riuscii a scappare. Andai a piedi fino a Ora, perché la linea da Ora a Bolzano era stata sinistrata dal bombardamento del 3 settembre 1943. Sono arrivato a Verona durante il coprifuoco dove sono riuscito ad avere un documento che mi esentava dall’essere reclutato per lavori durante i bombardamenti.

R: Mi arrestarono l’11 maggio (1944) alle 5 e mezzo della sera, e mi portarono al palazzo dell’INA, dove rimasi tre mesi. Non erano convinti o non si rendevano conto che io non sapevo niente, e mi chiedevano chi era il primo Comitato di Liberazione.

In quel momento sapevo che esistevano solo il rosso e il nero, io ero fascista. Chi mi spiegò un po’ di comunismo fu il famoso Roveda, primo sindaco di Torino, a causa del quale morirono tre ragazzi veronesi.

D: Dopo tre mesi trascorsi nel palazzo dell’INA, cosa successe?

R: Una notte, alle 11 di sera, ci portarono in stazione a Porta Nuova, ci caricarono su un carro e mi portarono a Bolzano. Questo tra la fine settembre ed i primi di ottobre.

D: Su un carro ferroviario?

R: Su un carro ferroviario.

D: In quanti eravate più o meno?

R:  Eravamo circa una sessantina dentro questo carro. Rimanemmo sino al mattino sul vagone, poi ci scaricarono a Bolzano e su un camion ci portarono al campo di concentramento.

D: Ricordi qualche compagno che era con te su questo carro?

R: C’era un certo Renato Bianco di Thiene, era alto quasi due metri. C’era un certo Giuseppe Zampieri, detto Il paia, morto durante la marcia della morte. Poi c’era don Aldrighetti, l’arciprete di Soave, e il dottor Garriba, allora pretore di Soave. C’era un altro prete mantovano che si chiamava don Berselli, una persona squisita. Rimanemmo a Bolzano, non posso dire per quanti giorni; so che in ottobre, il 22 o 23, arrivammo a [Dachau].

D: Del Lager di Bolzano cosa ricordi?

R: A Bolzano non avevo nessuna matricola, chi aveva le matricole era destinato a rimanere lì.

Arrivando a Bolzano ho trovato degli amici che erano passati dalle celle di Corso Vittorio Emanuele. Per esempio un certo Gianni Ferraiolo, che era stato paracadutato dagli americani come spia; là poi seppi che c’era e mangiavamo assieme il rancio che ci davano, il comandante della corazzata Littoria, quella famosa corazzata di cui tutti parlavamo perché era rimasta bloccata a Taranto o a Brindisi, non mi ricordo dove. C’era anche lui, era un ammiraglio, una persona squisita, piccoletto ma vedevi che era un ammiraglio. Lì si parlava del più e del meno, facevamo i bollettini di guerra così, tanto per dire, perché le notizie erano frammentarie, non c’era una comunicazione diretta. C’era qualcuno che, uscendo a lavorare, sentiva il cittadino, poi tornava a dire: “Ho sentito, non ho sentito”, erano tutte voci di riporto.  Così ognuno faceva le sue supposizioni, ma io a 20 anni supposizioni ne avevo poche da fare, ascoltavo, anche perché non avevo altro da fare. Da lì ci portarono in stazione, ci caricarono sui vagoni; eravamo più di 30, anche 70 per vagone. Mi ricordo il freddo, faceva freddo, perché ci hanno lasciato tutta la notte a Bolzano prima di partire; probabilmente attendevano delle tradotte. Arrivammo a Monaco, cioè a Dachau. Lì iniziò il mio primo numero di matricola; se me lo chiedi in italiano non lo so, te lo posso dire in tedesco perché era, dunque: il 113 mila, una cosa del genere, non me lo ricordo bene però è documentato. Quello di Buchenwald invece lo ricordo bene perché è stato l’ultimo: devo studiarlo per dirlo in italiano perché lo sentivo sempre in tedesco e così l’ho memorizzato. Arrivammo a Dachau, ci fu l’appello. Il giorno del mio arrivo arrivarono gruppi dall’Italia, dalla Francia, dalla Jugoslavia, eravamo circa 3 / 4 mila sul piazzale. Lì arrivammo con i nostri abiti borghesi, ci misero in fila, ci spogliarono completamente nudi e in fila, ci tolsero l’anello, io avevo un anello, la collanina, l’orologio; ci misero in fila per andare alla disinfezione.

Il bello della disinfezione, cos’era? Un prigioniero, arrivato prima di noi, con la macchinetta ci pelava dappertutto, la testa, sotto, dappertutto; più avanti ce n’era un altro con un sacchetto di sapone in polvere: ce ne dava una manciata, entravamo in stanzoni enormi dove c’erano dei tubi da cui usciva acqua, facevamo la nostra doccia. All’uscita dalla doccia c’erano dei tavoloni enormi con sopra pantaloni, giacche e zoccoli olandesi: ognuno si prendeva la giacca e il pantalone – le mutande non erano più in uso, le canottiere non c’erano – e arrivammo. Poi ci diedero un triangolo da appendere qua con scritto “italiano” e il numero di matricola che era 113mila e qualcosa. Poi ci fu l’adunata di noi tutti in divisa; quello che mi fece più impressione è che durante questo inquadramento venne il Lagerältester a dire: “Questi vanno ai vari blocchi, distribuiteli”.

D: Stavi parlando del capo del Lager?

R: Sì, il capo-Lager venne con l’elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa dicesse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia, e questo capitano, sarà stato un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze. Poi ebbe un mancamento, stava per cadere, ma si rialzò e ritornò nella fila. Io venni inviato al blocco 24; con me c’erano don Berselli, don Aldrighetti, il giudice Garriba, altri veronesi, e Renato Bianco. Le adunate si svolgevano alla mattina alle 6, bel tempo o pioggia: ci mettevano in fila tra le due baracche 23 e 24; eravamo tutti in fila sotto l’acqua ad aspettare che venisse il comando a farci la conta. Quando arrivava davanti al cancello il capo di togliersi il cappello, poi quando era finito ci lasciavano sotto l’acqua, e per scaldarci ci ammassavamo, continuavamo a girare su noi stessi in modo che ogni 10 minuti si veniva fuori poi si rientrava, ci si riscaldava. Molte volte avveniva che alla mattina mancasse qualcuno, allora si doveva ricontare. Poi il capo-baracca della camerata diceva: “Ci sono uno o due morti dentro”; faceva il controllo nella baracca e contava i morti.

Il campo era nato per avere o il singolo o i castelletti da tre ognuno nel proprio posto, ma noi eravamo arrivati al punto che eravamo in sei in due lettini anziché in tre, e forse era meglio perché, non avendo da coprirci, stavamo stretti e uniti, e stavamo al caldo. Dopo tante volte si usciva per andare a lavorare; venivano, sceglievano, prendevano per portare a  pulire il campo con la carriola, sempre scortati dal Lagerpolizei. Il Lagerpolizei non era un prigioniero politico o un prigioniero militare avevamo anche dei militari che non erano politici, ma aveva la giacca con le lettere KG sulla schiena, c’era il KG, che voleva dire Kriegsgefangener cioè prigioniero di guerra. Invece noi eravamo zebrati, e dopo la faccenda di Badoglio, per sfregio ci fecero la famosa riga in mezzo alla testa; sembravano dei rospi, affamati, magri; questo era fatto solo agli italiani per ricordare il periodo di Badoglio. Dopo il tradimento di Badoglio ci fecero questa riga in mezzo, larga due centimetri, sul resto della testa c’era un po’ di peluria, mentre lì eravamo proprio a zero.

D: Parlaci dei kapo.

R: I kapo erano delinquenti comuni tedeschi: ladri, contrabbandieri, rapinatori, condannati per reati comuni. Al posto di cinque anni di carcere facevano fare loro due anni e mezzo di campo di concentramento come kapo. Davano loro la fascia ma vestivano in borghese; loro erano in borghese e vestivano la loro fascia nera con la scritta bianca: solo la lettera K.

D: Sei rimasto sempre  nel blocco 24?

R: Sempre. E’ il blocco dove era morta la famosa principessa di Bulgaria, Mafalda; correva voce che, non so in quale blocco, ci fosse anche il figlio di Stalin, ma noi non lo abbiamo visto.

D: Stiamo parlando ancora di Dachau: hai trovato altri italiani?

R: Eh mamma mia, ce n’era un’infinità di italiani, quando ci scaricavano dai vagoni. Arrivavamo col vagone ferroviario dentro Dachau, perché in Dachau arrivavano i treni. E dietro i reticolati, dietro le reti metalliche abbiamo sentiti un’infinità di: “Ciao, sei italiano?”; dopo, i contatti venivano interrotti. Con me c’era l’avvocato Ruggero Jenna, discriminato da Mussolini come ebreo.

D: Durante il tuo periodo di Dachau sei uscito dal campo per lavorare?

R: Sì, ci hanno portato 3 / 4 volte a Monaco dopo i bombardamenti per togliere le macerie sulla ferrovia.

D: Di fronte alla tua baracca, la 24, c’erano la 26 e la 28; ricordi chi c’era in quelle baracche?

R:  La baracca non era singola, era un corridoio di baracche; le due baracche erano unite ma ognuna aveva il suo ingresso: c’era una camerata a destra e una a sinistra. Ogni baracca aveva dentro due camerate; c’era un piccolo ingresso che divideva le due baracche, e lì, in quell’ingresso, dormiva il capo-baracca, cioè il Blockältester.

D: Cosa avevate in baracca?

R: C’era la fila dei lettini, diciamo dei castelletti di legno; ognuno di noi aveva il suo posto, che non era per un singolo ma che ogni giorno diventava per più persone perché continuamente arrivavano nuovi deportati e li inserivano dove c’era la possibilità.

D: Avevate armadietti?

R: Quali armadietti? Non era mica il Grand Hotel! Parliamo di Dachau! non c’erano armadietti! Si dormiva col vestito che avevamo addosso perché il pigiama non ce l’hanno mai portato…

D: Prima dicevi che all’interno delle baracche qualcuno moriva; questi morti dove venivano portati?

R: Al crematorio, ai forni. Vicino ai forni c’era anche una grossa baracca, che aveva la sembianza di una stalla, di un ippodromo, diciamo di un baraccone; in mezzo si camminava su della paglia. Quando uno non ce la faceva più andava a dormire là ed era tranquillo perché non lavorava più; là passava uno che gli dava il mestolo di brodaglia. Però quando moriva lo mettevano su un carrello e lo portavano ai forni. E là c’era tutta questa fila di forni, li attaccavano con i fili di ferro, li buttavano dentro, uscivano i fili vuoti dalla parte di là. Questi erano i forni.

D: I forni però erano al di fuori del campo.

R:  Adesso non so capire esattamente; sono stato 3 / 4 anni fa a vedere il mio nome in archivio.

Ora è tutta un’altra cosa perché le baracche non ci sono più, ci sono quattro pali, e l’unica baracca visitabile è il “Grand Hotel”, cioè la baracca dei Lagerpolizei. Non è una baracca come le nostre; quella era bella luminosa, spaziosa, la nostra era la classica baracca. Adesso hanno messo al posto delle baracche, nel viale dove erano le baracche, dei pali neri, dei travi, su due colonnine di cemento, e non hanno conservato niente.

Poi dicono Revier, ma non era lì perché, entrando sul piazzale, c’era un promontorio, una baracca, con un medico spagnolo prigioniero, che chiamavano Revier, cioè infermeria. Chi aveva bisogno andava, e quelli che andavano cosa facevano?  Davano loro un cucchiaio di ittiolo, perché le malattie che scoppiavano lì erano foruncoli, specialmente sul collo; avevano la carta oleata, non ti davano delle bende, ma un pezzetto di garza con un cucchiaio di ittiolo, che sembra lucido di scarpe marrone; te lo mettevi sopra questi foruncoli. Scoppiavano foruncoli, dissenterie,  ma malattie in quel periodo non ne ho mai viste, non c’erano.

D: Dopo, dove ti hanno portato?

R:  A Buchenwald.

D: Con cosa ti hanno portato?

R:  Col treno fino a Erfurt.

D: Quando ti hanno portato a Buchenwald?     

R:  Ai primi di novembre 1944.

D: Quando sei arrivato a Buchenwald, altra spoliazione, altra immatricolazione?

R:  Sì. Da lì siamo partiti come un distaccamento di una sessantina di uomini; ho perso di vista tutti, don Aldrighetti, il povero Ruggero Jenna, tutti. E siamo andati a finire a Bad Gandersheim, un paesino con un promontorio in una ex chiesa. Ci buttarono dentro lì. Non c’erano né castelletti, niente, c’era solamente paglia per terra. L’unico sgabuzzino ce l’avevano i due kapo, prigionieri anche loro, e il Lagerältester cioè il capo-Lager di questo gruppo. Dormivamo nella chiesa, e lavoravamo alla costruzione delle carlinghe di aerei per il famoso bombardiere notturno Heinkel. Nel frattempo, un altro gruppo di prigionieri, a fianco dello stabilimento, creò un campo di concentramento con le sue baracche. Così ci tolsero dalla chiesa e ci misero nelle baracche.

In una baracca c’era il comando tedesco, dove dormivano i tedeschi; due baracche a nord, vicino ad una ferrovia, erano le nostre baracche. Ci alzavamo la mattina alle 6 per il famoso antreten, andavamo in fabbrica a lavorare, e la sera alle 5 ci riportavano al campo e ci davano da mangiare. Un mestolo di acqua e rape con una fetta di pane, cioè un pane diviso in cinque.

D: Quando sei partito per Buchenwald, don Aldrighetti, Jenna e gli altri sono rimasti a Dachau?

R:  Sono rimasti là, non ho più saputo niente di loro. Don Aldrighetti però è sopravvissuto, è tornato in Italia a fare l’arciprete a Soave, mentre invece credo che il povero Garriba morisse in campo di concentramento.

D: Anche don Berselli è ritornato.

R:  Sì, lo vedrei molto volentieri.

D: Poi è mancato. Loro sono rimasti a Dachau?

R:  Sì, perché quando noi partimmo per andare a Buchenwald chiesero degli operai specializzati in fresatura. Allora un certo Plinio Panciroli, veronese, che era cameriere al ristorante “Girelli” in corso Vittorio Emanuele, e Giuseppe Zampieri, detto Il paia perché era lungo e magro, mi dissero: “Bocia, vieni con noialtri”, loro conoscevano queste cose. Io dico: “Non son mica bon” “Ghe penso mi, vien via con me!” e lo segui. E andammo a Buchenwald.

D: A Buchenwald siete rimasti poco.

R:  Poco, sí. Dopo 15 / 20 giorni ci trasferirono in un sottocampo del campo di Buchenwald che era il campo di Bad Gandersheim.

D: Vicino a quale città era?

R:  Bad Gandersheim è nella zona di Halberstadt. Lo so perché dopo l’evacuazione del campo, attraversammo a piedi molti paesi vicini. Loro non volevano abbandonare i campi per l’esperienza fatta nei Paesi che vennero occupati dagli americani o dai russi: lasciando infatti libero il campo e facendo uscire i prigionieri, questi andavano nelle case e facevano piazza pulita. Allora la loro idea fu di tenerci sempre in gruppo e di farci camminare, affinché all’ultimo momento ci prendessero gli americani o gli inglesi. Partimmo da Bad Gandersheim e facemmo una strada. Ora non la ricordo con ordine, però so che passammo paesi che mi sono rimasti in mente: Vernigerode, Aschersleben, abbiate pazienza per i nomi che posso storpiare, non voglio offendere nessuno. Comunque era la zona intorno all’Elba. Arrivammo a Halberstadt in periferia, alla sera. Eravamo accampati senza tende e senza niente in un prato enorme, i tedeschi erano attorno di guardia. Di giorno camminavamo e c’erano dei prigionieri che tiravano carretti con tutto il bagaglio dei tedeschi; ogni tanto si vedeva che qualcuno si toglieva la divisa e si metteva in borghese.

A un bel momento, una mattina ci svegliammo, quando arrivò il chiaro potemmo vedere – credo che dormire fosse relativo – che non c’era più nessun tedesco, erano spariti. Io e altri due di cui adesso mi sfugge il nome, non so se è un certo Zanardelli di Brescia, ricordo che ci incamminammo alla chetichella e ci infilammo in una stalla.  Ci nascondemmo dietro alle balle di paglia, per vedere cosa succedeva. Nel pomeriggio alle 4 sentimmo dei carri armati venire avanti; dico: “Arrivano i tedeschi!” ma ad un bel momento vidi che il carro armato aveva la stella col cerchio, erano alleati.

