Montefiori Aldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Montefiori Aldo, nato il 03.04.1921 a Valeriano di La Spezia. Ero un ex militare di marina. L’8 settembre sbandato mi sono ritirato al mio paese, a casa. Ad un certo momento hanno attaccato dei manifesti: “O con noi o contro di noi”, di ripresentarsi di nuovo a militare. Se non che una ristretta compagnia, compreso un mio caro amico, Ameglio, che poi divenne comandante della Giustizia e Libertà, abbiamo deciso di non presentarci più sotto alle armi dell’esercito della repubblica. Allora abbiamo deciso di allontanarci e andare ai monti.

Se non che dopo un lungo lavoro io, il sottoscritto, venne arrestato nello stesso paese verso i primi di luglio 1944. Mi prendono, un certo Oreglio Gallo, che allora era una persona forte in quell’ambiente, molto cattivo, e un maresciallo della Feld/gendarmeria, è un certo Vacarezza di La Spezia. Mi portano alle carceri di Villa Andreini a La Spezia, in cui sono stato imputato di avere partecipato nelle zone partigiane, aver portato su dei ragazzi, ecc. Insieme a me hanno arrestato, che è tuttora la mia presidente, Paganini, sua mamma, sua sorella, suo fratello, un po’ quasi tutta la famiglia.

Lì hanno fatto un po’ l’interrogatorio a tutti. A un certo momento dopo una settimana, dieci giorni, una buona parte, compreso la Paganini, sono partiti per Marassi di Genova, per andare a Genova e io e altri due o tre siamo rimasti a Villa Andreini. Se non che la Paganini e altri, a quanto abbiamo saputo dopo la Liberazione, era stata attaccata dai partigiani e di conseguenza a noi a Genova per via terra non ci hanno più portato. Lì ho dovuto subire oltre tre mesi di carcere a Villa Anfreini.

Dopo tre mesi circa mi prendono e mi portano insieme con quelli che erano presi da poco tempo, cioè il famoso campo di concentramento di Ventunesimo. Ci hanno portato a San Bartolomeo in un cantiere navale, ci hanno trasferito al carcere di Genova. Quando sono stato nel carcere di Genova, eravamo in tanti, centinaia che siamo stati lì, hanno fatto una scelta: questi qua che siamo.

E hanno tirato fuori nomi, venti, quelli che avevano vent’anni, i giovani. Io mi sono fatto fuori, avevo vent’anni. Mi hanno messo a fare lo scopino. Da una parte cercavano i barbieri per fare la barba, hanno cercato il barbiere, hanno cercato i falegnami per fare le casse da morto, elettricisti. Io in qualità di scopino ritengo di essere stato un po’ fortunato, in quanto ho avuto la possibilità di camminare di più nei corridoi e ho avuto la fortuna anche di conoscere tutti i miei compagni di cella, di Migliarina, di La Spezia e tutto quanto, dei preti. Tutto nell’insieme sono stato soddisfatto di avere fatto quello che ho fatto, perché ho cercato di aiutare tutti. Lì dentro ho conosciuto un certo Morelli Vittorio fra tutti questi, che era un sergente, un sottufficiale, ferito ad un braccio già in guerra. Lui mi ha raccontato che era sfollato su vicino al mio paese.

Ci siamo fatti amici, però lui era già interrogato da questo Gallo, ecc. A forza di torture e botte è diventato cieco, non vedeva più. Se non che allora io ho pensato di prendermelo a cuore, di starci più vicino per aiutarlo e ho cominciato dalla biancheria intima, spidocchiare, levare i pidocchi, perché lui non poteva vedere, non poteva farci niente. Dopo essere stato lì, dopo due o tre mesi circa, ci hanno portato al campo di Bolzano.

D: Scusa un attimo, quando tu parli delle carceri di Spezia e delle carceri di Marassi, di Genova, sempre gestite da fascisti?

R: Sempre gestite da tedeschi e fascisti. Tedeschi e fascisti.

D: Tu sei mai stato interrogato?

R: Sì, più volte. Anzi, devo dire questo, che ho subito un interrogatorio a Genova in cui mi hanno accusato di aver partecipato a delle azioni che io assolutamente non ho fatto, perché ero già in galera a La Spezia. Quindi era assurdo che io dovevo fare e sono stato accusato di aver fatto degli attacchi a queste colonne di tedeschi, in quanto io non c’entro.

Gli ho detto: “Ma se ero già sotto di voi, come faccio ad aver fatto queste azioni? E’ impossibile”. Però dopo nei corridoi, dopo i primi interrogatori, incontrai un certo dottor Valenti, che anche lui non aveva confessato perché diceva di no, però a forza di torture e botte è morto.

E’ morto dentro il carcere di Sarzana, dentro al carcere vicino. Ho avuto la sfortuna purtroppo di metterlo dentro la cassa io. Lui prima di morire mi dice: “Guarda di firmare e di’ ai compagni di firmare, perché tanto è meglio firmare tutto quello che dicono, perché altrimenti ti fucilano.

E’ meglio morire fucilati che per la tortura”. Allora io ho sparso la voce, firmate, non dite niente. Abbiamo firmato tutti i verbali, queste condanne a morte, fucilazione non eseguita. Poi ci hanno portato su al campo di Bolzano. Al campo di Bolzano…

D: Scusami se ti interrompo, ma da Genova al campo di Bolzano con cosa sei andato?

R: Con dei pullman, ammanettati uno con l’altro. Abbiamo fatto la tappa nel carcere di San Vittore a Milano, poi siamo arrivati a Bolzano al mattino verso le sei mi sembra, era d’inverno. Lì hanno cominciato a fare le pulizie, hanno tagliato i capelli, hanno messo tutto a posto, queste cose qua. Ci hanno messo al muro e tutto il giorno nudi contro al muro con quel freddo che c’era, con una coperta. Tutti contro il muro e tutti snudati, perché hanno portato a disinfettare i…

D: Ti ricordi che giorno era? O il mese?

R: Più o meno era forse febbraio, non so, verso il mese di febbraio.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: Tutti, nudi completamente. Siamo rimasti attaccati ai muri nudi e siamo rimasti là tutto il giorno così. Allora io ero giovane e ho resistito di più, ma qualcuno che era anziano andava anche in terra e non ce la faceva.

Erano pensieri brutti da pensare, anche per questi vecchi che proprio non ce la facevano a stare in piedi e crollavano, andavano in terra. Lì con questo mio amico, questo Morelli che me lo sono preso a cuore, l’avevo sempre vicino a me, ci hanno messo a dormire proprio vicino, a tu per tu.

Ho continuato sempre a dargli quella brodaglia che ci davano e a tenerlo lì, spidocchiarlo, a fare tutte queste cose. Se non che si parlava di queste cose. Venne però un giorno, quasi alla fine, il venerdì Santo. Però correva già la voce, qualche cosa, la Croce Rossa Internazionale, qualche cosa di cambiamento ci doveva essere in questo campo.

Questo mio amico mi dice: “Stai a sentire, c’è un cappellano che vuole fare la comunione domani mattina, io sono cieco, andiamo a fare la comunione”. Gli ho detto: “Stai tranquillo, io vengo con te e facciamo la comunione, domani mattina andiamo a fare la comunione”. Andiamo a fare la comunione, veniamo in blocco e alla sera quest’uomo mi dice: “Quanto pagherei, Aldo, per rivedere un po’, per conoscerti, vederti in faccia e vedere mia madre”. Nella nottata a questo ragazzo è ritornata la vista.

Allora lì c’era un certo professor Pirelli di Milano, c’era un professor Ferrari, che poi è diventato sindaco di Milano, c’era il dottor Campodonico, c’era un altro dottore di specie. Lì hanno fatto un po’ un colloquio, hanno fatto un po’ un consulto tutti insieme, perché gridavano al miracolo. Hanno deciso che c’era questo nervo ottico preso dal sangue che con questa fede, con questa cosa qua si era sciolto e gli era tornata la vista. Questa è la vita. Poi siamo ritornati al campo, a casa.

D: Aldo, ma quando sei arrivato a Bolzano, dopo che vi hanno tenuto in piedi per un giorno nudi, in che blocco ti hanno messo?

R: E, al blocco E, il blocco del triangolo rosso.

D: Avevi un numero di matricola?

R: Sì, adesso mi sembra 942, non mi ricordo bene di preciso. Ce l’ho a casa, ma adesso non mi ricordo bene il numero di matricola.

D: Ascolta, cosa facevate tutto il giorno nel campo?

R: Dentro nel campo assolutamente niente, perché eravamo in attesa per andare giù in Austria. Infatti, lì per due volte hanno tentato di metterci sui vagoni, ci hanno messo sui vagoni. Io ammanettato con questo ragazzo, questo Morelli sui vagoni.

Ci hanno portato sul Brennero per partire, eravamo su di là, se non che sono arrivati poi dei bombardamenti, noi eravamo dentro questi vagoni e tutto quanto. Lì dovevamo fare tutto addosso uno con l’altro, anzi avevamo scelto attraverso il professor Pirelli un angolo per andare a fare le nostre cose.

Figuriamoci questo ragazzo che dovevo farlo attraversare tra le gambe, perché eravamo a testa di pesce uno con l’altro, farlo passare per andare là. Eravamo tutti sporchi da cima a fondo come le cose. Poi non ce l’hanno fatta perché con questi bombardamenti le linee saltavano per aria, ci hanno riportato indietro. Hanno fatto la seconda volta, è successo altrettanto, non ce l’hanno fatta. Poi da lì il campo di Bolzano è passato campo fisso.

Allora al mattino ci portavano a levare le bombe, una parte andava a fare una cosa o l’altra finché è venuta la Liberazione e si viene a casa.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne?

R: Sì, era vicino a noi. Nel campo c’erano molte donne. C’era anche una di Spezia, una certa Righetti, c’era la Dora. Poi a parte che era passata, come dico, la mia presidente, sua sorella. Ce n’erano, ce n’erano tante.

D: Ti ricordi quando tu eri nel campo di Bolzano se hai visto anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, molti. C’era don Scappazzoni, mi sembra, di Carrara, che poi è venuto anche qui a Villa di Tresana a Spezia a fare il parroco. C’era anche quello che ci ha portato per fare la comunione nel nostro blocco, Don Spadoni. Me lo ricordo, perché poi è venuto a trovarci a casa a me e a Bettazzini, ci ha fatto festa, tutto quanto. Una bellissima persona.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Dei bambini li ho visti insieme alle donne, che allattavano anche, allattavano dei bambini, piccoli, molto piccoli. Vicino al blocco nostro c’era il blocco delle donne. Erano piccoli piccoli.

D: Aldo, ti ricordi com’era organizzato il campo?

R: Devo dire la verità, che il campo non l’ho conosciuto bene, perché eravamo sempre fissi dentro a questo blocco E, blocco recintato che non potevamo andare a contatto con gli altri blocchi, se non che poi al mattino venivano i tedeschi e ci portavano a lavorare e riportavano lì.

Quando poi è avvenuto che portavano via, io sono andato via col camion con la roba dentro e il campo l’ho conosciuto ben poco. Per dire la verità ho conosciuto solo quel posto, quel blocco lì, ma il campo non… So che dicevano che c’erano delle officine, che c’erano i falegnami che facevano dei lavori, ma io non le ho viste quelle cose.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle?

R: Sì, c’era anche la Mascagni. Mi ricordo la Mascagni, che era di Bolzano, che era la parte di là. Qualcuno che faceva qualche cosa andava lì, e lì soffrivano ancora molto di più di quello che non si soffriva noi. Il blocco celle sì, c’era.

D: E’ vero che avevate voi dei soldi che valevano per acquistare delle cose all’interno del campo?

R: Noi no, a noi lì dentro davano delle cose qualcosa che avevano di contrabbando, nel campo circolavano queste cose, ma questo blocco che era il blocco del triangolo rosso, era una cosa che qualcuno li poteva avere, ma la maggioranza no. La maggioranza senz’altro no, perché eravamo ristretti, rinchiusi dentro questo reticolato.

D: Tu o altri tuoi compagni di deportazione, quando eravate nel campo di Bolzano, avete potuto scrivere fuori dal campo o ricevere lettere o cartoline o pacchi?

R: Ricevere no, però qualcuno è riuscito o attraverso il treno o qualcuno a spedire delle lettere, qualche cosa che hanno buttato giù o hanno fatto avere qualcosa. Anche lì devo dire che un mio caro amico, un ragazzo di Valeriano, certo Chella Rino, ha scritto, è riuscito, una lettera è arrivata a casa ai suoi familiari. Lì c’era scritto, dice: “Mamma, io sto bene, sto partendo. A Genova Marassi ho incontrato Aldo”, che ero io, “e Aldo mi ha rifornito di materiale d’inverno, delle maglie da mettermi. State tranquilli. Mi ha dato anche dei soldini”. Siccome quando è andato via questo ragazzo da Marassi, io avevo qualche cento lire, non fumavo, non mi servivano a niente, li ho dati a lui. Avevo un po’ di pane perché, come ripeto, a Genova io ero lì, glielo ho dato.

Ero riuscito ad avere delle maglie, degli indumenti, sono andato da questi parroci che ce n’erano una decina di Spezia e si sono levati i loro indumenti, li hanno dati a me per darli a questo ragazzo, perché lo vedevano che era vivo e che era nudo. Di questo devo ringraziare padre Pio, che poverino dalle botte aveva il vestito bianco che era più rosso che bianco. Tutti, li hanno picchiati a morte tutti. Dieci parroci, tutti e dieci dentro nella cella.

D: Ma questo dove, Aldo?

R: A Marassi a Genova. Quando ha scritto questo ragazzo da Bolzano, che ha buttato giù, ha messo appunto che ha incontrato me a Genova e io ritorno indietro e devo dire che a Genova ho fatto questo lavoro a questo ragazzo. Mi sono rivolto a questi preti, a questi qua e loro mi hanno aiutato un po’ per uno, mi hanno fatto un fagotto di roba per dare. E loro continuavano, erano lì e sono rimasti fino alla Liberazione. Però devo dirti che hanno sofferto, sofferto come in un campo di concentramento e forse anche più, perché erano a rischio lì, erano a rischio di morire. Era tutta una cosa così.

D: Aldo, allora, tu dicevi, nel campo di concentramento a Bolzano dopo il tentativo di portarvi nei campi d’Oltralpe vi mandavano fuori a lavorare.

R: Sì.

D: Ti ricordi tu in che posti andavi?

R: No, proprio no. Io so che andavo a levare delle bombe, mi dicevano, durante la ferrovia, durante le cose. Andavamo lì, si levavano le bombe, poi si ritornava alla sera dentro, mattina là. E’ durato un po’, poi basta. Altri li portavano dalle altre parti. Quattro o cinque di qua, quattro o cinque di là, li portavano un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Bolzano poi è diventato un campo fisso e questo campo poi l’hanno destinato ad andare a lavorare, una squadra da una parte e una squadra dall’altra.

D: Ti ricordi qualche SS del campo?

R: Devo dire che ce n’era uno che era fetente, veramente fetente, perché anche lì cappello su, cappello giù. Allora quando entravi, perché bisogna dire la verità, quando entravi nel blocco picchiavano sempre, erano lì coi manganelli e gli ultimi a entrare li picchiavano, sia che facevi presto sia che facevi tardi. Anche lì onestamente parlando, io avevo vent’anni, ero sempre uno dei primi ad infilarmi dentro, non ne prendevo mai.

Ma i vecchi erano sempre quelli che le prendevano, erano sempre i soliti, io mi ricordo. Cappello su, cappello giù, poi tutti dentro e io anche lì un po’ di fortuna ho avuto, perché m’infilavo dentro. Vent’anni allora erano tanti, erano buoni per affrontare quelle cose lì. Però i vecchi no.

D: Tu sei mai stato testimone di atti di violenza?

R: No. Direi di no.

D: Parlo del campo di Bolzano.

R: Sì, sì, sì.

D: I due ucraini, tu li hai conosciuti?

R: Lì li ho conosciuti, erano lì, c’erano, esistevano, ma adesso mi dice…più o meno, esistevano, c’erano, so che picchiavano. Hanno portato lì uno che ha fatto un tentativo di fuga, l’hanno ucciso, ce l’hanno portato lì davanti a noi, ce l’hanno messo lì davanti per farci vedere che non bisogna scappare, tutte queste cose. Se erano di qua o erano di là io non lo posso dire.

D: E quella che chiamavano “la tigre”, tu te la ricordi?

R: La tigre la chiamavano “la Titti” mi sembra di nome, era la segretaria del comandante, Titho, perché lì che comandava era uno della SS tedesca che era Titho. Mi sembra per sentito dire degli ultimi giorni che questa gli faceva un po’ da segretaria e si chiamava Titti. La chiamavano la Titti.

D: Aldo, quando tu andavi fuori a lavorare lì dal campo di Bolzano a spostare macerie o a spostare bombe, cose di questo genere, incontravi dei civili?

R: Sì, però ti guardavano male, o forzatamente o no. Qualcuno cercava anche di buttarti una mela da buttare là, ma pagavano loro, perché i tedeschi picchiavano loro là, quindi rischiavano. Qualcuno c’era, però era così.

D: All’interno del Lager di Bolzano i deportati avevano costituito un gruppo di liberazione, un comitato di liberazione?

R: In fondo, nell’ultimo sì, negli ultimi giorni era subentrato, un po’ c’era questo. Infatti, a me un certo Battolini di La Spezia venne, mi ha dato un tesserino e mi ha nominato capo squadra quando si doveva partire. Perché quando siamo partiti, perché la guerra non era ancora proprio finita, io poi a Trento mi sono arruolato nei partigiani, sono ritornato.

Lui è venuto a casa, Morelli ha camminato là. Io sono andato, invece, di nuovo coi partigiani, sono rimasto lassù. Lì c’era un comitato che aveva da fare anche lì l’avvocato Ducci. A quanto avevo capito che collaborava molto dall’esterno era allora l’ostetrica del Comune di Bolzano, per quanto sentivo dire c’era l’ostetrica del Comune di Bolzano che aiutava e faceva qualche cosa, esisteva. Ma nell’ultimo.

D: Aldo, il momento della Liberazione. Tu dove ti trovavi?

R: Dentro al campo.

D: Cosa è successo?

R: E’ successo che hanno dato un tesserino, una parte sul camion, una parte a piedi. Noi siamo arrivati un po’ col camion, un po’ a piedi, poi ci siamo affacciati in piedi. Io sono arrivato a Trento, a Trento ci hanno portato dentro, io sono andato dentro dai preti. Abbiamo chiesto e loro ci hanno indirizzato bene, perché lì ci hanno arruolato di nuovo coi partigiani. Abbiamo passato sette, otto giorni, la Liberazione di Trento l’abbiamo fatta noi là dentro.

D: Quando tu sei stato liberato da Bolzano? Te lo ricordi?

R: Adesso non mi ricordo la data, tutti insieme non mi ricordo la data.

D: Da chi sei stato liberato? Sono stati i tedeschi a lasciarvi andare?

R: Il campo ha dato un tesserino di viaggio, di uscita dal campo, hanno dato questo e hanno mollato. Poi hanno messo dei camion a disposizione, qualcuno è andato a piedi e ci hanno mollato come pecore, come…

D: Dopo Trento tu sei arrivato a Spezia?

R: Dopo Trento poi a piedi, un po’ un camion, un po’ di qua, un po’ da una parte, un po’ col carro, una cosa e l’altra sono arrivato a Spezia. Alla bell’e meglio sono arrivato a Spezia.

Balboni Ferdinando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.

Rudolf Maria

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Rudolf Maria, sono nata a Gorizia il 17 agosto del 1926.

Quando ero piccola, ci siamo trasferiti a 35 km di distanza da Gorizia verso il confine dell’allora Iugoslavia. Lì ho vissuto per sedici anni e lì sono stata arrestata.

D: Scusa, Maria. Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato i tedeschi perché io ero corriere dei partigiani e sono stata denunciata dai paesani.

Mi hanno portata nelle carceri di Gorizia e lì sono rimasta per tre mesi.

D: Quando? Ti ricordi la data?

R: Il 12 aprile del 1944.

D: Chi ti ha interrogato?

R: I tedeschi.

D: Nelle carceri di Gorizia.

R: Nelle carceri di Gorizia.

D: E cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere delle organizzazioni ecc., ma io ho fatto finta di non sapere assolutamente niente, perché i nomi dei partigiani erano tutti nomi di battaglia ed erano organizzati in maniera che non potevano dimostrare che io sapessi qualcosa.

Comunque, nonostante l’età, io devo congratularmi con me stessa perché non ho mai detto niente.

D: Hai subìto anche delle torture?

R: Se non avessi riconosciuto, no, non è giusto. Ho riconosciuto.

Se avessi detto che io non ero il corriere dei partigiani, sicuramente mi avrebbero torturata, ma io non potevo negarlo perché lì c’erano dei testimoni che mi hanno denunciato e non potevo smentire.

D: Nelle carceri, quanto tempo sei rimasta?

R: Sono rimasta tre mesi a Gorizia e dopo il processo mi hanno portato al Coroneo, nelle carceri di Trieste.

Il 12 settembre del 1944, con un carro bestiame, mi hanno portata ad Auschwitz.

D: Eri da sola o c’erano anche delle tue compagne?

R: C’erano tante mie compagne perché le conoscevo già in carcere a Gorizia e poi ci siamo ritrovate a Trieste e da Trieste ci hanno portato in questo campo di concentramento di Auschwitz.

D: Scusa, Maria, ti ricordi dal Coroneo al carico del Transport, dove vi hanno portato?

R: Non ci hanno mai detto niente, perché loro facevano tutto senza che noi sapessimo qualcosa.

Quando sono arrivata ad Auschwitz, mi è venuto un colpo perché sentivo qualcuno che mi chiamava ma non riconoscevo nessuno e poi sento: “Maria, Maria, sono io, non mi riconosci?”.

Le mie compagne che erano partite prima di me, erano già ridotte a delle larve.

Io non le ho riconosciute.

E poi la cosa che più mi ricordo e che più mi è rimasta impressa è quando mi hanno fatto spogliare tutta davanti ai tedeschi, io avrei preferito essere morta in quel momento, perché avendo vissuto in un paese, senza avere visto prima un cinema, qualsiasi cosa, per me era talmente da morire di vergogna, dovermi spogliare davanti a tutti.

Poi ci hanno dato un vestito, quello che capitava, un paio di zoccoli di legno, tipo olandese, e niente altro.

Ci hanno tagliato i capelli, portato via tutto quello che avevamo con noi, che poi non era molto. Ci hanno raggruppato in una baracca dove non si poteva stare seduti così come sto adesso seduta io. Era tanto basso, chiamiamolo il tetto, che dovevano stare seduti così.

Dunque immaginate quale tortura per noi a diciotto anni.

E la notte si dormiva in otto in un piccolo spazio, dove per rimanere tutti dovevamo avere uno la testa qui e uno la testa dall’altra parte, altrimenti non ci si stava.

Alla mattina dovevamo spogliarci completamente nudi e fare l’appello davanti alla baracca, che poi era già autunno, i primi di ottobre e faceva freddo.

In una di queste mattine, ricordo che passava davanti a noi un camion che al momento non sapevamo cos’era e poi ci siamo accorti che era un camion pieno di cadaveri nudi, perché quando si stava all’appello, di tanto in tanto qualcuno cadeva a terra, e lo raccoglievano e lo portavano nel forno.

Tutte le mattine dovevamo stare così in piedi nudi per diverse ore.

Ci davano un mangiare che io definirei per i maiali e una sola volta al giorno e se tu non avevi una bacinella, qualcosa del genere per mettere dentro questa minestra, rimanevi anche senza quella.

Io ricordo che per la gran fame mi rotolavo sotto il reticolato di ferro, di filo spinato, per andare a mangiare quel poco che rimaneva alle persone ammalate di tifo.

Io rischiavo la vita, ma la fame era tanta che non ci pensavo due volte e c’era una specie di baracca che fungeva da ospedale e lì c’erano queste persone che non riuscivano più a mangiare perché erano mezze morte.

Io andavo a raccogliere gli avanzi di quelle persone.

D: Scusa, Maria, il viaggio da Trieste ad Auschwitz quanto è durato? Te lo ricordi?

R: E’ durato parecchi giorni, ma io non saprei dire con esattezza quanti.

D: Eravate in tanti, nel tuo vagone?

R: Eravamo in tanti e quando siamo arrivati ad Auschwitz, io ho riconosciuto una persona ebrea che invece lei non conosceva me, e c’era anche il suo nipotino.

Quella volta, io avrei preferito…, peccato che non gliel’ho detto che la conoscevo ecc. perché quando sono ritornata da Auschwitz, ho raccontato di avere visto questa signora con il nipotino e il figlio di questa signora è venuto da me a chiedermi cosa so di preciso.

Mi è dispiaciuto tantissimo perché non potevo raccontargli niente più del fatto che l’avevo vista e basta.

Perché io ero tanto convinta del fatto che non sarei ritornata a casa, che non valeva la pena di dirle che la conoscevo.

D: Scusa, Maria, quando tu parli di Auschwitz 1 o di Birkenau?

R: Proprio Auschwitz 1.

Io sono rimasta lì ma soltanto 40 giorni…

D: Hai detto che quando sei entrata vi hanno fatto la spogliazione…

Vi hanno dato dei vestitacci…

R: Quello che capitava…

D: Senza biancheria intima…

R: Senza biancheria intima…

D: L’immatricolazione, quando ve l’hanno fatta?

R: Quando ci siamo spogliati in fila, tutti quanti, ci hanno fatto il numero che io da quel momento sono diventata un numero, non più un nome e cognome, un numero.

D: Il tuo numero qual è?

R: Il mio numero è 88.492.

D: Ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì, io sul vestito avevo un triangolo rosso “IT” che significava “italiana”. Gli ebrei invece avevano un triangolo giallo che non ricordo bene se era una stella.

D: Quindi tu sei rimasta ad Auschwitz 1 per quaranta giorni?

R: Per quaranta giorni.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No.

D: Non te lo ricordi.

R: No, perché non siamo rimasti sempre nello stesso blocco, ci hanno trasferito più volte.

Per questo quando si rischiava di rimanere senza bacinella per il mangiare non mangiavi proprio.

D: Dovevi digiunare?

R: Eccome. Io ho visto episodi terribili di questa fame perché lei sa quanta fame si ha a diciotto anni e poi c’erano anche persone già molto ammalate che finivano lì, come avevo già detto, in questo ospedale. E io andavo lì sperando di trovare qualcosa.

D: Hai detto che hai visto quella signora ebrea con il nipotino.

Hai visto altri bambini?

R: No, perché lei è partita proprio con il mio trasporto, per cui l’ho vista lì quando ci dovevamo spogliare e ho visto quanto era dispiaciuta a doversi svestire davanti al suo nipotino.

D: Nel tuo trasporto non ricordi i numeri, quanti eravate più o meno?

R: No, perché eravamo in diversi vagoni e poi io ero così disperata, che non mi interessavo di niente.

D: In questi 40 giorni che sei rimasti ad Auschwitz 1, cosa hai fatto?

R: Praticamente non ho fatto niente, perché loro già preparavano dei trasporti, dopo la quarantena per portare quelle persone che erano ancora in grado di lavorare più verso il centro della Germania.

E a me, dopo quaranta giorni, con questo trasporto mi hanno portato a Plauen, in una città che si chiamava Plauen e ci hanno sistemati in una fabbrica di lampadine.

Lì, il mangiare era pochissimo. Non solo, dovevamo fare dei turni di lavoro anche la notte e poi c’erano bombardamenti in continuazione.

Io, oltre al ricordo della fame, ricordo quanto bisogno di dormire avevo.

Io ero stanca da morire, un po’ forse per la debolezza perché non si mangiava, ma soprattutto perché non c’era mai pace: o si doveva lavorare o c’erano i bombardamenti e bisognava correre in rifugio.

Insomma ho dei ricordi tremendi. E non bastava tutto questo, ma tante volte ci mettevano in fila per qualsiasi sciocchezza e dovevamo stare lì, non solo in piedi per delle ore, ma dovevamo anche cantare.

D: Cantare cosa?

R: Mi facevano cantare l’Ave Maria di Schubert. E poi tutte le altre facevano il coro.

Si figuri come lo potevamo cantare, così deboli, stanchi e soprattutto umiliati in tutte le maniere, quanta voglia di cantare avevamo.

D: Ascolta, Maria, quando hai lasciato Auschwitz 1 per quella fabbrica lì, quel sotto campo lì, tu hai passato una selezione?

R: Era questo il loro… Quelli che si presentavano ancora in grado di lavorare andavano da una parte e gli altri dall’altra. Tanto è vero che due persone che io conoscevo sono partite con me, sono rimaste lì dopo di me, perché erano intanto più anziane, e poi deboli, da non potere lavorare.

D: E sono rimaste al campo queste?

R: Sono rimaste al campo e so che una di queste persone non è mai tornata a casa. Per la seconda, a dire il vero, non lo so.

D: Quando tu hai lasciato il campo c’erano anche altre tue compagne con te?

R: Sì, diverse. Perché noi, in 40 giorni abbiamo sì sofferto la fame, ma non ci siamo ridotte ancora a degli scheletri.

La maggior parte delle mie compagne è venuta con me in fabbrica.

D: Lì, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Noi eravamo lì, segregate nella fabbrica. Si dormiva lì, si mangiava e si lavorava.

Io non sono mai uscita da quella fabbrica fino all’aprile del 1945, quando hanno bombardato la nostra fabbrica abbiamo dovuto abbandonarla perché non si poteva rimanere lì e non avevano più dove portarci, era distrutto completamente tutto e queste persone che si sono ammalate in fabbrica dovevamo portarle noi, si figuri con quale fatica.

Perché già noi eravamo tanto deboli che portare anche queste persone ammalate era una tale fatica, impossibile da sopportare. Non ce la facevamo proprio.

Poi, quando hanno buttato via un po’ di detriti, ci hanno ributtato nella fabbrica sotto il sotterraneo.

E da lì io e quattro mie compagne siamo scappate.

Siamo scappate in un bosco, e lì ci siamo preparate un letto di rami di alberi, e siamo rimaste lì per quattro giorni, però poi la fame era all’estremo, eravamo all’estremo delle forze.

Sapevamo che vicino alla nostra fabbrica c’erano degli italiani che però non erano prigionieri come noi, ma erano lavoratori.