Sopra il carro armato c’erano soldati inglesi e ciprioti che parlavano l’italiano. Allora, visto che erano americani, siamo venuti fuori: noi eravamo con la divisa a righe, non potevamo dire: “Siamo dei signori di passaggio”. Ci videro, ci diedero della cioccolata, ci fecero salire sul carro e arrivammo a Halberstadt.

Halberstadt era già una cittadina organizzata, ci presero in consegna e ci portarono in fondo al viale più grosso di Halberstadt, dove c’era una fabbrica, la Junkers. La strada si chiamava Adolf Hitler Strasse.

Ci portarono in questa fabbrica; nelle baracche dietro c’erano i prigionieri che lavoravano. A quel punto venne qualcuno, ci disse: “State qua, mettetevi calmi, tranquilli, verrà la Croce Rossa ad aiutarvi, a vestirvi”. Ci hanno dato delle cose, e rimanemmo in attesa che le autorità competenti si organizzassero per poter far partire ognuno per la propria residenza. C’era il gruppo di italiani, erano quasi tutti genovesi. Dopo c’erano i russi, i polacchi, gli slavi, ognuno aveva il suo settore; eravamo lì in attesa in rientrare. Arrivò l’ordine che c’era una tradotta che veniva verso l’Italia e ci  caricarono sul treno, che era molto piccolo, ed era sempre un carri di merci. Arrivammo a Innsbruck, ci misero in quarantena. Poi venne la Commissione Pontificia e con un camioncino da Bolzano venimmo fino a Verona. Arrivati a Verona io sono andato direttamente a casa e ho trovato i miei.

D: Ritornando ancora a Buchenwald, dicevi di esservi rimasto 15 giorni.

R:  Sí, 15 / 20 giorni.

D: Ricordi se all’interno del campo hai visto donne o ragazzetti?

R:  Quello era pieno, quello era pieno, c’era il reparto donne e il reparto ragazzi. Per esempio si diceva a Dachau che c’era la famosa Ilse Koch mi pare, che era l’amante del comandante del campo. La Koch aveva la mania dei tatuaggi. Era una iena, perché quando vedeva una bella schiena di tatuaggi li segnalava e i kapo, quando questo veniva ammazzato, gli toglievano la pelle, con cui lei si faceva fare le abat-jours. Ripeto questo si diceva ma io non l’ho visto perché io non ho tatuaggi. Il numero sul polso non era regola obbligatoria “Tu fatti questo”, ognuno se lo faceva per non dimenticare. Tanti dicevano “Fatti fare un tatuaggio” perché erano bravissimi a farlo, facevano disegni meravigliosi. Però questo poteva comportare delle conseguenze.

D: Dopo Buchenwald sei andato nel sottocampo. Con voi a lavorare in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Civili tedeschi, per Dio! c’erano. Io avevo, forse per la mia mania di pulizia, un tovagliolo con cui mi lavavo. Mi misero a fare un lavoro di precisione, che consisteva nel modellare, con delle dime e con una macchina che faceva le curve, curve in metallo dural, una specie di alluminio, per le carlinghe degli aerei; nelle varie forme della carlinga c’erano dei pezzetti che venivano incastrati. La macchina era un po’ particolare: aveva due ganasce a pressa, e infilandovi questa striscia piano piano dava la sagoma che doveva combaciare con la sagoma in legno. Allora il capo dei civili tedeschi veniva e vedeva che era fatto bene. Quando veniva controllava e, qualche volta di nascosto, mi metteva sempre un pezzetto di pane. Loro alla mattina alle 10 avevano il Brotzeit cioè il tempo del pane. Gli chiesi del sale, e un giorno mi portò un cartoccetto di sale, perché non mangiavo niente di quello che trovavo; tanti sono morti non perché li hanno ammazzati i tedeschi, ma perché mangiavano tutto quello che trovavano e morivano di dissenteria.

Io invece raccoglievo le ortiche, quando andavamo fuori e passavamo nei campi, le strappavo; ecco perché ero, diciamo, un po’ rovinato, perché le nascondevo sotto la giacca. Alla mattina in fabbrica con un barattolo di conserva le davo a quello dei forni, me le bollivano, me le cuocevano, e poi io alla sera me le toglievo dall’acqua, le facevo scolare, e al giorno dopo con il sale me le mangiavo. Io sono stato un grande mangiatore di ortiche. Ma non perché sapessi che facevano bene, sapevo che non era una pianta velenosa; ne avevo il terrore, infatti le bollivo e le mangiavo, e il tedesco mi dava il sale. Mi diceva: “Fertig Salz?” e il giorno dopo mi portava un sacchettino di carta con un po’ di sale.

D: Poi l’evacuazione e tu hai partecipato ad una marcia della morte.

R:  Mi è arrivata una carta dal Deuxieme Bureau francese, che conservo tuttora, in cui mi chiedono in quali punti erano seppelliti i morti, avendo io fatto parte di quella marcia. Le strade erano quelle che erano, durante la marcia eravamo per cinque in fila e si marciava. In quel periodo l’esercito era in rotta e bisognava lasciare a loro il passo. Il comandante decise di metterci per tre, e naturalmente la fila si allungò e la scorta divenne insufficiente. Allora decisero che i primi 20 in testa, non appena avessero visto un bosco, sarebbero entrati con le pale a fare le buche; il capo, quando aveva il segnale, contava gli ultimi 30 dalla coda, e mentre tutti marciavano, a un bel momento 30 sparivano, si sentivano le raffiche e lì venivano seppelliti.

Indicai sulla carta i punti al Deuxieme Bureau  ma per saperlo esattamente bastava vedere dove c’era un gruppo di pioppi o di piante di piccolo bosco: lì c’erano senz’altro.

D: Secondo il tuo ricordo, quanti ne sono stati uccisi?

R:  Ogni 3 / 4 ore ne “partivano” una ventina. Eravamo in 3.000, messi in fila per tre: è una bella coda! perciò tante volte ci siamo accorti verso la fine di stare attenti a non far parte né del gruppo di testa né del gruppo di coda, per la lotta della sopravvivenza. Da mangiare ce ne davano solo quando arrivavamo alla sera e ci raggruppavano in questo piazzale, in questo campo, ci davano la fetta di pane. Stop.

D: Quanto tempo è durata questa marcia?

R:  Ah è durata … Non potrei dirlo con certezza; ho dormito all’aperto 7 / 8 notti, adesso non lo so esattamente, però ci sono tutte le date della partenza dal campo di Bad Gardersheim.

D: 55 anni dopo tu ancora non sai perché sei stato deportato.

R:  La storia si è risolta perché la mia faccenda non era complicata: senza saperlo trasportavo i fondatori del primo Comitato di Liberazione di Verona, che era composto dall’avvocato Tommasi, il conte Tedeschini, Todeschi, era quel piccoletto, l’avvocato Carlo Caldera, grande socialista, il grande democristiano Antonio Alberti, che è stato presidente del Senato, e poi dopo altri. L’ho saputo dopo, tanto è vero che durante la prigionia  mia lì passavano tutti prima di essere smistati o al Forte Procolo o agli Scalzi; io facevo l’iniezione a un certo Polito, questore di Roma, quello che arrestò Mussolini, che era in galera con me. Gli facevo l’iniezione perché soffriva di sciatica, e aveva la scatoletta con quella siringa di vetro. Però non eravamo più nei garages, perché dopo la fuga durante un bombardamento, sotto proprio dove erano le cantine fecero costruire due file di celle piccole, singole. Allora dalla mia cella alla sua gli facevo l’iniezione, e mi diceva come dovevo fare, io le facevo, non era carne mia, comunque spingevo e facevo l’iniezione. Questo era Saverio Polito, questore di Roma, l’uomo che arrestò Mussolini.

Bergamasco Elvia

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Bergamasco Elvia, sono nata a Manzano nel 1927, il 18 agosto in provincia di Udine. All’età di 18 anni sono andata a lavorare in un campo di munizioni. Dopo un paio di mesi che stavo lavorando là, c’era già nella provincia di Udine la formazione di partigiani, una sera lì è venuto un signore che mia madre conosceva e ha chiesto se per piacere consegnavo una lettera a un capitano dell’aeronautica che stava lavorando in questo deposito di munizioni insieme con me.

Io lo conoscevo, ho detto di sì. Mia madre ha chiesto: Vediamo che cos’è” perché allora avevo 18 anni, e ai nostri tempi c’era molta severità. Mia madre ha letto, ha visto che era una lettera d’amore più che altro, era scritto: “Amor mio, ci troviamo alle cinque, alle sei si parte…” e tutte queste cose.

Era invece una lettera scritta in codice, l’ho scoperto dopo quando mi hanno detto che cos’era. Io sono andata al lavoro, ho consegnato queste lettere; un paio di volte l’ho fatto. Ho scoperto che c’erano i partigiani che consegnavano. Laggiù c’era questo capitano dell’aeronautica che lavorava lì e un maresciallo della Wehrmacht, un nobile di Vienna, non ricordo come si chiamasse questo maresciallo.

Queste lettere erano scritte in codice, nel momento in cui venivano trasportate nei camion delle munizioni, invece di caricare questi camion con delle bombe di cannone, si caricavano questi signori, anch’io delle volte, si caricavano munizioni piccole, bombe a mano, cartucce, queste cose.

Questi camion dovevano attraversare dei boschi, venivano trasportati in un altro deposito. Questi boschi erano quasi vicini al confine jugoslavo. Così c’era l’appuntamento. Queste lettere non so come poi venivano trasferite, fatte arrivare ai partigiani sloveni, loro scendevano, quando si trovavano tra questi boschi, lì prendevano le munizioni, si armavano.

Così abbiamo fatto un paio di volte dal mese di gennaio al mese di giugno. Un giorno i primi di giugno sono capitati con il camion delle SS e si erano spaventati un po’. Ho detto in Friulano: “Sono arrivate le cagne”, vuol dire è arrivato un macello, davano il nome alle SS. Cercavano soltanto me, erano tutti spaventati gli operai che erano lì naturalmente.

Invece sono arrivati nel capannone dove lavoravo io, sono venuti vicino a me, mi hanno chiesto se mi chiamavo Bergamasco Elvia, ho risposto di sì. Loro avevano una foto in mano. Mi hanno ordinato di seguirli. Mi hanno scortato, io lavoravo in fondo a questo campo, mi hanno scortato con un mitra davanti e uno di dietro. Mi hanno fatto salire su una specie di jeep tedesca, mi hanno portato a Cormons, una cittadina in provincia di Gorizia.

Lì ho trovato i miei compagni, chiamiamoli compagni, delle persone di una certa età che io conoscevo soltanto di vista praticamente.

Eravamo in sette/otto di noi, ci hanno messo in fila, hanno chiamato fuori il comandante. Difatti era il commissario della zona, del battaglione Garibaldi.

L’hanno chiamato fuori. L’avevano già percosso quando l’avevano arrestato. Sono andati a prelevarlo a casa durante la notte perché gli hanno detto: “Senti, sta per morire tua madre. Vai a trovarla”.

Lui è sceso dalle montagne, era su dalle parti di Castelmonte, nelle colline di Cividale. Lui è sceso a trovare sua madre, invece c’era la spia, c’erano già i nazisti e i fascisti lì ad aspettarlo.

Per salire su un camion bisognava appoggiare le mani perché il portellone non era stato tirato giù. Mentre saliva gli hanno picchiato con il manico del fucile sulle mani.

Poi lì ritornando a Cormons lui è uscito fuori quando lo hanno chiamato per nome, lì ho avuto il primo impatto con le cose che dovevano succedere.

Davanti a noi gli hanno tolto le unghie con le tenaglie. Però dalla sua bocca non è uscito un grido. S’è trasformato dal dolore, ben s’intende.

Poi finito il loro lavoro, ci hanno caricato su una corriera, ci hanno portati a Gorizia, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo rimasti quaranta giorni. In una cella eravamo venticinque donne.

Si dormiva per terra. Gli animali che c’erano lì ci facevano compagnia durante la notte. Abbiamo subito cinque processi. Io fra tutte noi che eravamo sette, soltanto io non sono stata picchiata o torturata. Le altre donne le hanno anche psicologicamente tartassate anche negli interrogatori. Nell’interrogatorio non era che si continuasse a parlare come un libro aperto, perché magari quello che mi avevano chiesto il primo giorno me l’hanno richiesto il quinto giorno.

Poi abbiamo avuto la condanna a morte. Poi è intervenuto il Vescovo di Udine e una Baronessa austriaca che abitava nel paese dove abitavo io, a Manzano. L’hanno tramutata nei lavori forzati.

Poi dopo quaranta giorni, un giorno è venuta una chiamata di prepararci che si andava a lavorare in Germania. Il nostro trasporto è un po’ anomalo anche perché veniva dall’Ungheria, avevano caricato sloveni, ungheresi, tutta la gente dell’est, ragazzi, donne, bambini.

Ma hanno bombardato, stavano bombardando in Ungheria, il nostro treno lo hanno dirottato verso Trieste, così hanno fatto i carichi prima a San Sabba, poi a Gorizia, poi alla volta di Udine. Poi siamo partiti alla volta di Tarvisio. Siamo partiti.

D: Eravate in tanti sul tuo Transport?

R: Sì. Quando ci hanno fatto salire sui carri bestiame, ci siamo guardate in giro. Eravamo tutte in piedi, ammucchiate. Quando abbiamo avuto il tempo di contarci eravamo in centoventi donne. Ce n’erano anche che venivano da Trieste sul nostro carro bestiame.

C’erano delle donne, ragazze anche, che le avevano torturate a San Sabba. Abbiamo chiesto loro cosa avevano fatto. Loro ci hanno raccontato che avevano messo loro l’elettricità nei capezzoli e nel di dietro e poi delle torture psicologiche.

Abbiamo viaggiato dodici giorni. Su questo carro bestiame c’era un po’ di paglia e due mastelli. Uno pieno di acqua e uno per i servizi igienici.

Potete immaginare, dodici giorni di viaggio senza mai aprire. Gli odori, le cose che erano lì. Il mese di agosto. L’acqua si spartiva un po’ per ciascuno, pianino.

Il mastello si svuotava soltanto durante la notte, quando il treno si fermava. Il nostro viaggio è stato lungo dodici giorni perché? Perché durante la notte fermavano la tradotta. Caricavano e scaricavano carne umana, delle persone.

Io penso che si siano fermati negli altri campi, a Mauthausen, a Buchenwald, Dachau, negli altri sottocampi. Si sentiva nel treno quando attaccavano e quando staccavano gli spintoni.

Finalmente dopo dodici giorni siamo arrivati dove si doveva arrivare. Mi ricordo una cosa. La stazione che ho visto, era scritto in una lingua che non capivo, ora lo so che si chiama Oswiecim, siamo scesi allo scalo merci. E’ stato il nostro l’ultimo trasporto che è sceso a Oswiecim.

Dopo dodici giorni si sono aperti questi vagoni. Ci hanno investito con un gran fascio di luce. Si sono sentite molte urla in lingue che non si capivano e un grande abbaiare di cani.

Gridavano: “Schnell, Los, Los, Los”. Abbiamo capito che si parlava polacco e tedesco. Poi altre lingue forse. Gridavano di scendere in fretta, in fretta, di scendere in fretta. Lì siamo scese, ci siamo girate, ma quante persone sono rimaste su quei carri, non si sa il numero.

So che eravamo una marea di gente. Il treno era talmente lungo tra bambini, donne, anziani, uomini; chi gridava, chi cercava la madre, chi cercava il figlio, la moglie, “Dov’è mia moglie…” Però con le urla dei nazisti s’è fatto tutto un silenzio, questo abbaiare di cani anche.

Poi hanno cominciato con l’ordine secco di metterci in fila per cinque. Poi mentre si passava dicevano: “Questo sì, questo no”. In più l’hanno detto nelle lingue in modo da farci capire che chi era stanco, non poteva camminare o era anziano, poteva salire su quei camion che erano a disposizione lì.