Così, io e un’altra mia compagna, pur essendo vestite da prigioniere con il vestito a righe e sulla schiena un “KL”, abbiamo rischiato perché dovevamo o morire di fame o fare qualcosa.

Siamo andate da questi italiani che poi c’era anche un triestino tra di loro e loro ci hanno dato non solo da mangiare, adesso io non ricordo bene che cosa, ma qualcosa da mangiare e ci hanno consigliato di andare almeno sotto un ponte per non essere bagnate e per ripararci un po’.

Questo ponte non era molto lontano e comunque ormai c’era tanta confusione, che nessuno ci badava più.

Anche se eravamo vestiti da prigionieri, nessuno ci guardava, nessuno ci ha mai fermati comunque siamo arrivati il 25 aprile e sono arrivati gli americani.

Lì, loro ci hanno messo in una baracca e hanno cercato di curarci alla meglio.

Comunque sono morte tante mie compagne anche dopo, perché ormai erano così rovinate, così esaurite che non ce la facevano più.

Siamo rimaste lì un paio di mesi e poi sono arrivati i russi.

Siamo partiti da lì, in luglio, non saprei dire il giorno preciso, e siamo rimasti in viaggio per un mese intero. Era tutto distrutto: le ferrovie… Sono tornata a casa il 12 agosto del 1945, quando nessuno si aspettava più di vedermi.

D: E che giro hai fatto per arrivare in Italia?

R: Addirittura siamo passati per l’Ungheria: Budapest, però noi non abbiamo mai visto niente perché noi dovevamo rimanere lì altrimenti non avevamo altri mezzi per tornare a casa. Poi Ungheria, Iugoslavia, poi Postumia e io sono tornata a casa finalmente, il 12 agosto del 1945, cioè tutti quei mesi dopo la fine della guerra.

D: Maria, tu quando eri ad Auschwitz e poi lì nella fabbrica, dicevi che eravate molte donne…

R: Tutte donne, solo donne.

D: Come vi hanno risolto il problema delle mestruazioni?

R: Non avevamo le mestruazioni, o ci davano qualcosa, o a causa di questa fame non avevo mestruazioni, tanto è vero che ero terrorizzata all’idea di non potere averi figli perché dicevano che eravamo rovinate, che non potevamo avere figli. Invece non era così, io ne ho avuti tre.

D: Quando eri ad Auschwitz o in fabbrica, soprattutto in fabbrica di lampadine, c’erano anche dei civili con voi a lavorare ?

R: Soltanto il nostro capo, era un tedesco perché si vede che era stato ferito in guerra, non era in grado di camminare e lui era il nostro capo.

D: Quando ti hanno portato in fabbrica, ti hanno cambiato il numero di immatricolazione?

R: No, è rimasto sempre lo stesso.

Io adesso non ricordo tanto bene se lì avevamo un altro numero in fabbrica, ma se ce l’avevamo non è che ce l’avevamo tatuato, può darsi, non ricordo proprio che se l’avevamo, l’avevamo sulla veste, ma non ricordo bene.

D: Lì, in fabbrica facevate degli appelli?

R: Tutte le mattine si faceva l’appello, come in campo di concentramento.

D: Ti ricordi se nel campo ad Auschwitz 1 hai visto anche dei religiosi?

R: No.

Perché noi lì eravamo segregate in questa baracca e lì non ci si poteva muovere. Noi non avevamo la possibilità di poter girare e andare da una fabbrica all’altra. Dovevamo stare lì, sedute come le ho già raccontato in quella maniera e poi quando, alla mattina, c’era questo appello che bisognava stare lì delle ore, poi fino all’ora di pasto, eravamo lì seduti come le avevo fatto vedere, senza poterci muovere, senza poter camminare e andare da un posto all’altro.

D: Scusa, Maria, un’altra cosa, quando eravate in fabbrica, o anche nel campo, tu sei mai andata all’infermeria?

R: Sì, ma avevamo tutto in fabbrica, c’era una stanza che fungeva da infermeria.

Io avevo un eczema terribile.

Ho cominciato con un pochino all’orecchio e poi avevo mezza faccia completamente rovinata da questo eczema.

Addirittura mi scolavo questo liquido.

E avevo paura di rimanere così, con la faccia sfigurata per tutta la vita e invece con delle pomate mi è un po’ migliorata.

Però, quando sono ritornata a casa avevo un po’ di eczema non soltanto sulla faccia ma anche sul seno e quello mi è durato per un anno ancora, perché dicono che è la mancanza di vitamine, non so cosa bisognava fare per aiutare.

Quando sono tornata a casa, in farmacia mi hanno dato l’olio di fegato di merluzzo, che però non mi è servito.

Poi invece con una pomata per l’eczema, ma ci sono voluti due anni prima che guarissi completamente.

D: Ad Auschwitz non sei più ritornata?

R: No. Ho visto un film su Auschwitz, ho pianto tutto il tempo del film, e non era tanto brutto quanto quello che ho vissuto io.

Mi viene un nodo alla gola se penso a quello che ho passato a diciotto anni.

Non solo tutte le umiliazioni, la fame.

Io adesso ho una nipote della mia età, dell’età di quando io ero in prigione, penso se lei dovesse passare quello che ho passato io.

Mi dispiace che i giovani non sanno che godono della libertà che abbiamo loro procurato noi, con tante sofferenze.

D: Maria, tu non hai mai testimoniato?

Non sei mai stata intervistata?

R: No, non vorrei esserlo.

Io volevo dimenticare a tutti i costi questo, non è così, purtroppo, le guerre continuano.

Lei non sa cosa ho sofferto adesso quando c’era questa guerra nel Kosovo perché mi ricordava tutto quello che ho passato io, che poi le guerre non risolvono mai niente.

D: Ma è importante che i giovani conoscano la tua testimonianza.

R: Guardi, io spero che non succedano mai più di queste cose, e non ho mai parlato con i miei figli, però li ho educati al rispetto di tutte le persone, indifferente il colore della pelle e della religione, perché soltanto chi ha provato e visto quello che ho provato io, non potrà mai essere un razzista.

Bisogna viverle certe cose per sapere cosa sono in realtà.

Jerman Ada

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Ada Jerman, sono nata a Trieste, sono di famiglia slovena, sono nata nel 1926, precisamente il 6 ottobre.

Nel ’43 mi è morto il papà e noi, io, mia madre e mio fratello, essendo anche in condizioni economiche precarie, non c’era nessuna entrata, siamo andati ospiti dai parenti di mia madre nel goriziano, perché mia madre appunto è goriziana di nascita, di famiglia contadina.

Siamo stati ospitati in casa di una zia, mio fratello in casa di uno zio, e mia madre in casa di un’altra zia, un pochino sparsi ma uniti nello stesso tempo.

Dopo l’8 settembre immediatamente, come per incanto, ma come per incanto ancora oggi mi chiedo come e quando era tutto quanto preparato, ad un certo momento si sono visti i primi… C’era un fuggi fuggi, il comune, il comune di Castel Dobre in questo caso, è stato lasciato libero, i funzionari che c’erano erano scappati. Dunque tutto questo dal primo settembre era una cosa già preparata, forse io come ragazzina e tanti altri non sapevamo che questo fosse stato già preparato in anticipo. Ed è evidente che era preparato in anticipo, il malcontento e tutto quello che è successo, che poi dai libri di storia lo si sa ancora meglio.

Dunque, in quel momento subito dopo l’8 settembre si sono presentati come per incanto i partigiani. I partigiani con la stella rossa, con… non si può dire una divisa, ma quelli che avevano avuto la fortuna di avere delle divise militari. In quel momento si sono manifestati i partigiani. Si sono manifestate anche delle persone civili e si cominciava ad avere dei meeting, così detti, quella volta si diceva meeting. Naturalmente era un’insurrezione praticamente, io direi un’insurrezione.

Ma l’entusiasmo che la gente aveva, e non parliamo dei giovani poi, sapendo che i tedeschi ed i fascisti, nota bene là erano i civili che dirigevano il comune, le scuole ecc…, erano i fascisti italiani. A questo punto per me era incominciato il movimento di liberazione, anche se evidentemente preparato prima.

Da quel momento specialmente noi giovani con la direzione delle persone più preparate cominciavamo ad organizzarci per la resistenza. Resistenza erano anche le cose più piccole, più modeste, non resistenza solo quella di andare in montagna, di sparare, di avere dei collegamenti con i militari ecc… La resistenza era tutto ciò che poteva nuocere ai tedeschi occupatori. Ciò vuol dire che da quel momento anche una piccola informazione poi, diciamo così, operava come un tam-tam. Anche con i bambini più piccoli: dalle collinette si vedeva arrivare una colonna di tedeschi, nota bene che subito dopo l’8 settembre, dopo un momento di incertezza anche da parte dei tedeschi si erano manifestati i tedeschi, con la massima ferocia. Ho detto bene ferocia, giusto. Ecco, si erano manifestati.

Allora io ancora oggi mi domando come era nata questa spontaneità, questa spontaneità di tutti quanti. Tutti quanti. Non bisogna dimenticare che quella parte del Collio era di popolazione slovena, era ed è tuttora perché adesso è anche divisa dai confini: una parte è rimasta sotto l’Italia ed una parte è andata oggi come oggi alla Slovenia.

Dunque in questa maniera io ho cominciato con mia cugina, eravamo in casa giovani. Ho cominciato a collaborare in tutti i modi, in tutti i modi, facendo la staffetta, andando ad informare di tutto quello che si sapeva; tutto era collegato, eravamo collegati l’una all’altra, non c’era uno solo che lavorava. Io per esempio portavo qualche cosa ad una persona e sapevo che quella la portava avanti fino ai vertici che dovevano saper operare.

Questo era l’inizio.

In concreto sono stata presa così. Siccome ho detto che noi avevamo questa casa abbandonata, la mamma era abbastanza malata e c’era questa mia zia che la curava, di tanto in tanto si veniva a Trieste per vedere se la casa fosse aperta. Era una casetta, ancora adesso esiste la nostra casetta. Così venivo di tanto in tanto, ed avevo anche in queste occasioni da parte di queste organizzazioni giovanili il compito di portare quello che si poteva. Andavi in farmacia e se vedevi che ti davano di più garze le dovevi comprare, qualunque cosa poteva venire buona, anche noi in casa si facevano i biscotti, in casa, proprio in casa di mia cugina. Allora si faceva alla sera, magari andavano a dormire i genitori e noi si facevano i biscotti, il pane biscottato. Si faceva il pacco e si mandava su perché questo era per i partigiani feriti, per gli ospedali, organizzati come si poteva.

Per ritornare al punto concreto, come e quando, io sono venuta un giorno a Trieste, era circa prima della festa dei morti ad ottobre. Vengo a Trieste e nel mio rione con molta circospezione parlavo con i miei amichetti, amici di diciassette, diciotto, diciannove anni. Però pensavo che fosse quasi un mistero, invece anche qui era già tutto…

Difatti ho saputo che l’amico Attilio era andato con i partigiani. Poi mi rivolgo ad una amica, una certa Ninfa, che da poco tempo è anche morta; era impiegata al cantiere o alla fabbrica macchine, non saprei dire esattamente, comunque uno di questi due stabilimenti a Sant’Andrea. Lei era impiegata. Dico: “Sai, io dovrei portare qualche cosa, sono qui per casa, privatamente dico, ma dovrei portare quello che posso o devo racimolare qui, carta per ufficio, carta carbone, bende, garze, tutto quello che poteva servire diciamo ai partigiani, alle formazioni partigiane”.

Per lei non era un mistero, ho capito subito che già in fabbrica lavorava il movimento clandestino.

Allora ho detto: “Senti, tu, così che sei là, potresti procurarmi qualcosa di cancelleria?” Mi interessava. Ha detto che avrebbe fatto il possibile. Difatti la Ninfa mi ha portato non una risma completa ma una mezza risma di carta ciclostile che io, nota bene, sempre lo ripeto, non sapevo neanche che fosse carta ciclostile, dico la verità, non sapevo. Io d’altra parte mi ero procurata, pagando anche di tasca mia, della carta per dattilografia, carta semplice, quello che c’era.

In poche parole io avevo in una sporta questo materiale, parte comperato, parte ricevuto da Ninfa, carta ciclostile. Poi c’erano delle bende, della tintura di iodio.

Ecco, io avevo nella sporta tutte queste cose; sapevamo da noi che dovevamo portare, fare qualcosa per il movimento.

In quest’occasione voglio ribadire anche questo: non era solamente che ti davano un ordine perché tu facevi parte di quell’organizzazione o come volevi dirla, ma era veramente che sentivamo in blocco, in massa, di lavorare. Lo ribadisco sempre più di ogni cosa; poi certamente altri avevano anche compiti molto più impegnativi, compiti di direzione, come vorrei dire, ma eravamo tutti compatti. Perciò io dico la verità, non ero un eroe ma facevo parte di quella massa, di quel mosaico, potrei dire un mosaico di quello che era tutto contro il nazifascismo. Ed io questo ribadisco, e sottolineo, contro il nazifascismo.

Ritornando da Trieste quel giorno mi ero fermata con la mamma, perché la mamma era molto malata quella volta, mi sono fermata a Cormons perché là c’era la stazione ferroviaria, poi si prendeva la strada a piedi per andare verso il Collio. Per Cormons mancavano ancora forse uno o due chilometri, si poteva andare, era popolata, dopo di che c’erano già le tabelle “Achtung Banditen”, non so se ci fosse qualche parola in più, non mi ricordo, ma questo “Achtung Banditen”, la zona dei banditi. Anche qua li si chiamava o ribelli o banditi, no? Ma adoperavamo molto anche la parola “ribelli”, i ribelli partigiani.

Ecco, in quel momento c’era una pattuglia di SS e mi ci sono imbattuta, non solo io, ma tutti quelli che andavamo verso quella zona, ed eravamo diverse persone, anche del Collio. La cittadina dove andavano a comperare qualcosa era Cormons, nella parte sud occidentale del Collio. Là era una zona molto ben organizzata, e c’era una zona anche di operazione, là si combatteva o si facevano operazioni militaresche, non so come dire, sempre partigiane, anche tra i partigiani italiani ed i partigiani garibaldini. Era un incontro molto ben riuscito e con una collaborazione ottima direi. Ma a questo anche dai libri di storia del movimento si può risalire.

Bene, niente; a questo punto ci portano tutti in caserma, in una piccola caserma a Cormons, dei carabinieri, e questo ci tengo a dirlo: ci rinchiudono, ci consegnano ai carabinieri, ci hanno richiuso, a me ed alla mamma ci hanno separate con la raccomandazione ai carabinieri di non aprirci e di non metterci in contatto. Però tengo a dire che i carabinieri appena erano usciti i tedeschi delle SS avevano chiuso dietro la porta e ci avevano lasciati liberi. Bisogna dire la verità, eravamo in sette persone, se qualcuno suonava andavano a vedere e ci rinchiudevano. Questo lo devo dire anche ad onore della nostra gente italiana, era evidente che a loro i tedeschi non piacevano. Questo tengo a dirlo, sì.

Niente, mi sembra che era una settimana circa in cella dei carabinieri, invece il bello venne dopo, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo state rinchiuse: una vera prigione, c’erano molte e molte persone, molte specialmente ragazze sempre dei dintorni della parte goriziana, e là la prima cosa è l’interrogatorio.

L’interrogatorio era con un interprete sloveno-italiano, e devo dire tutto quello che mi è successo. Loro volevano a tutti i costi sapere per chi lavorassimo. Facevo finta, cascavo dalle nuvole, dicevo di non lavorar per nessuno, e naturalmente tiravo fuori, come era vero, anche la storia anche della mia famiglia, come siamo dovuti venire via e avanti. Tiravo fuori la questione che non esisteva più il comune, ma che c’era il prete. In questa maniera io giustificavo che questo materiale che ho, in fondo in fondo fosse per la parrocchia perché non esisteva più il comune. Ad un certo punto l’avranno anche creduto, ma quando era venuta fuori la questione del ciclostile quella me l’hanno sbattuta in faccia.

Ma io torno a ripetere, non avevo pensato, non sapevo neanche, quando la Ninfa mi portò questo ciclostile; c’erano delle gomme mi sembra ed anche delle matite se non mi sbaglio, quello che aveva potuto arraffare, diciamo così. Me l’hanno sbattuto in faccia: “Ma questo tu lo sai, tu lo sai questo, sai che c’è la propaganda, noi sappiamo tutto”. Allora cominciavano a terrorizzarmi: “Noi sappiamo tutto di te, delle famiglie”. “Ma sì, va bene, sapete tutto e so che sapete”. Insomma, mi arrangiavo abbastanza a cercare di giustificarmi più o meno, ma sempre così, con questa del prete che fa ridere anche adesso, dico ma come è che mi è venuta in testa quella del prete? Il prete era anche per noi quel prete che era lassù.

A questo punto mi hanno dato uno schiaffo. Casco da una parte, ritorno su e me ne danno un altro. Questi erano i due schiaffoni che ho ricevuto, che mi hanno fatto…

D: Scusa Ada, quando è accaduto questo?

R: Questo è accaduto gli ultimi giorni di ottobre. Gli ultimi giorni di ottobre, primi di novembre, adesso…

D: Di che anno?

R: ’44. Ecco, ho fatto un paio di giorni nelle carceri di Gorizia, la mamma fortunatamente l’avevano lasciata fuori: mia madre stava appena in piedi, era abbattuta dalla morte di mio padre, ma poi anche… è stata una fortuna che se la sia ripresa questa mia zia.

La mamma l’avevano lasciata fuori, poi i parenti mi avevano contattato: c’era un’infinità di parenti che venivano a portare qualcosa da mangiare, che poi ci portavano le suore, e così avanti. Ma il 1. novembre, no il 2 novembre, al 6 siamo arrivati in Germania, non mi ricordo esattamente se era il 2 o il 3, comunque alla sera venne una suora nella stanza, nella cella che era abbastanza grande, con una lista e disse: “Per domani mattina preparatevi, queste partono”. Ero anche io con queste.

Naturalmente noi eravamo convinte di andare a lavorare, in una fabbrica, non saranno le baracche. Si sapeva che c’erano le baracche dei civili che lavoravano, e questa per noi era già la prigionia, diciamo così, se vogliamo dirlo.

Mai e poi mai avremmo potuto immaginare qualcosa di più tremendo. Tutte quante, ognuna come poteva, aveva qualcosa di caldo, di indumenti caldi, tutti cercavano in qualche modo i genitori, i familiari, e tutti avevamo la nostra valigia. Mi ricordo un vestito caldo di mia madre e l’ultimo momento prima di andare fuori dalla cella mia mamma si era presa dalla mano un anello di fidanzamento di mio padre e me l’aveva dato, dicendo: “Non si sa mai”. Probabilmente lei aveva più esperienze ed ha pensato che con un pezzetto d’oro… Ecco, mi aveva dato quell’anellino. Io di oro avevo solamente quell’anellino che mi aveva dato la mamma all’ultimo momento e gli orecchini che avevo da bambina; addosso non avevo altro perché non ne avevamo, per dire la verità.

Siamo partiti. Io sono partita da Gorizia con il carro merci, prima su un torpedone militare mi sembra fino alla stazione e poi con il carro merci, carro bestiame. Ci siamo collegati, ci siamo incontrati con il carro che veniva da Trieste. Ma noi del goriziano eravamo nel nostro carro, erano due questi carri.

Così al 6 dicembre, dopo peripezie, quattro giorni di viaggio tra fermate, poi ci hanno dato… Qua ancora erano un pochino questi che ci accompagnavano, che poi c’erano questi delle Brigate Nere, italiani, che ci accompagnavano. Ci hanno fatto anche scendere mi sembra ad Udine, c’era un bar, non so se era della stazione, non mi ricordo più esattamente. Ci hanno dato un the o qualcosa.

Poi ci si doveva fermare perché c’erano i bombardamenti durante il tragitto, e so che ci si fermava su dei binari morti, e là si aspettava quando davano loro il via per proseguire.

Fino a là penso che ci fosse ancora un po’ di speranza di arrivare ad una meta, non certamente al paradiso ma almeno…

Quando siamo arrivati verso sera, all’imbrunire, davanti all’ingresso di Ravensbrück era terrificante, in una parola. In quel momento c’è caduto tutto il morale, quelle speranze che solo i giovani possono avere, quell’ottimismo che solo i giovani possono avere, che non vedono, non vedono il pericolo e la bruttura, tanta bruttura davanti.

In quel momento era finito tutto.

Allora ci hanno fatto entrare e scendere con i nostri bagagli, con le nostre valigie, ci hanno fatto scendere, ci hanno fatto entrare dentro in questo Lager, era sull’imbrunire, non era ancora notte completa. Tutto nero, grigio. Difatti io non ricordo del Lager i colori. Il nero, il grigio, il grigio ed il nero. Anche per il fatto che lì anche il cielo era grigio perché era inverno, dunque questo è il colore, come quei vecchi film neri.

Non ci hanno fatto entrare in una baracca bensì in una tenda. Questa tenda che qualcuno chiama la “tenda nera”, io questa non la potrei definire perché non ho visto se era nera, se era quella di cui parlano, però era una tenda, perché si vedeva che non avevano baracche e roba a disposizione.

Là in quel momento, in quella notte abbiamo capito che non c’era più speranza di avere né gli indumenti né il nostro mangiare: avevamo tutte qualche barattolo di marmellata, tutto quello che si poteva avere anche durante il tempo della guerra.

Quella notte abbiamo cominciato ad aprire e mangiare tutto quello che si aveva, un po’a sonnecchiare là per terra; qualcuno ha buttato questi barattoli, ha buttato oltre perché vedevamo. Io penso, questo è un mio pensiero, che l’impatto fosse ancora migliore di quello che abbiamo visto dopo. Così si è anche buttato qualche barattolo, e c’era qualcuna che poi li raccoglieva. Abbiamo capito, diciamo.

Io dico per me, ma penso che più o meno sia uguale, da quel momento ho capito che bisognava solo subire. E a chi parla di ribellarsi non credo. Io non credo, almeno in quelle condizioni verso dicembre, arrivata su, in ottobre.

Alla mattina, non so se è il caso che ritorno a raccontare la solita cosa perché era il solito sistema, ti spogliavano tutta, ti rasavano, ti tosavano i capelli. A me no, avevo i capelli corti e non mi hanno… Specialmente si divertivano se avevi trecce, capelli belli. Poi c’era qualcuna che veniva dalle prigioni ed aveva i pidocchi. Loro sempre in nome della pulizia… A me non mi hanno tagliato, li avevo anche corti io, mi ricordo molto bene.

Niente, la solita vestizione, ti spogliavano tutta, passavi in lunghe file, era un triste defilè. Io a diciotto anni non avevo mai visto una donna nuda, mai: in casa no e fuori tanto meno, dunque non sapevo neanche, tranne il mio corpo, non conoscevo i corpi, perché c’era un pudore, erano i periodi del pudore che voi sapete, almeno per quel che non c’era come adesso, è inutile parlarne. Perciò eravamo molto… ogni donna si copriva, in quel momento non c’erano più… Passavi, era un triste defilè infernale.

Passavi con le mani, avevi le braccia alzate, ti guardavano sotto le ascelle, ti rasavano e ti guardavano evidentemente se avevi anche qualche bestia. Ti trovavi completamente nuda. Poi c’erano anche degli uomini, non c’erano solo le donne, quando ero io c’erano tre o quattro uomini seduti su una panca e passavi, questi me li ricordo. Parlo sempre del caso mio e per tutte quelle che erano quella volta con me. Quella volta erano le donne che ti guardavano con una specie di una familiarità falsa, diciamo così, e ti toglievano quello che di oro avevi addosso. Io avevo, come dico, questi due orecchini piccoli che penso fossero della Cresima, proprio piccoli orecchini, e l’anello della mamma. Questo me l’avevano tolto. Se qualcuna aveva di più insomma…

Passavi in questa famosa stanza delle docce, che era come una palestra grande, rustica, con tante docce. Passavi, ti facevano la doccia, tornavi fuori da una parte e ti consegnavano un asciugamano ruvido, grigiastro, e quello che capitava di vestire.

Io e questo nostro gruppo non avevamo più rigato, perché evidentemente non avevano più i vestiti, allora ci davano dei vestiti civili conciati in maniera peggiore di quelli rigati. Se volete vi dico anche come era.

Io avevo ricevuto un paio di mutandoni, una sottoveste, i calzettoni mi avevano lasciato i miei, quando ero partita avevo un paio di calzettoni di lana, quindi me li avevano lasciati. Non mi ricordo i particolari ma questi erano i miei. Mi avevano dato un paio di scarpe trovate là, alla rinfusa, di due numeri più grandi, non gli zoccoli ma un paio di scarpe.

Poi mi avevano dato un vestitino di cotone verdino di velluto rigato, con davanti e dietro una X fatta con la vernice, perciò indelebile. Sopra un cappottino blu ritagliata la schiena ed inserita una stoffetta molto leggera verdina, che non aveva niente a che fare con questo cappottino, e davanti la stessa cosa. Sul davanti inserita anche questa stessa. Perciò eri uno spaventapasseri e ti vedevano a mille miglia, per cui era bloccato dappertutto. A parte che poi per quanto riguarda le fughe, neanche a sognarsi.

Questo era il primo impatto.

Ma il terribile era, ma questo l’ho pensato dopo, come mai in un’Europa poteva esistere, in mezzo all’Europa, un pianeta infernale? Come mai nessuno ha fatto niente, non so, russi ed americani, tutti con i loro servizi, non parliamo anche dei servizi segreti? Poi oggi si conoscono molte cose, si sa anche quanti contatti segreti tra di loro, chi, dico io. Era un pianeta infernale.

Questo posso dire in una parola, e non si può dire altrimenti, come era tutta questa organizzazione, con questi grandi pianeti e con questi piccoli satelliti attorno.

Non c’era meglio o peggio, il sistema era uguale dappertutto per quanto riguarda i campi di sterminio. Poi c’erano quelli di lavoro, erano migliori perché almeno potevano andare fuori, avevano lo stesso un rapporto più civile. Ma parliamo di questi.

Per ciò dico questa era la situazione.

Poi ormai anche era la fine del ’44, naturalmente c’erano sempre anche gli eventi bellici, venivano avanti, di conseguenza cominciava a mancare la luce, e poi non sapevano più cosa fare con questi, questi che man mano venivano eliminati, ma era sempre pieno, sempre pieno, sempre pieno.

Allora, per farla breve, a Ravensbrück non c’era più un letto, un giaciglio per persona, non esisteva più un giaciglio perché erano tre giacigli, non due, a castello, ma tre uno vicino all’altro, ce n’erano tre, tre e tre, in ogni giaciglio eravamo in tre persone.

Quando sono venuta io, io e questo mio gruppo, perché non ero singola, non mi ricordo il numero della baracca …. Dico che delle cose potevi portartele dietro e non le ho portate. 92.000 e rotti, questo mi ricordo.

Dico, eravamo in tre e ci eravamo messe così come si poteva, una di piedi… Ma vestite come eravamo. Alla mattina quando c’era il primo non si sapeva se erano le tre, le quattro, la mattina alle cinque, chi sapeva l’ora? “Raus, Aufstehen, Los…” tre parole malefiche che ci hanno accompagnato fino alla fine dei Lager.

“Aufstehen, Los e Raus”. Fuori, svelto, alzarsi. Quella mattina ci siamo alzate, ci siamo scaraventate giù da queste… come eravamo, sotto di me c’era un’ebrea, so che penzolava, alla sera ha parlato ha parlato ancora con me, mi chiedeva da dove venivo, non so se era tedesca, non era italiana, mi sembra. Alla mattina io scendo dal letto e vedo questa gamba e questo braccio tumefatto, tutto blu: era morta.

Scendevamo, ma non era il tempo… Non mi dice nessuno che era il tempo di avere pietà perché dovevi fuggire, fuggire sempre, continuamente fuggire. Tu dovevi sempre… Almeno c’erano dei momenti che non era il tempo, tu non potevi… “Fuori”, “Raus, Raus, Schnell, Raus…” Si andava in quei gabinetti; il gabinetto e la brodaglia che ti portavano aveva tutto un odore nauseante, tutto lo stesso odore. Perché una cosa mi ricordo, io sono molto … agli odori, più che una sensibilità agli odori. Mi ricordo di quegli odori. Era come una cosa nauseante, non so, una cosa nauseante. Dopo ti abitui a tutto, naturalmente.

Questo era il primo impatto con il Lager di Ravensbrück.

Dopo per farla breve, queste ultime arrivate naturalmente all’appello … Lo sapete già, tutte hanno raccontato la solita storia: davanti c’era l’Appellplatz e tutte per cinque incolonnate, due per cinque, tutte ferme come mummie quando venivano a fare la conta ecc…

Dopo quelle che erano prima e sapevano già dove andare, noi che eravamo le ultime si aspettava sempre di essere mandate ad un lavoro. Venivano, sceglievano, ti potevano mandare a portare via i morti, ti potevano mandare alle cucine a pulire, ti potevano mandare…

Noi ci mandavano, facevano un gruppo, c’erano le russe anche, ci mandavano fuori dal Lager in una specie di palude direi io, questa terra grigia paludosa, non ho mai capito perché ci facessero mettere questa terra con le pale nella carriola e portarla in un altro posto. Io non ho mai capito.

Dopo un po’ di tempo siamo alla mattina, sempre in attesa dopo l’appello di essere mandate a qualche lavoro, dovevi stare là.

Vediamo capitare una delle Ausirke, “Ausirke sarebbero le ausiliarie, le SS che erano nuove nei campi, con una nuova Ausirka. Vediamo arrivare verso la nostra colonna dove eravamo in attesa, ancora là, sempre ancora incolonnate per cinque. Si fermano davanti a noi, guardano, parlottano un po’ ed incominciano a selezionare all’inverso, a tirare fuori le meglio diciamo, perché era evidente che se… E tirano fuori di queste nostre triestine un dieci, ed un altro sette circa russe o francesi, non so.

Abbiamo capito, siamo andate di nuovo a farci la doccia naturalmente per disinfettarci, ci hanno dato però quegli stessi abiti, solo disinfettati. Ci hanno dato un pezzo di pane, qualcosa, un po’ di margarina, quelle cose che usavano là, un pezzetto di una specie di salame. Siamo andati ed iniziavano il trasporto, Transport.