Molta gente che era stanca ha detto, vado col camion, faccio più presto. “Ma è qui vicino”, dicevano. Poi hanno cominciato a fare due file, una a destra e una a sinistra. A sinistra venivano gli anziani, i bambini che venivano strappati dalle braccia delle madri. Dovevano andare con la fila degli anziani o con quelli che non stavano bene.

Poi ci siamo incolonnati e a piedi ci siamo camminati. Non potrei dire quanto tempo abbiamo camminato perché io non sapevo quanti chilometri… Siamo arrivati davanti ad un cancello con la famosa scritta: “Arbeit Macht Frei, “Il lavoro rende liberi”.

Ci hanno detto che eravamo arrivati ad Auschwitz, nelle lingue, ognuno ha capito che eravamo ad Auschwitz. Eravamo stanchi, sfiniti, senza valigie, senza niente. In più ci scortavano lo stesso. C’è sembrato un po’ strano.

So di essere arrivata ad Auschwitz e di essere entrata in un gran capannone, lungo, fatto in mattoni. Lì dopo che erano entrate tutte le donne separate dagli uomini senz’altro, ci hanno dato l’ordine di spogliarci immediatamente.

Io non lo so, oggi come oggi di spogliarsi davanti a una bambina, a una ragazzina, una nonna, una madre, non lo so se riesce a capire la gente che cos’era a quel tempo. Poi qualcuna ha tenuto le mutandine, le sono state strappate in un modo talmente violento, cattivo. E’ difficile spiegare, dire che senso era.

Poi sempre in fila per cinque, nude, ci hanno fatto la prima cosa, ci hanno fatto un numero al braccio sinistro, il tatuaggio. Il mio numero al braccio sinistro è 88653. Poi sempre in fila per cinque, non era uno solo, erano in tanti, tante persone che facevano il numero, si andava in fila, poi si passava in un’altra stanza. C’era una vasca, si doveva mettere i piedi dentro.

C’era un’acqua bianca. In quest’acqua io credo c’era un disinfettante, un odore, come quello con cui si disinfettava una volta gli animali, la creolina si chiamava. Non so se si chiama anche adesso così.

Poi siamo passate alla doccia finalmente. Abbiamo detto: “Finalmente ci laviamo dopo dodici giorni”. C’e’ stata anche la rasatura. Ritorno indietro. Dopo il numero ci hanno fatto salire su degli sgabelli in fila, c’era una fila di sgabelli, anche lì una cosa realmente brutta è stata per noi.

Perché quando ci hanno detto di toglierci il vestito, di piegarlo, di metterlo bene, di toglierci gli ori, gli orecchini, le collane, quello che si aveva e di appoggiarlo lì perché ce lo avrebbero dato dopo, dopo aver fatto le docce, tutto.

Loro ci hanno fatto salire su questo sgabello, ci hanno guardato anche nei posti che non andava bene per vedere se si era nascosto qualche gioiello. E’ stato il primo impatto della vista schifosa della mia vita, chiamiamola così, è una brutta parola dire schifosa, ma era oltre lo schifoso questa cosa.

Poi ci hanno rasate dappertutto, ci hanno fatto alzare le mani, gambe al largo, ci hanno rasato i capelli e per tutto il corpo. Poi finalmente ci hanno portato alle docce.

Alle docce abbiamo detto, “Finalmente ci rinfreschiamo, ci laviamo”. Cos’è successo? Che ci hanno aperto l’acqua bollente, poi tutto in un momento, quando eravamo sotto che si gridava hanno aperto quella ghiacciata.

Poi tutto finito. Siamo uscite fuori nude com’eravamo. Intanto sono passate le ore, è venuta mattina, ci hanno consegnato il vestito, ci hanno dato il vestito zebrato.

Poi ci hanno incolonnate. Ci hanno dato la targhetta, da attaccare il numero sul vestito, il numero del braccio sul vestito ci hanno fatto mettere.

Poi inquadrate per cinque, ci siamo incolonnate, siamo partite alla volta di Birkenau.

D: Scusa, Elvia, con l’immatricolazione oltre al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: No, no.

D: Vi hanno dato per caso anche un triangolo?

R: Ah, sì, il numero, si capisce, da mettere sul vestito e il triangolo rosso con la I e D. Voleva dire italiano, il triangolo rosso era segno di politico, che ero una deportata politica.

D: Parlavi di vestito. Oltre alla zebrata vi hanno dato biancheria intima?

R: No, solo il vestito e basta, senza biancheria. Niente, né mutandine, né camicia. Ci hanno dato le scarpe. Chiamiamole scarpe. Ci hanno dato gli zoccoli olandesi, quelli in legno, sopra e sotto tutti in legno. Di lì ci siamo incolonnate e siamo partite a piedi verso il campo di sterminio di Birkenau. Si trova a quattro/cinque chilometri di distanza da Auschwitz.

Siamo arrivate là. Era intanto mattina presto. Ci hanno messo in fila, ci hanno assegnato le baracche, ma non siamo entrate subito. E’ giunta l’ora di pranzo.

Ci hanno dato una qualità di minestra bianca, era come un gries, una cosa così. Ci hanno consegnato la Miska, la famosa Miska, la scodella. Non era nuova, era color mattone, erano in smalto, però erano vecchie, già tutte ammaccate.

Noi abbiamo detto: “In queste cose dobbiamo mangiare?” Eravamo un po’ schifate. Delle persone che erano lì già da un po’ di mesi, italiane anche, ci hanno detto: “Pregate Iddio che le avete voi, noi ce la siamo dovuta procurare”. Hanno risposto così passando: “Vi accorgerete presto quello che c’è”.

Ci hanno dato in queste scodelle, questo gries bianco l’ordine, in tutte le lingue l’hanno detto, che dobbiamo berlo, hanno gridato molto forte, di berlo senza mai lamentarci e tutto in un fiato, che se lo rifiutavamo, dovevamo pentirci molto, rimpiangerlo.

Infatti è stato proprio così, l’abbiamo rimpianto quel gries famoso, era un dolciastro schifoso, era cattivo da mandar giù. Poi s’è scoperto cos’era col tempo.

D: Che cos’era Elvia? Che cos’era?

R: Nel gries c’era bromuro. Il bromuro a cosa serve? A non far venire le mestruazioni alle donne. A quel punto, dalla rasatura al numero e avendo tolto anche questo, hanno tolto proprio la femminilità completamente a una donna.

Io dico sempre che la donna è stata molto più umiliata dell’uomo. Nel senso che… Io non so se era soltanto a Birkenau, le cose che sono successe a Birkenau in sei mesi, se ne sono viste moltissime.

D: Dopo ti hanno messo in baracca?

R: No, siamo state tutto il giorno in piedi fuori per cinque. Eravamo giovani, ragazze donne giovani, quarant’anni, cinquant’anni la più anziana del nostro gruppo.

Siamo state tutto il giorno. Verso le sei alla sera ci hanno fatto entrare in baracca. Le baracche sono fatte in mattone. Dentro nel muro delle baracche sono fatti i castelli. I castelli, non i letti che si vedono a castello, erano fatti di semimuratura anche quelli, con delle assi, a tre piani ben s’intende. Si doveva stare in otto per ogni piano.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte le altre. Non si dovevano mai tenere fuori i piedi. L’ordine era che si dovevano avere i piedi interni nel posto da dormire.

Io ero al secondo piano, le nobili, le laureate le mettevano nel sotto, nella terra nuda a dormire. Per quello erano a tre piani, perché mettevano anche sulla terra nuda. Forse per farle umiliare ancora di più.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte. Noi avevamo anche una ragazza incinta tra le nostre otto. Non si poteva stare nemmeno sedute, si doveva stare sempre distese o scendere giù. Erano talmente basse, c’era come un buco da infilarsi, nient’altro. Poi abbiamo scoperto che la sveglia era alle quattro la mattina, poi si usciva. Grida in polacco, in tedesco “Schnell, schnell, schnell”…

Si doveva in fretta e furia scendere da questi letti. Poi abbiamo fatto la scoperta del famoso Gummi. Il Gummi che cos’era? C’era un tubo di gomma con un filo dentro in rame e questo lo facevano girare tutto il santo giorno.

Siamo uscite fuori per cinque allappello, alla distanza delle braccia allungate una dall’altra si doveva stare. Lì siamo state dalle quattro di mattina, ci si alzava alle quattro.

Poi ci hanno portato ai famosi bagni, chiamiamoli bagni. Era una baracca con settantadue buche doppie. Si facevano i bisogni schiena con schiena. Fare in fretta, tutta la baracca doveva fare in fretta perché subentrava l’altra.

Col tempo, coi mesi che sono passati, dovete pensare che la dissenteria era facile e non si aveva il tempo per lavarsi. Non c’era l’acqua perché a Birkenau, se Birkenau è come adesso, era tutta una palude.

Queste strade, questi fossi sono stati fatti da noi prigioniere stesse, non solo io, centinaia e migliaia. Dico tante volte mentre penso ai ricordi, se ci fosse stato un elicottero a sorvolare, quando eravamo tutte all’appello, tutte rasate, con questo vestito zebrato, io non lo so quello che veniva, queste teste rapate di tutte le età. Una cosa…

Io a Birkenau non ho mai visto i bambini. Li ho incontrati solo una volta. Per tre giorni hanno fatto nella fila… Io non lo so. E’ stata una scelta proprio di questi bimbi che hanno portato lì. Nella nostra fila delle baracche c’era una distanza che vi si faceva anche l’appello.

Hanno fatto un serraglio con una rete. Hanno messo un trenta e più bambini, non lo so, praticamente. Però sapevano che questi bimbi erano figli di queste donne che erano in quella baracca.

Hanno detto alle madri, fatto capire che questi bimbi sarebbero stati trasportati a Cracovia, abbiamo scoperto di essere in Polonia, che li avrebbero portati a Cracovia dove sarebbero stati molto bene.

Queste madri… Ritorniamo indietro, il pranzo. Parliamo del mangiare. Di mattina ci davano un caffè, chiamiamolo caffè nero, da bere. A Birkenau era proibito bere l’acqua, assolutamente, perché veniva fuori l’acqua color marrone essendo una palude. Era proibito bere l’acqua.

La mattina ci davano un mestolo di questo caffè. A mezzogiorno ci davano un mestolo di rape grattugiate e bollite non so con quale acqua. Nemmeno le lavavano. Dopo col tempo abbiamo detto, la terra e la sabbia che si trovavano sotto erano la vitamina B, abbiamo detto fra noi.

La sera ci davano un altro mestolo di minestra. In più ci davano il pane. C’era un pezzo di pane. Loro lo chiamavano la strunza. Questo serviva per dodici persone. Veniva segnato con un dito mignolo, si facevano i piccoli segnetti, poi si tagliava a pezzettini.

Serviva per dodici persone, si segnava col dito mignolo, si facevano dei segnetti, poi si tagliava. Loro portavano il tavolino fuori le Kapò. Questo non ho detto. Cosa abbiamo trovato lì.

In questa baracca non so quante eravamo, non ci siamo contate, ma penso che eravamo in quante… Abbiamo fatto i conti tempo fa, eravamo quasi in quattromila. Hanno fatto i conti i ragazzi tempo fa quando eravamo ad Auschwitz calcolando in quante eravamo.

Avevamo le Kapò, le comandanti. Le Kapò erano tutte donne polacche. Erano delle persone della feccia più cattiva che poteva esistere in Polonia. Gli uomini uguali, i polacchi.

Non sentirete mai un deportato parlare bene dei Kapò, delle donne e degli uomini polacchi. Quelli che erano dentro come Kapò. Dovete pensare che la nostra comandante, la nostra Kapò aveva ucciso il marito e i due figli a coltellate.

D: Scusa Elvia, a proposito di figli, prima stavi parlando del recinto dei bambini.

R: Sì, giusto, scusa. Ritorniamo. Hanno portato i bambini in questo recinto. Hanno fatto capire alle madri che li hanno scelti realmente perché le madri ogni sera non mangiavano il loro pane. Il terzo giorno hanno detto che all’indomani i bambini partivano verso Cracovia.

Sono sgusciate fuori queste madri come dei serpenti, come delle bisce. La sera non si poteva uscire dalle baracche, era proibito. Loro sono scivolate fuori. Hanno consegnato a ogni bambino un pacchettino col pane che non avevano mangiato. Se questi bambini vanno là, così hanno per qualche giorno un pezzettino di pane in più.

All’indomani, il quarto giorno, la mattina presto… La mia baracca era nella terza fila delle baracche, la terza baracca. Sono venuti tutti tirati a lucido i capi delle SS, in nazisti, il comandante a capo del campo. Tutti sorridenti, tutti tirati a lucido, dei visi cattivi, quella mattina andando fuori all’appello non abbiamo trovato i bambini.

Si sapeva che erano partiti per Cracovia. Allora arrivano lì a fare la conta nella nostra fila, non c’entrava di venire nella nostra fila a far la conta, sono venuti lì realmente. Allora le madri hanno chiesto con l’interprete.

Hanno detto: “Madri, ricordatevi che i vostri bambini stanno bene, sono usciti per i camini”. Io non ho visto una lacrima sui volti di quelle donne, però ho visto i loro volti trasformati. Ho visto il dolore, realmente cosa vuol dire il volto di una persona che ha un dolore enorme.

Erano contraffatti. Hanno cambiato sembianze. E’ difficile capire, si sono scurite, gli occhi… E’ difficile spiegare come sono diventati i volti di queste donne. Non so se sono tornate o se sono rimaste lassù a Birkenau.

Raccontare quello che succedeva a Birkenau… Io purtroppo ho avuto la sfortuna di essermi ammalata due volte. Una volta mi sono ammalata, la seconda volta sono stata scelta. A Birkenau c’era il dottor Mengele, non solo lui, tutta l’equipe insieme, però lui era il capo di tutti, Mengele

La domenica dovete pensare che ci facevano spogliare nude con la scusa che portavano il vestito alla disinfezione e ci facevano passeggiare per cinque tutta la lunghezza del nostro percorso che avevamo da una baracca all’altra, nude tutto il giorno perché portavano alla disinfezione. Non so se è vero.

C’era il tavolino in fondo alla strada, c’era Mengele e tutti gli altri. Si marciava davanti a lui. Diceva: “Questa, questa, questa no, questa sì”.

Purtroppo un giorno sono stata scelta anch’io con l’ordine di darmi il vestito e di trasportarmi al campo B. Io ero al campo A appena all’entrata di Birkenau, c’è il campo A, poi c’è il campo B.

Sono andata al campo B. Al campo B c’era il blocco delle Krezze chiamato. Era il blocco delle malattie infettive. Era il blocco dove Mengele faceva i suoi esperimenti.

Lì io ho visto con i miei occhi le donne su cui lui ha fatto gli esperimenti. Col gran dolore, tutte le cose che lui faceva non le faceva con l’anestesia, assolutamente. Così queste donne erano anche impazzite, camminavano in giro su se stesse, nude completamente, facevano il giro.

Dentro nel campo B c’era un altro campo con una grande muraglia e un gran cancello in legno. Mi ricorderò sempre questo cancello enorme, non si doveva sentire né vedere niente.

Lì mi hanno fatto entrare in un’infermeria, chiamiamola così, Revier. In questo Revier mi hanno fatto spogliare, mi hanno dato su con un pennello delle qualità di colore. Uno verde, una pomata bianca col pennello che bruciava da morire.

Sono stata quattordici giorni, ogni giorno cambiavano colore e bruciava da morire. Stando lì questi quattordici giorni ho visto le donne, di cui altre compagne lì mie parlavano e raccontavano. Io chiedevo cos’è successo a quelle donne? Io ho visto delle donne bruciate davanti alla pancia e alla schiena.

Mi hanno detto che erano le donne che mettevano incinte, poi lui le faceva abortire con una piastra. Metteva una piastra davanti e una di dietro, poi attaccava l’elettricità, non lo so a quanti volt, so che queste donne erano bruciate. Per il gran dolore, le ho viste nude che giravano in giro per questo piccolo campo.

Poi ho visto le donne con gli sfregi nelle gambe, nei piedi, in altri posti, nel viso. Lì penso che sia stata… Io la lebbra non l’avevo mai sentita nemmeno nominare, ma credo che lì dentro ci sia stata anche quella.

Quando portavano da mangiare a mezzogiorno soltanto, portavano una volta al giorno, quel mastello non veniva portato, veniva gettato dentro e queste povere donne si buttavano sul mastello come degli animali.

Infatti eravamo diventati degli animali. Si buttavano, si picchiavano l’un l’altra. Con questa gamella che avevano, Miska, si davano giù per la testa, così si vedeva magari saltare un pezzo di naso, un orecchio, perché erano talmente piene di croste dappertutto per il corpo, perché avevano fatto degli esperimenti, delle cose che le avevano infettate tutte.

Lì sono stata quattordici giorni. Poi si vede che non hanno fatto effetto su di me, mi ha rispedita al campo A. Prima di uscire da questo grande cancello mi hanno detto in italiano di non raccontare mai a nessuno quello che avevo visto e sentito lì dentro.

Poi mi hanno accompagnata alla mia baracca. La mia Kapò quando sono arrivata quasi non mi voleva più. Invece si sono parlate con quella che mi ha scortata e ha detto che si vede che non avevo preso malattie infettive assolutamente, perché noi a Birkenau abbiamo fatto gli anticorpi grandi come il mondo.

Poi mi sono riammalata un’altra volta, credo che mi sia venuta la bronchite. Avevo un febbrone talmente alto. Io mi ricordo di essermi alzata, di essere andata fuori all’appello in fila e poi di aver gridato molto forte e di essere caduta.

Sono stata quattro giorni al Revier, mi hanno dato delle pastiglie. Sono rientrata dopo quattro giorni la sera dopo l’appello. Entrando nella baracca si doveva passare davanti alla Kapò.

Io ho fatto l’inchino perché bisognava inchinarsi e rispettarla questa Kapò. Non avevo fatto in tempo ad inchinarmi che mi ha dato, aveva un randello in mano come una mazza da baseball, mi ha dato tre randellate per la schiena che io non ho avuto il tempo di gridare. Hanno gridato le mie compagne che mi hanno sentito.

Il lavoro a Birkenau in cosa consisteva. Come ho detto prima, la sveglia alle quattro. Alle sei si partiva per il lavoro. Il lavoro. Veniva consegnato a chi il badile… C’era una carriola. Su questa carriola c’era il badile, il piccone e poi nel posto dove ci hanno accompagnato abbiamo trovato anche il rullo, quello con cui si batte la terra, la strada.

Questo a turno, quelle che facevano il fosso, questo fango che si faceva mentre l’acqua scolava, in questi fossi il fango che si toglieva con il badile si buttava per fare la strada. Poi col rullo passavano sopra.

Dieci spingevano e cinque tiravano. Lì si doveva tirare, per forza perché il Gummi volava a tutta forza sulle schiene. Quando c’era il turno invece dei nazisti, allora loro avevano un altro tipo di frusta. Avevano il frustino. C’era un manico in cuoio lungo, poi c’era un mucchio di cordoni in cuoio e loro quando passavano così senza dire niente davano giù. Non andava quella persona, le davano giù una frustata.

Poi le punizioni. Abbiamo subito noi delle punizioni che non avevano niente a che fare, che siano state comandate dai nazisti. Erano le Kapò stesse che ci facevano delle punizioni, loro proprio non c’entravano niente.

A Birkenau essendo una palude c’era il fango, quegli zoccoli famosi di cui ho detto prima ci sono durati tre giorni. Il quarto giorno sono rimasti lassù. Mi è venuto il turno di andare a prendere il caffè di mattina, sono andata. Mentre sono ritornata dalle cucine a prendere il caffè, lo zoccolo è rimasto là, si è aperto e poi ho camminato sempre scalza.

Lì a Birkenau ci facevano accovacciare con due mattoni o un pezzo di pietra con le mani alzate su così, oppure nel braccio ci facevano rotolare nel fango. Non c’era il posto per lavarsi. A Birkenau non abbiamo mai fatto una doccia, mai, non ci siamo mai lavate in nessun posto.

Forse l’acqua era proibita, noi abbiamo bevuto più di qualche volta essendo il mese di agosto/settembre. Bevuto anche quell’acqua che era nei fossi, non si badava a tante sottigliezze. La Nerina ha detto che lei non ha mai bevuto.

Io invece, noi con la mano si prendeva su. Si diceva una preghiera. Ai miei tempi si diceva: “Beve il serpente, beve Iddio, che berrò anch’io”. Si dicevano queste parole e si beveva l’acqua.

Purtroppo qualcuno ci ha chiesto quando si va nelle scuole se si pregava là. Io ho detto che abbiamo imparato le preghiere più belle che non esistono in nessun vocabolario. In meno di otto giorni abbiamo imparato le più belle che possono esistere su questa terra, tutto al contrario.

Queste funzionavano. Non so perché scattavano. Se una mia compagna mi toccava che cosa si diceva… Queste preghiere venivano a sfilza, una dietro l’altra e in tutte le lingue, queste parole si capivano in tutte le lingue, italiano, tedesco, ci sono centoventun lingue, però quelle lì si capivano in tutte le lingue.

Cosa devo dire? Birkenau cos’era? A Birkenau ci avevano tolto la parola. Il ricordo di Birkenau è come una nebbia. La nebbia a Birkenau si toccava con le mani, se la prendevi in mano la sentivi. Dovete pensare che a Birkenau c’erano dodici forni crematori, erano ventiquattro bocche, ne cremavano ventiduemila al giorno. Funzionavamo ventiquattro ore al giorno.

A Birkenau avendo fatto sei mesi, essendo al campo A, si vedevano tutti gli arrivi di quei carri bestiame che arrivavano di carne umana.

Si sentivano le grida, le urla ogni giorno e ogni notte. Durante il giorno scaricavano nella parte dove c’erano le baracche dei cavalli. A Birkenau avevano fatto i binari ed entravano direttamente fino vicino ai forni crematori. Di notte scaricavano dalla parte dove erano le nostre baracche.

Durante la notte si sentivano i pianti, le urla, le grida, chiamare mamma, chiamare la sposa. Quello che era successo a noi, così succedeva o di giorno, o di notte, arrivavano a tutte le ore questi treni.

A Birkenau c’erano più campi. C’era il campo A, il campo B, poi c’era la casa rossa, chiamata così. Che cos’era la casa rossa: Canada in principio serviva come primi esperimenti per le camere a gas. Poi hanno fatto i forni, le camere ingrandite servivano per deposito, dove venivano depositati tutti i vestiti e gli ori, la selezione.

In più c’era il parcheggio il Canada. C’è ancora un boschetto di betulle, venivano parcheggiati quelli che non riuscivano a portarli a forni crematori.

Quelli servivano per quando bombardavano, i treni non arrivavano. Allora andavano a prendere quelli, li chiamavano e venivano eliminati quelli che erano lì in attesa in questo boschetto, seduti lì aspettavano due o tre giorni.

Oppure durante la notte succedeva quando non avevano al parcheggio più nessuno, c’erano degli ebrei purtroppo, delle donne, loro sapevano che dovevano andare là ai forni, era il modo che chiamavano, perché dicendo io non dice quasi niente.

Chiamavano durante la notte: “Le Jude, le Jude”. Loro sapevano, si alzavano, toglievano il vestito, andavano davanti alla Kapò sulla porta della baracca, glielo consegnavano piegato, loro nude queste donne si mettevano in fila e andavano su al campo B dove c’erano i forni.

Loro sapevano di andare. Un’altra cosa. Siccome era tolta la parola, era tolto un po’ tutto, completamente la femminilità, non esistevi e basta, infatti in sei mesi si riesce a diventare come volevano loro. Si camminava, si sentivano gli ordini, secchi, imperiosi come si sentivano e si andava avanti.

Forse un animale si rivolta, invece ci hanno fatto diventare realmente… Forse era la vita stessa che lottava da sola, forse il tuo cervello o che non funzionava più, non lo so quello che ci avevano tolto, anche quello.

Si andava avanti come dei robot realmente. Il robot va con il clic, noi con le loro urla. Si andava avanti al lavoro, si ascoltava, ci si guardava in giro. Andando, facendo questi lavori di scavo, di fossi, è capitato che io sono andata tra la fine del campo A al campo B, adesso non c’è più lì a Birkenau, c’era più bosco.

Abbiamo visto le pire chiamate, le cataste delle donne morte, perché non riuscivano i forni a smaltirle, allora quelle che erano morte lì, le mettevano, ma le mettevano a regola d’arte una sopra l’altra. Questa catasta era ben fatta. Poi davano fuoco.

Noi abbiamo detto: “Oddio, ecco perché nevica a Birkenau fuori stagione”. Ci sono tante cose…

D: Quanto tempo sei rimasta tu a Birkenau?

R: Sei mesi. Dopo sei mesi nel mese di dicembre è venuto un gruppo d’ingegneri tedeschi a chiedere dei pezzi. Mi occorrono cinquemila pezzi.

Allora un giorno di mattina ci hanno fatto spogliare nude cinquemila donne, è stata fatta una selezione, ci hanno selezionate, ci hanno messo su una scalinata e ci hanno lasciato tutto il giorno lì. Era il mese di dicembre.

Noi siamo partite il 2 gennaio. Il 31 dicembre ci hanno messo su questa scalinata, siamo state tutto il giorno. Mi ricordo che c’era un termometro in fondo sul muro dell’entrata di Birkenau, grande era, rosso, mi ricordo di questo, che segnava dai 20 gradi in su, poi non si riusciva a vedere, sotto zero, eravamo già agli ultimi di dicembre.

Quando siamo scese la sera alle sei, quando ci siamo girate ne abbiamo lasciate molte là. Poi ci hanno dato il vestito, fatto rientrare in baracca. Credo che sia stata la minestra più buona, più calda che io abbia mangiato in un anno di campo di sterminio quella sera.

Abbiamo detto: “Siamo ancora vive”, abbiamo sentito il caldo della Miska. Una cosa, il dottor Mengele di domenica… Noi abbiamo calcolato che c’era la domenica, perché ogni quei tanti giorni, li abbiamo contati, si contava sette giorni e il settimo si riposava, si diceva, perché ci facevano spogliare e camminare nude.

Era il fatto che si doveva passare davanti al dottor Mengele, era il modo in cui lui ti toccava. Poi sceglieva lui le donne. A me purtroppo mi hanno tolto non solo la donna, il mio io, il mio essere, mi hanno tolto tutto, il modo con cui toccava.

Dovete pensare che quando si andava nel suo ambulatorio, era enorme. Quando ti metteva là, prendeva una ragazzina che non sapeva cosa vuol dire nemmeno il ginecologo, quelle cose lì, ti metteva là, lui si sedeva davanti e guardava. Io penso che, porca miseria, a me sembra che le donne siano fatte tutte uguali più o meno. Non so che cosa guardava.

Prendeva una ragazzina di quindici anni per vedere la differenza, la grandezza forse di quella di quindici e di quella di venti. Poi un’altra cosa schifosa anche. Quando eravamo nude, non sempre, ogni quel tanto tempo, io non so cosa gli serviva, la temperatura corporea. Ci facevano piegare nude, c’erano le donne addette e c’infilavano di dietro un termometro. Non il termometro con cui si misura la febbre, era molto più grande.

Avevano un modo per infilarlo, zum zum. Lo toglievano ad una e lo infilavano all’altra e via così. Queste erano le cose schifose, brutte che è difficile far capire alla gente raccontando queste cose.

Non solo io, tutta la baracca, tutte le donne che erano lì di tutte le età. Un altro fatto a Birkenau. Un giorno è venuto lì Mengele e ha scelto una ragazzina di Gorizia, si chiamava Gabriella, mentre eravamo in fila, non eravamo nude, eravamo vestite, è venuto lì, ha guardato in giro, questa no, questa no, ha scelto questa ragazza.

Era insieme a sua zia. La zia ha detto: “No, no, non lei”, gridava questa donna perché avevamo scoperto che a Birkenau c’era la casa delle bambole. Si sapeva che sceglievano le ragazzine vergini di quindici, sedici anni e le portavano in questa baracca che serviva per i loro piaceri.

Ha preso tante di quelle botte quella donna, tante di quelle botte quel giorno. L’hanno portata via la mattina, è ritornata alla sera. Siamo andate vicino a chiederle, pianino, non si poteva parlare durante la notte. “Cosa ti è successo? Cosa ti hanno fatto?” Lei tutta vergognosa ha detto: “Mi hanno fatto un’iniezione là”. Puoi immaginare a quei tempi, una ragazzina di quindici/sedici anni.

Poi finito così. Soltanto che noi con i mesi che passavano si dimagriva, si diventava così. C’erano tre ragazze, una di Firenze, si chiamava Wanda, una di Venezia, poi un’altra milanese anche. Loro dicevano, perché si era, non credo ormai disperate, non si ragionava, non penso alla disperazione, chi era disperata andava nel filo spinato.

Invece noi eravamo ridotte che non eravamo nemmeno disperate, eravamo lì e basta. E’ un po’ difficile spiegare come ci si sentiva, pensando anche adesso, una nullità realmente, completa, noi eravamo una nullità anche dentro di noi.

Queste che avevano un venticinque e più anni, anche trenta credo quella di Venezia, andavano fuori quando erano nude, ragazze, “Cosa vi disperate, siamo ritornate delle ragazzine”, dicevano.

Soltanto questa Gabriella abbiamo scoperto che i suoi seni, i nostri invece erano spariti, i suoi si arrotondavano. Poi è stata scelta anche lei tra le cinquemila, dopo l’esperimento ci hanno detto che dovevamo partire per un altro trasporto, per un altro posto di lavoro.

A questi ingegneri occorrevano cinquemila pezzi. Noi eravamo diventati dei pezzi, non eravamo più né dei numeri, né delle persone. Eravamo dei pezzi e basta. Siamo il 2 gennaio, siamo partiti alla volta di Buchenwald.

Anche lì abbiamo fatto un po’ a piedi fra i boschi della Polonia finché abbiamo trovato un binario morto dove c’era il carro bestiame, ci hanno fatto salire su questi carri bestiame e siamo partiti verso la Germania, chiamiamola così.

Dopo sei giorni abbiamo incontrato una stazione che si chiamava Dresda. Abbiamo detto, allora siamo in Germania. Poi siamo finalmente arrivati… Poichè bombardavano hanno deviato un po’ i treni. Siamo arrivati a Buchenwald. Veramente siamo arrivate a Weimar, nella stazione di Weimar, nello scalo merci di Weimar, passando col treno abbiamo letto Weimar.

Ci hanno fatto scendere allo scalo merci di Weimar, ci hanno incolonnate per cinque. Lì mi hanno dato un paio di zoccoli da infilare finalmente, zoccoli che erano chiusi, non aperti e mi hanno dato quelli più piccoli. Mi hanno fatto infilare col tedesco vicino, nazista, che dovevo infilare questi zoccoli.

Infatti ho messo dentro i piedi. Se io non avessi avuto due mie compagne che mi hanno trascinata su, perché andando a Buchenwald c’era una salita, adesso c’è la strada asfaltata, ma quella volta non c’era la strada asfaltata. Quelle che non riuscivano a fare la salita, c’era il fosso, un colpo di pistola e finito.

Così non so in quante siamo arrivate lassù a Buchenwald. Io so soltanto di essere entrata una volta sola per il cancello normale di Buchenwald e di aver trovato un albero, di averlo abbracciato che è ancora là secco nel mezzo.

Ho detto: “Oddio”, quando sono ritornata dopo un dieci/dodici anni, ho trovato il mio albero. “Che tuo albero?” diceva la gente che era insieme a me.

Ci hanno portato in fondo a Buchenwald. Lì l’indomani siamo andati, la sveglia sempre la solita, sempre i soliti Kapò, sempre le solite Stubowe,Blockowe. Sempre la sveglia alle quattro. Dopo due giorni ci hanno detto che eravamo pronte per andare a un altro lavoro.

Siamo uscite, fatta la scelta, ci siamo trovate… Perché sulla scalinata a Birkenau quando siamo scese non eravamo più in cinquemila, però alla partenza ci siamo trovate sempre in cinquemila. A Buchenwald però non so in quante siamo arrivate. Siamo morte un po’ camminando, un po’ sulla salita.

Ci siamo alzate. Hanno fatto i comandi, unite tante persone scelte. Poi ci hanno portato, fatto scendere in un sentiero da Buchenwald giù a basso, ci hanno fatto salire su un camion, ci hanno portato… Non so quanta strada, quanti chilometri distante. Mi ricordo di essere arrivata in questo posto che c’era una gran scalinata dove si scendeva, poi c’era la galleria.