A questo punto non sapevamo niente ma eravamo come intontite, non avevamo neanche la voglia di parlare, di fare delle congetture, niente. Con questa nuova Ausirka che era una bestia siamo andate alla stazione di Ravensbrück e di là abbiamo attraversato Berlino, questo mi ricordo, naturalmente era tutto abbrunito perché era il coprifuoco. Quello mi ricordo, che era Berlino, ma se…

Verso le nove di sera, penso, siamo entrati in questo Lager, Arbeitlager, di Belzig. Ritornata a casa, perché non sapevo dove ero, guardando ben bene la carta geografica, anzi una carta geografica più locale, più topografica che geografica perché era un paesino in una cittadina, poi l’ho individuata anche tre anni fa quando ero a Berlino ed a Ravensbrück. Insomma, abbiamo attraversato questo paesino di Belzig e fuori dal paese c’era il Lager. Questo Lager era una miniatura diciamo dei Lager, una miniatura.

Nonostante le torrette, il fil di ferro, i cani e le baracche non i numeri e tutto, nonostante tutto ci parve un paradiso. Perché era almeno.. i letti a castello, ma almeno ognuna aveva questo letto. E poi il paradosso di questo loro sistema, da una parte eri… vorrei dire una parola, lo dico, eri proprio niente, anzi più che niente, eri un rifiuto per non dire un’altra parola; d’altra parte volevano pulizia, ordine. Di fatti in queste Stube c’erano questi letti, una ventina penso che eravamo in quella Stube. C’erano questi letti, ognuno, due a due. C’era un gancio anche dove dovevi appendere i tuoi vestiti. Questo pagliericcio, perché avevi una coperta sotto ed una sopra, non lenzuola, una copertina sotto e sopra, però doveva essere perfettamente come nelle caserme quando…

A questo punto ci parve veramente molto meglio. Però la solita solfa. A quell’ora ti portavano… e dopo c’era la questione di andare in fabbrica.

Si lavorava quella volta ancora in piena produzione direi, la fabbrica era un due chilometri fuori dalla baracca, a piedi, dentro in bosco, non la vedevi perché c’erano pini, abeti ecc…

Poi ti facevano la sistemazione quando e come e cominciavi a lavorare. Nove giorni consecutivi, nove giorni, non dico sei o sette come… nove, poi due giorni di riposo, questi sì, due giorni di riposo per così dire. Nove giorni tu lavoravi, la fabbrica lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, con mezzora di pausa quando c’era il cambio dei turni, a mezzanotte ed a mezzogiorno.

Lavoravi in piedi dodici ore, mezzora di pausa, in quella mezzora ti davano quel mangiare. Dove eravamo noi in questa fabbrica c’era una specie di veranda, dove c’era questo refettorio, diciamo così, mezzora e poi riprendevi a lavorare. Questo per i primi tempi, fino a che andava la produzione.

Poi naturalmente pian piano anche il lavoro si era ridotto, non si lavorava più dodici ore ma si lavorava otto o nove ore, perché si vede che ormai l’elettricità mancava e così avanti.

Però io in questo frattempo, dico in questo Lager in miniatura, ho avuto tutto quello che si può avere da un Lager. Io arrivo da Ravensbrück a Belzig e mi porto il microbo, il virus del tifo. Quando sono all’appello un giorno cado svenuta. Le nostre ragazze naturalmente pensando che si potesse fare tutto: mi tirano su, viene la Ausirka o la Blockowa a farmi tutto, mi tirano su e mi portano in Revier, perché c’era il Revier, la cosiddetta baracca ospedale. La chiamavano Revier, non so.

La prima cosa hanno avuto subito, perché erano accorti questi diavoli, hanno avuto il sospetto che si trattava, visto che siamo venute da Ravensbrück, di qualche cosa di contagioso. Perché? Nota bene, non per me o per gli altri, ma per la fabbrica. Noi eravamo state portate lì per andare a lavorare in fabbrica.

Allora a questo punto mi portano in questo Revier, là c’era una dottoressa russa, prigioniera di guerra. Lei era proprio prigioniera di guerra, ma poi portata in questo campo, era un medico militare, così mi raccontava. Conoscendo lo sloveno potevo comunicare abbastanza bene, sai, si era anche giovani, è più facile recepire, diciamo così, e si poteva abbastanza bene comunicare, abbastanza dico.

Così mi raccontava che era stata prigioniera di guerra sul fronte, poi non so perché era arrivata qua.

Febbre, febbre, mi hanno messo in una stanzetta separata, subito isolata, immediatamente, e vedevo questo comandante, nel Lager c’era il comandante, quella stessa che era venuta a prendere il gruppo di cui facevo parte io. C’era il comandante e vedevo il comandante venire su. Allora ho capito nella mia febbre, ma i primi giorni non ho capito niente, poi … vi era questa dottoressa russa, e… un momento non ho capito niente, ma ho capito che si trattava di tifo.

Poi ad un certo momento viene un dottore da un altro Lager, uno grande, mi hanno detto anche il nome ma non lo ricordo. Allora so che per prima cosa mi hanno tagliato i capelli. Là sì che mi hanno tosato. Poi mi hanno guardato, molto mi guardavano sull’addome e sul torace, parlottavano e non capivo.

Comunque era appurato che si trattava di tifo petecchiale. Perciò io ero rimasta isolata, ma in questo caso che non tutti i mali vengono per nuocere; anche il mio blocco dove erano le ragazze che andavano a lavorare era rimasto in quarantena. La quarantena non era di quaranta giorni, era un periodo. Erano chiuse dentro, portavano loro anche il mangiare, glielo mettevano davanti alla porta e poi le richiudevano, non dovevano uscire.

Questo mi raccontavano poi le ragazze, tra l’altro dicevano: “Non so se ce la farà, chi andrà a dirlo a sua madre?” Questo mi raccontavano dopo, erano già preparate che qualcuno lo dovesse andare a dire a mia madre.

Come vedete io sono qui ancora, perciò il diavolo non mi vuole, Dio non mi vuole, fino a che non mi vuole. Così devo anche ridere perché bisogna metterla anche un po’ su questo piano.

Ecco, questa è in sintesi la mia storia personale.

D: Ada, scusa, … cosa costruivate? Che fabbrica era?

R: Questa fabbrica era di munizioni, e per quel che ho capito, e per quel che facevo io proprio, erano dei missili contraerei, dei proiettili; erano lunghi circa una ventina di centimetri. Per quello che mi avevano detto, di cui si parlava, io ero proprio nel reparto dove si faceva l’ultima fase: prima veniva messo dentro in un sacchettino di seta del piombo, che era tutto a nastro. Erano ben organizzati quei diavoli, sì. Poi venivano portati ad un altro tavolo, questi li rinchiudevano con un anello, con un tappo di metallo, poi passavano al mio tavolo dove eravamo non so, mi sembra che fossimo otto ragazze, con le cassette, perché erano inseriti nelle cassette questi proiettili, e noi mettevamo l’ultimo, diciamo si metteva l’ultima vite di questo proiettile. Poi a questo punto andava invece ad un altro tavolo dove c’era sulla parete elettricamente collegata l’ultima chiusura ermetica di questo tappo.

Ecco un altro piccolo episodio che vi posso dire, che poi di episodi ce ne sono stati tanti in questo frattempo. Verso gli ultimi, verso diciamo il 6 marzo, io ero già rientrata in fabbrica dopo il tifo, nota bene con la testa pelata e con la pancia come un barile, gialla, ero gialla. Tanto è vero che quella che faceva la capo reparto era una civile, con il vestito bianco, la vestaglia bianca, era come una mummia questa donna. Non so se le facevamo compassione o no, però era sempre in un certo qual modo controllata dalla Ausirka, perché le Ausirke venivano dentro improvvisamente, noi eravamo sotto il controllo delle Ausirke del campo.

Per la fabbrica invece era questa civile, questa donna, una bionda, mi ricordo. Aveva chiesto se ero incinta. Dunque voi capite che pancia dovevo avere, perché sapete, questo è già stato detto, che per prima cosa cessavano le mestruazioni in Lager, e naturalmente anche questa era una anomalia che senza dubbio aveva i suoi effetti.

Adesso con il tifo, senza mestruazioni, una ragazzina di diciotto anni non so se proprio può essere… Comunque una pancia gonfia, la testa pelata, e con quel vestito di spaventapasseri.

Adesso non mi fa ridere, o mi fa ridere per non piangere.

Questa civile aveva domandato perché forse pensava chissà… io dopo ho pensato, forse era così, per curiosità, o forse mi avrebbe alleggerito dal portare quella cassetta, perché dovevamo noi portare le cassette. Questo è un mio pensiero.

Ad ogni modo verso la fine della guerra, verso marzo, aprile, anche la tensione elettrica diminuiva. Al momento si aveva meno elettricità, ed un giorno quando avevamo portato queste famose cassette per farle chiudere dall’elettricità, … mettevano, inserivano in queste buche, elettricamente. Però non era finita, perché alla fine veniva l’Ausirka e dava con una specie di gomma, qualcosa così, e dava un colpo su queste cassette di proiettili. Quel giorno erano cadute tante capsule, le ultime.

Non fosse mai stato. Allora si gridava subito che c’è sabotaggio, sabotaggio… e così avanti. Noi eravamo già mezze morte, probabilmente sabotaggio non ce n’era, perché tutti facevamo il nostro, era l’elettricità stessa che non aveva la forza di chiudere bene.

Comunque quel giorno, tanto per dire le cose che facevano, io parlo di me perché poi più o meno c’era… Quel giorno tutto il nostro reparto andava verso il Lager dove ci davano, tutto sommato ci spettava, quel pezzetto di pane, per tanto o poco che era, era l’unica risorsa che si aveva; con le Kübel ci portavano il mangiare dal Lager, e alla sera dovevamo noi stesse prigioniere portarle.

C’era quel fuggi fuggi per mettersi per cinque, quella che rimaneva fuori doveva portare le Kübel. Non potevo camminare neanche io, le Kübel in due si portavano, se c’erano i manici. Mi ricordo che c’era una belga e toccava a noi due. Quella donna ha trascinato la Kübel ed anche me. Erano circa due chilometri per arrivare in fabbrica, non era dietro l’angolo.

Arriviamo in questo benedetto Lager, sempre con il cane, accompagnate con i cani e con le guardie con i fucili. Arriviamo in Lager, pensavamo che poi ci avrebbero dato quella brodaglia. Davanti al Bunker, c’era un Bunker, lo chiamavo così ma dentro c’erano anche le casse di morto, forse era un Bunker per le Ausirke nel caso di bombardamenti. Era un Bunker sotto terra.

Era ancora chiaro quando siamo venute; a distanza di qualche metro dovevamo stare in piedi, le altre erano rientrate nelle baracche. Noi non so dove prendevamo la forza, prendevamo la forza finché c’era la forza, poi si cadeva per terra, non c’era altro.

Ad un certo momento avevano aperto il Bunker, ecco che dentro il Bunker … Quel giorno, senza mangiare, dentro nel Bunker c’era una fila di casse di morto, perché se una moriva ti mettevano là accovacciate perché non avevano il posto neanche per sdraiarsi per terra, accovacciate, aspettando la mattina dopo di andare in fabbrica di nuovo.

A pranzo, guarda mi pare impossibile, qualche volta sembra di dire bugie, a te stesso sembra di dire bugie, e queste cose non le si fa volentieri, ragazzi. Questi ricordi sono come tante… oggi siamo vecchi e siamo molto più sensibili. Prendete un ragazzo di venti anni e prendete una donna di settanta, settantacinque anni.

A questo punto torniamo in fabbrica, andiamo a lavorare ed all’ora di pranzo pensavamo di andare a mangiare questa brodaglia. Davanti ho detto che c’era una specie di veranda a vetrate, fuori davanti alla veranda di nuovo in piedi senza mangiare. Non so come, passata la mezzora, il cosiddetto rancio, di nuovo in fabbrica.

Arriviamo alla sera a casa, diciamo casa, nel Lager, di nuovo niente. Niente perché eravamo tacitate di sabotaggio. Niente.

Mi ricordo che c’era la mia amica Margi che adesso purtroppo sta molto male, lei si dava da fare per quello che poteva, ed aveva fatto una cosa, almeno per me, non mi ricordo per le altre, parlo per me in questo momento, era andata da una certa Desi, era una slovena che faceva la cuoca, ed era andata a pregarla: “Ti prego Desi almeno un pezzettino di pane perché guarda, è così”. E questa Desi nonostante tutte quelle che lavoravano in questo o nel magazzino del vestiario, o nelle cucine, tra loro si aiutavano, magari prendevano un pezzo di benda. Insomma questa Margi mi aveva tramite questa Desi procurato una fetta di pane. Quel pane nero. Quella sera ho mangiato. Questo dico per me, non so le altre come si erano… Perché non erano tutte della mia stessa baracca.

Questa era una delle cose particolari, diciamo.

D: Scusa Ada, ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: No, no, me lo hanno già chiesto, non ricordo. Però non è certo una cosa segreta. Era a Belzig, la fabbrica era a due chilometri in un bosco, questa fabbrica di munizioni.

D: Dicevi che c’erano anche dei civili.

R: C’erano anche dei civili perché a Belzig c’era un accampamento, non saprei come dire, una baraccopoli, non mi ricordo quante erano le baracche, e vicino al nostro, noi eravamo chiuse, c’erano dei civili, sì. Questo lo dico, non dovrebbe essere molto difficile, penso che qualcuno abbia questo nome, era a Belzig, questo sicuro.

D: E lì sei rimasta quanto, Ada?

R: Lì siamo rimasti fino all’evacuazione. Dopo la fabbrica però ha cessato di operare. La fabbrica ha cessato di operare quando cominciavano i bombardamenti. Allora in quel momento noi non siamo… era aprile, non siamo andati più in fabbrica. Ed anche il comportamento delle Ausirke stesse non era, sarebbe assurdo, affabile. Allora ci portavano prima di tutto a pulire le baracche, a mettere fuori i pagliericci di trucioli. Ci facevano portare fuori tutte queste robe. Ci facevano fare delle aiuole, capirai, delle aiuole in questa… Ci facevano andare fuori. Là cominciavamo ad andare per la prima volta fuori dal Lager, sempre incolonnate, di giorno, ma non più in fabbrica. Lungo la ferrovia c’era anche il bosco dove raccogliere delle stecche, del legname. Lavori così.

D: Lì sei rimasta fino all’evacuazione: quando è avvenuta?

R: Il momento cruciale che anche i tedeschi l’avevano capito, ormai si sentivano già le voci; c’erano certe prigioniere che cominciavano ad andare, sempre accompagnate e non libere, a prendere, per esempio la Margi questa mia amica, era andata una volta con il carro a prendere il pane fuori. Si vede che l’avevano fatto in qualche forno, non so. Mi diceva, io non sono mai stata fuori ma lei sì. Già tra queste prigioniere si sentivano le voci, poi c’erano quelle della cucina che avevano la possibilità di… sentivano…, poi si sentiva il rombo dei cannoni, si sentiva, si diceva: sono i russi. I russi venivano da questa parte.

Allora verso il 23 aprile cominciava ad esserci allarme, proprio l’allarme per i tedeschi stessi; sapevano che ormai non c’era più via di scampo. Si cominciava a vedere un certo trambusto. Si incominciava a vedere qualcuna che andava via con la valigia, si cominciava a vedere… Sì, solo una mi sembra che era andata via, poi si diceva… Poi c’erano le voci: mi sembra che è malata e queste cose.

Ad un certo punto però avevamo visto che dalle baracche, le loro abitazioni diciamo, si cominciava a portare via bauli, cesti e roba. Allora avevamo capito che l’ora era scoccata.

Ad un certo momento non c’erano più le Ausirke nel campo, e neanche in cucina c’erano più. Ad un certo momento capirai fame, ma cosa si poteva avere, se si poteva trovare un pezzo di pane o qualche patata, o qualche rapa, e questo era tutto.

Allora vedendo questo movimento da parte delle Ausirke, specialmente le russe erano corse in cucina a prendere qualcosa. C’era una russa, una ragazzina, avrà avuto vent’anni sì e no, che anche lei era corsa assieme alle altre. In quel momento il comandante si era reso conto che bisognava riprendere le redini, che non era il caso di arrendersi, capirai! Allora te lo vedi capitare nel Lager con la pistola in pugno, sparare per aria come un matto, come un matto, e queste ragazze che correvano via dalle cucine! Allora vedi, questa ragazzina correva con le due patate, questo non l’ho scritto nel diario, era passata davanti a me ed alle altre e lui correva dietro alla ragazzina, perché lei non era… Chissà, teneva queste due patate, forse non le aveva lasciate di mano. Lui era venuto in baracca, lei si era buttata sotto il lettino e lui le aveva sparato in testa, sotto la baracca. Queste due patate… erano scivolate per terra, e questo rivolo di sangue… avrà avuto vent’anni.

Queste sono le cose… eravamo impietrite a guardare, impietrite. Non c’era reazione, non c’era reazione, perché non avevi la forza di reagire, la forza fisica, e avevi il terrore. Questo è proprio il lato cruento che io ho visto con i miei occhi. Non parlo di quelle che dicevano ho visto questo e quell’altro, non mi piace parlare di quello che hanno visto gli altri, non mi piace, perché ognuno racconta la sua storia. Qualcuno dice anche quella degli altri, ma era talmente tutto in un certo qual modo di tutti e di una, le une di tutte, capisci?

Questo l’ho visto io, e parlo di quello che ho visto io. Basta.

Poi, come ho detto, siamo andate via incolonnate sempre per cinque.

D: Ada, scusa, accennavi al diario.

R: Sì, accennavo al diario.

D: Ma tu l’hai trovato questo diario?

R: Questo Tagebuch, cioè “diario” in tedesco, io l’ho trovato fuori dal Lager. Non so esattamente dove, c’erano tante di quelle cose buttate, qualcuno l’avrà buttato o qualcuno avrà rovistato in qualche casa, sai come è, tutto era ormai allo sfacelo.

Io non so esattamente, in qualche posto l’ho trovato, non mi ricordo. L’ho trovato nuovo. Non c’era scritto niente, era nuovo. Era nuovo perfettamente. Poi ho scritto qui, si vede anche la prima.. Io ho scritto qua il mio nome e cognome con il mio indirizzo di una volta. Era nuovo perfettamente, non era per niente scritto. Doveva essere di qualche studente, ragazzino, non so di chi poteva essere questa roba qua. Non so. Era comunque vergine, assolutamente non toccato.

Io però questi ultimi giorni che avevo fatto quel piccolo… lo avevo fatto nel Lager stesso perché ormai eravamo là. L’avevo fatto su una carta che poi non so neanche chi mi avesse dato questo pezzo di matita, perché c’era un pezzo di matita. Poi ci si arrangiava, qualcuno ti dava… Ti arrangiavi anche per avere qualche ago, qualcosa del genere. Non so neanche chi mi avesse dato quel pezzo di matita. Mi ricordo che era un pezzetto di matita, e l’avevo scritto su questa carta che noi avevamo presa da dei sacchi di carta che si usavano anche nella fabbrica, grezza così.

Però torno a ripetere, invece di portare nell’originale io l’avevo da diligente, mi sembrava più bello metterle così, e l’avevo ricopiato nei giorni subito dopo l’evacuazione, non a casa, intendiamoci.

Allora io l’ho riscritto il 23 aprile ’45, poi il 24 aprile, poi il 25 e poi finisce il 26 aprile. “Questa mattina ci viene detto che siamo passati sotto la Croce Rossa Internazionale”. Non siamo passati subito sotto gli inglesi…Te lo leggo dal giorno 23, quel giorno che si cominciava… E’ una cosa molto puerile, ragazzi! Come ero anche io al tempo. Posso leggerlo?

D: Certo.

R: “Già da giorni, questo è il 23 aprile del ’45, non si lavora più. Imminente si aspetta l’avanzamento in Belzig dei russi o anglo-americani. Tutti siamo in uno stato d’animo ansioso e nervoso. Noi prigionieri siamo esausti dalla fame, abbiamo mangiato soltanto mezzo litro di zuppa, ossia acqua calda, il giorno precedente, senza una briciola di pane. Guardandoci in viso ci vediamo ombre, scheletri, non più un corpo di donna.

Eppure oggi brillano i nostri occhi, un’insolita luce di contentezza. Siamo certe di essere presto alla fine delle nostre tribolazioni, o per lo meno di finire di essere le schiave”. Guarda ho usato schiave, “Le schiave dei tedeschi. Di questo sono testimoni i rombi dei cannoni che segnano la repentina avanzata dei nostri liberatori.” Questo era il 23 aprile.

Il 24 aprile del ’45: “Un altro giorno pieno di eventi. Le nostre ufficiali, ossia le nostre aguzzine, hanno sgomberato la loro baracca portando in fretta tutti i loro bauli fuori dal Lager. Diventa una confusione generale, ed a tale vista noi prigioniere non siamo più in noi dalla gioia. La cucina è stata abbandonata. Le più ardite, le russe, vi si lanciano all’assalto del pane. Dopo qualche ora però i superiori riprendono le briglie. Davanti alle cucine viene messa una sentinella. Il comandante come un forsennato minacciando con la pistola spara più volte, e sparando più volte nasce un fatto raccapricciante che ci ha scosso tutte: una giovane ventenne russa rimane vittima, una pallottola alla tempia la colpisce, e ciò perché il comandante l’aveva vista portare delle patate dalla cucina.”

Questo è quel dettaglio che vi ho spiegato prima: l’aveva colpita nella baracca quando si era rifugiata sotto il letto, sotto la branda.

“All’appello, che avviene poco dopo, il comandante ci fa tradurre in diverse lingue che chiunque commetterà una minima disobbedienza sarà freddato da lui stesso. Dopo ciò ci fa incolonnare e così si evacua il Lager.

Dopo circa venti chilometri di cammino la notte è già alta, in prossimità di un bosco ci fermiamo per pernottare. Il tempo è piovoso, tutto è bagnato.” Questa è la notte che noi abbiamo passato nel bosco. Non so se vi interessa anche il giorno 25.

“Allo spuntare del giorno si riprende la marcia, pane ed altro zero, di frequente molte donne cadono sfinite dalla debolezza e dalla stanchezza. Non è permesso soccorrerle, vengono abbandonate.

Noi sempre avanti, ma la forza ci manca. Finalmente arriviamo in una città, cittadina, Altegradhof, e scorgiamo già gli accampamenti di un altro Lager. Abbiamo percorso circa 35 chilometri. Siamo portati in un accampamento e consegnate ai soldati della Wehrmacht. È mezzogiorno ma non abbiamo ancora mangiato niente, nessuna cosa dal mezzogiorno del giorno precedente. Vinte dalla stanchezza ci stendiamo sul prato, aspettando dietro promessa il pane.

Le ore passano ma non arriva niente. Verso sera arriva la comandante che con i suoi più sgarbati modi ci fa mettere in fila a riprendere la marcia.

Piangendo ubbidiamo ma le gambe non ci reggono. Dopo circa un chilometro di strada ci lasciano riposare. Mangiamo erba e frumento del campo. Molte donne cadono e continuano a cadere.

A questo punto interviene la Croce Rossa Belga, giungono le autolettighe a raccogliere un’infinità di ammalate. Ormai la comandante ed il comandante non hanno più alcuna autorità su di noi, e di fronte al personale della Croce Rossa sono intimoriti.

Arrivano altre macchine e ci portano i pacchetti viveri americani. Vi è una grazia di Dio, ci sediamo e mangiamo. I soldati della Croce Rossa sono molto premurosi con noi, intervengono anche degli italiani che ci portano delle gallette.

Dopo essere ristorate ritorniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso una stalla che viene accomodata con paglia alla meno peggio. Questa stessa sera siamo passati sotto la protezione della Croce Rossa e siamo libere.”

Questo è l’ultimo. Ed abbiamo passato la notte in questa stalla. Questo non l’ho scritto perché si vede che non avevo neanche… Ormai eravamo già euforiche, ma poi dopo aver… Questo pacchetto era distribuito in quattro razioni, non era tutto il pacco, ma naturalmente era una conseguenza terribile perché quasi tutte avevano una diarrea tremenda dopo. Queste sono le cose che avete già sentito da tante altre…

D: Il tuo ritorno Ada.

R: Il mio ritorno. Il mio ritorno è stato tutta un’avventura, così come lo sono state tutte. Un arrangiarsi, diciamo, più che un’avventura. Abbiamo incontrato anche man mano facendo la strada dei soccorsi, delle emergenze che ci davano questi pacchetti.

Anzi, qua volevo dire che noi ad un certo momento siamo state consegnate perché da una parte venivano gli anglo-americani, e noi in quel momento eravamo sotto gli anglo-americani. Ma ad un certo momento, ad un certo punto, non so esattamente dire l’ubicazione, eravamo sempre nelle vicinanze di Berlino, un po’ sotto diciamo, erano venuti avanti i russi, e noi siamo passate sotto i russi, sotto il territorio russo.

In quel momento ci si arrangiava come si poteva. C’erano delle scuole libere, abbiamo visto degli istituti, ci facevano entrare, c’erano anche delle scuole militari, abbiamo capito che erano scuole militari, e là c’erano le docce. Ci davano dei pacchetti.

Nel frattempo si univano tutti questi che tornavano a casa, e noi abbiamo conosciuto anche nostri ragazzi italiani che erano militari italiani, più o meno nelle stesse condizioni, ma insomma, non nelle nostre. Così ci siamo riuniti in un bel gruppo. C’erano quelli di Monfalcone, di Trieste, i nostri ragazzi, appena abbiamo sentito che erano di Trieste capirai! Ci siamo uniti a loro, eravamo una ventina, e andavamo avanti secondo le indicazioni che ci davano anche i posti di ristoro. Era una cosa tutta accomodata secondo me, organizzata man mano che veniva avanti. Non saprei dire, direi così.

Di questi che eravamo ci siamo perdute, dopo. Molte sono andate a finire in ospedale. Noi che eravamo in grado di continuare ci siamo riunite in gruppi ed abbiamo fatto la strada assieme, e con l’aiuto della Croce Rossa e anche dei comuni, delle istituzioni locali, non saprei dire neanche io chi, siamo arrivate attraverso la Cecoslovacchia prima fino a Dresda, mi ricordo Dresda, era bombardata… un mucchio di macerie, da Wittenberg giù per l’Elba con una barca. Poi da là con mezzi di fortuna, sempre ferroviari.

Poi siamo passati in Cecoslovacchia… sempre con mezzi di fortuna, avanti fino a Bratislava, da Bratislava sempre con questo gruppo fino a Vienna. Da Vienna abbiamo attraversato il Danubio su un ponte rotto, c’erano solamente le colonne. Siamo arrivate a Vienna, sempre questo gruppo diciamo così, fatiscente proprio.

A Vienna siamo state accolte perché c’erano i gruppi di Croce Rossa che ci accoglievano, eravamo in un certo qual modo assistiti, qualche volta meglio e qualche volta peggio ma insomma assistiti durante il ritorno.

Poi a Vienna eravamo sotto l’assistenza della Croce Rossa jugoslava. Di là abbiamo preso un treno regolare, ci hanno dato anche un lasciapassare che io tengo, l’ho ancora sempre come documento perché era una dimostrazione da dove venivo anche, regolare, proprio da Vienna.

Da Vienna per Maribor giù per la Slovenia, fino a Trieste. Al 29 giugno sono arrivata a casa io, sono arrivata a casa il 29 giugno.

Le altre erano ancora peggio perché erano rimaste negli ospedali. Peggio, una parte erano ben guardate, così, ma noi avevamo questa forza fisica…

D: Scusa Ada, nella tua famiglia quante persone sono state deportate?

R: Arrivo a casa, arriviamo a casa in condizioni, potete immaginare, c’era ancora il coprifuoco a Trieste, il 29 giugno, perché noi siamo arrivate a Trieste, alla stazione di Trieste. Chi conoscevo, chi non conoscevo, erano molti questi che tornavano. Quella sera so che dovevamo fermarci in stazione perché c’era il coprifuoco e non si poteva uscire. Così abbiamo passato ancora quella notte in stazione di Trieste, c’erano i bacherozzi che camminavano e giravano, capirai, appena finita la guerra cosa poteva essere. Sporche perché cosa si poteva pensare?

Ognuna poi “ciao ciao” non vedeva l’ora di tornare alle proprie case. In quel momento quasi ci si dimenticava di tutte le nostre compagne vissute fianco a fianco, per tutte quante l’obiettivo era la casa, tornare a casa.

Però io non sapevo neanche se avrei trovato mia madre, in quanto io l’avevo lasciata fuori… C’era anche la vicina di casa che aveva le chiavi della nostra casetta. Mi incammino a piedi, presto presto perché mi vergognavo sinceramente di incontrare qualcuno, ero anche con i capelli di due centimetri, nota bene.

Arrivo a casa e trovo la mamma che ancora andava a fare legna nel bosco, quello che era rimasto perché non c’era l’elettricità in certi punti. Io pensavo che ci fossero gli americani, ci dicevano che ci sarebbe stato il caffè e tutto, invece non c’era niente; infatti nel frattempo erano già arrivati gli anglo-americani.

Insomma trovo la mamma. Felice e contenta di quello.

Però mi dice, io non sapevo di mio fratello: “Anche Nini è in Germania.” “Mamma arriverà, arrivano tutti”. Sai, capirai la gioia, l’entusiasmo… Arriverà, e giorno per giorno arrivavano i pacchi. Ci davano anche l’assistenza, ci davano dei pacchi…

Per me c’era la gioia di essere di essere tornata a casa. A diciotto anni, diciannove anni, ragazzi miei, immaginate la gioia, eravamo vincitori! Ci sembrava che tutto sarebbe stato miele e latte, tutto bello. Ma anche questa gioia non era solo una questione materiale, era proprio la gioia di avere vinto il nazifascismo; era il nazifascismo che aveva fatto tutto, tutte le colpe sono del nazifascismo. Qualche volta si confonde, a volte i tedeschi, italiani, ma il nazifascismo, il sistema, l’ideologia ed innanzitutto la loro dittatura malvagia e disumana.

Ecco, così passarono i giorni.