Un ricordo che non dimenticherò mai. Eravamo nella galleria a Dora dove facevano la V2. Dice qualcuno che non hanno visto le donne, però ci sono dei signori invece che ci vedevano ogni giorno entrare.

Io mi ricordo a Dora che nell’entrata della nostra galleria davanti c’era una grande bomba, enorme, a noi sembrava enorme enorme, era grande, immensa, nera con una fascia rossa sotto.

Ci hanno fatte entrare in questa galleria, noi donne eravamo addette alle cariche. Si lavorava negli esplosivi, nel tritolo, balestrite, tutte queste cose. C’era come una specie di mulino, veniva macinata e mischiata la miscela di esplosivi.

C’era una qualità che bruciava anche le mani. Eravamo diventate tutte gialle. Ci facevano delle iniezioni ai seni. Si era lì nude completamente, loro passavano, avevano talmente ormai la praticità, passavano di corsa a fare queste iniezioni. Non so in cosa consistevano, per il fatto che eravamo diventate gialle forse.

Non era cambiato. Era cambiato qualcosa per noi che a Buchenwald abbiamo ricominciato a riprendere la vita, a cercare di sopravvivere Lì si capiva che si doveva lottare per sopravvivere. Poiché la domenica gli ingegneri non lavoravano, abbiamo riscoperto la domenica, si rimaneva in baracca.

Si poteva parlare. Quante cose ci siamo raccontate, quante ricette abbiamo scritto solo col cervello. Io quando vado a casa faccio così, quando vado io, allora eravamo di tutte le nazioni e di tutte le regioni del nord: Milano, Torino, ognuna aveva le sue ricette.

Lì ci si scambiava solo idealmente, solo si parlava. Forse questo ci ha aiutato molto anche per il ritorno. In più ci ha aiutato molto schivare tutte le punizioni possibili. Si cercava sempre di schivare ogni cosa.

Quando siamo andati a Kamnitz, abbiamo lavorato due mesi lì, facevamo pezzi di aerei, prima di arrivare a Buchenwald. C’è stato il bombardamento, allora ci hanno riportato un po’ in blocco. Un po’ ne hanno scelte, siamo andate a sbucciare patate, a pelare, non a sbucciare, a pelare, perché la buccia si poteva mangiare, invece pelarle era solo grattarle.

Eravamo lì che si parlava fra noi, ci siamo girate, abbiamo visto in vetro dei filoni di pane, non il nostro, un’altra qualità di pane. Come faremo? Lì si parlava di questo pane che era là. Ci sembrava già di mangiarlo, di averlo mangiato.

Lì abbiamo avuto la fortuna grande che c’era uno di Milano che si chiamava Marcello, un bellissimo ragazzo, non so di cognome, mi ricordo solo il nome, so che era un bel ragazzo, era un militare italiano. C’era quella di Firenze la Wanda. C’era solo una tedesca con noi di guardia. Ha fatto in modo di portarsela via. Si vede che sapeva il tedesco. Quando lei è ritornata era talmente svampita, talmente sognante, ha fatto un lavoro formidabile il nostro italiano, è stato bravissimo e noi abbiamo preso il pane, l’abbiamo nascosto sotto un braccio.

Quella sera quando siamo entrate in blocco si doveva alzare le braccia, ne abbiamo alzato uno solo. Non so com’è stato che ci siamo passate. Abbiamo mangiato tutta la notte. Ognuno un pezzo per ciascuno, si sono buttate su di noi quando hanno visto questi filoni di pane lì.

L’indomani sono venuti a cercare il pane. In una notte. Venire a cercare il pane l’indomani mattina? Abbiamo goduto noi quella notte, mamma mia. Non abbiamo fatto la spia.

“Guardate che avete mangiato quel pane. Il pane serve per i tedeschi, era per i nazisti, per i comandanti”, ci hanno detto. Nessuna ha parlato perché ognuno ha avuto il suo pezzo. Loro sapevano quelle che eravamo, ma loro dovevano punire tutte assieme.

Sono venuti a cercarci, hanno rovesciato i letti, non hanno trovato nemmeno le briciole. L’indomani mattina hanno cercato il pane. Non l’hanno trovato, ci hanno detto che se avessimo raccontato non ci avrebbero fatto niente, ci dicevano che dovevamo avvertire perché ci sarebbe venuta la dissenteria per aver mangiato questo pane.

Invece è successo che quelle che avevano la dissenteria sono guarite avendo mangiato questo pane. E’ successo che è venuta punita questa tedesca, cosa strana. Non so cos’è scattato. Noi ci abbiamo goduto se è stata punita questa tedesca. Realmente.

Un’altra cosa a Buchenwald. Abbiamo cantato. A noi è sembrata festa. Non abbiamo capito a cosa si andava incontro. In fila ci hanno fatto scendere da Buchenwald, ci hanno portato all’ospedale a Weimar a fare i raggi.

Mentre si passava, abbiamo attraversato il centro di Weimar. La gente ci sputava vedendo queste donne sporche, rasate, ci hanno fatto uguale a Buchenwald come ci hanno fatto ad Auschwitz, c’erano sempre i soliti dottori, altri dottori, altri nomi, però sempre le solite visite schifose, sempre le solite cose.

Noi quel giorno che siamo andate a fare i raggi abbiamo cantato per la strada per il fatto che non abbiamo lavorato. Questo fatto è stato bellissimo per noi. Per forza che i tedeschi uscivano nella città di Weimar a guardare chi era che cantava. Come si faceva a cantare? Non ci si rendeva conto che facendo i raggi si poteva… non abbiamo mai pensato di essere ammalate, assolutamente. Nemmeno l’idea lontanamente di ammalarsi. Nemmeno quando eravamo tutte gialle, non si pensava che si fosse malate, ci sembrava che era normale essere così. Questo è il fatto. Giusto per ritornare a quando ero al Revier, quando sono stata dimessa dal Revier, passando per uscire sono passata davanti a un bagno.

Dio, c’era un bagno. Ho guardato così mentre passavo, ho visto una persona nello specchio. Quando sono rientrata in baracca ho detto: “Dio, ragazze, che brutta donna che ho visto. Ho visto una ragazza talmente brutta”. E una signora: “Ti sei mai guardata allo specchio? Dove lo hai per guardarti?”.

Ero io quella che ho detto che era brutta. Dopo ritornando a Birkenau dopo tre mesi, tanto quella che aveva sessanta anni e quella che ne aveva venti eravamo tutte uguali. Una cosa a Birkenau, ritornando indietro a Birkenau, quando veniva gridata: “Oggi selezione, oggi selezione”, le donne, quelle che avevano una certa età o per la paura anche i capelli diventavano bianchi prima del tempo prendevano del fango e se lo davano su nella testa.

Quando si passava nude davanti, nel viso anche, quando si passava davanti al tavolo dei dottori molte riuscivano a passare senza venire scartate, perché purtroppo chi veniva scartato si sapeva dove si andava direttamente, ormai non era un mistero per noi. Poi un’altra cosa a Birkenau che non ho detto prima che mi è rimasta molto nella memoria. C’era una ragazzina a dormire sopra di me che avrà avuto quindici o sedici anni, era di Firenze, non lo so come si chiamava. So quello soltanto. Anche quella signora, Wanda, che era di Firenze non la conosceva, però sapeva che era di Firenze, l’ha detto lei che era di Firenze. Cantava, aveva composto una piccola canzone su “Dorme Auschwitz” e la cantava sull’aria di “Dorme Firenze”. Diceva: “Dorme Auschwitz sotto un cielo di cenere, dorme Auschwitz, si vedono tante fiammelle. Sono le anime dei bambini che escono per i camini. Dorme Auschwitz, non si vedono le stelle, soltanto cenere”. Poi ci sono altre parole, ma non mi ricordo. Solo la prima strofa mi è rimasta un po’ in testa. Anche la canzone “Mamma”, la Vittoria Gargianti la sa tutta lei, se la ricorda tutta. Io mi ricordo un pezzo, ma soltanto… Ad Auschwitz c’era l’orchestra delle donne, c’è lo spiazzo ancora dove suonavano, dove tenevano i concerti. Quest’orchestra ci accompagnava sempre nel lavoro, nel rientro e quando si usciva, uguale, sempre. In più se avveniva un’impiccagione era accompagnata dall’orchestra sempre. C’erano donne che suonavano, c’era una baracca dove andavano a fare le prove anche per loro. Di fatti stavano un pochettino meglio, non andavano al lavoro, non erano nel freddo e non avevano il vestito zebrato. Quelle che venivano scelte nel gruppo, chiedevano se sapevano suonare e andavano in questa baracca a fare le prove. Loro gli davano gli strumenti e suonavano sempre, anche per loro dopo, anche per i nazisti. Dovete sapere che la Kapò non dormiva mai nella nostra baracca, c’era la Stubowa, la Blockowa non dormiva mai.

C’era la Stubowe, le Kapò andavano a fare la bella vita. C’erano due di guardia, erano di una cattiveria incredibile, veramente.

D: E questa ragazzina di Firenze?

R: No, è rimasta ad Auschwitz. Allora ritornando a Buchenwald, mentre un giorno eravamo in galleria che si stava lavorando, perché la galleria era lunga non so quanti chilometri, mi avevano detto quanti gli uomini, adesso… Ma c’erano tante deviazioni. C’erano dei reparti, i laboratori c’erano in queste gallerie. Un giorno lì nel nostro laboratorio dove eravamo noi le è preso male a questa ragazzina di Gorizia, questa Gabriella, che ho detto che si arrotondava i seni, così. Era arrotondata anche lei. L’hanno portata via, le è venuta un’emorragia, l’hanno portata via. Dopo quattro giorni è ritornata, la ragazzina ha detto: “Mi hanno operata”. Dopo ha avuto la forza di ritornare, però abbiamo saputo che le avevano fatto la totale. Questa sperimentazione della fecondazione artificiale credo che l’abbiano messa insieme il dottor Mengele e tutta la sua equipe. Non era perfetta come è adesso, ben si intende, però credo che sia partita da lì e che veramente gli esperimenti siano stati fatti a Birkenau.

D: Eleonora chi era?

R: Eleonora era una ragazza, una sposina di Cormons, in provincia di Gorizia. Adesso vive a Belgrado. Lei quando è salita sul nostro trasporto era incinta. A Birkenau ha partorito durante una notte, dopo tre mesi che eravamo lì. Lì è stata coperta un po’, le grida, le urla, questo bimbetto che era nato lì. Si vede che l’indomani mattina la cosa… O la Kapò o la Blockowa, è stata avvertita. So che è arrivato il dottor Mengele e ha dato l’ordine di non allattarlo. Ma io non lo so dove il latte sarà stato dopo tre mesi che eravamo già lì. Noi abbiamo detto: “Se non hai il latte tu, noi metteremo un po’ di pane bagnato”. Ci avevano già tolto un po’ le cose proprio essenziali, come fa a vivere un bambino col pane bagnato in quell’acqua marrone che c’era? Dopo quattro giorni credo che un pulcino pigolasse molto più forte di quel bimbino . Mi ricordo qui una cosa, che si dormiva in otto, come ho detto prima, si cercava di lasciare il posto a lei col bambino sopra sulla pancia. L’avevano avvolto in una specie di coperta color nocciola, non lo so dov’è che è stata trovato questo pezzo di coperta. L’aveva avvolto lì questo bambino. Durante la notte sul quarto giorno, andando al quinto, è arrivata una dottoressa polacca, per forza doveva lavorare là. E’ venuta lì e ha detto il nome finalmente, perché dovevamo dimenticare anche i nomi. Difatti eravamo ridotte a chiamarci per numero, realmente. O 53 o 52, secondo il numero, non i primi due, 88.000, si chiamavano i due ultimi. Ci si capiva. E’ stata chiamata Eleonora, “Bisogna sopprimere il bambino”. Ci siamo un po’ rivoltate tutte, anche quelle nobili che dormivano sotto di noi, realmente sono saltate su, parlando austriaco, tedesco dicevano: “Far morire un bambino?”. Lei ha detto: “Queste cose le faccio per salvare la madre, perché domani mattina verrà il dottor Mengele e porterà via la madre e il bambino”. Allora lei ha messo una mano sopra e un minuto dopo il bambino non piangeva più. Lo ha preso, lo ha portato nello stanzino dove si mettevano le donne che morivano di notte. C’era uno stanzino in fondo alla baracca apposta in cui si mettevano le morte. Quel giorno nell’insieme abbiamo avuto una fortuna che il carretto della morte è arrivato molto prima, il bambino è stato caricato. Il dottor Mengele e la sua equipe sono arrivati dopo l’appello. Essendo arrivato dopo l’appello la dottoressa ha detto che il bambino era morto, e che era stato portato nel mucchio dei morti. Sapete che è andato a cercarlo tra quelle due o tre che erano morte dopo morto il bambino, è andato a vedere se c’era lì. Questa Eleonora ha avuto la forza, è ritornata, il figlio forse se lo sarà ricordato dopo, quando è ritornata forse. Non l’ho incontrata più perché essendo sposata con uno sloveno è andata a vivere là e non ci siamo più incontrate. Non lo so se è viva ancora, so che era andata là sposa a Belgrado. Dopo non lo so.

D: Elvia, la liberazione, dov’eri tu alla liberazione?

R: Alla liberazione? Dice qualcuno che hanno gridato di gioia, così, anche nei film che vedo si vede così. Io non posso dire… Non ho avuto il tempo di godermela. Perché? Perché quel giorno, il 7 maggio, che era già finita, ci hanno portato in galleria. In galleria eravamo tutti, uomini, tutti. Questo perché la loro idea era di far saltare la galleria, è questo il fatto. Se non che si vede che il fronte è avanzato molto prima della preparazione per fare queste cose. Mi ricordo che è entrato un altro gruppo di uomini, lì abbiamo avuto molto aiuto dai militari italiani.Poi le cose che si facevano per loro erano tutte sabotaggio, se mentre eri all’appello ti scappava la pipì, poiché per farla c’erano gli orari, c’era la mattina e basta per andare ai bagni, Se facevi la pipì magari lì, perché non si avevano né mutande né niente, era sabotaggio. Prendevi tante di quelle botte, prendevi dalle dodici alle venticinque frustate anche. Chi le prendeva? Io non le ho prese queste, io ho preso solo le tre legnate della Kapò, però chi le prendeva doveva anche contarle. C’era un seggiolino, le piegavano e le davano giù lì.

Poi se ci sono le russe, mettiamo quelle due che hanno cercato di fuggire a Buchenwald… Perché noi avevamo un momento quando si scendeva dal camion, sulla strada in cui ci mettevano c’era un ponte che si doveva attraversare. Non so se c’era un fiume perché durante la notte e il giorno non si aveva tempo di guardare. C’era un momento che ci si mischiava con le persone civili e queste russe devono aver fatto amicizia con delle russe lavoratrici che erano prese dalla Russia e portate a lavorare. Hanno tentato la fuga. Dopo tre giorni le hanno riprese, le hanno portate in blocco. Quando siamo ritornate dal lavoro le abbiamo trovate lì, distese per terra che le avevano bastonate, si può, all’infinito. Noi eravamo lì in piedi in fila, e il comandante ha camminato sopra. Non so il comandante di Buchenwald come si chiamasse. Ha camminato con gli stivali sopra queste due ragazze. Erano due sorelle. Le hanno prese. Dentro nella baracca c’era un Bunker, una botola in cemento armato con una porticina più un buco rotondo. Le hanno prese e le hanno messe lì dentro con l’ordine a noi di non andare a guardare né niente. Una cosa strana, fra tutte le nazionalità che eravamo, noi italiane avevamo legato con le russe, non lo so come mai c’era questo legame fra noi. Dovete pensare, mettiamo, io sono di Udine e quelle sono di Gorizia, siamo a venticinque chilometri di distanza, ma parlavano sloveno e loro si spacciavano per slovene, non si sentivano più italiane. Non si riusciva ad andare d’accordo.

Pensandoci anche adesso ci si chiede il perché di questa cosa, che abbiamo legato con queste russe. Allora a turno si montava di guardia in modo che le Kapò o le comandanti non ci vedessero. Noi si toglieva un pezzettino del nostro pane, si bagnava nell’acqua e si buttava dentro per questo buchetto. Dopo sei giorni hanno aperto il Bunker e hanno tirato fuori una viva. Io dopo cinquant’anni l’ho rincontrata questa russa a Mosca. Lei mi ha riconosciuta, io non l’ho riconosciuta, perché poi abbiamo seguito tutta la trafila insieme fino alla liberazione. Per ritornare e raccontare il giorno della liberazione…. Per noi è venuto dentro questo con un Ape che si guidava allora, quella volta, in piedi gridando: “I russi alle porte, i russi alle porte!”. Perché c’era il corridoio della galleria enorme. Noi non c’eravamo nemmeno messe al lavoro, si diceva: “Non c’è nessuno qui”, non hanno acceso il motore del mulino. Piano piano sentendo questo siamo uscite, ci siamo trovate in un grande spiazzo e c’erano… Allora quando si era in baracca si diceva sempre: “Quando andrò a casa, mi toccherà incominciare a mangiare col cucchiaino, non si potrà mangiare tanto perché il nostro stomaco si è ristretto”. Questi erano i discorsi quando eravamo su in baracca. Ma al momento che eravamo fuori e abbiamo visto le case dei comandanti cosa si è fatto? All’assalto alle case a cercare da mangiare, non si è ragionato più. Lì si aprivano tutti i sacchi, si assaggiava cos’era. Questo l’ho trovato io, sono stata molto brava. Io ho aperto, era di carta questo sacco, sono arrivata a strapparlo e ho assaggiato questa polvere, era color verdolino. Ho assaggiato, mamma mia, sapeva di fagiolo. “Sono fagioli macinati”, tutte queste ragazze che non ci siamo contate mai dopo, ci siamo buttate sopra. Lì abbiamo acceso dei fuochi in queste gamelle che avevamo, ognuno faceva la crema. “Che buono, che buono, mamma mia, che buono”. Quando abbiamo finito di mangiare tutto abbiamo scoperto che era colla. E adesso? Cosa facciamo? Ci ha fatto bene, ci sentivamo sazie, se anche era colla noi abbiamo pensato: “Ci ha fatto bene”. Adesso da che parte si va? Dove si va adesso? Dove siamo? Non si sapeva dove si era, non si vedeva dove si andava. Abbiamo cominciato a ragionarci sopra, abbiamo detto: “La strada sarà sempre in alto, mai sotto, perché qui è la collina, le strade sono sopra. Non possono essere qui dove hanno fatto le gallerie. Se venivano coi camion e con le macchine…”. Abbiamo attraversato questo bosco e difatti fuori da questo bosco sempre in salita abbiamo trovato la strada. Non ci si rendeva conto che le Katiusce sparavano sopra le nostre teste, non si sentiva. Si sentiva di andare, finito. Quando siamo arrivate in questa strada abbiamo trovato dei furgoncini rovesciati nei fossi. Via a cercare anche quello che c’è lì. Lì abbiamo trovato dei maiali già puliti, già tagliati, dei pezzi di lardo. Io non lo so se avete visto i leoni nei deserti quando prendono la preda, così è stato per noi. Tutti assieme, tutto un mucchio, lì eravamo di tutte le razze, eravamo tutte sorelle.

Coi denti si strappava. Questo purtroppo ci ha salvato, questo lardo ci ha salvato. Poi abbiamo detto: “Da che parte andiamo?”, le russe e le polacche hanno detto: “Noi andiamo verso dove sparano che là ci sono i russi”. “Noi andiamo giù di qua. Dove andiamo da questa parte? Si andrà in Italia, noi italiane”.

Anche le altre, le greche, quelle delle altre nazioni, anche le ungheresi ci avevano detto: “Andiamo da questa parte, si andrà in Ungheria”. Difatti loro indovinavano giusto, ma noi italiane si andrà in Italia di qua, loro vanno dalla parte dei russi. La Russia è la via, si diceva, vieni da quella parte.

Ci siamo incamminate e siamo arrivate in una cittadina chiamata Erfurt. Lì ci hanno visto arrivare, queste donne in quelle condizioni che eravamo, si camminava ormai che si trascinavano così i piedi, non si camminava normalmente. Ci hanno detto che stavano arrivando i russi, ci hanno fatto capire che ci avrebbero ucciso tutte.

Allora noi che eravamo rimaste ci siamo riunite anche se non ci si capiva, anche quel piccolo gruppo di italiane. Abbiamo detto: “Andiamo là dove mettono il fieno ad asciugare, andiamo a dormire in un fienile, vediamo domani”, perché erano già venute le sette di sera ormai.

Quando ci siamo avviate nei campi finalmente vediamo arrivare due carri armati con la stella rossa che era l’Armata Rossa. Sono scesi, mi ricordo che c’erano un capitano e un colonnello. Il capitano russo parlava l’italiano.

Prima ci hanno chiesto nella loro lingua di che nazioni fossimo, chi eravamo. Noi abbiamo detto, il nostro gruppetto di poche italiane che eravamo, abbiamo detto: “Siamo italiane”. Allora è sceso questo capitano, parlava l’italiano e ha detto di ritornare a Erfurt che là c’era la truppa che ci avrebbe dato di cui mangiare, lavarci, vestirci.

Difatti siamo ritornate indietro e lì ci hanno separate, le italiane da una parte, le greche, le cecoslovacche… Ci hanno messe in tante case sequestrate che avevano loro, ci hanno messo lì.

Non saprei nemmeno oggi come oggi dire cos’è stata la liberazione per me, non è che abbiamo alzato le braccia, niente. Perché abbiamo dovuto lottare ancora, perché poi si viveva sempre quei quattro o cinque giorni che siamo rimaste lì… Perché?

Perché ogni giorno di mattina presto eravamo talmente ormai abituate ad alzarci a quell’ora, si era sempre in strada. A ogni gruppo che passava si chiedeva: “Sei italiano? Sei italiana?”, alle donne e agli uomini. Erano già quattro giorni, cinque che eravamo lì.

Un giorno è arrivato un gruppo e ci hanno detto che erano italiani, mamma. Forse lì abbiamo conosciuto un po’, non nel senso di essere liberati, no, di avere trovato delle persone che erano uguali a noi, italiane insomma. Non per razza, perché hanno detto che erano italiani.

Forse questo nome ci ha dato… Allora hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia”, abbiamo detto. “Unitevi a noi che andiamo”. Erano un gruppo di ragazzi, c’era il corridore Monti anche.

Hanno detto: “Unitevi a noi che andiamo verso l’Italia”. Invece viene lì vicino un colonnello russo che aveva visto un po’ di gente raggrumata lì, c’erano anche altre prigioniere che chiedevano, è venuto, ha detto: “No, voi lasciate le biciclette qui, vi diamo un carro e un cavallo e tutti i viveri. Andate sempre dritti per questa strada fin quando arrivate a Praga, dovete arrivare a Praga” ci ha detto.

Ci siamo incamminati, abbiamo dormito all’albergo delle stelle, abbiamo camminato per altri cinque o sei giorni. Mi ricordo di essere arrivata entrando dalla Germania a Praga, mi ricordo di essere arrivata sul ponte di San Stanislao e poi di essere caduta lì. Poi non mi ricordo nulla per due o tre mesi, li ho persi completamente, cancellati completamente.

D: Però lì sul ponte a Praga cos’è successo?

R: E’ successo che mentre io ero caduta e avevo perso i sensi passava il Console italiano, sua moglie e una contessa cecoslovacca che faceva la crocerossina, andavano in cerca di queste persone coi vestiti zebrati.

Lei è scesa dalla macchina: “Fermati” ha detto “che c’è una ragazzina per terra”. “E’ viva ancora, questa non è morta”. Mi hanno caricata in macchina, mi hanno portato alla Casa d’Italia.

Dopo due mesi, tre che ero lì mi ricordo di essermi svegliata e quando ho guardato ho visto un viso talmente bello, talmente sorridente, come una visione. Ho detto: “Oddio, sarò in paradiso, questo è un angelo”.

Mi hanno raccontato che ho avuto il tifo, che ho avuto la malaria, poi mi è ritornata la malaria, che pesavo 25 chili, che mi hanno pesata in un lenzuolo, mi hanno legata e messa nel lenzuolo che ridevano tutti quando mi hanno pesata.

Lei non mi ha abbandonato né giorno né notte, mai mai mai. Allora si vede che avevo la febbre talmente alta, lei bagnava le lenzuola, mi avvolgeva dentro nell’acqua fredda perché ghiaccio dove? Avendo il figlio dottore forse ha…

In più mi ha curato la pelle della schiena, perché con gli esperimenti che mi ha fatto il dottor Mengele la mia pelle era come un cartoccio di carta, quella carta di una volta. I pidocchi difatti non stavano vicino a me assolutamente, perché se ti trovavano un pidocchio c’era anche la punizione.

Tanti parlano che erano mangiati dai pidocchi, dalle cimici. Non solo io, il nostro gruppo non aveva queste bestie, realmente non le abbiamo mai avute. Anzi, c’era una punizione.

D: Dopo questi tre mesi di Praga cos’è successo?

R: E’ arrivato un altro gruppo di italiani e hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia coi camion, andremo in Italia. C’è un treno che parte dalla stazione di Praga che va verso l’Italia”.

Invece siamo partiti coi camion, abbiamo attraversato un ponte di barche che avevano fatto i russi perché i ponti erano distrutti e ci hanno bloccati a Bratislava. A Bratislava ci siamo trovati in una caserma militare, eravamo in 17.000 persone italiane tra donne, bambini e militari, ufficiali.

Erano tutti ufficiali italiani che erano prigionieri del ’43. Quelle donne e quei bambini non erano prigionieri, loro erano delle persone che erano andate emigranti in Germania. Si sono trovati nel giro di tutte queste cose. Lì siamo stati altri tre mesi, fino al mese di ottobre.

I russi, io devo dire solo bene di loro, ci hanno dato i generi alimentari che ci si doveva fare da mangiare da soli, sbrigarsi da soli. C’era l’ordine però, si viveva come in caserma, uguale. Non c’era il permesso di uscire, perché si potevano fare dei brutti incontri, perché si ubriacavano come tutti, come gli americani, come gli inglesi e tutti, anche i russi uguale agli altri.

Allora poteva succedere, cercavano di evitare queste cose. Siamo stati fino al 30 ottobre. Un giorno è arrivato mentre eravamo lì il generale da Vienna russo, è entrato lì. Ci hanno fatto schierare gli ufficiali, i nostri italiani bravissimi, lui ha camminato in mezzo, è andato fino in fondo, si è girato.

“Italiani fascisti” ci ha detto. Me lo ricorderò sempre per il modo in cui l’ha detto. “Questa volta”, ha detto, “vi abbiamo perdonato. Se per caso ritornate in guerra un’altra volta non vivrà nessuno”. Ma in un modo ce l’ha detto, veramente.

Poi un’altra cosa: “Io non posso mantenervi più, perché non siete soltanto voi”, ha detto, “non siete solo voi 17.000. Ne ho altre migliaia a cui dare da mangiare, da vivere. Se entro tre giorni l’Italia o qualcuno non viene a cercarvi… Impossibile che in Italia non ci sia nessuno che non sappia che mancano 17.000 persone, non è una”, ha detto.

Ricordo realmente, era proprio anche un po’ incavolato questo generale. Ha detto: “Mi dispiace, se entro i tre giorni non viene nessuno a chiedervi, sono costretto a mandarvi via a Odessa”. Gli ufficiali, i militari che erano tanti anni ormai che erano lì hanno detto: “Ci mandano in Russia, se andiamo via a Odessa andiamo in Russia e non ritorniamo più”.

Invece alla quarta giornata la mattina presto abbiamo visto dei camion inglesi arrivare. Su quei camion chi c’era? C’erano gli inglesi, ma chi c’era a cercarci? C’erano i frati di Padova. In ogni camion c’era un frate, erano i frati di Padova che cercavano i deportati in giro. Non lo so come abbiano scoperto, o i russi hanno fatto sapere agli inglesi, hanno trasmesso così.

L’indomani siamo partiti finalmente con questi, ci hanno caricati nei camion abbastanza, eravamo un po’ strettini, ma il fatto di andare a casa… Invece ci hanno fermato a Vienna Noistar.

Io l’impatto l’ho avuto brutto con gli inglesi, non per me, un po’ per tutti. Abbiamo detto: “Siamo ritornati indietro”, perché ci hanno accolto in questo campo di smistamento a Vienna Noistar, a quaranta chilometri venendo sempre dalla Cecoslovacchia prima di Vienna.

Ci hanno accolti come degli appestati, ci hanno disinfettati con del flit, con delle cose che bruciavano. Siamo stati due giorni lì, poi siamo partiti finalmente. Ci hanno messi su una tradotta e siamo partiti finalmente verso l’Italia.

Mi ricordo che quando abbiamo attraversato il Brennero la gente, gli ufficiali più di tutti, sono scesi e hanno baciato il suolo italiano. Siamo arrivati a Pescantina e lì c’erano i frati di Padova ad aspettarci, c’era un campo con delle tende. Lì ci hanno dato i viveri.

Ho dormito lì, l’indomani ci hanno chiamati e hanno detto: “Guarda, c’è un treno che parte alla volta di Udine. Non so quando arriverete a Udine”. Io so di essere partita sola, perché dopo quindici mesi che ero via ci hanno arrestati assieme, una mia compagna del mio paese, siamo andate ad Auschwitz insieme, poi ci siamo perse ad Auschwitz.

Poi non l’ho vista più, l’ho incontrata a Pescantina dopo quindici mesi. Ha detto: “Elvia, andiamo a Udine, andiamo a Udine, andiamo a casa dalla mamma”. “Aspetta”, ha detto, perché lei era ritornata con un altro gruppo di italiani, “che vado a salutare quegli amici che mi hanno aiutata”, perché lei è stata liberata a Melk. “Vado a salutare”.

Il treno è partito e io sono andata, per la fretta di andare a casa non l’ho aspettata. A Udine ci hanno accolto tanto bene, mamma mia, l’impatto, il ritorno in Italia, in patria, mamma mia, il tuo paese, favoloso, da piangere anche oggi come oggi dopo cinquantacinque anni. E’ da piangere anche adesso.

Hanno detto che avevamo avuto un figlio coi tedeschi e lo abbiamo lasciato a Udine nell’orfanotrofio, non sapeva nessuno che noi siamo ritornate, dove eravamo, se eravamo vive o morte, però avevamo fatto un figlio. In più quando siamo arrivate le donne cosa ci hanno chiesto? “Vi hanno violentate?”.

Non come eravamo, già pesavo un trentacinque chili, per la mia altezza ero ancora magra. Non mi hanno detto… I capelli erano appena così, non erano ricresciuti in tre mesi, quattro della liberazione. No, queste cose.

Poi avevamo bisogno di cure ancora, di tante cose. No, niente, non si è fatto avanti nessuno, nessuno ci ha chiesto. E’ stato un professore che era amico del ragazzo che avevo che mi ha curato, mi ha fatto delle iniezioni, delle punture lombari per togliermi delle infezioni, delle cose così.

Avrà provato anche lui, non lo so, so che mi ha fatto delle iniezioni lombari contro la tubercolosi, perché quelli che sono ritornati prima di me erano tutti nei sanatori. Questo è il mio ritorno.

D: Quando sei ritornata?

R: Il 30 ottobre del ’45.

Emer Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Luigi Emer. Il mio nome di battaglia è “Avio” perché ero dell’aviazione. Sono nato a Dermulo il 27 agosto 1918, nel comune di Taio in provincia di Trento.

D: Perché sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato in seguito ad un combattimento contro un presidio nazifascista che si trovava a Cavalese. Abbiamo ricevuto l’ordine da parte del Comitato di Liberazione di Trento, che era organizzato dall’ex senatore Mascagni e dal professor Fabio Visentini. In seguito ebbi anche contatti a Trento col povero Manci. Da lì fui destinato prima in Val di Non poi in Val di Cembra, poi di nuovo in Val di Non sui Crozi Carlini; poi in Val di Cembra, sopra il lago di Pinè, ricevemmo l’ordine di attaccare il presidio nazifascista di Cavalese.