Noi, la gioventù di qua si era subito organizzata, c’erano i meeting, c’erano… C’era un’aria di festa e di liberazione. Ci siamo organizzati subito nelle organizzazioni giovanili antifasciste, poi c’era il Partito Comunista che aveva in mano una specie di egemonia. Non che tutti la pensassero così, intendiamoci, no, a Trieste. Ma in quel momento la maggioranza, la forza, era nostra. Dobbiamo ammetterlo, e devono anche ammetterlo perché certi erano anche terrorizzati, specialmente se avevano… Come in tutte le cose avvengono anche fatti spiacevoli che poi non erano anche colpa, non so, solo perché eri impiegato in quelli… Ma in quel momento…

Quando sono arrivata io ormai era già passata, si era già calmato tutto. Almeno quel che mi riguarda si era già normalizzato questo rapporto.

Poi c’erano i balli, c’erano le sagre, c’era questa stella rossa, queste parole, questi slogan. C’era un tripudio di gioia, di gioia ragazzi miei. Io ho assai lavorato per la gioventù antifascista, per la gioventù comunista, per tutte queste cose che in quel momento mi sembravano giuste e vere.

Poi c’era anche l’arrivare alla conquista di qualche cosa. C’era la gioia di chi vince. Dico la verità, oggi, oggi lo dico con tanto dolore proprio, dolore che mi fa male fisicamente, la gioventù non pensa ai dolori di quelle madri che aspettavano i figli, di quelle donne che aspettavano i loro mariti, di quei lutti che erano dappertutto.

Oggi penso che è terribile. Era una gioia da una parte ed era un dolore tremendo per quei vuoti che avevano lasciato, tutta questa gente. Ma per chi? Per cosa?

Cosa volete ragazzi, non si può, non si può pensare oggi, io non sono il tipo che odia, ma non bisogna dimenticare. Non dimenticare. Odiare no perché l’odio è già un sentimento che non ti dà pace, ma il ricordo è un’altra cosa.

D: Ada, ma tu e la mamma avete aspettato tuo fratello?

R: Sempre, tutta la vita.

D: E non è tornato…

R: Tutta la vita.

D: Conosci il campo in cui è stato deportato?

R: Sì, a Mauthausen.

Cantoni Walter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Cantoni Walter, nato a Medesano provincia di Parma, il 7 ottobre 1924. Sono partito per andare nei partigiani nel mese che non ricordo più bene, ma nel mese di giugno del 1944.

In questo periodo ho subito due rastrellamenti, uno era alla fine luglio del 1944, di lì siamo ritornati alla base a casa, nascosti in attesa che si formassero di nuovo i distaccamenti e le Brigate Partigiane. Col primo rastrellamento ero a Bardi, nella provincia di Parma, siamo andati anche oltre, siamo arrivati quasi ai confini con la Liguria, al Monte Groppo nel Comune di Albareto, provincia di Parma.

Ritornati come ho detto a casa, siamo rimasti a casa circa una ventina di giorni, poi ci siamo raggruppati in un distaccamento, formatosi nel periodo di fine agosto, lì nella mia frazione del comune Varano Marchesi, c’era un distaccamento che si chiamava il distaccamento Pedizza, lì eravamo circa sei squadre, formate da dieci componenti ogni squadra. Eravamo ai piedi della collina, giù dalla collina del mio comune, e siamo rimasti lì fino all’atto del secondo rastrellamento, avvenuto il 6 gennaio 1945.

Le forze partigiane avevano un compito specifico. Era di interrompere i rifornimenti che i tedeschi portavano alla Linea Gotica da La Spezia al mare, lì a Rimini. Quindi gli attacchi erano di far saltare i ponti principali perché la ferrovia non fosse più in grado di trasportare il vettovagliamento, le armi, le munizioni, ecc. Secondo anche si attaccavano le formazioni tedesche e anche fasciste, durante questi loro passaggi che fornivamo per andare al mare.

D: Scusa …

R: Più conciso.

D: No, no, i rastrellamenti …

R: Sì.

D: Erano solo formazioni germaniche …

R: No, adesso dico. Lì poi è venuto il 1945, e mi ricordo una bellissima settimana era, dopo Natale, ha fatto circa quindici giorni di bello, e lì si erano portati nei paraggi, in tutta la provincia di Parma e Piacenza, i gruppi che erano ritornati dalla Germania, la Divisione Italia, i Bersaglieri, avevano occupato i posti principali a piè di collina, proprio dove noi facevamo qualche disturbo lì, ma loro attendevano il maltempo, la neve che davo loro la possibilità di metterci in condizioni disagiate, perché loro erano armati, avevano l’appoggio delle truppe tedesche, anzi le truppe tedesche erano coloro che comandavano, loro erano coloro che erano i sottomessi, che facevano quello che loro gli dicevano.

Lì è avvenuto questo rastrellamento il 6 gennaio, proprio la notte del 6 gennaio, ha cominciato a nevicare, al mattino ci siamo trovati con 50 cm di neve in sette, otto ore e ha continuato per 3-4 giorni, le nostre colline, le prime montagne erano coperte da circa un metro di neve, quindi la difficoltà dei trasferimenti, abbiamo resistito per tre giorni, abbiamo resistito a questo attacco, poi dalla parte del Piacentino, da parte della Liguria sono entrati i tedeschi, gli sciatori tedeschi, ci hanno preso alle spalle, quindi c’è stato lo sganciamento.

Lo sganciamento significa che, ognuno delle squadre, cercano di passare le linee e di passare alla pianura, cioè dietro di loro possibilmente senza poter …, ma sa in quei periodi molti ci lasciano la pelle, vengono presi, io sono stato uno di quelli che sono stato catturato. Catturato a Mariano da uno squadrone di questi Bersaglieri della Divisione Italia.

Ci hanno portati direttamente ad un primo interrogatorio, appena presi una battuta, ma non una battuta con schiaffi o pedate, adoperavano il calcio del fucile e picchiavano in questo modo. Poi ci hanno portati in una località contadina, dove era il loro comando, e lì il mattino hanno fatto l’interrogatorio, lì hanno iniziato ad adoperare le catene, le catene che cerchiavano la testa, perché volevano sapere cose che poi in fondo il partigiano normale non sapeva.

D: Come non sapeva?

R: Perché per esempio quando uno militava nelle file partigiane scompariva il nome, cioè avevano il nome, ma davano un nome di battaglia, il quale questo nome di battaglia non poteva danneggiare nessuno, se uno prendeva diceva magari si chiama Caio, Sempronio, ecc, chi sono? Non lo so, perché c’era anche allora che non mettevano mai insieme quelli del loro paese, ecc, perché era pericoloso e quindi loro volevano sapere, dicevano quanti tedeschi, quanti Bersaglieri hai ammazzato, ecc, dove hai fatto, ecc, ecc. E lì chi si ostinava a dire magari niente, loro pensavano che questo sapesse molto, mentre invece lì anche qualche riunione che si faceva nei partigiani, parlavano, dicevano “Se domani vi prendono, voi dite il vostro nome di battaglia, e anche altri nomi di battaglia” ecco questo, questo è quello che posso sapere.

Poi ci hanno portato nella zona di Varano Marchesi, dove conoscevo bene tutta la natura, anche la gente, ecc. Lì siamo stati trattenuti tre, quattro giorni, quattro giorni, lì è successo il finimondo perché in questa frazione sono state fucilate ventidue persone, erano ventidue partigiani più quattro civili. I civili sono stati per esempio un certo pastore, poveretto che me lo ricordo ancora, era andato a casa, lì aveva l’ombrello che nevicava, e di tanto in tanto prendeva l’ombrello e lo sconquassava per liberarsi dalla pesantezza anche della neve. Arriva un cecchino, poco distante, tac e gli ha sparato e lo ha buttato là sotto la neve.

Altri due si erano nascosti in campagna, fanno per le viti quei pali, e poi fanno quelle che sembrano baracche degli indiani messe in questo modo, erano andati lì, poveretti a 20 m da casa, a nascondersi lì dove c’erano Bersaglieri che stavano venendo. Un bel momento quelli là si sono accorti, hanno messo fuori la testa, ecco li hanno direttamente uccisi senza nulla.

Queste sono state le barbarie fatte nel nostro paese, non solo le barbarie, perché sono stati torturati con le catene, avevano delle teste in questo modo, botte che non erano più capaci di parlare, io con questi ho vissuto assieme. Poi un giorno, questo è il più grave che è successo, mi hanno chiamato lì al comando, dove hanno schierato, c’era un capitano tedesco, c’erano altri, un tenente che me lo ricordo bene, si chiama il tenente Rossi che era un toscano, e poi altri.

Lì sono andato dentro come l’interrogatorio, lì presenti c’erano altre due persone, gli avevano chiesto di portare i nominativi del partigiano della propria zona, e questi quando si sono trovati di fronte a me, questo tenente gli dice “Avete i nominativi dei …” e dice “Ma come faccio a parlare di fronte a questo”, dice “No, no, parlate pure perché costui non dirà mai più nulla a nessuno”, a dire “Va bene”.

Poi è stato il giorno dopo verso sera, mi vengono a prendere, anche lì botte, mi hanno chiamato che c’erano le scuole, c’era la squadra del plotone di esecuzione, il plotone di esecuzione alla scuola era comandato da un tenente, che ricordo il nome, un certo Mele che era di Sanremo. Sono andato là e mi hanno chiesto, avevano un cittadino lì, una persona, un borghese, e mi avevano detto “Questo, riconosci se è Athos?” e non era Athos, perché Athos era il mio comandante, non era Athos, questo lo conoscevo, ma io ho detto “Questo non è Athos, non è”, “Ah no?”

Allora avevo lì dei particolari, io allora fumavo qualche sigaretta e avevano fatto un lancio gli inglesi dove avevano portato anche del tabacco, avevo un pacchettino di tabacco ancora, che anzi era profumato il loro tabacco, quando ha visto questo tabacco è venuto lì come se avessi una bomba a mano, mi ha guardato “Tabacco?” poi allora ha guardato “Tabacco inglese?” e io gli ho detto “Sì, questo è un tabacco paracadutato dagli inglesi” lì ero vestito con il cappotto da inglese, le scarpe, ecc non potevo dire che non ero un partigiano, non l’ho mica ammesso, di essere un partigiano, e mi dice “Fumalo presto perché domani ti faremo la festa”.

Il giorno dopo la festa doveva essere fatta, mi avevano preso sotto sera e mi avevano portato là dove c’era il comando dei partigiani, ma io non avevo mai detto che c’era il comando là mai, ho sempre fatto finta di non sapere mai niente, mi portano su ai piedi di un monte che c’è lì, e lì c’era una curva, c’era tanta neve perché con la spalatura della neve, e mi dicono di cercare lì che ci sono le armi, che io so che ci sono le armi, e già due mi davano queste raffiche di mitra, due dei Bersaglieri, però lì prima ho avuto un colloquio con loro direttamente, con il tenente e un caporalmaggiore.

Il tenente e il caporalmaggiore, poi ho saputo in seguito, erano due amici, il caporalmaggiore era un maestro, il tenente non lo so che cosa era, e allora nel modo di parlare confuso, in un certo qual modo, questo caporalmaggiore mi dice “Come mai sei andato dai partigiani?” e io ho spiegato quali sono state le ragioni perché sono andato dai partigiani, e ho detto anche che noi siamo discendenti della mia famiglia di socialisti, e gli ho fatto un ragionamento “Ma voi avete anche il Duce che era un socialista” e lì “È vero”, allora io non penso che la mia famiglia abbia sbagliato, anche essendo in questo …

Questo caporalmaggiore, il tenente gli ha detto “Su sbrighiamoci”, gli ha detto “No fermatevi, devo andare in perlustrazione a Mariano di Pellegrino, me lo porto con me come ostaggio”, cioè è stato colpito da questa sensibilità questo giovane.

E lì siamo andati a Mariano, mi hanno messo davanti, siamo andati a quel Mariano che saremo stati distanti 10 km o 15, 10 km senz’altro, siamo arrivati là vicino a sera, siamo andati nella casa, e avevano sempre il tedesco con loro, e questo tedesco si chiamava Walter, aveva gli occhiali me lo ricordo ancora come se fosse adesso. Siamo andati lì nella casa, dove eravamo questo caporalmaggiore, io e il tedesco, mi aveva detto questo caporalmaggiore “Andate qui”, era un nucleo di case, “Andate nelle case, però mangiate quello che vi danno, non cercate di fare …” la verità la dico, sempre, ovunque.

Siamo stati lì e c’era una famiglia di contadini poveretti, che hanno messo sulla tavola un formaggino, il pane, e un fiasco di vino, e ci hanno offerto da mangiare, siamo stati lì e abbiamo intavolato una discussione con questo caporalmaggiore, lui mi ha detto nome e cognome che non lo ricordo più, questo mi dispiace molto perché avevo sempre detto che sarei andato a trovarlo, perché è quello che mi ha salvato la vita.

Abbiamo parlato direttamente, abbiamo parlato della questione della mia famiglia, me stesso, io sono stato militare, sono fuggito l’8 settembre, sono ritornato a casa, mio padre ha fatto il prigioniero con i tedeschi, effettivamente al tempo dell’altra guerra, per esempio i tedeschi per me sono tabù, sono persone di cui nella mia famiglia si è sempre parlato male, non bene, quindi sono stato sempre alla macchia, e al momento sono partito e sono andato dai partigiani e ho ottenuto di essere nel mio paese e di lottare a salvaguardare la questione del mio paese, ecc, ecc.

“Guardate”, ho detto “Voi avete fucilato della gente, ammazzato anche in questi giorni, ne avete ucciso prima, li avete presi e li avete messi lì in carcere, ecc” proprio una discussione in questo modo. “Noi non abbiamo mai fatto questo, se abbiamo preso qualche d’uno c’era un campo di concentramento era là, e quando c’erano i rastrellamenti si lasciava andare, se abbiamo giustiziato, abbiamo più giustiziato dei nostri, che era la verità, gente che si comportava non conforme, non la disciplina, quello che era il artigianato”. E lì ho visto che si era svegliato qualcosa in lui e che mi ha detto, apertamente mi ha detto “Hai ragione, queste cose non le posso tollerare neanche io, non le posso tollerare”.

Poi siamo andati a dormire in una stalla, dove mi sono messo a dormire, mi ha messo le manette, accanto a lui perché aveva paura che io fuggissi, e poi lì discutendo ancora gli ho detto “Ma perché mi metti le manette?” e dice “Walter, io debbo farlo, ho degli ordini, ho fatto molto …” mi ha detto “Ma non ti preoccupare che fino a che sei con me non ci sarà pericolo”.

Però quando sono ritornato lì indietro, allora nel passaggio dove dovevano fucilarmi era già fatta la buca, e mi sono fermato e ho detto “Ma di chi è quella buca?” Tant’ è vero che un militare suo gli disse “Allora comandante, non dobbiamo mica riempirla?”, “Il comandante sono io non siete voi, decido io non decidete voi”. Perché lui al ritorno doveva seppellirmi, ammazzarmi e mettermi lì, e l’ho scampata. Sono venuti in quel momento, si sono fermati e non hanno più ucciso nessuno, e allora di lì siamo stati portati a Fornovo.

A Fornovo siamo stati là un tre, quattro giorni sotto delle cantine, poi di lì siamo stati portati a Cortile San Martino, dove alla scuola di Cortile San Martino c’era un piccolo concentramento, dove venivano anche portati i prigionieri che i tedeschi facevano dalla Linea Gotica, siamo stati assieme a loro circa sei o sette giorni, lì è stato l’unico momento dove ho provato una grande crisi personale, perché cosa è successo, lì c’erano i neri, ma io lì ho trovate persone buone, c’era un certo Roberto, era da due mesi in Italia e parlava già l’italiano, si capiva bene.

Un giorno che mi trovavo lì, questo lo devo dire, che parlavamo sempre con lui, mi diceva sempre “Walter, quando guerra finita io ti richiedo che devi venire a New York con me”, mi diceva sempre. È venuto che hanno preso uno, che era un ufficiale americano, un ingegnere. Un giorno questo ingegnere, che io parlavo con questo nero, con questo Roberto, viene e si avventa contro di me in un modo bestiale, e io sono rimasto lì e gli ho detto a questo Roberto “Ma cosa ha questo qua?” e dice “Lui ha che tu bianco, non devi parlare con me” dice. “Non devi parlare?”.

Allora questo bianco poi è stato colui che ha detto “Noi non vogliamo essere invischiati con questi, noi vogliamo essere messi in un reparto per conto nostro”, e sono stati messi in un reparto per conto loro, sono divisi, perché a loro davano una razione quando eravamo assieme, gli davano la margarina, gli davano il pane, gli davano questo, ma non era per noi.

Però loro lì mettevano lì e facevano comunella come tutti noi, noi eravamo in trentadue, di questi trentadue poi sono passati ancora circa sette, otto giorni, saremo stati lì una quindicina di giorni, adesso non so il 20 gennaio, il 25, proprio il calendario era sparito, una sera vengono ci mettono tutti in fila nel corridoio, e lì ne scelgono ventidue, no, ventiquattro, ogni quattro, tre, e questi per esempio sono stati fucilati a Villa Cadè, diciotto a Villa Cadè e altri sei nella zona di Parma, li hanno fucilati, eravamo rimasti in otto.

Dopo qualche giorno ancora sono venuti lì una sera, le SS, in due macchine e ci hanno portato in San Francesco, nelle carceri, e alle due dopo mezzanotte in corriera ci hanno portato a Bolzano.

D: Scusa Walter, in corriera vi hanno portato?

R: Sì, c’era una corriera.

D: E solamente voi otto?

R: No. Piena la corriera. Noi ci hanno preso in Cortile San Martino, ci hanno portato in San Francesco, e da San Francesco hanno completamente …

D: Assieme a degli altri?

R: A degli altri sì.

D: Di San Francesco.

R: Sì, la corriera era piena, non so la corriera ne conteneva quaranta, cinquanta, adesso …

D: E chi c’era a fare la guardia sulla corriera?

R: Ecco lì c’era questo qua, pensi adesso dovrei dire questo dovrei dire anche, dalla corriera quando ero a Fornovo, ritornando indietro, trovo Jim che era, un certo Jim che adesso era lì, quando l’ho visto “Ma tu sei un partigiano?”, “Sì” dice. Questo Jim era stato catturato dai partigiani in un combattimento verso Salsomaggiore, fatto prigioniero, e si era arruolato con le forze partigiane, e aveva ancora i pantaloni della Repubblica Sociale Italiana.

Quando è stato a Fornovo lui è stato furbo, è stato onesto, lui ha detto che era un prigioniero. “Walter” dice “Non dire niente”, che era prigioniero dei partigiani e che lo avevano preso là, e lì i suoi amici che erano scappati lo sono venuti a prendere e lo hanno obbligato ad andare ancora con loro, e lui ci è andato. E avevamo questo ad accompagnarci a Bolzano. Questo a Bolzano per noi è stata una grande fortuna perché, quando siamo arrivati a Verona, a Verona picchiavano. Avevano un fucile a testa, con quel bastone con quei …

D: Tu eri lì vestito ancora da inglese, con i vestiti …

R: Sì, allora quando siamo stati là, io avevo l’avvertenza di non andare mai davanti, di restare indietro, ma quella volta lì sono stato davanti, sono rimasto perché gli altri sono andati dietro loro, eravamo in fila, qui c’erano a Verona …

D: Ma quindi, partite da Parma con una corriera …

R: Sì.

D: Arrivate a Verona …

R: Sì.

D: Vi fanno scendere dalla corriera …

R: Sì, e ci portano dentro …

D: Dove?

R: Al Palazzo delle …

D: Come? Nelle cantine?

R: Sì, nella caserma dove era la Repubblica Sociale Italiana, tanto è vero che quando siamo dentro ci hanno messo in un angolo, in un coso buio, eravamo lì, e dopo circa un’oretta, sono comparsi due, due italiani, uno che era un maresciallo e l’altro era un sergente, un maresciallo perché aveva anche il cappello con la morte qui, che forse erano le SD, le SS. E lì questi qua cominciano a parlarti e dire “Tu sei stato un partigiano …” Bum … tac la testa, picchiavano forte.

Allora avevamo questo Jim che era lì che bruciava, ad un bel momento non ha più potuto resistere, è saltato in piedi, li ha presi per lo stomaco tutti e due “Per Dio” e gli ha cominciato a dire “Imboscati, vigliacchi, io sono stato in Russia e non ho mai visto di queste cose, picchiate …” e loro “Ma come tu li difendi?”, “Sì, li difendo perché siamo dei militari e dobbiamo alla questione della convenzione di Ginevra, ecc, ecc. Dobbiamo rispettarli” e allora si sono calmati.

Io e uno di Salso, e poi da lì quando è stato verso pomeriggio, ci hanno portati verso Bolzano …

D: Con cosa Walter?

R: Sempre con la corriera.

D: E sempre il gruppo che era partito da Parma?

R: Sempre il gruppo che era partito da Parma, tutti là e ci hanno portato dentro. Siamo arrivati a Bolzano dopo mezzanotte, verso l’una perché andavano piano con la questione degli apparecchi. Io avevo sempre la persuasione che mi buttassero in un burrone, che ti facessero oramai, e lì questi fili spinati che li vedevi appena, e anche lì ero il primo a scendere, perché ero davanti, andando giù quando sono andato per la porta del campo, dentro lì dove c’era questo capannone, ero un po’ restio ad andare dentro.

Ho preso due botte, sono stramazzato là nel piano, e li è venuto, mi ricordo ancora, un vecchietto come me adesso, un anziano, che poi il mattino ci siamo ritrovati, ed era un ebreo, un ebreo che aveva settantacinque anni, e lui è venuto lì che aveva un mozzicone di candela acceso e lui è venuto lì a dirmi “Guarda giovanotto” mi dice “Non cercare, qui purtroppo la vita è così, la guerra sta per finire dobbiamo essere forti” dice, mi ha rincuorato, e lì mi ha chiesto poveretto “Hai un pezzo di pane?”, “Hai un pezzo di pane?”, “No” gli ho detto “Proprio non ho niente”, “Va bene, fa niente” dice “Siamo uguali allora”.

Il mattino ci siamo ancora ritrovati con lui, e mi sono svegliato il mattino, ci hanno portato in uno spogliatoio, ci hanno ritirato tutti i nostri vestiti. Ci hanno lasciato la maglia, forse le mutande non le avevo neanche più, e poi ci hanno dato una divisa da prigioniero dove c’era la croce nella schiena, il numero davanti, io avevo il 10.079, con il quadro rosso, che era il deportato politico.

Poi sono ritornato, l’assegnazione di questo blocco, il blocco H, e lì al mattino sono venuto fuori, ho visto con grande meraviglia, ho visto delle persone che avevano il numero nero su sfondo bianco, con il quadrato nero, c’erano coloro che avevano il triangolo azzurro, c’erano la stella di Davide, e li abbiamo incominciato a vedere le cose. Il giorno dopo ho fatto un giro per il campo per ambientarmi, poi ho conosciuto diversi: Boni, Alceste, poi è venuto più tardi era venuto anche … diversi abbiamo conosciuto dentro lì …

D: Scusa Walter, il gruppo di Parma è stato messo tutto nel blocco H?

R: No, no, no. Noi eravamo questi quaranta o cinquanta che siamo venuti da Parma, ma altri erano già in questo blocco.

D: No, ma il gruppo che è venuto con te?

R: Sì, tutto nel blocco H, quello che è venuto con me.

D: E i giorni seguenti ti sei guardato in giro?

R: Eh sì, ho guardato lì, vedevo intanto, intanto che si aprivano pomeriggio, facevano fare un’ora un giro, loro che erano nelle sale di disciplina, c’erano le cose di disciplina a Bolzano, peccato che abbiano distrutto questo campo. Dove in queste prigioni di disciplina erano larghe circa 1 m, 1,20 erano larghe, e lunghe saranno state 5-6 metri, e lì dentro erano dentro sette, otto, dieci persone che, quando gli davano da mangiare non aprivano la porta, c’era un finestrino che magari, quando tu mettevi il piattino andava tutto fuori, facevano apposta perché tu non potessi … anche questo.

Lì ho visto per esempio le celle, questa gente che girava, che uno si domanda come sono, come non sono coloro perché, quando uno trasgredisce, qui del campo, qualcosa ti mettevano là, e là venivi fuori ucciso, perché noi avevamo l’obbligo, che quando eri nel campo dovevi scattare sull’attenti e metterti le mani nei capelli quando passava un tedesco, questo qua. E lì siamo stati diverso tempo …

D: E cosa facevi?

R: Dentro, lì sono stato. Un giorno, ma un giorno molto avanti … anzi devo dire questo, che questa è già la parte importantissima del campo di concentramento. Un giorno c’era il blocco E, che dicevano che erano i più pericolosi …

Blocco E e D, vado lì dove c’era dentro il reticolato, mi guardo e vedo il mio amico che eravamo in squadra assieme, che è Camangi Silvio, ci siamo abbracciati fra il reticolato, e la prima cosa che gli ho detto “Quanti giorni è che sei dentro?”, “Saranno una quindicina di giorni”. Ho detto fra di me “Qui c’è da morire”, perché l’avevo visto male, l’avevo visto deperito.

Poi è finito, poi siamo andati un giorno, chiedevano lì se si poteva andare fuori, perché poi dentro lì avevamo formato il Comitato di Liberazione, dove c’era il mio amico Alceste.

Alceste, che era l’organizzatore, lui aveva trentacinque anni, noi avevano diciannove, vent’anni, quindi era per noi uno che ti dava spirito, che ti emancipava, che ti diceva “Forza, coraggio”, aiutavamo lì la gente, diversi che magari erano messi molto male, ammalati, si cercava … eravamo d’accordo con il Comitato di Liberazione fuori, che uno magari ti dava il compito quando andava, tu lasciavi un pezzo di carta, un fazzoletto, quello là veniva, prendeva il bigliettino e poteva portare dentro qualche medicina per poter tirare avanti.

Lì un giorno vengono a chiedere per andare fuori a lavorare, avevano bisogno di fabbri, allora eravamo lì “Chi è fabbro?”, “Io” non ero fabbro porca miseria, ma ne volevano nove, dieci e io dicevo “Ci sarà uno che sarà capace di fare il fabbro”, e tutti quando ci siamo trovati lì e ci siamo detti “Ma sei capace di fare il fabbro?” e allora “No”, io ho interrogato “No”, “Tu?” “No”, “Tu?” “No”, “E tu?” “Io sì”, cosa doveva dire? Siamo andati lì in un’officina, ci facevano fare delle maniglie …

D: Fuori dal campo?

R: No, era sempre adiacente al campo, non era fuori dal campo, però lì c’era qualche borghese che potevi fare qualche scambio, tanto è vero che c’era un borghese che era lì che lavorava, io avevo un gilet che avevo salvato, nuovo, bellissimo era, l’ho venduto per due pagnotte, e una di queste pagnotte l’ho portata al mio amico Giuliano, e mi dice Giuliano “Ma tu Walter non hai fame?” “Oh! Altro che fame, ma facciamo metà per uno”.

Lì è durata che quasi era alla fine, anche lì delle volte anche da parte dei tedeschi che erano dalla parte della Wermacht non erano cattivi poveretti, c’era un sergente che quando ci ha visto lavorare, ci avevano dato un tubo grosso così da fare il gomito, era alto quasi un mezzo centimetro questo ferro, allora io dissi agli altri “Avanti alla fucina, facciamolo scaldare”, abbiamo bruciato tutto.

Questo tedesco, che era un sergente, ci ha visto e ha detto “Voi altri fabbri, nessuno” è venuto lì poveretto, dico poveretto perché sono sempre per il perdono, è venuto lì e ci ha detto “Così si fa per fare questo lavoro” e ci ha fatto questo lavoro, ce lo ha messo a posto, però il giorno dopo quasi tutti non erano più fuori.

Poi è venuto il 30 aprile, che ci hanno scarcerati, io ho avuto in consegna nella scarcerazione un partigiano che ho trovato dentro, un certo Bernaccioli Avio, che l’ho portato a casa, perché non era più in grado, se uno lo vedeva era così gonfio, era malatissimo, aveva la nefrite e la pleurite. Sono riuscito a portarlo a Trento, siamo andati nei posti di ristoro dei frati, siamo rimasti dai frati una giornata o due, lì ho visto un giorno, l’ho convinto di portarlo all’ospedale, farlo visitare da una dottoressa.

Questa dottoressa mi dice “Guardi che se questo fa ancora 10 km, rimane per strada, perché oramai…”. Allora lì ho avuto l’accortezza di farmi fare una lettera scritta da lui che diceva: “Mi trovo qui a Trento, mi trovo mal ridotto, vi prego di venirmi a prendere” da portare ai genitori.

D: Ascolta un’ultima domanda. Tu sei arrivato a casa quando?

R: Dunque, sono arrivato a casa verso il 9, 10 maggio, perché di lì siamo andati a Milano, a Milano siamo stati un giorno o due dove abbiamo passato la disinfestazione, poi un’altra giornata perché a Milano non c’era il treno, il treno c’era per un pezzo e poi a piedi. Verso il 9, 10 ecco …

D: Maggio.

R: Maggio, sì, i giorni del tragitto sono stati circa dieci giorni.

Ciceri Ambrogio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Ciceri Ambrogio, nato a Milano il 17/11/1917.

Dico anche la via dove sono nato?

D: Sì, se te la ricordi.

R: Via Pisacane 38.

D: Ambrogio, a settembre del ’43 tu dov’eri?

R: A Verona.

D: Come mai? Cosa facevi a Verona?

R: A Verona io ero staccato all’auto centro.

D: Eri militare, quindi?

R: Ero militare però io al 25 di luglio mi sono congedato da solo.

D: Come al 25 luglio?

R: Del ’43.

D: Come ti sei congedato da solo?

R: E’ quello che è successo. Allora è stato il Duce e s’eri stuf de fa il militar, ero stanco di fare il militare e sono andato a casa.

D: Sei venuto a Milano?

R: Sono venuto a Milano e mi sono preso i vestiti borghesi e sono ritornato a Verona perché a Verona avevo degli amici: uno di Rovigo, uno di Padova.

Abbiamo preso un appuntamento, prima che arrivasse l’8 Settembre e ci trovavamo in una trattoria di via XX Settembre a Verona.

Decisi di andare a Brescia, io conoscevo gente a Brescia e si sarebbe andati in Val Trompia, si sarebbe andati in montagna praticamente, invece purtroppo il 10 Settembre del ’43 siamo andati alla stazione per prendere il treno e andare a Brescia, ci hanno fermati, ci hanno chiesto i documenti, c’erano tedeschi, c’erano fascisti e ci hanno portato su al Forte San Leonardo .

Ci hanno arrestati e ci hanno portato al Forte San Leonardo, il 12 settembre.