Partimmo di notte e arrivammo nel villaggio vicino a Molina di Fiemme; fummo ospitati da una nostra staffetta, una certa Sabina, per una notte e un giorno. In quella circostanza arrivammo stanchi e affamati e ci diedero, se è il caso di dirlo, un cane da mangiare, cosa che abbiamo saputo 5 anni dopo. All’indomani sera ci unimmo ad un’altra formazione di partigiani, comandata dal povero Iseppi Aldo ed incontrata in Val di Fiemme, e ad altri compagni, tra cui Franco Franch e Corradini Quintino, per attaccare il presidio.

Era verso le 10 di sera quando una bomba a mano mi scoppiò fra le gambe e mi fratturò completamente la gamba destra, l’ulna del braccio sinistro; le schegge mi riempirono tutto il corpo, provocandomi profonde lacerazioni e ferite.  Quando caddi, i compagni volevano sospendere l’azione; chiesi loro se avessero ultimato l’azione, dissero: “Ancora no”; allora diedi l’ordine di proseguire e di portare a termine l’azione. Portarono a termine l’azione e cercarono di portarmi in salvo, caricandomi sopra un carretto; mi trascinarono fino al villaggio di Stramentizzo.

C’era una regola fra di noi: i feriti gravi che si rendevano intrasportabili dovevano essere fatti fuori con un colpo di pistola.  Un compagno, tuttora vivente a Bolzano, si preparò per spararmi il colpo di pistola alla testa, ma disse: “Ma no, è inutile sparare, questo è morto”. Avevo infatti perso i sensi. Convinti che fossi morto, se ne andarono di notte attraverso le montagne e mi abbandonarono sul carretto. Durante la notte del 26 agosto del 1944 ripresi i sensi, cercai aiuto: nessuno rispondeva. Silenzio assoluto, buio pesto, cielo sereno: guardavo le stelle. Verso l’alba si avvicinarono alcuni partigiani paesani del posto, di Stramentizzo, fra i quali una ragazza, una certa Sabina che fungeva da staffetta. Vedendomi in quelle condizioni chiamò un medico che arrivò, mi fasciò la gamba destra e scappò subito via in motocicletta per paura di essere catturato.

Questa ragazza cercò di alimentarmi dandomi un bicchiere di latte e una coperta che prelevò dalla stalla. Avevo soldi e armi addosso, li buttai su un cumulo di legna. Dopo, notai che la gente curiosa che si era avvicinata si stava allontanando. Alzai il capo e vidi che immediatamente venni accerchiato dalle SS; fui preso e catturato.

Ma nel frattempo c’è un particolare importante. La ragazza riuscì a mettersi in comunicazione con l’ospedale di Bolzano, dove c’era una nostra cellula; dall’ospedale di Bolzano partì un’autoambulanza col dottor Lucenti, con la scusa di andare a prelevare un paziente in Val di Fiemme; l’autoambulanza venne bloccata perché se ne servirono per caricarmi sopra; contemporaneamente caricarono anche un altro giovane e mi portarono alla caserma di Cavalese. Lì dalla mattina fino alla sera fui sottoposto a lunghi interrogatori, senza essere curato, fasciato, alimentato.

Alla sera con la scorta armata mi portarono nel carcere di Trento, e la prima sera passai la notte in una stanza di detenuti comuni, qualcuno dei quali si offrì di darmi qualcosa da mangiare.

All’indomani fui posto in segregazione in una cella dove nessun altro metteva piede; neanche il cappellano delle carceri poteva entrare nella mia cella. E lì fui sottoposto a continui interrogatori, torture, sevizie; continuamente svenivo, e allora mi facevano rinvenire con delle iniezioni, poi, appena rinvenivo, altre scudisciate. Gli interrogatori si protrassero per giorni e giorni, anche di notte. Non resistevo più, spesso svenivo, invocavo la morte per porre fine a questo supplizio.

Alla mattina nella cella entravano i carcerieri a sbattere i ferri della finestra; mi diedero come alimentazione una ciotola di roba soltanto verso mezzogiorno; altro non potevo mangiare. Non potevo muovermi né spostarmi, ero completamente nudo, lacero e ferito, sporco di terra e sangue, non mi diedero neanche un indumento.

Quelle condizioni si trascinarono dall’agosto fino ai primi di ottobre; ad un certo momento alla vigilia di un giorno dei primi di ottobre, si presentò in cella un detenuto politico, un ex maestro che fungeva da infermiere. Mi sbarbò, mi lavò, mi pulì, mi diede una casacca da indossare; a quelle condizioni tutti sospettavano che io venissi condannato a morte. Quello era il nostro destino, poiché erano qualificati come ribelli tutti coloro che venivano catturati con le armi in mano, e che facevano parte delle formazioni partigiane; venivano fucilati, impiccati e quantomeno torturati. Io ebbi la fortuna di essere portato nel carcere di Trento, dove fui continuamente sottoposto a interrogatori e torture, sevizie, fintanto che una sera, dopo essere stato lavato e pulito, prevedendo che all’indomani mi avrebbero portato di fronte ad un plotone di esecuzione, entrarono nella mia cella alcune donne del carcere femminile, donne detenute politiche, che mi portarono parole di conforto, qualche frutto da consumare e nient’altro.

All’indomani mattina presto nel corridoio del carcere sentii dei passi ferrati: erano quelli delle SS che entrarono nella mia cella e chiesero subito: “Tu stare in piedi?”, dico: “No, non ce la faccio a stare in piedi in queste condizioni”. Mi caricarono sopra una barella, mi portarono fuori, nell’attraversare i corridoi del carcere altri detenuti cominciarono a battere le gavette ed i piatti di alluminio contro la porta in segno di protesta. Mi portarono nella fureria del carcere, mi diedero un panino e una coperta, da lì mi caricarono sopra un motofurgoncino e mi portarono alla stazione di Trento. Alla stazione di Trento mi caricarono sopra un vagone merci, e io ero piantonato sempre dalla polizia; entrarono altri cittadini, tra i quali un parente che, non appena mi ebbe riconosciuto, scese dal treno e scappò via.

Premetto una cosa: il giorno dopo che fui incarcerato mi portarono all’ospedale civile di Trento al pronto soccorso, per ottenere le prime cure. Al pronto soccorso c’era il dottor Franco Visentini, il quale mi riconobbe; rimasi stupito e lui disse: “Questo bisogna ricoverarlo”, e loro risposero che non era il caso; nel contempo entrarono nella sala del pronto soccorso Mascagni, con Nella Mascagni, ignorando che io fossi stato catturato, perché pensavano che fossi morto. Vedendomi in barella rimasero stupiti e feci cenno col capo ad indicare che non avevo parlato. Loro se ne andarono via subito, scapparono.

Riprendendo il discorso, caricato sul vagone merci, fui trasferito alla stazione ferroviaria di Bolzano. Lì mi scaricarono in una sala d’aspetto sempre piantonato dalla polizia; in quelle condizioni non potevo né muovermi né parlare; ricordo un particolare: un soldato polacco fece per offrirmi un frutto, ma questi delle SS reagirono in malo modo e lo picchiarono di santa ragione con i calci dei mitra.

Dopo di che ci fu l’allarme. Nel frattempo ero già passato di competenza al Tribunale Speciale di Bolzano. Quindi l’autista ricevette l’ordine questo di trasferirmi all’ospedale civile in via Fago, nel quartiere di Gries.

Fui messo in una stanza assieme ad altri detenuti politici, fra i quali il povero Francesco Rella, l’avvocato Ferrandi, il dottor Lubich, lo studente ora avvocato, Giorgio Tosi, l’avvocato Steiner di Lana; qualche giorno dopo mi trasportarono in sala operatoria e mi fratturarono la gamba destra e l’ulna del braccio sinistro. Rimasi ingessato per alcuni mesi, sempre poi sottoposto ad interrogatori da parte del procuratore del Tribunale Speciale, che era abbastanza burbero ma non osò mai usare metodi violenti.

I medici dell’ospedale, ai quali va tuttora il mio sincero e vivo ringraziamento, cercarono di protrarre il più possibile la mia degenza: mi trovavo con la gamba in trazione e dopo alcuni mesi mi ingessarono la gamba.

Tra i medici posso ricordare il professor Chiatellino, il professor Settimi, il dottor Bailoni, il dottor Lucenti e tutto il corpo infermieristico che mi assistette, sia me che altri con molto senso di umanità, di solidarietà e con molta comprensione. Questo è un ricordo che mi trascinerò sempre per tutta la vita.

Dopo il secondo giorno che avevo la gamba ingessata mi fornirono un paio di stampelle; due agenti di scorta l’indomani mattina mi accompagnarono verso i servizi, quando uno mi disse: “Tra poco verranno quelli delle SS”, al che riuscii appena a lavarmi. Non appena mi ebbero scortato in stanza, con le stampelle, entrò un ufficiale delle SS con altri quattro, sempre delle SS, e chiese: “Tu Luigi, tu Emer Luigi?” “Sì” e rivolgendosi all’altro: “Tu Francesco Rella?” “Sì” “Tutti e due condannati a morte”: il Tribunale Speciale il 12 dicembre del 1944 aveva confermato la nostra condanna a morte.

Ci prelevarono dall’ospedale ai primi del febbraio del 1945. Feci per prendere le stampelle, ma mi dissero: “Queste non servono più”; feci per prendere qualche indumento da portare con me, ma mi dissero: “Non serve più”. L’altro, Francesco Rella, aveva gli occhi bendati, era mezzo cieco. Ci prelevarono e ci sollevarono tutti e due; ci caricarono sopra una macchina, la quale macchina, con la scorta, arrivò fino al Corpo d’armata. Al Corpo d’armata fecero scendere Francesco Rella; lì poi il povero Francesco Rella venne fucilato, massacrato negli scantinati. Sapendo la nostra destinazione io aspettavo il mio turno; nonostante le invettive da parte di altri militari tedeschi, rimanevo sempre fermo in macchina: vidi che stavano trascinando per terra il corpo di un giovane, pesto e sanguinante, lo caricarono in macchina. Questi era un certo Walter Pianegonda da Schio, aveva la mamma con tre sorelline deportate nel campo di concentramento; il papà, che era capo partigiano, era stato fucilato.

Chiesi se potevo parlare, e il comandante disse: “Parlate pure”, chiesi dove ci potessero portare. L’ufficiale non rispose, ma Walter Pianegonda disse: “Io vengo dal campo di concentramento, chissà che non ritorniamo lì”. Noi pensammo subito che ci avrebbero portato sotto Castel Flavon, dove avvenivano le fucilazioni. Questo è quanto si sapeva allora.

Invece ci portarono nel campo di concentramento, io fui ricoverato all’infermeria, ma prima fui portato all’ufficio della fureria, e lì mi presero in forza, mi consegnarono un triangolo rosso col numero da portare obbligatoriamente sulla casacca. Mentre ero in fureria, una donna, soprannominata La Tigre, sapendo che ero partigiano – almeno per loro ero un ribelle – cercò di farmi avventare contro due cani poliziotto che erano pronti ad aggredirmi, sennonché intervenne un sottufficiale delle SS, la bloccò, e in tedesco la rimproverò molto, facendo capire che non poteva agire così. Questo stesso sottufficiale mi accompagnò all’infermeria e mi raccomandò, parlando in uno stentato italiano, di stare alla larga da quella donna.

All’infermeria fui messo in un lettino dove ebbi occasione di conoscere il professor Meneghetti, rettore dell’Università di Padova, e il professor Virgilio Ferrari, che era primario degli ospedali di Garbagnate e di Milano, il colonnello Andreoli da Verona, e altri deportati politici. I primi giorni mi guardavano con un certo sospetto: allora ero giovane, con tutti i miei capelli, biondi, occhi azzurri e pensavano che fossi una spia. Quando nell’infermeria stava passando un altro deportato politico per distribuire un po’ di sale e chiesi di darmene, questi fece scena muta e se ne andò. Dopo, tramite Laura Conti ed un’altra dottoressa, poiché avevano contatti con l’esterno, seppero effettivamente chi ero; allora avvertirono gli altri e da lì in poi ebbi tutto il conforto, l’aiuto ed il sostegno da parte di tutti i compagni dell’infermeria e di altri amici politici del blocco E.

Poi un amico che lavorava nella falegnameria del campo, mi fornì due stampelle; intanto avevo la gamba ingessata, ed un prigioniero pilota italoamericano di origine trentina, saputo che ero trentino, poiché poteva ricevere dei pacchi, mentre noi non potevamo ricevere niente, mi fece avere un paio di uova.

E’ un particolare a cui tengo: prima di consumarle, qualcuno mi disse: “Guarda che nel blocco E c’è il conte Wolkenstein che sta per morire di fame, potresti portarle a lui?”. Gli portai le uova, e fu come se fosse stato un lingotto d’oro. Siano state le uova, o che altro, il conte Wolkenstein di Castel Toblino si rimise bene in sesto e uscì anche lui dal campo! Lo ricordo tuttora: mi ospitò nel suo castello al lago di Toblino, mi fece conoscere anche suo figlio. Mentre ero ricoverato all’infermeria, dovevo stare molto attento e nascondermi alla vista dei famosi aguzzini, i due ucraini. I due ucraini erano sempre ubriachi, e quando vedevano uno di noi, quello veniva torturato, massacrato, picchiato … scene strazianti che è doloroso e triste rievocare.

La gente era intimorita, un po’ paurosa, ma in gran parte era anche rassegnata al proprio destino; il nostro destino era quello.

Il Tribunale Speciale, saputo della morte del partigiano Francesco Rella, infermo e cieco, chiese alle SS: “Avete fucilato un infermo; volete fucilarne un altro?”. Il Tribunale Speciale – storia ricostruita poi in seguito – commutò la mia pena di condanna a morte nell’ergastolo, destinato ai blocchi di eliminazione in Germania.

Però la mia sopravvivenza la devo soprattutto a loro, perché a loro interessava conoscere l’organizzazione clandestina della lotta partigiana.

D: Quando tu parli del campo, quale campo di concentramento intendi?

R: Il Lager di Bolzano, in via Resia.

D: I tuoi interrogatori erano per capire l’organizzazione partigiana?

R: Io soltanto ho sempre negato e taciuto tutto ciò che sapevo, però di fronte alla morte ho dovuto dare le mie vere generalità. Dopodiché una pattuglia si spinse fino al mio paese d’origine, volendo quasi incendiare la casa dove risiedevano mia madre con i miei fratelli e sorelle; questo non avvenne per intercessione di altri. La mia povera madre per ben tre volte apprese che io ero morto: la prima quando mi catturarono, la seconda dal carcere di Trento, la terza quando ero nel campo di concentramento di Bolzano.

Quello che è stata la vita nel campo del Lager di Bolzano di Via Resia è indescrivibile; la gente soffriva, penava, era affamatissima, si andava a rovistare persino nelle immondizie per cercare qualche buccia di patata. Bisognava cercare di evitare l’incontro con gli ucraini o La Tigre, perché sapevi quale sarebbe stato il tuo destino. Un giorno ci fu la partenza di qualche centinaio di deportati, politici soprattutto, che vennero caricati su carri bestiame alla stazione di Bolzano. Vi rimasero per un giorno e una notte, e poi ritornarono nel campo, perché la linea del Brennero era continuamente martellata. Da lì non ci furono poi più passaggi attraverso la Germania e l’Austria. Forse qualche camion con deportati politici, quello sì riuscì a passare.

D: Ti ricordi quando eri nel campo di Via Resia se c’erano anche dei religiosi deportati?

R: Sì, c’erano dei frati, c’erano dei religiosi, soprattutto Don Antonio Pedrotti, Don Longhi, Luigi Longhi mi pare si chiamasse, e altri frati che erano stati catturati non so esattamente dove, ma c’erano diversi religiosi.

D: Don Pedrotti non era Don Guido, per caso?

R: Don Guido Pedrotti, sì.

D:  E Don Daniele Longhi?

R: E Don Daniele Longhi.

D: Anche loro deportati?

R: Sì, nel campo di concentramento.

D: Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione?

R: 9861, ho qui con me il triangolo rosso. E nel campo un giorno incontrai un mio carissimo amico, che è riuscito a sopravvivere, il quale rimase anche lui ferito ad un occhio, un certo Corradini Quintino, soprannominato Fagioli, destinato al blocco celle. Nel blocco celle era detenuta anche Nella Mascagni.

D: Sei stato testimone di atti di violenza all’interno del campo?