D: Scusa Ambrogio, voi eravate decisi, te e i tuoi amici, di andare in Val Trompia per aggregarvi ad una formazione…

R: Sì ad una formazione partigiana che già cominciava a formarsi.

D: E voi avevate già i contatti?

R: Avevamo già i contatti.

D: Non ti ricordi il nome di questa formazione?

R: No, non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Comunque siete lì alla stazione di Verona…

R: Sì di Verona.

D: Eravate in stazione di Verona e lì vi hanno arrestati?

R: No ci hanno fermati e chiesto i documenti.

Abbiamo dato i documenti, i documenti fasulli, avevamo creato dei documenti fasulli e ci hanno arrestati e ci hanno portati su al Forte San Leonardo.

D: Ecco e dicevi scusa, questo è importante: oltre ai germanici c’erano anche degli italiani?

R:I fascisti c’erano, le pattuglie fasciste c’erano e ci hanno portati su al Forte San Leonardo perché tu sai a Verona ci sono due forti: San Mattia e San Leonardo.

Ci hanno tenuti lì fino al 22 e dopo al 22 …

C’era un camerone, ci hanno interrogati, anzi ci hanno proposto di andare in Germania a fare l’istruzione per aggregarsi al nuovo esercito fascista che avrebbero fatto se firmavamo una carta, sai qualche sberla l’hai presa perché io non ho mai firmato niente, al 22 ci hanno portati giù alla stazione.

Alla stazione arrivava una cosa da Peschiera.

D: Un treno.

R: No un treno, era già carico di …

D: Sì ma era un carro bestiame?

R: Sì un carro bestiame logico mica me dan la prima clas per l’amor di Dio, ci mancherebbe altro e di lì ci hanno caricato su questo carro bestiame e ci hanno portati a Dachau .

D: Scusa Ambrogio, lì a forte San Leonardo sei rimasto dal momento che ti hanno…

R: Dodici giorni circa.

D: Lì ti hanno interrogato, ti hanno chiesto se volevi firmare per …

R: Se volevi firmare per andare…

D: Ecco oltre al vostro gruppo, oltre al tuo gruppo c’erano altre persone?

R: Sì sì, eravamo circa venticinque, trenta persone che c’erano già quando io sono arrivato.

Quel giorno, il 22, ci hanno portati giù.

E’ arrivato un convoglio da Peschiera che poi ho saputo che erano quelli che erano miliari arrestati, non so per che cosa e che io sul convoglio poi tra parentesi ho trovato un mio carissimo amico Robbiati Libero, che era di Milano, che era stato arrestato perché lui faceva il militare a Pavia, era della classe 1917, della mia classe. Eravamo amici da bambini, da ragazzi, andavamo a scuola assieme e lui è entrato in un bar una sera, c’era dentro un gruppo di gerarchi fascisti, gli hanno detto una parola in più, lui ha picchiato perché era uno che…, ha picchiato uno di quelli, l’hanno preso e gli hanno dato dieci anni di prigione perché ha picchiato un gerarca, un fascista e l’ho trovato sul carro che andava anche lui a Dachau, ma lui veniva da Peschiera.

D: Il viaggio ti ricordi quanto è durato?

R: Dunque siamo partiti al 22, siamo arrivati a Dachau circa il 25 o 26 mattina.

D: Quando tu dici che sei arrivato a Dachau il treno dove è arrivato?

R: A Monaco.

D: Poi?

R: Poi a piedi ci hanno incolonnati perché da Monaco a Dachau ci sono 10 chilometri circa e ci hanno portati a Dachau.

D: Con le guardie.

R: Con le SS in fianco, tanto è vero che prima di entrare nel campo tu leggi: il lavoratore mobilita ma stanca meno stanca…

D: ” Arbeit macht Frei”.

R: Io sto scherzando.

D: “Il lavoro rende liberi”.

R: Rende libero. Sì infatti è una libertà che non finiva più.

D: Come ti ricordi l’ingresso di Dachau quando siete arrivati?

R: Un ingresso che c’era questo scritto, un ingresso che sembrava che tu entravi in una tenuta, in un ranch, ecco una cosa così perché c’era un grandissimo piazzale che lì ci hanno fatto spogliare tutti nudi.

D: Fuori?

R: Fuori, fuori, all’aperto.

Ci hanno sequestrato tutti i panni, tutto quello che avevamo.

Siamo stati lì, perché noi siamo arrivati alle 6 a Monaco e siamo arrivai alle 7,30.

D: Alle 7,30 del mattino?

R: Del mattino. Sto parlando del mattino.

Ci hanno tenuti lì fino alle quattro di sera nudi, in piedi, tanti si sono sentiti male e poi ci hanno mandati a fare la doccia .

D: Scusami, allora, dalle 7 del mattino tutti spogliati…, il vostro trasporto eravate in tanti?

R: Eravamo in 1.500 circa.

D: Come entri in Dachau dove vi hanno messo lì nudi.

R: Entrati in Dachau sulla sinistra c’erano delle baracche dove c’erano dentro delle SS e noi ci hanno messo in faccia e ci hanno detto di spogliarci nudi, allineati, una fila di qua, una …., setto o otto file, dieci file, non mi ricordo, messi tutti i vestiti per terra, hanno spazzato via tutto, poi verso le 15,30 del pomeriggio circa perché non c’era più l’orologio, te lo hanno portato via, siamo andati dentro a far la doccia.

Mentre andavamo dentro ti facevano l’interrogatorio: “Cosa facevi di mestiere?”.

Io non sapevo cosa dire perché io non ho mai lavorato a dir la verità.

Io sono stato al Gonzaga per cinque anni, ho fatto il Gonzaga perché mio padre aveva la possibilità e poi sono andato a fare la commerciale Zaccaria in via Commenda.

Dopo in via Commenda, la seconda commerciale si doveva andare vestiti da avanguardista e io non ci sono più andato non perché io …, perché ho visto mio padre…, mio padre avendo uno stabilimento con cento operai, una pelletteria in via Giulio Carcano 26, padrone di tutta la casa e di tutto il coso, doveva avere il quadro del Duce nell’ufficio e costava 500 lire il quadro del Duce.

Non era per le 500 lire ma mio padre era socialista e non lo ha mai comperato.

Un giorno sono venuti lì, l’hanno preso, l’hanno portato fuori e lo hanno picchiato; io venivo in quel momento a casa da scuola, l’ho visto e sono andato dentro anch’io in mezzo a cercare e le ho prese anch’io, ma non perché ho preso qualche schiaffo ma perché ho visto picchiare mio padre, da lì ho odiato i fascisti.

Quando sono andato a scuola ancora a fare la seconda commerciale che mi hanno detto: “Bisogna venire vestiti…” perché c’erano i saggi ginnici e tutte quelle palle che inventavano i fascisti, dovevo andare vestito da avanguardista.

Io? Ma non spendo nemmeno una lira.

Non sono andato più neanche a scuola; oltre che non andare più a scuola, forse tu lo sai che allora si doveva andare al sabato a fare il premilitare, non andavo più neanche a fare il premilitare e mi cercavano a casa, mi venivano a cercare.

Io avevo una fidanzatina in corso S. Gottardo 40 che suo padre era un comunista sfegatato e mi teneva lì a dormire, io gli avevo raccontato tutto il fatto e lui mi teneva lì a dormire.

Lui è stato fucilato al campo Giuriati.

Si chiamava di cognome Moiraghi, invece la mia fidanzatina si chiama Moiraghi Carla, si chiama, io penso che sia ancora in vita.

Dopo lei è andata in montagna, lei ha fatto tempo ad andare in montagna a fare la partigiana.

Andiamo avanti da Dachau.

D: La doccia?

R: Prima della doccia mi hanno chiesto cosa facevamo di mestiere; l’importante è il mestiere perché se tu non avevi un mestiere …

Io non sapevo cosa dire e mi è venuto in mente e ho detto: il meccanico.

Mi ha salvato perché allora i meccanici li…, ma io non ero capace di fare il meccanico, non sapevo niente di meccanica.

Ad ogni modo ci hanno tenuto due mesi nel campo 23.

D: Nel blocco 23?

R: Nel blocco 23.

D: Ma ascolta oltre alla doccia ti hanno rasato …?

R: Sì mi hanno rasato, mi hanno lasciato in mezzo la striscia , ci hanno dato la casacca, doccia fredda senza sapone, senza salvietta, senza niente, intendiamoci bene, ti sei vestito ancora bagnato, non c’erano maglie, non c’erano mutande, non c’era calze, ci hanno dato gli zoccoli olandesi di legno e ci hanno mandato al blocco 23.

D: E ti hanno immatricolato ?

R: Sì, la mia matricola è …., deve essere su lì, 53 mila…

D: …765. Quella di Dachau?

R: Invece quella di Flossenbürg è 4958.

D: Ti hanno immatricolato e ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso. Era già preparato sulla giacca.

D: Sulla zebrata ?

R: Sulla zebrata. Sono stato lì due mesi poi una mattina ci hanno chiamati…

D: Sei stato lì due mesi al blocco 23?

R: Senza fare niente.

D: Non facevate niente?

R: Niente dalla mattina alla sera.

D: Il blocco era diviso in due Stube ?

R: Sì praticamente c’era una cosa di rete, adesso non mi ricordo, so che noi si dormiva…, ad ogni piano di castelli eravamo in tre con una coperta, beh faceva caldo, era settembre, ottobre, non è che faceva tanto freddo.

Era lavarsi che…, tu ti dovevi lavare così senza sapone, senza salvietta, senza niente e il mangiare, perché abituarsi al mangiare è un problema.

E’ un problema quel cibo che ti davano, io adagio adagio l’ho mandato giù, quelli che non l’hanno mandato giù purtroppo ci hanno lasciato la vita e questo è successo anche a Flossenbürg.

D: Ma ascolta, lì a Dachau facevate gli appelli ?

R: Tutti i gironi, per l’amor di Dio, alla mattina, al pomeriggio.

D: Però dal campo non sei mai uscito?

R: Mai uscito, sono uscito soltanto per andare a lavorare, perché dopo due mesi ci hanno chiamati, da meccanico mi hanno fatto fare l’idraulico in un castello in riva al Danubio che doveva essere ristrutturato perché doveva servire al Fuhrer per fare le cose.

C’erano muratori, c’erano idraulici; io dato che facevo il meccanico mi hanno chiesto se sapevo qualcosa di idraulica e ho detto sì, perché poi ero riparato dal freddo, là faceva freddo, dopo ha incominciato a venire novembre, dicembre e non so come ho fatto io.

Per fortuna che c’erano…

D: I Meister .

R: Sì i Meister e io ne ho avuto uno buono che ha capito che non capivo proprio niente e mi ha fatto vedere qualcosa, è stato lì tutti i giorni fino alla fine di dicembre, il Natale lo abbiamo fatto lì.

D: Ambrogio ma da Dachau ti hanno portato solo te del tuo gruppo in questo castello?

R: Sì quel gruppo che eravamo dentro lì.

D: Ma c’erano altri italiani?

R: No italiani lì non ce ne erano, erano tutti russi, sloveni, polacchi, cecoslovacchi, un po’ di tutto.

D: Italiano eri solamente te?

R: Italiano solo io.

D: Vi hanno portato come da Dachau a questo castello?

R: Con i camion. Siamo andati via alla mattina e siamo arrivati al pomeriggio. Ci hanno messo dentro in una baracca tutti assieme, eravamo un centinaio, non di più e dalla parte di la c’era la SS, non c’era il Kapò , c’era la SS e hanno fatto un discorso che hanno detto: “Il primo che scappa lo prendono e lo fanno sbranare dai cani”.

Infatti tre li hanno riportati indietro sbranati dai cani e li hanno fatti vedere, li hanno tenuti lì fino alla sera quando siamo rientrati dal lavoro.

Lì ho passato tre mesi poi il mangiare era discreto perché lavoravi.

Poi c’era quel Meister che veniva da fuori che ogni tanto ti portava un pezzo di pane, si capisce che lo faceva anche lui per salvarsi la vita, tra parentesi, difatti dopo Natale, a febbraio…

D: Scusa, Natale lo hai fatto in campo?

R: No Natale l’ho fatto lì.

D: Al castello?

R: Al castello.

D: Al campo non sei più rientrato?

R: A Dachau no, mi hanno portato direttamente a Flossenbürg.

D: Dal castello?

R: Dal castello. Erano già in… a Flossenbürg.

D: Tutto il vostro gruppo?

R: Tutto il nostro gruppo.

D: Come vi hanno portato?

R: Con il camion.

D: Anche lì?

R: Con il camion, sì.

D: E questo è avvenuto quando, gennaio, febbraio?

R: I primi di febbraio del ’44 e hanno fatto anche lì la selezione .

Praticamente ai quei cento chiedevano e lo sapevano che io ero un meccanico, c’era poco da fare e mi hanno mandato il giorno dopo a lavorare sulle ali di apparecchi di …

D: Ascolta, arrivi a Flossenbürg e lì cosa succede?

R: Fanno la conta perché quando scendi fai la conta poi mi mandano al blocco 9. Al blocco 9 sono andato; poi dopo il Kapò alla mattina ti dice che devi andare a lavorare.

D: Ti hanno cambiato numero.

R: Sì il 4958. Se non dicevo questo non mi davano da mangiare.

Lo dovevo dire in tedesco. Ormai lo so ancora dopo sessant’anni, lo ricordo ancora questo numero, non posso dimenticarlo, non si può dimenticarlo.

D: Il giorno dopo subito a lavorare?

R: A lavorare, sì.

D: Ma l’officina era all’interno del campo?

R: No, fuori il campo, si doveva fare quasi un chilometro circa; una stradina che andava, c’erano dei capannoni, il capannone dove hanno portato me c’erano dentro delle strutture, su ogni cosa c’era su un’ala di apparecchio e tu dovevi ribattere i cosi di alluminio però non dovevi lasciare l’aria perché se lasciavi l’aria non andava bene.

Io non l’ho mai fatto.

Cosa ho fatto? Ho fatto un buco così nell’ala.

Mamma mia quante botte ho preso perché dicevano che ho fatto apposta per fare danno alla….

“Mi è scappato il trapano”, io ho detto in italiano, il kapò che parlava un mezzo italiano, aveva su il triangolo nero, “Come ha fatto a scappare?” “E’ scappato il trapano nel tirar fuori il coso ho fatto il buco”.

Mi hanno messo là e 50 nervate sul sedere e dopo dovevo lavorare ugualmente.

Lavoravo con un polacco che era un gran sporcaccione perché faceva la spia, un gran sporcaccione.

Allora ho detto: “Guardate io tengo la cosa e quello la ribatte con la cosa che è più pratico di me, io faccio il meccanico ma non ho mai fatto queste cose qua”. Infatti siamo andati avanti e sono andati bene.

La giornata era sempre quella, rientravi alle quattro e mezza, li mettevano tutti inquadrati, facevano l’appello, poi chiamavano chi doveva essere impiccato; tutti i giorni ce ne erano, una volta undici, una volta c’erano dentro anche tre italiani e poi lasciavano lì gli impiccati fino alla mattina fino a quando noi si andava al lavoro per farci vedere che chi faceva gli sgarri venivano puniti in quel modo.

Poi dopo l’impiccagione, prima c’erano 25 nervate sul sedere, poi ce n’erano 50 a secondo le cose che hai fatto e poi c’era l’impiccagione.

Poi c’era questo, adagio adagio, io avevo un numero basso, ero uno dei primi assodati a Flossenbürg, siamo andati fino a 60.000, 70.000, non si poteva più dormire nel blocco.

Un giorno sì e un giorno no si andava giù al Wäscheraum a fare la doccia e ti tenevano lì dalla sera fino alla mattina nudi; alla mattina ti davano i vestiti perché dicevano che li disinfettavano, tu dovevi vestirti e andare a lavorare e tutti i giorni era quello.

L’unico rispetto che avevano era la vigilia di Natale.

La vigilia di Natale del ’44 ho mangiato un pezzettino di carne, l’hanno data a tutti, nel brodo, hanno fatto il brodo con dentro un po’ di farina nera e c’era dentro un pezzo di carne e non ci hanno fatto lavorare, né la vigilia né Natale.

Il giorno dopo siamo andati a lavorare, ma tutti i giorni era quella stessa cosa: la conta, giù al bagno un giorno sì e un giorno no.

C’erano sempre queste cose qua.

Il forno crematorio andava dalla mattina alla sera.

Poi noi italiani eravamo dei traditori e allora la domenica noi non si riposava, si doveva portare il carbone al forno crematorio; dalla mattina alle 7 con le cose si andava giù poi si andava su poi si andava al forno crematorio fino a mezzogiorno, poi si andava al blocco.

D: Una giornata tipo di Flossenbürg, la sveglia a che ora era?

R: La sveglia era alle 5,30, 6,00.

D: Estate e inverno?

R: Estate e inverno lo stesso, non esisteva né inverno né estate, là il giorno era tutto quello all’infuori della domenica un’ora in più.

D: Alle 6 anche se pioveva, nevicava?

R: Se pioveva dovevi uscire, dovevi uscire.

D: Tu sei sempre rimasto nel blocco 9?

R: No, sono andato al blocco 7, al blocco 3, al blocco 5.

D: Anche lì Ambrogio i blocchi erano divisi in due Stube?

R: Qui a Flossenbürg c’è una scalinata, c’era una scalinata, forse non c’è più.

D: No, la scalinata c’è ancora.

R: Una di blocchi di qua e una di là.

Cominciava con il blocco 1, blocco 3, blocco 5 e andava avanti così fino al blocco 9…

Perché io quando ero al blocco 3 ero a posto perché mangiavo, perché alla notte io uscivo. Sotto il blocco 3 c’era la cucina e io andavo giù, io e un certo Esposito.

D: Eugenio?

R: No, Esposito lo conosco, quello che è morto, il pompiere, l’è un me amis, ci siamo trovati là a Flossenbürg insieme a Camia.

Andavo giù in cucina a rubare le patate e le portavo su un po’ per tutti e non si poteva farle cuocere, si mangiavano crude. Cosa vuoi fare, almeno mangiavi qualcosa no?

Le mangiavi crude fino a quando hanno pescato il mio amico, io ho fatto in tempo a scappare, lui invece lo hanno pescato i tedeschi.

E’ morto a botte dentro nel gabinetto.

Lo hanno ammazzato a botte nel gabinetto.

Si chiamava Esposito, era un napoletano.

Di lì ci hanno spostato, non so perché hanno scelto anche me, mi hanno spostato al blocco 7.

D: Nel blocco in quanti eravate più o meno?

R: Si dormiva ai castelli in tre…

D: Anche lì?

R: Sì, sì. Prima in uno, dopo in due, dopo in tre.

Dopo alla fine c’era troppa gente.

D: E di quanti piani erano?

R: Tre piani. In un blocco ce n’erano tre di là e tre di qua; si entrava, appena fuori dall’entrata c’era la guardiola del Kapò, dove dormiva il Kapò, c’era un piccolo spazio dove c’era una piccola stufa che all’inverno andava per un’ora, un’ora e mezza, dove noi si tentava di tagliare le patate con la buccia e si mettevano lì a scaldare, appena che erano calde le mettevamo in bocca per mangiarle, fino a quando ho potuto grattare le patate, quando non si poteva più niente.

Io e quello lì abbiamo rubato tutto il pane al Kapò.

È successo un disastro, è successo un disastro.

Ci hanno messo tutti in fila, una parte di Kapò e di polacchi, che erano aggregati, di là con in mano un coso a correre avanti e indietro a picchiare per un’ora e volevano sapere chi è stato.

Se ero stato io … ma chi gli diceva qualcosa, ti impiccavano, ti ammazzavano.

Mi sono sempre arrangiato così fino a quando un bel giorno lì ho trovato Camia ed Esposito.

Mi è venuta la dissenteria.

Non puoi andare al Revier perché il Revier è l’anticamera del forno crematorio e allora cosa facevo? Andavo a lavorare lo stesso, legavo i pantaloni perché la diarrea…, alla sera quando entravo mi levavo i pantaloni sotto il Wäscheraum li lavavo, li mettevo sotto il cuscino ma alla mattina erano ancora bagnati poi la dissenteria non passava, allora cosa facevo? Davo via il pane per l’acqua bollita.

Mi davano l’acqua bollita e io davo via un pezzo di pane, era poco, ti davano tanto così di pane alla sera con un cucchiaio di marmellata, un cucchiaio di margarina, a secondo, non tutti e due marmellata e margarina, una sola, fino a quando dopo venti giorni mi è passata però non sono andato alla Revier.

D: Ascolta Ambrogio, quindi sveglia alle 6, Wäscheraum per lavarsi.

R: Diciamo lavarsi.

D: Poi?

R: Poi fuori.

D: Vi davano il caffè, qualcosa?

R: Sì, acqua sporca, fuori, un mestolo poi giù da basso conta, poi accoppiati si andava fuori per andare a lavorare alle 7,30 circa.

Si andava a lavorare e si arrivava alle 8 sul lavoro, a mezzogiorno ci davano un mestolo…

D: Lì in officina?

R: In officina.

D: Quindi la Miska, la gavetta ve la portavate…

R: Per forza, se non avevi quella non mangiavi.

Portavi la gamella qua attaccata, ti davano un mestolo di minestra, non c’era dentro né riso né niente, c’era dentro verze e bucce di patate. Un mestolo e con quello lì tiravi sera; la sera andavi a casa, un pezzo di pane o un cucchiaio di marmellata o un cucchiaio di margarina o un pezzo di salame avvolto nella carta, non so che salame era e basta.

Poi se ti capitava dovevi andare giù al Wäscheraum tutta la notte perché dovevi fare la doccia per disinfettare i vestiti, un giorno sì, un giorno no, un giorno sì, un giorno no.

Ne sono morti tanti.

D: Ascolta ti ricordi oltre agli italiani che dicevi, l’Esposito il Camia, ti ricordi altri italiani lì a Flossenbürg?

R: Degli altri italiani non mi ricordo più i nomi perché io sono stato uno che ha fatto la marcia di eliminazione .

D: Lì a Flossenbürg tu sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 19 aprile del ’45.

D: Sempre lavorando in questa…

R: No. A febbraio non ci hanno mandati più a lavorare perché già la guerra… e allora ci tenevano ai blocchi.

Il 19 Aprile del ’45 è arrivata la Croce Rossa Internazionale, sulla salita però non l’hanno fatta entrare.

Hanno incolonnato chi poteva stare in piedi, eravamo circa 1.500, 2.000 e quelli che proprio erano quasi morti e non potevano camminare li hanno lasciati lì e intanto che noi si andava giù si vedeva la Croce Rossa e l’hanno fatta entrare nel campo perché hanno lasciato libero in campo.

Ci hanno fatto fare quattro giorni a camminare senza bere, senza mangiare, chi cadeva gli sparavano alla tempia fino a Darvin ai confini della Cecoslovacchia.

Lì una mattina, il 23 di aprile, dei carri armati americani hanno fatto una puntata e i tedeschi sono scappati e ci hanno abbandonati su uno spiazzo ma gli americani non sono venuti perché gli americani sono venuti quattro giorni dopo.

Noi vedendoci liberi siamo scesi tutti, ero con quattro italiani, uno che suo padre faceva il casellante a Casale Monferrato che poverino è annegato, c’era un fiume è andato dentro a fare il bagno ed è annegato, poi c’erano altri tre italiani che non ricordo il nome perché adesso ti spiego tutto quello che è successo.

Siamo andati giù e siamo andati in una cascina vuota, c’erano delle galline, tu puoi immaginarti, eravamo quattro italiani, tre russi, due polacchi e basta.

Abbiamo preso una gallina, l’abbiamo spennata ma non l’abbiamo pulita, la abbiamo fatta cuocere; non ci ricordavamo più però l’abbiamo mangiata tanto è vero che dopo mi è venuto il paratifo.

I russi andavano in paese e requisivano tutto, portavano lì il mangiare, ce n’era di mangiare che non finiva più.

Una mattina, il 27 o il 28 mattina, alle 4 o alle 5 del mattino, era estate era il mese di aprile, ma era chiaro, si spalanca una cosa, vediamo uno nero, erano gli americani; di lì ci hanno portati al campo di aviazione che avevano creato perché loro sapevano che c’era questo trasporto e avevano trovato tutti i morti dietro la strada che hanno lasciato i tedeschi e ci hanno portato al campo di aviazione dove c’era un ospedale da campo e lì ci hanno ripulito, fatto le punture, siamo stati lì un bel po’ per tirarci su perché io pesavo 36, 37 chili.

Il campo era diretto da un ufficiale, da un tenente colonnello italo americano e allora io sono andato da questo qua e gli ho detto: “Senta una cosa, non si potrebbe dare vita agli…, siamo qua a fare! Siamo qua in quattro”, “E con che cosa vai?” “In paese sequestro un cavallo e un carretto e andiamo” ” Ma è pericoloso!”.

Dopo un po’ mi hanno fatto un permesso però dice: “A Innsbruck voi vi dovete presentare nel centro di raccolta che loro vi mandano in Italia”.

Io ho fatto tutta l’Alta Baviera, tutte le volte che ci fermavamo, poi eravamo armati perché lì non potevi andare…, poi ci hanno dato le rivoltelle, le munizioni per fare il viaggio e si andava a dormire nelle case.

Quando si andava a dormire nelle case noi si dormiva nell’ultima stanza, mai nella prima o nella seconda o in mezzo, nell’ultima. Avevamo paura che i tedeschi…

Ad ogni modo siamo arrivati ad Innsbruck.

A un certo momento quelli là mi dicono: “Allora andiamo a presentarci…?” “Io no. Io vado alla ferrovia, il primo convoglio che passa per l’Italia io me lo prendo e vado in Italia perché se andiamo dentro là stiamo quattro o cinque mesi prima di andare in Italia a casa”.

“Ma io non so, io vado”. Insomma loro sono andati, io cosa ho fatto: ho girato un po’ Innsbruck fino a quando ho trovato da vendere i cavalli.

Ho venduto i cavalli ma non per i soldi, per loro, poi mi sono fatto dare anche delle fedi perché le avevano portate via a mio padre e a mia madre i fascisti e sono andato alla stazione.

Dopo un’ora che ero lì passa mica un’altra tradotta di alpini che andava in Italia; sono saltato su e l’ho presa.

Sono andato fino a Bolzano; a Bolzano hanno riconosciuto subito da dove arrivavo.

Il giorno dopo è arrivato un pullman dell’ATM perché lì era tutto bombardato, da Bolzano fino a Verona la ferrovia non andava e mi hanno portato a Milano.

Sono arrivato a Milano il 21 luglio del ’45.

D: Luglio?

R: Luglio del ’45 a mezzanotte, dodici meno un quarto in Piazza del Duomo mi hanno scaricato.

Dovevo prendere il 24 perché abitavo in Via Ripamonti e ho preso l’ultimo tram ma ero vestito da americano con i pantaloni corti.

Il tranviere quando mi ha visto ha detto: “No, non pagare il biglietto”, tanto al pagavi no il bigliet, non potevo pagare il biglietto come faccio, non ho neanche una lira!

Sono arrivato a casa. Era estate, era il 21 luglio.

Fuori col caldo che faceva, c’era fuori una mia vicina.

Quando mi ha visto ha detto: “L’Ambrogino! Spetta ad andà in cà se no fai morire di crepacuore tua mamma perché tua mamma ti pensa morto”.

Avevo la fotografia alla chiesa di via Ripamonti, l’Annunziata come si chiama, quella mia fotografia perché io ero morto.

D: Allora te se venu a ca e la tua vicina…

R: Mi ha detto di aspettare perché doveva almeno preparare la famiglia, erano le dodici e mezza circa, poi c’era in casa mia sorella e c’era in casa, che io lo chiamavo fratellastro, un ragazzo, Giaele si chiamava, che era il figlio della portinaia della casa di mio padre in via Giulio Carcano 26, erano morti il papà e la mamma, mio papà e mia mamma lo hanno preso e lo hanno tenuto come figlio e dormiva nel mio letto, io ormai erano otto anni che ero via, lui non era nemmeno andato a militare.

Ad ogni modo poi entro in casa, ci abbracciamo, si mettono a piangere, insomma tante belle storie, tante belle balle, gli do le fedi a mio papà e alla mia mamma, mi faccio il bagno, mi vesto e me ne vado.

“Come te ne vai!”

Avevo voglia di andare in giro, di andare a vedere le vecchie cose che ho lasciato otto anni prima, non sono quasi mai venuto a casa da militare e sono andato, sono stato via quattro giorni.

Sono andato, ho trovato la mia ex fidanzata che ormai era con un capitano dei partigiani che era in montagna, non mi interessa perché non è che mi faceva dispiacere.

Poi ho trovato un’altra mia ex fidanzatina che poi l’ho sposata.

Sono stato lì in casa, abbiamo parlato, abbiamo mangiato, ho visto tutte le cose, ho visto chi è morto, chi è vivo.

Volevo essere libero e fare quello che volevo.

Poi sono andato a casa e ho cominciato a ragionare perché mio padre la fabbrica l’ha persa perché ha avuto un incidente con la centrale del latte nel ’39 quando io ero a militare.

E’ stato in coma tre mesi, quando è uscito dal coma non era più mio papà, non era più Ciceri Luigi.

Mio papà è questo.

Andavo a dormire a casa di un mio amico, non dormivo in casa, andavo lì dai miei ed a un certo momento ho detto: “Ma che vita sto facendo io, quasi quasi mi sposo”.

Quella li mi tirava per la camicia e allora mi sono sposato a ottobre del ’45, ma non mi sono sposato il 28 ottobre, mi sono sposato il 27, mai il 28 ottobre e siamo andati avanti un po’ fino a quando poi è nata mia figlia.

Mia moglie era troppo gelosa, scene da baraccone, una cosa terribile.

Io chi è geloso lo compatisco.

Io non potevo ritardare mezz’ora. Se dicevo vengo a casa alle 7, dovevo essere a casa alle 7, non potevo fermarmi con un amico a parlare, era il colmo dei colmi poi a me che piaceva la libertà era una cosa assurda.

Ad un certo momento ho detto: “Senti…”.

Una sera che sono venuto a casa, se non faccio a tempo a tirar via la testa prendevo un bottiglione che mi spaccava la testa, perché avevo ritardato un’ora o due, diceva che avevo la morosa, tute le stupidate delle donne, cosa si inventano.

Mi sono diviso, ho preso la valigia e sono andato via.

Mia figlia aveva cinque anni.

A casa di mia mamma non ci volevo andare, non volevo tornare perché dopo mia madre, Giaele era andato via, si era sposato, mia sorella si è sposata anche lei, mio padre era morto nelle mie braccia nel ’50, gli è venuto un tumore allo stomaco.

Non volevo andare a casa di mia madre a dare fastidio, poi poverina anche lei aveva tante cose, poi dopo mia sorella ha cominciato ad avere dei bambini, poi c’era mia figlia.

Insomma sono andato via, mi sono messo con una qua in corso Magenta; siamo stati lì un bel po’ assieme fino a quando ci siamo lasciati e dopo sono sempre stato solo.

D: Ma Ambrogio quando sei tornato hai iniziato a parlare della deportazione?

R: Sì ero con Papalettera, non so se ricordi Papalettera.

I primi a fondare che l’abbiamo fatto in corso Matteotti, io e Papalettera. Poverino adesso è morto.

C’era un altro, Beretta, è sempre stato anonimo, faceva l’usciere alla banca d’America e d’Italia, dietro la Scala, mi sembra.

D: Ma raccontavi ai tuoi amici, a casa?

R: Sì raccontavo, ma guarda sembravano barzellette.

Dopo tanti anni, adesso cominciano a capire qualcosa ma non tanto.

Sono andato nelle scuole anche quando c’erano i miei nipoti perché una delle mie nipoti adesso fa l’Università, io andavo quando faceva le elementari, quell’altra fa il liceo.

Quando facevano le scuole elementari mi chiamavano e andavo là a spiegare com’era la deportazione, cosa è stato, come è stato il fascismo e tante belle cose, ma vedi ho sempre visto che la gente adulta non si è mai interessata, non si è mai interessata.

Noi abbiamo un capo del Governo, scusami, che non ha mai presenziato una volta, una volta al 4 novembre ai monumenti dei deportati, non dico andare di là dagli ebrei ma al monumento dei deportati, ma nessun capo del Governo, anche democristiano, nessuno.

L’unico, quando c’era il socialismo a Milano, che mandavano un rappresentante del comune; adesso il comune manda uno che non sai nemmeno chi è a portare una corona e basta, ma non fa come Albertini che va a Musocco e poi va anche…

Ma io dico sono morti e non metto in dubbio, un morto cerchiamo di rispettarlo, lasciamo stare come la pensavano, come non la pensavano, ma che adesso mi vengono qua a raccontare che …

Da quando c’è stata la Repubblica, l’unico che ha difeso è stato Pertini.

Io ero con il fratello di Pertini a Flossenbürg e poverino hanno detto che l’hanno fucilato; non è vero, è morto poverino di dissenteria, non l’hanno fucilato Pertini perché non c’era motivo di fucilarlo, è morto come sono morti tanti altri, come tre colonnelli che venivano dalla Grecia, sono morti anche loro perché non volevano mangiare.

C’erano là anche dei generali, c’era là anche padre Gianantonio, che adesso è morto anche lui ma è morto qua non è morto là.

Praticamente non si sono mai interessati, i democristiani non si sono mai interessati di queste cose, mai, l’unico che ha fatto qualcosa, se abbiamo qualcosa è Pertini perché è stato Presidente della Repubblica, ma gli altri…

D: Ascolta Ambrogio, a Dachau o a Flossenbürg ti ricordi se hai visto anche delle donne deportate?

R: No. C’erano le donne perché si sapeva che c’erano le donne.

D: Dove questo?

R: Fuori dal campo, sia a Flossenbürg che a Dachau, ma servivano per tante cose. Per esempio a Flossenbürg c’è stato anche Canaris e l’hanno fucilato lì a Flossenbürg, Canaris.

Sai chi era?

D: Quello di Roma dici?

R: Canaris il tedesco che ha tradito Hitler.

D: Sì, sì, …quello che … di Roma.

R: Il maresciallo Canaris quando lo hanno arrestato lo hanno portato a Flossenbürg ma non con noi, fuori, a parte.

D: E le donne c’erano?

R: Sì c’erano ma fuori dal campo.

D: Non deportate come voi?

R: Non so.

D: Questo non lo sai. Ascolta, un’altra cosa, ti ricordi per caso come si chiamava la ditta dove tu andavi a lavorare lì a Flossenbürg?

R: Non ce l’hanno mai detto questo.

D: Non ve l’hanno mai detto.

R: Io penso sia la Messerschmitt perché gli aeroplani…

D: Lì eravate in tanti a lavorare in questa fabbrica?

R: A fare le ali eravamo in diversi perché c’era uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, dodici cose di ali, dodici di qua e dodici di là; ce ne erano due ogni ala, dunque eravamo ventiquattro, venticinque, ventisei lì, poi di là c’erano quelli che sceglievano le viti, c’era lì anche quello di Cuneo, un dottore di Cuneo.

D: Deportati?

R: Deportati.

D: Questi capannoni dicevi che erano distante un chilometro e mezzo dal campo.

R: Un chilometro non di più.

D: Non erano giù alla cava?

R: Sì noi andavamo giù ma non lo so se erano alla cava.

D: Non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo perché noi non vedevamo nessuna cava a dir la verità.

D: Ma quando andavate lì a questi capannoni attraversavate il paesino di Flossenbürg o…?

R: No, no, direttamente fuori da Flossenbürg prendevamo la stradina e si andava giù.

No, no, nessun paesino.

D: Quindi Flossenbürg non lo passavate?

R: No, no.

D: Quindi con i civili non avete ….?

R: Mai avuto contatto, mai.

D: E in fabbrica invece c’erano dei civili?

R: Sì c’erano dei civili, c’erano dei civili che verificavano il lavoro finito.

D: Una volta che voi avevate finito il lavoro ecc., quelle ali lì venivano portate via?

R: Venivano portate via, sì.

D: Ma non ti ricordi come, chi le caricava …

R: Quando le finivano le portavano via alla sera quando noi si andava via e alla mattina già trovavamo un’altra ala da ricominciare.

D: Quindi tu il tuo turno di lavoro era durante la giornata?

R: Sì era dalle 7.30, 8.00 fino a mezzogiorno, poi mezz’ora per mangiare, poi fino alle 16.30, poi ci portavano dentro.

D: Nel campo?

R: Nel campo.

D: Quindi di sera o i turni, mai?

R: No di sera mai, mai fatto i turni, mai fatto niente, mai mai mai, mai fatti i turni.

D: Ti ricordi se c’erano deportati più giovani di te o molto più anziani di te lì a Flossenbürg?

R: Più anziani di me c’erano tanti cecoslovacchi, non italiani, degli italiani forse ero io il più vecchio, che avevo ventisei anni, perché gli altri erano molto più giovani di me, Camia era molto più giovane di me, aveva vent’anni, Esposito aveva vent’anni, c’era quello che adesso non mi ricordo più, quello che ci siamo trovati lì…

D: Venanzio.

R: Venanzio aveva vent’anni. Erano tutti giovani, solo io che avevo ventisei anni. C’era Esposito, quell’altro di Napoli che aveva vent’anni, quello lì che è morto annegato che non mi ricordo il nome di Casale Monferrato, suo padre faceva il casellante, so che ce l’ho detto quando sono venuto a casa.

Perché dopo quando sono venuto a casa sono venuti a trovarmi diverse persone per sapere.

Ma guarda sono passati tanti anni che non mi ricordo.

D: Tu a Flossenbürg non sei più tornato?

R: No.

D: Neanche a Dachau?

R: No. E’ andata mia figlia per me.

D: Tu perché non sei più ritornato?

R:Guarda prima cosa perché io sono ammalato e dovrei ogni quarantotto ore fare una certa operazione che mi serve acqua calda, mi serve un bagno, mi serve…

D: Va beh le tue cose.

R: C’è una cosa che ti senti fuori…

D: Certo.

R: Capito? Ecco perché non sono mai andato né a Flossenbürg né a Dachau.

Ci vorrei andare a Flossenbürg perché forse io sono l’italiano più vecchio di tutti, come tempo, perché ci sono stato dal febbraio del ’44 fino al 19 aprile del ’45, un anno e qualche cosa.

Vorrei vedere come è combinata adesso.

D:Come si fa a sopravvivere per sei mesi e più in un Lager nazista?

R: Si fa che hai voglia di vivere, hai voglia di tornare, devi imparare a subire qualsiasi cosa e mandar giù senza mai avere una razione, senza mai …, c’è poco da fare se vuoi vivere.

D: E conta molto anche la fortuna?

R: Conta molto anche la fortuna e l’arrangiamento. Uno si deve arrangiare come è messo.

D: ” Organizziere “.

R: “Organizziere”, esatto, perché io mi ricordo quei tre colonnelli che sono arrivati dalla Grecia che non hanno aderito alla Repubblica di Salò , che come sono arrivati rifiutavano il cibo.

Io gli ho detto: “Mangiate, date retta a me se non mangiate non sopravvivete, bisogna adattarsi a tutto”.

Dopo quindici, venti giorni sono morti.

C’erano là anche due generali, uno un siciliano che mi ha scritto dalla Sicilia, non mi ricordo il nome, un generale era.

Loro mangiavano quello che gli davano se volevano vivere, c’era poco da fare, forse a loro davano qualche cosa in più, adesso non lo so, non ho mai visto niente, ma noi nei blocchi ci si doveva arrangiare, c’è poco da fare e non fumare.

D: Ambrogio ti ricordi se erano possibili all’interno del Lager atti di solidarietà fra voi deportati?

R: Non ce n’erano atti di solidarietà, non ce n’erano, ognuno pensava per se stesso, non ce n’era e bisognava anche stare attenti con chi parlavi anche, specialmente se erano polacchi perché i polacchi hanno forse nel sangue, forse adesso no ma so che là erano quasi tutti degli sporcaccioni, tutti facevano la spia al Kapò e quando succedeva qualcosa la colpa era loro.

D: La maggior parte dei Kapò che tu hai avuto di che nazionalità erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: Triangoli?

R: Neri.

D: Neri?

R: Neri. Criminali.

D: Dentro lì a Flossenbürg oltre ai politici e ai criminali ecc. ti ricordi anche dei testimoni di Geova?

R: No.

D: Triangoli viola?

R: No.

D: E degli ebrei ti ricordi?

R: Ebrei sì ce ne stavano ma poca roba, sono stati pochissimo tempo perché dopo li hanno levati tutti e non li hai visti più.

Io mi ricordo che quando andavo su a portare il carbone al forno crematorio, perché noi portavamo anche i morti al forno crematorio, noi italiani, alla mattina quando tu trovavi nel tuo blocco nel Wäsheraum un morto lo spogliavi nudo, dovevi scriverci il numero qua e portarlo su, lo buttavi là dentro nello stanzone, era pieno di morti e lo buttavi là.

D: Tu avevi ventisei anni e hai fatto il militare…

R: Guarda che il militare l’ho fatto come ho voluto io non come ha voluto il Duce.

D: No, no io dicevo questo per dire: il rapporto con la morte.

Quando qui si parla di morte nei Lager non si dice un cadavere, dieci cadaveri ma si inizia a contare da 100 a 500, 1000 cadaveri ed è una cosa quotidiana, no?

Ecco come cambia questo rapporto con la morte?

R: Guarda ti dirò non voglio essere…ma non mi interessava, non mi interessava, ero indifferente a tutte queste cose qua perché io sono stato anche nel blocco dove è scoppiato il tifo petecchiale.

Sopra c’era il forno crematorio e sotto c’era il blocco, eravamo in 400 circa, in tre siamo usciti.

Lì è, scusi il gesto, lì è questo…

Io non ho preso né un raffreddore invece qua continuo a prenderli, né un raffreddore né la tosse, niente; quando ho finito tutto mi sono preso: bronchite cronica, enfisema polmonare, paratifo, tutti mi sono venuti, meglio dopo che là, intendiamoci bene.

L’unica cosa che mi è venuta è stata la dissenteria, ma il rapporto morte ere indifferente, io pensavo solo di venire a casa e basta, di farcela.

La mia fissazione era questa e ce l’ho fatta.

D: E’ quello che ti ha aiutato molto, pensare…

R: Sì, sì è quello che ti aiuta molto e trattenerti anche in tante cose. Certe volte anche sul lavoro, per esempio quando mi hanno picchiato perché ho fatto quel buco, la sensazione di rivoltarsi, è stato meglio così se no sarei morto, perché nel frattempo che ti picchiano tu pensi e se gridi fanno apposta, devi stringere i denti e sopportare.

D: Ambrogio secondo te è importante che i giovani di oggi conoscono cosa è stata la deportazione?

R: Molto importante. Molto importante perché devono pensare che può succedere ancora. Sì, sì, sì.

Il mio povero padre mi diceva sempre, quando c’era il fascismo, parlo in milanese: “Ti te vedaret cosa te cumbina quest chi. Te cumbina una guera che fa muri tant di chi persun che finis pu, po ta vedaret quel che sucet”.

Ha avuto ragione, su questo ha avuto ragione.

Io dico una cosa sola: se andiamo avanti di questo passo, qui siamo già in mezzo a regime, non pensate che siamo liberi, poi voi se siete giornalisti lo sapete che non siamo liberi, che non si può scriver quello che si vuole se no guai.

Ma se andiamo avanti così non lo so quello che può succedere perché noi abbiamo un capo supremo che è l’America e l’America ha un capo supremo che è un criminale di guerra. Bush è un criminale di guerra, dovrebbe essere processato per quello che ha fatto; ha fatto morire un sacco di persone inutilmente come ha fatto il Duce.

E’ come se gli dessero il permesso di fare anche questo qua.

D: Quindi secondo te è importante che i ragazzi…

R: Che i ragazzi sappiano che possono succedere ancora queste cose qua, possono succedere, dico io che possono succedere e non credere che non…

Noi diciamo che siamo un popolo civile, non penso che noi siamo un popolo civile.

Va bene hanno commesso dei reati, la gente, capisco, ma trattiamo reati con reati.

Ci sono dei reati che sì sono dei reati però c’è la differenza perché c’è quello di B, quello di A e quello di C e noi non abbiamo un’uguaglianza, non c’è l’uguaglianza per nessuno qua.

Prendiamo nelle carceri: cosa c’è dentro poverini.

Noi prendiamo il nostro Parlamento, Bossi è condannato, Maroni è condannato, Berlusconi è sempre stato condannato, Previti non parliamone, Dell’Utri…

Prendiamo tutto questo, ma cosa abbiamo noi?

Ma perché loro no e questi poveretti sì?

Non abbiamo neanche la giustizia, non abbiamo nemmeno la giustizia e abbiamo un Presidente buono ma un pappamolla, ma molto molla, non ha polso, non ha niente.

D: Comunque ascolta una roba: se dovesse proporsi l’occasione, fermo restando con i tuoi problemi delle 24 ore, 12 ore, quello che è 48 ore ecc, tu ha i bisogno di…, una capatina su a Flossenbürg ci staresti?

R: Sì la farei quest’estate, la farei volentieri, ma l’avrei già fatta anche molto volentieri la farei, molto volentieri, sperando che non mi venga più niente, ho anche il diabete, ho un sacco di cose.

Io non so perché sono ancora vivo!

Ho avuto nel ’45 un tumore alle corde vocali destre, mi hanno fatto la radioterapia all’ospedale dei tumori…

D: Abbiamo finito.

Coppolecchia Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come si chiama?

R: Chi, io?

D: Sì.

R: Mario.

D: E di cognome?

R: Coppolecchia.

D: Di dove siete originario, Mario?

R: Di Schipella Foggia, Gargano.

D: Però vi siete trasferito?

R: Sono stato undici anni in Piemonte.

D: Dove in Piemonte?

R: Cuneo città.

D: Proprio Cuneo città?

R: Cuneo città. Poi sono stato tre anni a Torino.

D: In Piemonte dove vi hanno arrestato?

R: In Piemonte a Val Varaita, in Val Varaita a Torretta e Casteldelfino.

D: Come mai eravate lì?

R: Dai partigiani.

D: Quanti anni avevate?

R: Vent’anni.

D: Perché avete fatto la scelta del partigiano?

R: Ho fatto la scelta del partigiano perché non ho voluto aderire alla Repubblica di Salò. L’8 settembre ’43 ero a Venezia, nell’ospedale di Venezia. C’è stata la visita della duchessa di Genova, ha visitato gli ammalati.

Com’è arrivata da me, mi fa: “Tu, piccolo soldatino, cosa fai?”. Dico: “Sono qui ricoverato che ho la bronchite”, un sacco di storie, ma io l’ho fatto apposta, sigari sotto le ascelle. Mi sono arrangiato per non partire, per non andare in guerra.

Allora ha chiamato il primario e dice: “Vuoi andare a casa? Ci terresti ad andare a casa?”. “Caspita, eccome”, dico io. Allora fa al primario: “Propongo al soldatino due mesi di convalescenza”.

Mamma mia, appena è andata via mi sono messo a ballare sul letto io. Due mesi di convalescenza. Quel disgraziato cosa ha fatto, com’è andata via lei, la duchessa di Genova, al posto di due mesi ha messo il due davanti e ha fatto venti giorni.

Comunque a me è andata bene, perché al 5 settembre ’43 sono uscito dall’ospedale e sono andato con venti giorni di convalescenza, l’8 settembre c’è stata la disfatta e mi sono trovato a casa.

D: A casa dove?

R: A casa a Cuneo.

D: Ah, Cuneo.

R: Sempre a Cuneo, via Fossano 30. Che è successo? Dopo era pericoloso perché c’erano i rastrellamenti. Per mezzo di un mio paesano che era maresciallo degli alpini, mi ha portato in ufficio assieme a lui.

Dice: “Tu stattene qua, facciamo il libretto di presenza … per i dispersi di guerra”, ecc. Aiutavo a fare qualcosa, la mattina andavo e accendevo la stufa, era pieno inverno. Però mi prendevo lo stipendio, ho fatto un paio di mesi.

Nascosto sempre. Dopodiché la vita diventava impossibile in quanto c’erano i rastrellamenti continui della Wermacht e più della Monterosa. Allora un certo maggior Giannandrea mi ha detto: “Guarda che la vita diventa impossibile, qui non puoi più starci perché è pericoloso anche per noi”.

Cosa faccio? D’accordo con due fratelli, Tassoni si chiamavano questi tizi, di una frazione vicina, a tre chilometri da Cuneo. Ci siamo messi d’accordo, loro conoscevano un ex tenete dell’esercito che si chiamava Santino.

D’accordo con questo mi ha fatto pervenire due bombe a mano con la pistola, praticamente noi per andare in montagna dovevamo attraversare tutti i posti di blocco. Abbiamo fatto così.

Quei due e io siamo andati in montagna in Val Varaita. Abbiamo trovato questo tizio e ci ha assegnato il distaccamento, poi il comandante della valle era un certo Giannardo, un capitano dell’esercito anche lui.

D: Eravate una brigata quindi?

R: Una brigata, sì.

D: Che si chiamava?

R: Brigata alpini, brigata del secondo alpini. Qui ho le carte e tutto.

D: Dopo le vediamo. Lì quanto tempo siete rimasto in brigata?

R: In brigata siamo rimasti due o tre mesi.

D: Nel ’44?

R: ’44. Dopo quando mi hanno preso, mi hanno preso di sorpresa, ero di guardia, di notte mi hanno preso. Mi hanno fatto l’accerchiamento. Da là mi hanno portato alla caserma degli alpini di Casteldelfino. Sono stato dodici giorni.

D: Ma chi vi ha preso?

R: La Monterosa assieme ai tedeschi della Wermacht. Dopo dovevano fucilarmi. Mi hanno fatto fare persino la fossa con le mie mani, picco e pala.

D: Hanno preso solamente Voi?

R: Solo me, gli altri sono riusciti a scappare. Ho dato un fischio io, di corsa nel vallone proprio, c’era a picco un vallone. Uno è stato colpito però, questo l’ho saputo dopo. E’ stato colpito e dopo è morto, un certo… Come si chiamava questo tizio? Era di Vigevano. Era un ex carabiniere.

E’ stato colpito e dopo un paio di mesi è morto questo. Adesso per finire il mio racconto, sono stato dodici giorni là. Quando mi hanno fatto fare la fossa con le mie mani, dovevano fucilarmi. Dopo è venuto un contrordine.

E’ venuto un contrordine e mi hanno portato giù. Sono stato dodici giorni che mi interrogava la Monterosa. Ma io, veramente il mio racconto è troppo lungo…

D: No, non è lungo.

R: E’ successo che prima di venir via dalla caserma degli alpini mi sono procurato una licenza falsa. Dato che ero all’ufficio maggiorità, questo maggior Giannandrea, io avevo tutti i bolli a portata di mano, tutti i timbri e mi sono procurato una licenza per venti giorni di convalescenza, ho timbrato.

Però la firma del maggior Giannandrea l’avrò fatta duemila volte, ero riuscito a farla talmente precisa che nessuno si accorgeva che non era la firma di Giannandrea. Quando mi hanno preso nei partigiani, per quello mi sono salvato ancora, ho presentato questa licenza.

Guarda che io mi trovo così e così perché mi hanno preso. Ho fatto vedere la licenza e quella licenza mi ha salvato.

D: Con la firma falsa?

R: Con la firma falsa. Da Casteldelfino è venuto un contrordine e mi hanno portato a Saluzzo. Ho fatto sessantasei giorni alla Castiglia di Saluzzo sotto gli interrogatori, volevano sapere tutti i nomi dei partigiani, tutti i comandanti.

Io: “E’ poco che sono qui, non conosco nessuno”. Ho sempre negato, praticamente. Mi torturavano, con la pistola puntata sulla fronte mi facevano gli interrogatori. Di più quando mi hanno trasferito a Torino, a Le Nuove di Torino, là sono stato diciassette giorni a Torino.

D: Invece a Saluzzo siete rimasto?

R: Sessantasei giorni.

D: In cella da solo?

R: No, eravamo in due. Tutte le mattine ci tiravano fuori per sapere, per interrogare sempre, sempre la stessa storia che volevano sapere i nomi. Io ho sempre negato: “Non conosco nessuno, non conosco nessuno”.

Dopo, un bel giorno è venuto l’ordine del trasferimento da Saluzzo a Torino, alle Nuove di Torino. Diciassette giorni sotto l’interrogatorio.

D: Il trasferimento con cosa ve l’hanno…

R: Con le camionette. Sì, camionette dei tedeschi e della Monterosa. Dopo diciassette giorni anche là mi hanno trasferito a Bolzano, al blocco dei criminali. Ventitré giorni.

D: Ma quando eravate lì alle Nuove…

R: Sì.

D: Anche lì in cella d’isolamento?

R: In cella d’isolamento.

D: In cella?

R: Sì.

D: Vi ricordate il numero della cella?

R: No, quello no. Non c’era nessun numero, non siamo riusciti neanche noi, non sapevamo la cella. Eravamo all’oscuro.

D: Dopo vediamo i documenti.

R: All’oscuro di tutto.

D: Lì vi interrogavano?

R: Interrogavano ancora, sempre sotto i tedeschi, quelli della Wermacht.

D: Vi hanno portato anche all’Albergo Nazionale?

R: No.

D: Dentro, quando eravate lì alle Nuove, avete trovato altri compagni?

R: Ma noi eravamo isolati, non potevamo confabulare con gli altri. Con nessuno.

D: Questo che periodo era quando eravate lì?

R: Era… No gennaio, un momento. Dicembre.

D: Del ’43?

R: ’44.

D: Dicembre del ’44?

R: ’44, precisamente. Poi da Torino ci hanno portato lì a Bolzano, sono stato ventitré giorni al blocco dei criminali.

D: Il viaggio com’è che…

R: Camionetta sempre, sempre con camion italiani.

D: Da Torino a Bolzano in camion?

R: Da Torino a Bolzano in camion.

D: Quanti eravate?

R: Eravamo una trentina più o meno. Venti, trenta. Camion con i sedili laterali e ci portavano lì con le sentinelle dietro. Naturalmente sentinelle armate col fucile.

D: Quando siete arrivati a Bolzano cos’era? Mattina o giorno?

R: Mattina.

D: Mattina?

R: Mattina, sì.

D: Vi hanno messo dentro nel campo?

R: Mi hanno messo nel campo. Ci hanno destinato il blocco.

D: Vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente. Poi quando siamo andati a Mauthausen, all’arrivo di Mauthausen… Dopo ventitré giorni.

D: Vediamo lì a Bolzano. Siete entrati e vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente.

D: Vi hanno ritirato tutti i…

R: Ritirato tutta la nostra roba e ci hanno dato i vestiti. Ma non erano vestiti zebrati grigi, i vestiti a righe ce li hanno dati a Mauthausen. Lì ci hanno dato dei vestiti grigio-verde, disinfettati ai forni. Non è che erano lavati neanche.

D: Vi hanno dato il numero lì a Bolzano?

R: A Bolzano nessun numero.

D: Niente?

R: Niente.

D: Dove vi hanno messo? In quale blocco vi hanno messo?

R: Al blocco ventitré.

D: A Bolzano?

R: A Bolzano. Blocco ventitré.

D: Non aveva una lettera?

R: No, almeno, io non mi sono accorto di nessuna lettera. Eravamo cintati dentro. Poi un tredici o quattordici persone c’eravamo messi d’accordo di sfondare sotto il blocco.

Si faceva a turno, un’ora per uno sotto i castelli, perché lì si dormiva in castelli. Sotto il castello con certi ferri, un cucchiaio, qualcosa. Piano piano. Mancava sì e no mezz’ora a sfondare. Di notte si lavorava, a turno, un’ora tu…

C’era anche un ingegnere allora, un ingegnere di Milano, non mi ricordo più il nome.

D: Vi ricordate altri vostri compagni lì in quel blocco?

R: Sì. In quel blocco c’era con me un certo Ciamarra Michelangelo, era un ex carabiniere abruzzese questo tizio. Anche lui collaborava a sfondare questa…

D: Poi chi c’era d’altro?

R: Lì c’era un certo Pezzini, colonnello italiano. Quello ci ha fatto la spia. Non gliene dico, botte da orbi. Loro volevano sapere il responsabile, ci hanno tenuto tre giorni fuori.

D: Come fuori? Fuori dove?

R: Fuori all’aria aperta. Si entrava soltanto di sera, in pieno gennaio fuori all’aria aperta, lì in fila inquadrati. Volevano sapere il responsabile.

Visto e considerato, tre poverini sono usciti fuori, siamo stati noi i prematuri, i responsabili dell’idea di sfondare il recinto. Uno l’hanno legato al palo, parlando con molta decenza se la faceva addosso, tutto.

Dopo tre giorni è morto.

D: Come si chiamava questo?

R: Vattelapesca.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo. Un altro l’hanno messo addirittura in una specie di gabbia grande lì dentro. Dopo è stato liberato, dopo tre giorni c’è stata la partenza.

D: Quando eravate lì a Bolzano, cosa facevate lì a Bolzano nel campo voi?

R: Niente. Ci tenevano lì prigionieri, ci davano la minestra. Diciamo minestra, acqua calda con tre fagiolini dentro, quando si trovavano questi fagioli.

Non si lavorava, si era in attesa della partenza. Quando si raggiungeva il numero esatto per il trasporto, si andava.

D: Poi è successo quell’episodio lì che vi hanno preso?

R: Mi hanno preso dove?

D: Quando stavate facendo lo scavo…

R: Sì, ci hanno preso. Per il giorno del compleanno mi sono trovato a Mauthausen già. Lì per punizione ci hanno messo all’aria aperta, al freddo. Si moriva di freddo. Eravamo quasi a sei, sette sotto zero.

D: Con niente addosso?

R: Con niente addosso.

D: Una cosa, Mario. Lì a Bolzano c’erano anche delle donne?

R: No, con noi no.

D: Ma dentro nel campo?

R: Sì.

D: Le avete viste voi le donne?

R: Le abbiamo viste. Le abbiamo viste di sfuggita, ma non si vedevano, perché le facevano vedere.

D: Ah no?

R: No, no. Non le facevano vedere. Di sfuggita.

D: Avete visto per caso anche dei bambini lì a Bolzano?

R: No, bambini non ne ho visti.

D: Un’altra cosa, lì c’erano già le SS però?

R: Sì.

D: Vi ricordate il comandante di Bolzano?

R: Il comandante di Bolzano era un certo Frizzi, Frizzi si chiamava, sì.

D: Dei tedeschi non vi ricordate?

R: No.

D: Haage, questi nomi?

R: As.

D: As?

R: Questo sì, adesso mi viene in mente.

D: Vi ricordate del blocco celle lì a Bolzano?

R: No, il blocco celle no.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Vi ricordate dei due ucraini che c’erano?

R: Non erano assieme a noi forse.

D: Erano assieme alle SS, Misha e Otto.

R: Misha e Otto, quelli sì, quelli me li ricordo.

D: Perché ve li ricordate?

R: Me li ricordo perché certi nomi si tengono, specialmente quelli che facevano parte delle SS e della Wermacht, si tenevano in mente di più, erano quelli che ci torturavano.

D: Vi ricordate di una donna tedesca?

R: No, la donna no.

D: E di una donna italiana piccolina?

R: La donna italiana piccolina si, però non so il nome. Quella lì sì, me la ricordo.

D: La chiamavano la Cicci.

R: Cicci. Sì.

D: Invece la tedesca la chiamavano la Tigre.

R: Quella no, ma della Cicci sì. Quella me la ricordo.

D: Ve la ricordate la Cicci?

R: Sì. Quella me la ricordo.

D: Quando eravate a Bolzano, potevate scrivere a casa Voi?

R: No, guai, per l’amor di Dio. Niente.

D: Potevate ricevere, non so, dei pacchi?

R: No. Niente. A Bolzano non potevamo ricevere né pacchi né niente. A Mauthausen i pacchi della Croce Rossa.

D: Fermiamoci ancora a Bolzano un attimo, se non Vi dispiace.

R: No.

D: Altri Vostri compagni uscivano a lavorare dal campo?

R: No, no.

D: Che Voi Vi ricordate no?

R: Che io mi ricordi non usciva nessuno.

D: Vi ricordate se c’erano dei sacerdoti lì a Bolzano?

R: C’era qualche sacerdote, sì.

D: Ve lo ricordate?

R: Il fatto è che i sacerdoti erano trattati come noi, non c’era distinzione di ceto, no. Loro avevano lo stesso trattamento.

D: Uguale al Vostro?