R: Personalmente non sono stato testimone, personalmente non ho visto … però voci correvano e si conoscevano atti di violenza, di pestaggi, di torture, che venivano regolarmente eseguiti. Ma si aveva anche paura di parlare e di tacere; essere presenti era molto pericoloso, perché venivi coinvolto nel fatto e andavi a fare la fine di tanti altri, venivi massacrato anche tu. Perciò si cercava di sfuggire a queste azioni.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne deportate?

R: C’erano moltissime donne. Oltre alla famiglia di questo Walter Pianegonda c’era Laura Conti e un’altra dottoressa della quale mi sfugge il nome, poi c’era anche una certa Cicci, che faceva da capogruppo alle donne, che era poi diventata la moglie di un certo Novello; un particolare curioso: c’era anche la moglie di Indro Montanelli. Con Indro Montanelli ebbi un fugace incontro subito dopo la guerra perché voleva sapere del comportamento di questa donna all’interno del campo. Io naturalmente dissi che il comportamento era stato veramente esemplare, come da parte di tutte le donne.

Poi c’erano famiglie di ebrei dentro, con dei bambini. Delle tre ragazzine di Schio, le Pianegonda, ricordo la più giovane Noemi, una bambina dalla treccia bionda, che alla mattina usciva per lavorare, e rientrando la sera passava davanti all’infermeria, cercava di offrirmi una banana di pane perché la popolazione delle case Semirurali alle colonne di lavoratori e lavoratrici davano qualche cosa da mangiare. E io dissi: “Hai la mamma e due sorelline dentro, dai a loro da mangiare”, e lei rispose: “No, la mamma mi ha detto di dare a te il pane”. E’ rimasto con questa famiglia un legame molto profondo, fraterno, di sincera amicizia; è un’amicizia indissolubile che non si può così materialmente concepire perché fra noi c’era un particolare legame, cioè il destino che ci accomunava tutti quanti, il destino della morte che ci si aspettava, attraverso i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso quello che poteva accadere all’interno nel campo stesso.

Noi col triangolo rosso, politici e partigiani, eravamo i più perseguitati e presi di mira. Io riuscii a nascondermi più volte, ma altri furono picchiati, torturati, seviziati. Personalmente non ho assistito, non posso ricordare altri episodi.

D: Nel campo c’erano anche forme di solidarietà tra voi deportati?

R: Sì, c’era molta solidarietà, anche se fino ad un certo punto. La solidarietà consisteva nel conforto morale, spirituale, era un sollievo al nostro destino che tutti ci aspettavamo, quello di essere condannati da un momento all’altro, o attraverso i campi di concentramento e i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso i forni crematori, di cui correva voce. Noi eravamo considerati i più pericolosi, i più esposti, pertanto la solidarietà per noi era guardarsi con un occhio quasi di compatimento e di sopportazione, no, non di sopportazione ma di incitamento e di conforto.

D: All’interno del campo i deportati cosa facevano?

R: Alcuni erano destinati, quelli che potevano, alla falegnameria; altri quelli che potevano uscire, uscivano alla mattina per andare a lavorare; le donne andavano a pulire le stanze dei militari fuori o gli alloggi. Alcuni andavano verso Gries, non so cosa facessero esattamente; non ricordo a distanza di tutto questo tempo, per me è difficile dover ricordare e rievocare questi episodi.

D: Sei rimasto nel campo di Bolzano fino a quando?

R: Sono rimasto dentro fino alla Liberazione. La Liberazione è avvenuta tramite l’intervento della Croce Rossa Internazionale in accordo con il Comitato di Liberazione Nazionale di Milano e di Bolzano.

Prima uscirono politici, ebrei, ed altri tipi di deportati, renitenti al lavoro, tedeschi disertori, tedeschi renitenti che rifiutavano di prestare servizio nella Wehrmacht. C’erano diversi tedeschi, specialmente della Val Passiria, tra i quali ho conosciuto anche il dottor Pitschiller, che cercava di aiutarci, era un deportato anche lui. Per primi uscirono tutti quelli che non avevano niente a che vedere con noi. Per ultimo uscimmo noi, ma correva voce che ci avrebbero eliminati, perché dalla torretta una mitragliatrice era puntata sul nostro gruppo. Uscendo camminavamo all’indietro, perché aspettavamo che ci falciassero, e invece riuscimmo ad uscire. Da lì cominciò poi il periodo della Liberazione.

D: Come ricordi  il giorno in cui vi hanno liberato?

R: Eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, di fronte alla realtà che non conoscevamo più, che avevamo dimenticato. Vedere altra gente, vedere movimento … Fui ospitato da una famiglia delle semi rurali a consumare un pasto, ricordo che questo pasto fu molto abbandonante e stetti male per tre giorni, comunque ringrazio lo stesso. Si consigliava a tutti quanti di non mangiare tanto, i primi giorni, perché lo stomaco non era più abituato ad assorbire tanto cibo.Poi fui ospite per qualche giorno della famiglia Carlini a Gries, e poi trovai modo di sistemarmi in una stanza in piazza Walther; poi ci furono dei retroscena nel dopoguerra.

D: Quando sei stato deportato nel campo di Bolzano, tu o altri deportati, potevate ricevere posta dall’esterno, pacchi?

R: No, noi non potevamo ricevere niente. Dall’esterno arrivavano solo messaggi. C’era un contatto con l’esterno, che teneva soprattutto Laura Conti e l’altra donna di cui mi sfugge il nome, tramite ad esempio il CNL esterno, fra i quali c’era Franca Turra. Ci mandavano dei messaggi. Qualche cosa facevano avere ad altra gente, ma noi come politici e partigiani non potevamo ricevere niente; solo il blocco degli italoamericani potevano ricevere pacchi.

D: Potevate comunicare con l’esterno?

R: Noi non abbiamo mai avuto occasione di comunicare con l’esterno, almeno io personalmente, ma neanche altri. Tra i tanti, centinaia e centinaia, senz’altro qualcuno riusciva a comunicare e mandare delle lettere ai suoi familiari e conoscenti, che facevano pervenire attraverso i collegamenti clandestini con quelli che erano addetti all’esterno.

D: Quindi tu non hai mai potuto scrivere?

R: No, soltanto nel carcere di Trento l’ultima notte mi diedero la possibilità di scrivere; scrissi alla mia povera madre, feci quasi un testamento spirituale chiedendole perdono di tutte le sofferenze che le avrei potuto provocare e perdono per altre eventuali cose che la videro preoccupata; ha avuto una vita abbastanza avventurosa e tormentata, perciò scrissi alla mia povera mamma, a cui confidavo tutto quello che potevo, aiutandola  a sopportare e lenire queste sofferenze; questa lettera mi risulta che non sia mai pervenuta a casa mia.

D: Ritorniamo indietro, a prima del tuo arresto. Facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, era il battaglione Fabio Filzi. Per risalire alle origini, io ebbi contatti a Bolzano con il povero Pedrotti, per primo con il povero Marco Zadra, il quale mi mise in contatto con Pedrotti e Pedrotti mi mandò a Trento a prendere contatti col povero Manci. Trento mi mandò con altri compagni, che eravamo già riusciti a mettere insieme, in Val di Fiemme a Cavalese, per prendere contatti con Ariele Marangoni. Ma quando mi presentai, la mia prima funzione fu quella di commissario politico, poi quella di comandante di formazione. Quando presi contatto con la famiglia Marangoni si affacciò alla porta una signora piangente, disse: “Ma ragazzi, cosa cercate?” “Cerchiamo suo figlio” “Mio figlio è scappato, ma scappate anche voi perché ieri c’è stato un rastrellamento nella valle adiacente a Cavalese”. C’era stato un rastrellamento in cui rimasero feriti diversi partigiani della Val di Fiemme. Noi allora a piedi scendemmo giù attraverso la Val Floriana verso Trento a riprendere contatti con il povero Manci, da cui fui ospite, e che poi ci destinò come formazione in Val di Non. In Val di Non cambiammo più volte posizione perché eravamo continuamente segnalati e dovevamo sfuggire ai rastrellamenti. Siamo riusciti a sfuggirvi per ben 3 / 4 volte; c’erano sempre delle spie in giro che segnalavano ai tedeschi le nostre posizioni. Anche nella nostra formazione si era inserita una spia, che scappava di notte, andava ad informare sulla nostra posizione; poi quale spia fu condannata a morte.

D: La vostra zona di operazione come partigiani era la Val di Non?

R: Per prima era la Val di Non, poi i Crozi Carlini sopra il Lago di Pinè, poi la Val di Cembra. Dopo aver fatto alcuni atti di sabotaggio alla ferrovia del Brennero, scendemmo dalla Val di Non, ma non potemmo più risalirla, perché i tedeschi ci stavano alle costole; allora scendemmo verso Mezzocorona, bloccammo con le armi alla mano il trenino che proveniva dalla Val di Non e scendemmo a Lavis. Da lì entrammo in Val di Cembra. Al nostro passaggio, ricordo specialmente il paese di Albiano, si chiudevano tutte le finestre. Dalla Val di Cembra salimmo fin sopra a Baselga di Pinè e Miola e ci attendammo sui Crozi Carlini. Avevamo poche tende, si dormiva all’aperto, si mangiava quello che si poteva, e spesso soffrivamo la fame, soprattutto la fame. Qualche volta andavamo nelle malghe e lasciavamo dei buoni di sequestro per prendere qualche pezzo di formaggio e qualche pezzo di burro; erano contenti, tutti ci aiutavano, e c’è stata molta solidarietà da parte dei malgari e dei contadini, che cercavano di aiutarci in ogni modo. Da lì ci trasferimmo, appunto, in Val di Fiemme, per compiere questa azione contro il presidio nazifascista. Avevamo altri compiti per il dopo, cioè quello di spostarci verso il Veneto, ma tutto fu troncato con la mia cattura: la formazione si sciolse, qualcuno entrò a far parte delle formazioni venete, qualcun altro entrò nella missione speciale che è stata paracadutata dagli alleati, che operavano con delle ricetrasmittenti; insomma la nostra formazione fu quasi sciolta, altri si sbandarono e entrarono a far parte di altri gruppi.

D: Del campo di concentramento ti è rimasto qualche documento? Accennavi al triangolo.

R: Sì, il triangolo rosso con il relativo numero di matricola. Inoltre ho anche il foglio di rilascio della liberazione dal campo di concentramento. Questo è il fazzoletto dei deportati politici con sopra il numero originale di matricola del campo di concentramento del Lager di Bolzano.

D: Quello era il tuo numero?

R: Questo era il mio numero.

D: E dove lo avevate questo numero?

R: Appuntato al petto; poi l’ho attaccato sul fazzoletto.

D: All’appello ti chiamavano per numero?

R: Per numero sì, si doveva rispondere col numero.

D: Vi chiamavano in tedesco?

R: Eh sì, ci chiamavano in tedesco.

D: E chi non capiva?

R: Doveva capire per forza, c’era qualcuno che parlava anche mezzo italiano fra i tedeschi, c’era qualche elemento che conosceva anche l’italiano.

D: Accennavi alla motivazione della medaglia.

R: La motivazione della medaglia d’argento fu di aver resistito alle torture, alle sevizie del carcere prima e del campo di concentramento poi, di non aver parlato, di non aver fatto nessun nome, nessun accenno; ho sempre resistito, ho fatto sempre scena muta, a costo di rimetterci la pelle perché preferivo che mi ammazzassero, nelle condizioni in cui ero. Tant’è che in cella, quando mi capitò quello delle SS, chiesi: “Se avete da fucilarmi, fucilatemi” “Non ti preoccupare – disse questo maggiore … di Merano – le tue gambe stanno facendo cancrena”. Allora mi diede quattro scudisciate, io gli sputai in un occhio; mi diedero tante di quelle scudisciate che svenni. Secondo loro sarei dovuto morire per le ferite che non erano mai state curate, di cui porto tuttora le tracce; porto tuttora nel corpo e nelle ossa schegge della bomba a mano che si sono ossificate o incarnite.

D: Quelle medaglie le porti sempre con te, Avio?

R: Quando ci sono le celebrazioni del 25 aprile.

D: Altri documenti non ne sono rimasti del campo?

R: Sì, li ho lì nascosti.

D: La dottoressa a cui accennavi era forse Ada Buffulini?

R: Buffulini, sì, Laura Conti e Buffulini, proprio lei.

D: Era lei che ti ha aiutato?

R: Sì. Ecco qui la motivazione della medaglia d’argento.

D: Cos’è che hai in mano adesso?

R: Un notes, ecco qui: “Comitato di Liberazione Nazionale, campo di concentramento Bolzano, il signor Emer Luigi, matricola 9860 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di concentramento di Bolzano; egli merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata, riconoscimento ecc. ecc. Il possessore di questa tessera deve essere subito munito del documento di scarcerazione”, che ho qua. Questo è un santino che conservo ancora del campo di concentramento, distribuito in occasione della Pasqua 1945, con sopra i nomi di altri deportati, c’è anche un tedesco.

D: Chi te lo ha dato, ti ricordi?

R: Il santino me lo ha dato il prete, quando è venuto a celebrare la Pasqua.

D: All’interno del campo?

R: All’interno del campo, e sopra vi sono le firme di alcuni detenuti politici.

D: Quel notes lì l’avevi tu nel campo?

R: Sì, me lo avevano dato nel campo quelli che lavoravano alla tipografia. Qua c’è il nome del dottor Leoni, del colonnello Andreani, poi c’era Padre Ghino Andreani, direzione generale società Ilva di Genova. Qui ci sono le monete che sono riuscito a recuperare all’uscita del campo di concentramento, alcune monete da 10, 50 e 100 lire, che erano di carta.

Questa era una tessera della cellula clandestina del partito comunista del campo di concentramento. Qui ci sono il dottor Leoni, il Colonnello Andreani, Ada Buffulini, il professor Baroncini Ciro di Verona, Brunner Giuseppe da Corvara, Rabenstein Moser di Passiria, il dottor Antonio Dalle Mule da Belluno, l’avvocato Ducci Luigi di La Spezia, Deria Cesare da Torino, tutti con i rispettivi numeri di matricola, Dossi Giovanni via Tasso Bergamo, il professor Virgilio Ferrari senatore in Garbagnate Milano, il dottor Franco Ferrazzi da Castelfranco Veneto Treviso, Polivotto Carlo Perearolo di Pieve di Cadore, Pisciotta Frank. Questo Pisciotta Frank era un italo-americano, era dottore, catturato con gli americani, nel Lager fungeva da dottore, Zuliani Bianca da Longarone, Zusso Mario di Milano, Sardi Alberto da Asti, Bonifaci Beppi da Valdastico, è quello che mi ha fatto avere le stampelle, lavorava in falegnameria; poi c’è l’avvocato Ferrandi Giuseppe, il dottor Lubic Gino, quelli che erano all’ospedale, l’avvocato Steiner Massimiliano di Lana.

E devo aggiungere un particolare: dopo che mi hanno portato via dall’ospedale con il povero Francesco Rella, il procuratore del Tribunale Speciale, persona degnissima, per quanto fosse compito condannare in base alle leggi che vigevano allora, commutò la mia pena di morte nell’ergastolo. Trasferì questi altri detenuti politici, fra i quali Ferrandi, Lubic, Steiner, un certo Tosi Giorgio da Riva e il professor Doglioni da Belluno, nelle carceri mandamentali della provincia, dove la vigilanza era esercitata soltanto dalla Wehrmacht, per sottrarli alle eventuali vendette della SS o della Gestapo.

Hudson Giorgio di Genova, Calter Antonio di Vicenza; insomma qua ci sono vari indirizzi. Ecco qua … Montanelli Margarita si chiamava, era di origine austriaca lei. E poi Tomba Antonietta da Riva del Garda, Di Giovanni Renzo da Predazzo, non li guardo mai, Pianegonda da Valli Sant’Antonio, è quella di cui parlavo prima; questa è di Vicenza, Antonella, Bianconi Valentino di Vittorio Veneto, Roncoletta Giuseppe era impiegato alla Cassa di Risparmio di Belluno. Poi c’era dentro un tale Fabbro Rinaldo, Dino del Bo di Milano, il dottor Ribotto Lionello di Garbagnate Milano matricola 9664, Massetti Piero da Milano, Segno da Torino, Lubic Luigi, il dottor Luigi. Il conte Tonetti di Roma, lo ricordo, Marianna Scola di Torino. Luciana Feratro di Roma.

Poi basta, mi ero stufato di scrivere a penna i nomi.