R: Uguale a noi.

D: Dopo ventitré giorni cos’è successo?

R: Dopo ventitré giorni fanno l’appello, ci mettono inquadrati fuori dal blocco, nudi completamente. Però noi siamo riusciti a far scappare un ferro così ricavato da un cucchiaio.

D: Cioè?

R: Una specie di lama. Se ci mandano via, perché si sentivano un po’ voci del popolo che ci mandavano via da là e ci spedivano in Germania, allora noi se capitiamo nei vagoni ferroviari tenteremo di sfondare il vagone, a potere.

Tant’è vero che abbiamo tentato di sfondare il vagone.

D: Ma lì vi hanno messo in fila…

R: Ci hanno messo in fila, nudi. Poi ci hanno rivestiti naturalmente dopo della stessa roba.

D: Vi hanno chiamato per nome o per numero?

R: Per nome. Là per nome, sì. A Mauthausen chiamavano per numero.

D: Lì a Bolzano per nome?

R: A Bolzano per nome, sì.

D: Poi cos’è successo?

R: Dopo è successo che ci hanno portato lì alla stazione, ci hanno caricato sui vagoni bestiame.

D: Alla stazione di Bolzano?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: E con cosa vi hanno portato dal campo?

R: Sempre con la camionetta. Con questi camion, sì.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Adesso di preciso… Ci sono stati due o tre… Noi siamo partiti per primi, una ventina. Poi ci sono stati dietro gli altri che dovevano partire assieme a noi. Adesso non so di preciso il numero. Questo non lo so.

D: Allora siete andati alla stazione?

R: Siamo arrivati alla stazione e ci hanno caricato sul carro bestiame col vagone piombato.

D: In quanti eravate dentro?

R: Lì eravamo una cinquantina.

D: E non sapevate voi dove…

R: No. La destinazione no. Sa che al Brennero sale un po’ la strada, il treno lì andava adagio con le sentinelle esterne sulle pedane in tutti i vagoni. Arrivata la notte, si incominciava a scarpellare un pochetto il vagone, un briciolo alla volta.

Siamo riusciti a tirare via una mezza tavoletta. Avevamo visto con la candela, avevamo la candela per vedere un po’. I tedeschi si sono accorti, hanno fermato il treno. Sono venuti nel vagone.

Nel vagone, parlando con molta decenza, si faceva tutto, lì si faceva la pipì, si faceva la popò, un odore che si moriva. Come le bestie, lo stesso. Hanno fermato il treno e sono venuti, hanno aperto il vagone.

Non gliene dico lì, botte da orbi col frustino.

D: A voi?

R: A noi, sì. Volevano sapere chi è stato, chi non è stato. Lì nessuno ha parlato, noi ci facevamo ammazzare però non parlava nessuno. Difatti è stato così.

D: Questo quando è stato? A gennaio?

R: A gennaio, undici gennaio mi sembra. Le date sono qui.

D: All’undici gennaio?

R: Undici gennaio.

D: Del ’45?

R: Del ’45. Dopo basta.

D: Lì vi hanno picchiato?

R: Ci hanno picchiato. Dopodiché si è avviato il treno di nuovo e arriviamo a Mauthausen. Arrivati a Mauthausen ci mettono fuori inquadrati di nuovo, fanno l’appello in attesa di fare la doccia fredda, gelata.

D: Siete arrivati a Mauthausen giù alla stazione?

R: Alla stazione. Dopo dalla stazione ci hanno portato sempre con questi camion, ci hanno portato lì al campo di Mauthausen.

D: Con i camion, non a piedi?

R: No, con i camion. Ci hanno portati là e ci hanno messo fuori dal blocco con la doccia fredda, lì tre o quattro alla volta. Come si veniva fuori, ci vestivano con questa roba zebrata, rigata, col numero di matricola.

Ognuno aveva il suo numero.

D: Vi ricordate il vostro numero?

R: 115450.

D: Vi hanno dato anche un triangolo?

R: Sì.

D: Di che colore?

R: Rosso.

D: Perché?

R: Perché eravamo prigionieri politici. Fuori dalla doccia ci destinavano il blocco, la baracca, baracca 21, 22, 23, ecc. Ci facevano trovare la minestra calda, acqua calda con due o tre fagioli, bisognava cercarli, con una mezza carota.

Là per i primi giorni ci tenevano dentro, dopo hanno incominciato che tutte le mattine verso le cinque e mezza, le sei, prima che facesse giorno, ci mandavano in trasporto a Amstetten, sgombero macerie. Dodici chilometri, a piedi. Tutte le mattine.

Dodici chilometri a piedi sotto i bombardamenti. Io ricordo un episodio, l’episodio è questo. Viene la pelle d’oca. Uno della nostra baracca ha trovato una pagnotta di pane così sotto le macerie, Dio ce ne liberi.

Ricordo un episodio che c’era un polacco, uno dei più vecchi del campo, erano i polacchi e gli spagnoli i più vecchi del campo, del ’35 c’era della gente, pochissimi, rari erano. Ma avevano i migliori posti.

Chi era addetto alla cucina, chi era addetto alle pulizie. Erano lì per comandare noi. C’era un polacco, un disgraziato questo tizio, un piccoletto di uno, non mi ricordo neanche il nome. Addirittura era peggio dei tedeschi, era feroce proprio, nonostante fosse prigioniero anche lui. Assieme alla SS.

Mi ricordo un episodio. Questa pagnotta di pane, naturale, affamati come eravamo l’avremmo divorata in due secondi. Cosa ha fatto questo qui? L’ha portata via, dopo ha preso una bacinella di quelle grandi, grandissima, piena d’acqua.

Hanno preso uno dei prigionieri, uno che era un po’ più scalmanato, che si è rivoltato contro di loro. Hanno preso quattro prigionieri di noi, lo tenevamo chi con le braccia, chi con i piedi. Siamo stati costretti a farlo affogare in quella bacinella. Col fucile puntato sulla fronte, sulla nuca, tutti e quattro.

D: Questo a Mauthausen?

R: Mauthausen, sì.

D: O ad Amstetten?

R: No, a Mauthausen questo.

D: Quando siete rientrati nel campo?

R: Quando siamo rientrati nel campo. Un momento scusi, adesso mi sbagliavo io. Proprio lì alla stazione di Amstetten.

D: Di Amstetten?

R: Precisamente. Questa bacinella, siamo stati costretti a far affogare questo tizio. Erano in quattro col mitra puntato sulla nuca a tutti e quattro noi, siamo stati costretti a farlo affogare questo povero cristo.

D: Non vi ricordate il nome di questo?

R: No, non so neanche se era del nostro blocco. E’ difficile che era del nostro blocco. Hanno preso questo tizio che era scalmanato, hanno preso quattro di noi per dare l’esempio agli altri di comportarsi in una certa maniera. E’ finita lì.

Dopo ritorniamo al campo, sempre la solita storia tutte le mattine, per dodici giorni ho fatto questa vita. Questo è stato prima della Liberazione. Nella nostra baracca c’era Piero Caleffi, eccolo qua, senatore. Era assieme a noi.

Questo siccome era il più vecchio del campo riusciva ad avere qualche notizia esterna. In segreto veniva nel blocco: “Guardate che gli americani sono a tanti chilometri di distanza”. Noi per mezzo suo si riusciva a sapere tutte le notizie fuori.

Quando poi sono arrivati a dodici chilometri, si sentiva il rombo del cannone. Questi tedeschi, quelli che erano sulle cuccette, incominciavano ad andare via. Loro si camuffavano, andavano in aperta campagna e si camuffavano, vestiti da contadini. Facevano finta naturalmente di arare il terreno.

Gli americani questo trucco lo conoscevano già, assieme ai russi, lo conoscevano già e allora facevano i rastrellamenti ogni tanto e li portavano al campo. Prima di essere rimpatriati siamo stati un mese.

D: Un momento, Mario. Quando siete arrivati a Mauthausen, vi hanno adibito a fare questo lavoro, sgombero macerie ad Amstetten?

R: Sì.

D: Questo per quanto tempo?

R: Per dodici o tredici giorni.

D: Dopo altri lavori?

R: No, altri lavori vari, lavori di pulizia interna. A Mauthausen per quindici giorni mi hanno messo addetto ai forni crematori, trasporto dei cadaveri con la carretta a mano. Mi davano una zuppa in più per fare questo lavoro.

D: In cosa consisteva questo lavoro?

R: Consisteva che tutti i morti, tutti i giorni ne morivano, si caricavano sulla carretta, quei carrettini che usavano i contadini, larghi, per caricare il letame, si caricavano cinque o sei alla volta e si portavano nei forni crematori.

Lì venivano bruciati. C’era della gente che non era ancora del tutto morta, proprio scarni completamente, ma li portavano nei forni crematori. Non è che li mettevo io.

Li portavo fin là con la carretta per avere una zuppa in più, finito questo lavoro è uscito un… Chiedevano dei barbieri, Friseur. Io, che ho fatto quel lavoro, ho alzato la mano.

Ho alzato la mano e mi hanno messo a fare quel lavoro. Quando arrivavano in trasporto a qualunque ora bisognava saltare su, alle due, all’una di notte, alle tre, alle quattro del mattino. Italieni Friseur, bisognava saltare. Come arrivava la gente del trasporto, bisognava pulirli. Pulizia generale.

D: Cioè?

R: Pelati in testa, sotto le ascelle, davanti, nel sedere, tutto completamente, proprio a zero, pelati. Per quello mi davano una zuppa in più.

Tant’è vero che questo avvocato Bonelli, che era amico del professor Ballaro della clinica Fatebene Fratelli di Milano, come mi davano questa zuppa, io avevo un rimorso di coscienza, dicevo: “Io devo mangiare questa zuppa e quelli che crepano di fame”.

Allora la distribuivo, addirittura la metà della mia la davo all’avvocato Bonelli. Si è salvato anche lui con questo. Io mi sono salvato proprio per quello, altrimenti… Facevo il Friseur. Sono andato a casa che ero trentaquattro chili e trecento grammi.

Alla Liberazione, quando siamo stati liberati, lì ci hanno dato carta bianca. Purtroppo mancavano le forze, noi potevamo fare quello che volevamo. Allora questo professore, m’ingarbuglio un pochetto perché mi incomincio a…

D: Ci fermiamo, se volete.

R: No. Questo professore mi ha detto: “Adesso puoi vendicarti di quello che hai passato”, mi ha dato un bastone di ferro addirittura, mi dice: “Il primo che ti capita dagli, ammazza, fai quello che vuoi”.

Io non avevo neanche il coraggio, m’è capitato uno e gli ho dato una bastonata, non è che l’ho ammazzato. Abbiamo tralasciato quel lato di quando ero nei partigiani che mi è capitato un maresciallo della SS che ho ammazzato.

D: Cioè?

R: Sì.

D: Ma dove? Su in Val Varaita?

R: Val Varaita.

D: Ma avete fatto un’azione?

R: No, lì c’è stata un’imboscata. Quando la valle era occupata dai tedeschi e dalla Monterosa noi eravamo sopra Torretta e Casteldelfino.

Noi si vedeva il movimento su e giù, in basso. Io mi sono appostato dietro a un cespuglio, stava passando con la moto questo maresciallo tedesco. Mi sono appostato e gli ho dato una raffica. L’ho ammazzato. Perché loro avevano un senso di coscienza contro di noi?

D: Quella era guerra.

R: Era guerra, se non ammazzavi tu, ammazzavano te, scherziamo.

D: Dicevate?

R: Tant’è vero che io gli ho sfilato il portafoglio, tre dollari aveva appena. Gli ho tirato via perfino la cinghia e me la sono messa io. Fino a qualche anno fa ce l’avevo ancora.

D: Ma dai? L’avete conservata?

R: Conservata, sì. Quel lato lasciamo stare.

D: A Mauthausen….

R: Ogni tanto quando venivano ai blocchi… Mi hanno rotto l’osso della gamba.

D: Cioè?

R: Qui.

D: Cos’è successo?

R: E’ successo che quando venivano nei blocchi, loro non guardavano… Entro cinque minuti anche il braccio qua.

D: Com’è che sono successi questi episodi?

R: Quando venivano nei blocchi loro col frustino alla mano volevano che in cinque minuti si doveva mettere a posto. Si dormiva in un materasso da una piazza in sei. Lei può immaginare in che maniera si dormiva.

Si dormiva di lato così, in costa in tre. Tre da una parte e tre dall’altra. Lì bisognava mettersi a posto in pochi minuti, altrimenti erano frustate a non finire. Io ho cercato di reagire, poi mi hanno spezzato l’osso qui della gamba e il braccio ferito.

Quando sono venuto in Italia andavo tutti i giorni a Cuneo alla Croce Rossa Italiana a farmi le medicazioni.

D: Là non vi hanno curato?

R: Curato? Menomale che c’era quel professore, lui andava in giro in tutti i blocchi. Però medicinali non gliene davano, gli davano la carta igienica.

D: Come bende?

R: Come bende, precisamente. Sono guarito in qualche maniera. Quando sono ritornato in Italia per il cambiamento, avevo cominciato a mangiare leggero, le ferite incominciavano a purgarmi.

Allora tutte le mattine andavo alla Croce Rossa a fare le medicazioni sia al braccio che alla gamba e sono stato un anno senza poter lavorare, anche se avevo le forze.

Menomale che avevo qualche soldino ancora da parte allora che mi sono curato. Per i danè di guerra mi hanno dato 94.000 lire. Tutto lì.

D: Una cosa, Mario. Quando eravate lì a Mauthausen, voi sapevate dei forni crematori?

R: Certo. Siamo stati informati, non ce lo dicevano loro. Quando li portavano via, prima di essere addetto io ai forni crematori, mai più si pensava che venissero passati ai forni crematori.

Poi c’è stato anche questo senatore Caleffi che ci ha informato: “Guarda che lì ci sono i forni crematori, così e così”.

D: Anche le camere a gas non lo sapevate che c’erano?

R: Non lo sapevamo, le camere a gas non lo sapevamo neanche.

D: Lo sapevi che c’era la cava? Tu non sei andato alla cava a lavorare però?

R: Alla cava no. Alla cava per fortuna no.

D: Perché per fortuna?

R: Per fortuna che facevo il barbiere, ero a disposizione. Sennò mi mandavano là.

D: C’erano invece…

R: C’erano.

D: Che andavano alla cava?

R: Che andavano alla cava, settanta chili.

D: Come settanta chili?

R: Gli mettevano un peso di settanta chili sulle spalle, praticamente bisognava salire una scalinata. Uno che non ce la faceva, non aveva più le forze, gli davano una raffica di mitra a bella posta e lo finivano del tutto.

D: Ascolta, Mario. Quando tu sei stato a Mauthausen ed eri nella baracca hai detto?

R: 21.

D: 21, hai assistito ad azioni di violenza quando sei stato lì a Mauthausen?

R: No, violenza vera e propria… Quando venivano nei blocchi ci trattavano come animali, frustati a non finire. Un altro episodio, questo adesso me lo sono ricordato.

Quando eravamo nel blocco, noi eravamo comandati dai criminali tedeschi borghesi, quelli usciti da galera, quelli condannati all’ergastolo, che per loro ammazzare una persona era come ammazzare una mosca, non gli interessava niente, li mettevano a comandare il blocco.

Mi è capitato un episodio, viene questo tizio, modestia a parte, prima ero giovane, quando uno è giovane, io avevo i capello ricci, è venuto da me. Loro dentro nella baracca stessa avevano una specie d tenda, dormivano separati, una tenda piccola.

Mi ha portato nella tenda, mi ha tirato fuori da mangiare finché volevo, salame, prosciutto. Questo tizio era un pederasta e volevano a tutti i costi che ci andassi assieme. A sentire quelle cose che mi sono capitate, mi è capitato perfino un prete in Piemonte, tre me ne sono capitati.

Questo tizio è il quarto. Voleva a tutti i costi che io… Io a sentire quello mi veniva il vomito addirittura. La prima volta non mi ha detto niente, mi ha richiamato la seconda, la stessa cosa. La terza, la stessa cosa. La quarta volta è diventato una bestia.

E’ andato fuori di sé, ha preso il frustino e bam, me ne ha date un sacco e una sporta. Però io non uscii tutto, per l’amor di Dio. Anche volendo, per me per l’amor di Dio, non avevo neanche le forze.

Per quello lui ha aperto lì, lo metto in forze così me ne servo, invece… Per fortuna che è stato negli ultimi tempi, prima che arrivassero gli americani. Se non fosse stato, non mi sarei salvato mica, quello mi avrebbe ammazzato senz’altro.

Quando arrivava quella gente…

D: Questo era un Kapò?

R: Un Kapò. La mattina quando venivano lì, bisognava andare alla Wascheraum addirittura a frustate. Si andava lì tutti in fila, lì c’era la fontana con tanti rubinetti, grande e tutta in giro. Lì a via di frustini si andava a lavarsi.

Lavarsi, mica lavarsi. Sciacquarsi e via, con uno straccio d’asciugamano. Si tornava nei blocchi così tutte le mattine.

D: Quanti eravate in un blocco?

R: Lì variava, perché tante volte andavano via, li mandavano via da Mauthausen e andavano a Buchenwald, andavano via anche là.

D: Ma più o meno quanti eravate?

R: Eravamo in sessanta, settanta.

D: Per blocco?

R: Per blocco, sì. Sessanta o settanta. Per ogni baracca, sì, settanta o ottanta.

D: Cosa avevate voi a disposizione, solamente il letto a castello?

R: Il letto a castello. No, che letto a castello! Per terra. Materassi per terra, mica materassi di lana, s’intende, materassi di…, tutto per terra, a tavolaccio.

D: Non avevate un armadietto dove mettere…

R: Non avevamo niente là. Nelle baracche non avevamo niente.

D: La Miska l’avevate, la ciotola per mangiare?

R: …. Contemporaneamente.

D: Cucchiaio?

R: Cucchiaio, cucchiaio e stop.

D: E basta?

R: Basta. Portavano via tutto. Al momento ci davano la roba.

D: Poi siete andati a lavorare dove? Prima parlavamo di Gusen, siete stato voi a Gusen?

R: Sì, sono stato a Amstetten e Gusen, erano lì vicino. Sono stato pochi giorni. Dodici o tredici giorni in tutto, fra Gusen e Amstetten.

D: Per fare?

R: Sgombero macerie.

D: Sempre sgombero macerie?

R: Sempre sgombero macerie, sì.

D: Poi siete entrato nel giro dei parrucchieri.

R: Poi sono entrato nei parrucchieri e mi hanno ritirato, tutti i momenti gliene arrivavano e allora bisognava essere disponibili con una zuppa appena al giorno. Arrivavano in tutti i momenti i trasporti, noi si faceva questo lavoro.

D: Lì a Mauthausen donne ne avete viste?

R: Le donne non erano vicine dove eravamo nel blocco di quarantena noi, no. Le donne erano appena entrate a Mauthausen sul lato destro, se ne servivano anche i tedeschi per fare i comodacci loro. Non si sapeva che fine facevano.

D: C’erano anche dei ragazzini?

R: Ragazzi sì, ragazzi giovani. Io ragazzi piccolini piccolini non ne ho visti, comunque ho visto dei ragazzi di sette, otto anni, dieci anni a Mauthausen. Quando morivano dovevano buttarli.

Questo episodio, quello che ho passato io l’ho raccontato all’avvocato Cappucci, intimo amico di Papalettera.

D: Di Vincenzo?

R: Si, di Vincenzo.

D: C’erano degli ebrei lì?

R: Gli ebrei erano separati da noi, loro erano in campo di quarantena. Però noi sul lato sinistro, sul fondo del piazzale e loro erano al fondo di là, sul lato destro. Quelli poveretti erano martirizzati.

Quando arrivavano i pacchi della Croce Rossa…

D: Lì arrivavano dei pacchi della Croce Rossa a Mauthausen?

R: Sì.

D: Anche per voi?

R: Anche per noi. I polacchi erano i primi, dopo i polacchi erano i francesi, dopo i francesi eravamo noi. Però in quei piccoli pacchi prima che arrivassero a noi non c’era quasi più niente. Ci davano un pezzo di pane, una fesseria, roba da niente.

Saranno arrivati due o tre volte sì e no i pacchi della Croce Rossa. Io li ho visti due volte, mi hanno dato un pezzo di pane e un pezzo di salame così e non mi ricordo più altro. Basta.

D: Una giornata dentro nel Lager com’era? Sveglia alla mattina alle?

R: La mattina all’alba ti svegliavano.

D: Poi cosa succedeva?

R: Succedeva che bisognava alzarsi, contemporaneamente al Wascheraum, al lavaggio. Dopo ci mettevano inquadrati fuori dalla baracca e facevano l’appello. Dopo ognuno era addetto ai lavori vari.

D: Anche se pioveva fuori?

R: Fuori, sempre fuori.

D: Sotto l’acqua?

R: Sotto l’acqua.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro, ognuno aveva il suo…

D: Ma non c’era la colazione, non vi davano la colazione al mattino?

R: Ci davano un filone di pane in dodici, un mattone da chilo diviso in dodici, con un pezzettino di margarina, tanto così. Una tavolettina piccola, dieci grammi di roba.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro.

D: Fino?

R: Fino a mezzogiorno. A mezzogiorno si rientrava, prima facevano l’appello di nuovo e dopo la distribuzione della zuppa. Per trovare tre fagioli bisognava mettersi gli occhiali, il binocolo.

D: Poi al lavoro ancora?

R: Poi al lavoro ancora fino a sera.

D: Dopo rientro nel campo?

R: Dopo rientro, l’appello ancora e dopo ognuno al suo posto. Bisognava mettersi a letto.

D: In baracca?

R: Inquadrati, un materasso in sei, in questa posizione. Alla sera la solita zuppa, la solita acqua calda. E basta. Con questo pezzo di pane diviso in dodici. La carne col binocolo.

D: Ascolta, Mario. Un atto di solidarietà all’interno del campo era possibile?

R: No.

D: Non era possibile?

R: No, no.

D: Perché non era possibile?

R: Non era possibile perché noi non eravamo liberi, come si faceva? Un atto di solidarietà con chi?

D: Con altri deportati?

R: Mai più. Ognuno la sua baracca. Quando si andava in trasporto lì a Amstetten e Gusen, a parte che c’erano i tedeschi con i cani poliziotti e se uno si permetteva di calarsi per terra per prendere una pelle di patata che si trovava in strada oppure un ciuffetto di erba lo fucilavano.

Un colpo di mitra e via, basta.

D: Quindi un atto di solidarietà era impossibile?

R: No, no. Non c’era solidarietà, era impossibile.

D: In quanti eravate dentro in tutto il campo di Mauthausen?

R: Da tremila a cinquemila, dipende. Tanti li mandavano via da Mauthausen, li mandavano a Buchenwald, dove avevano bisogno per il famoso V2, V1, precisamente.

Allora venivano trasferiti là. A me per fortuna non mi hanno trasferito.

D: Il giorno della Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Io mi trovavo proprio nella baracca.

D: In baracca?

R: Sono arrivate tutte le camionette degli americani. Loro per la distribuzione del vitto davano la zuppa di piselli e farina di granturco.

Il professor Vallardi, Dio ce ne liberi, dato che eravamo un po’ in buona armonia con l’avvocato, dice: “Guai al mondo, non toccate questa zuppa”.

In media i morti erano sulla base di quattrocento, quattrocentocinquanta al giorno prima che arrivassero gli americani. Quando sono arrivati gli americani, i primi giorni addirittura eravamo arrivati a novecento.

La trachea era chiusa, la zuppa era troppo pesante. Poi l’hanno capita anche loro, basta, hanno sospeso. Quando sono arrivati loro, da mangiare ce n’era finché volevamo.

Il professor Vallardi ha detto: “Non toccate niente”, eravamo in quattro. Mi ha portato sulle spalle, pensi, fuori Mauthausen in aperta campagna, presso una cascina.

E ha dato ordine con la pistola in mano ai tedeschi: “Non dateci da mangiare niente, roba pesante. Esclusivamente pastina glutinata leggera e latte scremato”.

Però che è successo? E’ successo che tre giorni appena siamo stati là. Poi ognuno ha preso la sua strada. Il secondo giorno ho incominciato a mangiare qualcosa, o il cambiamento del mangiare… Mi sentivo un mal di pancia che crepavo.

Sono arrivato al punto che non ne potevo più, ho chiesto ai tedeschi se avevano una pistola, mi sarei sparato. Un male tremendo proprio. Dopo invece pian piano…

Loro non si sono permessi perché erano già minacciati, se commettevano una cosa simile, per l’amor di Dio, lì facevano una strage. Dopo invece pian piano ha cominciato a passarmi.

Dopo è venuto il professore, siamo rientrati al campo e c’è stata la Liberazione. Dovevamo essere rimpatriati per il confine svizzero. Arriviamo al confine svizzero, siamo stati tre giorni e gli svizzeri non ci hanno dato il passaggio.

Siamo dovuti ritornate indietro per il Brennero.

D: Con cosa vi spostavate?

R: Sempre con le camionette.

D: Quindi siete arrivati al Brennero?

R: Siamo arrivati al Brennero. Quando siamo stati liberati, dato che eravamo vestiti in quella maniera, c’erano dei capannoni pieni di roba italiana, stoffa, confezioni, vestiti, scarpe, l’ira di Dio, suole da scarpe…

D: Ma lì a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Siamo andati in questi blocchi, in questi capannoni, io mi sono vestito. Mi sono messo una giacca che mi ricordo ancora, color… Questo colore, più o meno, un po’ più chiaro.

D: Marrone?

R: Marrone, questo colore, sportiva. Ho trovato la giacca e me la sono ficcata addosso, un paio di pantaloni, un paio di scarpe. Lì incominciavano a dire: “Per l’amor di Dio, gli americani non lasciano passare niente”.

Siamo capitati in una camera piena di soldi, soldi italiani, 10.000, 5.000, 1.000 Lire, 500 Lire, di carta allora, che potevamo caricarci come volevamo, addirittura un camerone pieno di soldi.

Io avevo uno zainetto, mi sono preso appena 6.000 Lire, stupido. Mi dicevano: “No, non lasciano passare”, porca di una miseria. Qualcuno è stato più furbo e qualcosa in più ha preso.

Io mi sono preso un paio di suole da scarpe, qualche rocchetto di filato, sempre roba italiana, buono, roba da niente. Quando siamo arrivati a Bolzano, siamo andati in un bar in compagnia di un genovese.

Siamo entrati in un bar e abbiamo detto: “Valgono ancora questi soldi?”. “Valgono ancora? Eccome!”. Ci siamo mangiati le mani, perché non ci hanno fatto nessun controllo. Quelli che sono stati più furbi hanno portato via, ma mica troppo perché anche loro avevano paura. Dicevano: “E’ inutile che ci prendiamo questi soldi che ce li portano via”.

D: A Bolzano siete arrivati e dove vi hanno messo?

R: A Bolzano appena arrivati là ci hanno messo dalla parte della stazione, ci destinavano: “Tu devi andare a Torino”, ad esempio, e ci destinavano. Ci facevano il lasciapassare, il foglio di rimpatrio.

D: Dopo li vediamo i documenti.

R: Il foglio di rimpatrio e ognuno prendeva la sua strada. Sono arrivato a Torino, dovevo cambiare treno, avevo il lasciapassare, il foglio di rimpatrio. Là è stato bello.

Prendo il treno per Cuneo, perché abitavo a Cuneo con mio fratello, e sul treno il controllore…

D: Perché con tuo fratello?

R: Abitava a Cuneo già mio fratello.

D: Ah, abitava a Cuneo.

R: Lui era impiegato. Mio fratello non era a Cuneo, sul treno Torino – Fossano c’era un mio paesano, mio fratello aveva battezzato una figlia di questo tizio, un ferroviere. Appena mi ha visto, io ero seduto con i bastoni, è venuto davanti e mi guardava.

Io guardavo lui e lui guardava me. Mi dice: “Ma tu non sei Mario?”. Ho detto: “Sono Mario”. Mamma mia, appena ha sentito così mi ha abbracciato. Il treno era fermo alla stazione di Fossano e mi ha portato al bar della stazione. Io non potevo mangiare niente, non potevo bere niente.

Ho preso, non so, un succo di frutta, ne ho bevuto tanto così. Questo mi fa: “Guarda che tuo fratello non è a Cuneo, non è a casa”. E chi c’è a casa? C’è la nipote, che lui andava a Torino per fare delle spese, allora mio fratello si curava per l’ulcera.

Arrivato a Cuneo, c’è la nipote. Poi mio fratello non sapeva niente che arrivavo, la sorpresa appena è entrato in casa, mi sono presentato. Si figuri un po’ quello, non aveva saputo niente di che fine avevo fatto. Là c’era la nipote in attesa che arrivasse mio fratello, siamo stati là.

Tutto lì, è finita lì. Dopo ho cominciato la tragedia di andare alla Croce Rossa per fare le medicazioni man mano che… Per un anno intero, un anno mangiare leggero, riguardato. Per lavorare chi aveva le forze? Quando mi sono rimesso ho incominciato a lavorare.

Lì a Cuneo non ho trovato più niente, nella casa, nel negozio. Avevo il negozio, la pescheria. Purtroppo me l’hanno bruciato, mi hanno portato via tutto. Ho dovuto incominciare da zero alla lettera, però io nauseato del Piemonte…

D: I genitori?

R: I genitori ce li avevo in bassa Italia. Erano giù.

D: Nauseato dal Piemonte?

R: Quando mi sono ripreso sono stato un po’ di anni là, ma non lo so, non mi trovavo più. Dico: “Vengo via”. Sono capitato per caso qui a Desio, per caso. Sono capitato a Desio e cosa facevo?

Facevo il barbiere a tempo perso, tre giorni alla settimana, era difficile anche trovare lavoro. Dopo è uscita una circolare che prendevano tutti i prigionieri di guerra, avevano la preferenza a entrare negli stabilimenti.

Io ho fatto domanda all’Incisa qui a Lissone, fabbrica di compensato. Però volevano una conferma, sono dovuto andare a Cuneo per farmi rilasciare una dichiarazione dal maresciallo dei carabinieri che io realmente ero stato…, nonostante avessi i documenti, il foglio di rimpatrio.

Ho dovuto fare quello, andare a Cuneo, farmi rilasciare la dichiarazione, il maresciallo dei carabinieri mi conosceva e subito l’ha fatta, per l’amor di Dio. Sono venuto qua e mi hanno assunto, sono stato due anni all’Incisa.

Siccome noi siamo di stirpe degli antenati tutti commercianti, mio padre commerciante, mio nonno, mio fratello, tutti quanti, le mie sorelle, dopo lavoravo ancora all’Incisa quando mi sono sposato, sono restato disoccupato quando hanno chiuso lì alla villa vicino a Lissone.

Hanno chiuso la fabbrica, ho lavorato fino all’ultimo giorno, dopo sono restato senza niente. Ho dovuto assoggettarmi e andare qui a Varedo, ho lavorato undici mesi. Dopo sono venuto a diverbi col capo turno, con un certo Galbiati, gliene ho dette di tutti i colori e sono venuto via anche di là.

Dico: “Basta padrone, non voglio più saperne di padroni, neanche se m’impicco”. Mi sono messo a lavorare subito per conto mio. E’ stata dura. Il pescivendolo facevo io, io lavoravo fuori, facevo i mercati. E lavoravo a casa, a casa avevo un negozio.

Non le dico i sacrifici che ho fatto, per l’amor di Dio, le ore io non le ho mai contate, erano dodici, erano quindici, erano sedici, erano venti anche. Pian piano ho fatto la mia carriera. Tutto lì.

D: Mario, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: No. E’ quello che volevo dire. Quando vi capita l’occasione, perché per la malattia di mia moglie ho avuto un sacco di guai, mi piacerebbe venire.

D: Adesso a maggio…

R: Verso maggio?

D: A maggio vado.

R: A maggio?

D: A maggio, sì.

R: Vengo anch’io.

D: C’è la delegazione che va su con il pullman.

R: Mi tenga presente.

D: Ti mando l’invito, ti mando il programma. Tu non sei più ritornato?

R: Non sono più ritornato.

D: Perché?

R: Perché ero troppo impegnato per causa lavoro.

D: Ascolta un attimo, quando sei tornato a Cuneo i tuoi amici di un tempo…

R: Si, qualcuno.

D: Quando sei arrivato da Mauthausen…

R: Sì.

D: Hai provato a raccontare della tua deportazione?

R: Ho provato a raccontare, ma chi non prova… Bisogna provare certe cose. Ci credevano sì, ci credevano no.

D: Non ci credevano?

R: Non ci credevano. Dopo naturalmente venendo a conoscenza di tutte le mie peripezie, via via si sono ricreduti. A casa mia non sapevano niente, niente, niente.

Alla Liberazione, mi sfuggiva un particolare, quando siamo stati liberati, sempre per mezzo di questo professore mi ha portato al microfono e abbiamo dato comunicazione: “Io, Tizio e Caio, nome e cognome, abitante a Cuneo in via Fossano 30, comunico ai miei familiari che sto bene e ci rivedremo presto”, tutto lì.

Mio fratello, che quel giorno lì era a Torino, combinazione un amico, un certo Pompilio ha sentito per radio e si è ricordato: “Mario, mamma mia”. Glielo ha comunicato a mio fratello: “Guarda che tuo fratello ha dato comunicazione al campo di Mauthausen così e così”.

“Ma no, mio fratello, ma scherziamo, chissà che fine ha fatto mio fratello”. Poi quando sono arrivato immaginiamo la festa, anche mio fratello. Poi ho dato comunicazione a lui. Pesavo 34 chili e 400 grammi.

D: Quando sei tornato? E avevi quanti anni?

R: Avevo ventidue anni, giovane.

Esposito Eugenio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Eugenio, quando sei stato arrestato te?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: E sei stato arrestato a casa tua, assieme a chi?

R: A casa mia, assieme a mio padre.

D: Chi è che ti ha arrestato?

R: L’UPI, Ufficio Politico Investigativo.

D: Perché, l’accusa qual era?

R: Partigiani, antifascisti.

D: Tu facevi parte di una brigata partigiana?

R: Sì, della 113° brigata GAP.

D: E dopo ti hanno arrestato. Era mattino quando ti hanno arrestato?

R: Al mattino, intorno alle 8.

D: Del mattino.

R: Del mattino, sì.

D: Sono venuti in casa …

R: Sono venuti in casa. Uno è venuto in casa a farmi credere che si doveva partire per l’Oltre Po Pavese. Mi ha messo fretta. Ha preso la scusa col dire “Dopo cambiano il posto di blocco a Pavia e non conosco le sentinelle che ci sono. Invece queste le conosciamo, ci lasciano passare”. E c’era tutto un trucco per far sembrare la cosa vera. E quando siamo scesi in macchina, e siamo scesi in strada, la macchina l’avevano parcheggiata dietro la casa dove abitavo io, e quando stavo per salire sulla macchina e salutare mio padre, che hanno detto di accompagnarmi, per non destar sospetti, quando stavo per salire in macchina e stavo per salutare mio padre, sono saltati fuori altri due con le rivoltelle, e su tutti sulla macchina.

D: Anche tuo padre?

R: Anche mio padre.

D: Tu avevi quanti anni?

R: Avevo 18 anni.

D: E tuo padre, invece?

R: 46.

D: Da lì, dove vi hanno portato?

R: In via Copernico, a fianco alla Stazione Centrale, all’Ufficio della UPI.

D: E lì hai subito i primi interrogatori.

R: Lì c’è stato il primo interrogatorio.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere di mio fratello, e volevano sapere dei partigiani che c’erano nei pompieri.

D: Perché tu eri un pompiere, allora?

R: Ero un pompiere, sì.

D: E volevano sapere di tuo fratello perché? Tuo fratello dov’era?

R: Mio fratello doveva essere militare nei Paracadutisti della Folgore, invece era in montagna con i partigiani.

D: L’interrogatorio è durato fino a quando?

R: E’ durato fino al tardo pomeriggio. Dopo ci hanno messo in cella, che c’erano le celle giù al piano terreno. E verso mezzanotte è arrivata la macchina, ci hanno caricati, e ci hanno portati a San Vittore.

D: E ti hanno messo dove?

R: Alla cella 87, credo, del 6° raggio.

D: Sempre te e tuo padre assieme?

R: Assieme.

D: E lì sei rimasto quanto tempo, a San Vittore?

R: Sono rimasto dalla notte del 31 luglio al 1 agosto, fino al 16 agosto. Credo che sia il 16 o 17, che siamo partiti per Bolzano.

D: Però, alcuni giorni prima, ti hanno separato da tuo padre.

R: Due giorni prima ci hanno spostato di cella e cambiato il raggio. Ci avevano portato subito al 5° raggio, dopo qualche giorno al 6°. Ci hanno portato al 5° raggio, che è il raggio dei politici, e all’8 ci hanno separati. Lo hanno portato in un’altra cella e io sono rimasto lì.

D: A San Vittore non hai subito più interrogatori?

R: Nessun interrogatorio.

D: Nessuno ti ha chiesto niente?

R: Niente, più nessuno. Non ho visto più nessuno io.

D: Dopo, al 17 di agosto …

R: Il 17 di agosto.

D: Ti hanno chiamato.

R: Ci hanno chiamato la sera, forse il 17 o il 16. Hanno aperto tutte le celle e giù tutti nei corridoi del piano terreno. Eravamo lì tutti. Hanno vuotato il carcere quasi. C’era la partenza, dicevano, per Bolzano. Si doveva andare tutti a Bolzano.

D: Avevi un numero di matricola a San Vittore?

R: L’avevo, ma l’ho perso. Non l’ho più. Non so neanche che numero era. Ho fatto la richiesta. Sono andato là e me lo hanno dato. Mi hanno dato anche il certificato, che sono stato a San Vittore come detenuto politico, però non lo trovo più.

D: Poi siete partiti. Siete partiti con i camion con carri, con cosa?

R: Siamo partiti con i pullman della … di Milano. Forse c’era qualche pullman dell’Azienda Tranviaria. Comunque, erano tutti pullman con i finestrini sigillati e non si potevano aprire. Hanno tolto le maniglie, la maniglia per tirare giù i vetri dei finestrini.

D: Assieme a te, sul pullman, c’era qualche altra persona che conoscevi?

R: Quasi tutti. C’era un certo Bellamio, che dopo in Germania faceva da interprete. C’era Gibillini sul mio pullman. Eravamo in quattro o cinque, adesso non me li ricordo bene. C’era Giovanni Ferrario, che è morto a Dachau, che era uno degli ostaggi come me.

D: Ascolta. Il viaggio lo avete fatto passando da Verona, o passando dal Garda?

R: Da Verona.

D: Da Verona?

R: Da Verona, sì.

D: Poi siete andati a Bolzano. Voi non sapevate dove eravate diretti?

R: No, non si sapeva.

D: Siete arrivati a Bolzano e vi hanno messo nel Lager di Bolzano.

R: Sì, nel campo di concentramento di Gries. Ho visto che c’era scritto Gries. Abbiamo passato un ponte, un ponte sul fiume. Io a Bolzano non c’ero mai stato, non sapevo neanche com’era come città, insomma. So che abbiamo passato un ponte, e al di là del ponte abbiamo camminato un po’ e ci siamo trovati in un campo di concentramento.

D: Lì, ti ricordi in quale baracca ti hanno messo?

R: Era la seconda o la terza baracca di destra, era la B. Per me era la baracca B, che mi ricordo.

D: Ti hanno dato un numero qui a Bolzano?

R: Anche a Bolzano mi hanno dato un numero, ma non me lo ricordo.

D: Ti hanno lasciato i tuoi vestiti o hai dovuto spogliarti?

R: No, a Bolzano mi hanno lasciato i miei vestiti. Com’ero vestito, sono rimasto.

D: Lì, nel campo di Bolzano, sei stato addetto a fare dei lavori?

R: No, niente. Solo una volta, o due, siamo usciti un po’ a gruppi a lavorare nei frutteti, ma non mi ricordo neanche il lavoro. So che era un lavoro inutile, che si poteva anche farne a meno. Forse l’hanno fatto per farci fare una passeggiata.

D: A proposito di frutteti ecc, c’era un tuo compagno di deportazione, lì a Bolzano, che distribuiva a voi deportati delle mele. Ti ricordi chi era questo qua?

R: Sì. A me, che dava le mele, era Gianotta. E una volta me le ha date anche Olivelli.

D: Tu, soldi, non ne avevi?

R: Se avevo, avevo 5 lire.

D: E invece, questi due deportati distribuivano …

R: Non so. Gianotta i soldi li aveva, qualcosa aveva. Olivelli, non so, penso anche lui, o ha trovato un sistema di avere le mele. Non so come facevano. So che avevano le mele e le distribuivano.

D: Ti ricordi se nel campo, quando tu eri qui nel campo a Bolzano, hai avuto modo di vedere se c’erano dei bambini dentro nel campo?

R: Quelli, non li ho mai visti.

D: Non li hai visti. E le donne invece?

R: Le donne sì. Perché il blocco prima del mio era tutto di donne. Nel mio gruppo c’era un certo Lupo Dorino, che cantava bene, e la sera cantava. E le donne gridavano “Bis”. Volevano risentire ancora le canzoni.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Con me c’era proprio Padre Agosti Gianantonio, un frate. Ha detto che era il frate che c’era nella Chiesa dei Cappuccini di viale Piave a Milano. Tant’è che, finita la guerra, sono andato a trovarlo lì. Dopo la Liberazione siamo andati a trovarlo in quella Chiesa lì.

D: Lui era stato arrestato e deportato perché?

R: Perché aiutava gli ebrei, nascondeva gli ebrei. Li nascondeva in Duomo, credo. Perché lui tutte le domeniche mattina, alle 10, faceva la messa in Duomo.

D: Nel Duomo di Milano?

R: Nel Duomo di Milano, sì.

D: E l’hanno arrestato …

R: E’ stato arrestato e portato a San Vittore. Lo ricordo ancora, un bonaccione, Padre Gianego, Agosti Gianantonio da Romallo. Era un trentino. Romallo è lì in Trentino.

D: Ed era nel tuo stesso blocco a Bolzano?

R: Nello stesso blocco.

D: Sai se celebrava messa?

R: No, non si poteva. Dopo, in Germania, veniva a benedire i morti che si trovavano nel gabinetto.

D: Ascolta, ti ricordi qui a Bolzano, tu sei rimasto pochi giorni qui a Bolzano …

R: Penso una ventina di giorni.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle a Bolzano?

R: Mi hanno detto che c’erano le celle, però non le ho mai viste.

D: Tu non le hai mai viste?

R: Mai viste.

D: E qui a Bolzano, sempre quando eri qui a Bolzano, hai assistito a episodi di violenza?

R: No, non posso dire di averne visti. Non ne ho visti.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, qui a Bolzano.

R: Sì, per una spedizione. Hanno detto che si andava in Germania.

D: Non hanno detto dove?

R: Niente, non hanno detto niente. Ci siamo accorti che siamo arrivati a Flossenbürg, perché c’era sempre uno che spiava attraverso il finestrino in alto del vagone bestiame e ha visto la scritta Flossenbürg. E dopo un po’ si è fermato il treno.

D: Dal campo di via Resia, dov’è che vi hanno caricato sui vagoni?

R: So che c’era un binario, che sembrava un binario morto. Non era in stazione. Sulla destra c’era un muro, come un muro di cinta di uno stabilimento, o un palazzo alto. Era di notte, non si poteva vedere di preciso dov’ero. So che non era in stazione.

D: E lì, vi hanno caricato sui vagoni?

R: Caricati su dei vagoni, piombati. Ci hanno messo su una cassa di mele per vagone. Non era roba tedesca. Era qualche comitato, qualche clandestino, che le ha messe su, non da parte dei nazisti, quello no.

D: Acqua?

R: Niente acqua.

D: Mangiare?

R: Mangiare, niente.

D: Solamente quelle mele lì?

R: Solo quelle mele lì.

D: In quanti eravate, più o meno, sul vagone?

R: Cinquanta per vagone.

D: Chiuso, sigillato …

R: Chiuso e piombato dall’esterno.

D: E via partenza.

R: Senza la possibilità di un posto dove fare i nostri bisogni, niente. E siamo partiti. Era notte.

D: Più o meno ti ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Adesso non mi ricordo di preciso se erano due notti e tre giorni, o tre giorni e due notti. So che è stato abbastanza lungo.

D: Sete, fame?

R: Più che la fame, era la sete. Perché era da poco che era estate, ed eravamo ancora in carne. La fame è venuta dopo.

D: Dopo, dicevi, quando si è fermato il treno, eravate a Flossenbürg.

R: A Flossenbürg.

D: Scesi dal treno, che cosa è successo?

R: Scesi dal treno, incolonnati e contati. In marcia, e siamo andati nel campo di concentramento. Ma non è proprio vicino alla ferrovia il campo, perché abbiamo camminato un bel po’.

D: L’ingresso nel campo come te lo ricordi?

R: Mi ricordo un cancello e tutte le guardie fuori.

D: C’era una scritta da qualche parte?

R: Credo che c’era scritta quella famosa frase “Arbeit macht frei”. Olivelli e Bellamio, che erano i due interpreti, hanno detto che voleva dire “Il lavoro rende liberi”.

D: Dopo, dicevi, vi hanno messo in un capannone.

R: Non era un capannone chiuso. Era un posto, dove ogni tanto facevano gli spettacoli. Perché, per burlarsi di noi, ogni tanto la domenica facevano i concerti. Sembra un paradosso, ma la prima canzone che suonavano era sempre “Tornerai”. Quella faceva piangere tutti.

D: Ma l’orchestra era composta, da chi?

R: Da prigionieri.

D: Da deportati?

R: Da deportati. C’erano dei veri professori di musica.

D: E in questo posto qui, cosa avete dovuto lasciare voi?

R: Noi abbiamo lasciato tutto quello che avevamo. Messo tutto nei sacchi col nome, perché dicevano che a guerra finita ce li davano indietro.

D: Cioè, tutti i vostri vestiti …

R: I vestiti, gli oggetti. E hanno detto “Non abbiate paura, se avete oro mettete qua, che qua è sicuro”.

D: Quindi vi siete denudati.

R: Denudati completamente.

D: E poi?

R: Poi siamo andati alle docce. C’era una scala, che andava giù. Siamo entrati in quel gran locale, con tutti gli spruzzatori sul plafone e abbiamo capito che erano docce. Quando era ben saturo l’ambiente, quando eravamo dentro tutti, hanno aperto i rubinetti dell’acqua bollente, non dico calda ma bollente, che a tanti sono venute le piaghe. Quelli che sono capitati proprio sotto il getto, avevano le piaghe sulle spalle. E dopo, a furia di grida e urla, chiusa l’acqua bollente hanno aperto l’acqua gelata. E lì altre urla, perché l’acqua era troppo fredda. Dopo, spenta l’acqua, per farci asciugare, era un sogno un asciugamano, hanno aperto le finestre, hanno fatto aria corrente e ci siamo asciugati con l’aria corrente.

D: Ascolta, se uno non capiva gli ordini, che erano dati in tedesco, cosa succedeva?

R: Erano bastonate o calci, mai con le mani. Non toccavano con le mani, o con il bastone o con i piedi.

D: E con te c’era sempre Padre Gianantonio?

R: Era sempre stato con noi. Lo ricordo nudo, davanti a me, quando si andava giù alla scala per le docce.

D: Dopo, la rasatura.

R: Dopo c’è stata la rasatura.

D: La rasatura in tutte le parti del corpo?

R: La rasatura in tutte le parti del corpo. Dalla testa, fino sotto le ascelle, chi aveva il pelo sullo stomaco. Padre Gianantonio con la barba, tagliata. Abbiamo chiesto pietà per lui, perché la barba è simbolo dei frati, ma non c’è stato niente da fare.

D: Non ti ricordi se per caso, questo particolare della barba, non gli è stata tagliata a Bolzano a Padre Gianantonio?

R: Non credo che l’hanno tagliata a Bolzano.

D: Gliela hanno tagliata a Flossenbürg?

R: Credo che gliela abbiano tagliata proprio a Flossenbürg.

D: Quindi, depilazione, rasatura. Poi?

R: In tutte le parti del corpo. Poi ci hanno portato alla vestizione. Tutti nudi, attraversare il piazzale dell’appello, c’erano i magazzini, si camminava in fila indiana. Lì c’erano dei prigionieri che ti buttavano, chi la giacca, chi la camicia, chi i pantaloni e gli zoccoli, e basta. Senza fermarsi. Dovevi prendere tutto al volo, tutto di corsa, al volo, perché eravamo in tanti da vestire. Era già sera.

D: Ascolta, biancheria intima?

R: Mai vista, né calze, né mutande.

D: Una maglietta?

R: Chi aveva la maglietta, non aveva la camicia. Il capo era uno.

D: Poi, il blocco di quarantena.

R: Dopo, incolonnati verso il blocco di quarantena. L’abbiamo saputo dopo che era un blocco di quarantena. Il 23 era il blocco più terribile di Flossenbürg.

D: Perché?

R: Chi è stato a Flossenbürg, tutti sanno che cos’era il blocco 23 perché lì la morte era giornaliera, bastonate, tutto. Era il blocco più terribile. Quarantena non per le malattie, io penso per selezionare ancora il personale. Chi resisteva lì, poteva continuare a fare il prigioniero. Infatti, non sono passati dieci, quindici giorni, che sono andato al gabinetto, chiamiamolo gabinetto, perché era uno schifo, e ho visto un cadavere sotto i lavandini. Al ritorno sono andato da Padre Gianantonio e gli ho detto “Padre c’è un cadavere al gabinetto”. Sarà morto lì, ma è nudo. E’ andato là e l’ha benedetto. Dopo un po’ qualcuno è voluto andare a vedere anche lui. E’ tornato e fa “Guarda che ce ne sono due, tre o quattro di cadaveri”. Dopo abbiamo capito. Tempo di sera, i due, tre cadaveri, diventavano catasta perché portavano anche quelli del blocco 22.

D: Quindi, quando uno moriva, veniva portato …

R: Quando uno moriva, veniva spogliato, bagnato con il getto di acqua fredda, per bagnare la pelle per poter scrivere il numero di matricola sulla pelle del morto. La matita copiativa, si usa se è bagnata. E per non star lì a bagnarla ogni volta, bagnavano il cadavere e scrivevano il numero di matricola, che dopo veniva registrato e depennato come deceduto.

D: Vicino alla tua baracca, vicino al blocco 23, cosa c’era?

R: C’era il forno crematorio, però non lo vedevamo. L’abbiamo saputo, che era il forno crematorio, perché vedevamo sempre il carro passare. Al mattino passava il carro pieno di cadaveri, e vedevamo il fumo che usciva. Dopo ci hanno detto, gli anziani del campo, che lì c’era il forno crematorio. Di fronte c’era una garitta, una garitta con su le sentinelle, le mitraglie. Era un posto bello però, malgrado la garitta e il forno crematorio, perché più di una volta abbiamo visto i caprioli passare sotto le garitte. Era qualcosa di anormale vedere un capriolo in libertà.

D: Ascolta. Il tempo che sei rimasto lì a Flossenbürg, hai avuto modo di vedere se lì sono state consumate delle violenze?

R: Ma lì erano all’ordine del giorno le violenze. Tutti i giorni era violenza lì. Le 25 bastonate con un tubo di gomma. Basta pensare che il capo blocco era un assassino, un delinquente comune, e il capo campo un pluriassassino. Quelli lì ci comandavano. Il vice capo blocco era un polacco, più delinquente ancora del tedesco. Perché non sembra, qua si parla sempre di tedeschi, ma i polacchi ci hanno fatto piangere e ci hanno bastonato tanto. Non era solo quello lì polacco, tanti capi blocco e vice capi blocco erano polacchi.

D: Tanti Kapò.

R: Tanti kapò.

D: Ascolta, mi sono dimenticato di chiederti una cosa. Lì hai avuto anche l’immatricolazione?

R: Lì mi hanno immatricolato, sì.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 21.587.

D: Quindi, dovevi rispondere, ogni volta che ti chiamavano?

R: E’ un numero che non sono riuscito ad impararlo in tedesco. Ancora oggi, non sono riuscito ad impararlo. Se non si rispondeva, venivano a prenderti ed erano bastonate. Per fortuna che io ero molto amico di Bellamio, che faceva da interprete, e lui si intrufolava in mezzo e me lo spiegava in tedesco. E all’attimo capivo e rispondevo, qualche volta. Qualche volta andava male.

D: Com’era il gabinetto di Flossenbürg?

R: Il gabinetto di Flossenbürg, metta di vedere una grande fossa, profonda tre o quattro metri, lunga sei, sette, otto metri, larga tre, quattro, cinque metri. Sui bordi c’era una trave. In mezzo c’era un divisorio perché serviva anche per il blocco 22. Ai lati c’era una trave di legno, sia di qua che di là, nelle due parti, e ci si doveva sedere su quella trave lì per i bisogni.

D: Ma non era pericoloso, instabile?

R: Per uno sano non era pericoloso, ma tanti morivano al momento, o erano deboli e cadevano dentro la buca, e stavano dentro. Morivano dentro, seppelliti dagli escrementi di tutti quelli che andavano al gabinetto. Una volta ogni tanto, penso che lo vuotavano e tiravano fuori i cadaveri. Siccome i capi blocco, che mangiavano le patate e la frutta, la pelle non la davano a noi ma la buttavano dentro quel gabinetto lì, in quella buca, ho visto prigionieri russi andare giù, farsi da scala e andar giù a prendere quelle pelli lì e mangiarle. Io speravo di morire prima di arrivare a quel punto lì.

D: Durante la quarantena tu sei uscito anche dal campo per lavorare?

R: Lì, andavamo alla cava di pietra. Non tutti, facevano due o tre squadre. E si andava alla cava di pietra, che distava due o tre chilometri. Di notte brillavano le mine e spaccavano la montagna, e noi di giorno si andava a caricare le pietre. Pretendevano che erano cubi, come se la dinamite, quando scoppia, fa i cubi perfetti. E si stava lì anche a picchiarsi, l’uno con l’altro, tra noi, perché uno vedeva il cubo che andava bene e cercava di portarlo via, e l’altro voleva fregarlo. Perché era importante perché dopo c’era il controllo, c’era la sentinella che controllava. Se la pietra era troppo piccola o non era fatta bene, erano bastonate. Non c’era pietà lì.

D: Le pietre le prendevate lì dalla cava, e dove dovevi portarle?

R: Si ritornava al campo, ma non si rientrava nel campo. C’erano delle costruzioni su una strada, che anche la strada era nuova, che stavano facendo, e si depositavano lì, ai margini di quella strada, dove c’erano delle costruzioni che dicevano essere delle villette per le SS.

D: E poi ritornavate …

R: E poi si ritornava alla cava. Si facevano tre, quattro viaggi al giorno, andata e ritorno.

D: Ritornando al campo, ti ricordi se nel campo di Flossenbürg hai visto delle donne?

R: C’erano le donne. E per la verità c’era anche il bordello.

D: Dentro il campo?

R: Dentro il campo. Era dietro l’infermeria.

D: Ma chi ci andava?

R: I capi e anche qualche lavoratore, perché davano i buoni per potere andare. Quelli che lavoravano già negli stabilimenti, penso che avevano quei buoni lì.

D: Gli altri deportati del campo uscivano anche loro a lavorare?

R: Sì, tanti uscivano, ma non la maggioranza però. Sì rimaneva ad oziare tutto il giorno. Pochi uscivano. Si vede che non c’erano grandi industrie in giro lì. Chi usciva, dicevano che andavano fuori a fare le strade, a fare quella famosa strada lì, dove portavamo noi le pietre. Ma non era come negli altri campi, dove sono stato dopo, che c’erano proprio gli stabilimenti, lì grandi industrie, non ne ho viste io.

D: Lì sei rimasto un mese.

R: Un mese circa, sì.

D: Poi, che cosa è successo?

R: Siamo partiti ancora con il treno, anche lì, il viaggio abbastanza lungo, due giorni e due notti. Abbiamo visto Kempten, che c’è la stazione. Siamo scesi dal treno, e ci hanno incolonnato fino a Kottern, si vedeva il cartello, e lì c’era un campo di concentramento e siamo entrati lì. Come siamo entrati, il capo campo ha fatto il discorso, il discorso burla “State puliti. Non tentate di fuggire. Non rompete i vetri”. Non so, come se fossimo dei giocatori di calcio, a giocare lì in mezzo alle case. Ci ha proprio detto di non rompere i vetri, se no ci avrebbero punito. La prima zuppa che ci hanno dato però, era già più sostanziosa di quella che si mangiava a Flossenbürg. Era più spessa. Abbiamo detto “Qua stiamo bene”, ma purtroppo è durata poco lì.

D: Ascolta, ma a Flossenbürg non avete mai avuto contatti con la popolazione, o visto abitanti?

R: Mai visto un abitante di Flossenbürg, mai. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: Neanche quando siete arrivati …

R: Neanche quando siamo arrivati.

D: … che avete attraversato il paese?

R: Niente. Abbiamo attraversato il paese, ma era notte, era sera, c’era buio. So che siamo passati vicino ad una segheria, credo che c’era una segheria sulla destra, ma non abbiamo visto nessuno, come se ci fosse il coprifuoco. C’erano delle case, però mai visto una persona camminare in strada, nessuno. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: In questo campo qui nuovo, non a Flossenbürg, quello in cui sei arrivato

R: A Kottern

D: A Kottern ti hanno immatricolato di nuovo?

R: Lì, hanno cambiato numero di matricola. Era 116.355.

D: E questo era un sottocampo di Dachau.

R: Era un sottocampo di Dachau. Tant’è vero che, lì, non c’era il crematorio. Quelli che ammazzavano, o morivano, c’era il camion il mattino che li portava a Dachau a bruciare.

D: Perché eravate lì, voi deportati? Cosa facevate in questo campo?

R: Dopo due o tre giorni, ci hanno fatto a squadre e ci hanno divisi. Si partiva al mattino alle 6, e si facevano tre chilometri a piedi su una stradina che costeggiava il paese. Lì, si vedeva qualche abitante, ma quando passavamo noi le donne, nelle case, chiudevano le finestre. Non so perché, facevamo orrore, non lo so. E c’erano due stabilimenti, che dicono che erano due tessiture modernissime della Germania, che però sono state bombardate perché le hanno fatte diventare due stabilimenti.

D: Cioè, costruivate parti …

R: Parti di quei missili, diciamo.

D: E la ditta?

R: Io non so che ditta era quella lì. Per me, era un’azienda militare. Non lo so. Non c’era scritto niente fuori. So che costeggiavamo un fiume. C’era un ponticello da attraversare, e si entrava in quel cancello lì. Sempre scortati, e si facevano dodici ore di giorno per una settimana e l’altra settimana dodici ore di notte.

D: Questo nome qui ti dice qualcosa? “Messerschmitt”.

R: Sì. Ah ecco, era proprio la Messerschmitt

D: Avevate dei capi civili anche?

R: C’erano dei civili, ma i capi erano solo tedeschi militari.

Tanti civili, ma come maggioranza erano militari dell’Aviazione Tedesca. Dicono che erano tutti feriti che rientravano dal fronte e venivano lì in convalescenza, ma dovevano lavorare. Ci facevano vedere il lavoro che dovevamo fare noi.

D: Ah ecco, vi spiegavano che tipo di lavoro dovevate fare?

R: Sì.

D: Ascolta. Uno invece, non è che ti ha spiegato un lavoro, aveva chiesto se tu gli facevi un particolare oggetto in cambio …

R: Ho fatto i bocchini per le sigarette, e poi ho fatto anche degli accendisigari e porta sigarette. Tant’è vero che, uno di quelli lì, l’ho fatto io, e Castelli, che adesso è morto, l’ha inciso con il disegno che ci ha dato uno del campo, che era un capo della Mercedes. Era un prigioniero politico tedesco. Era all’ufficio di quello che teneva la registrazione del campo. E quello lì, a me e a Castelli, ogni volta che ci portava a far vedere il lavoro, tutte le sere, ci dava una mezza gamella di zuppa.

D: Ma un altro, invece, che era una SS …

R: Non era una SS. Me ne ha ordinato uno per lui ed uno per la fidanzata. Ne ho fatto uno prima di quelli lì. E quel militare lì, che era dell’aviazione, mi ha dato una fetta di pane. Sarà stato un etto e mezzo, due etti. E’ tanta manna. E’ il lavoro di più di una settimana. Facevo tutto di nascosto, perché se mi prendevano era sabotaggio, era impiccagione. Lì non si scappava. E quello lì ha fatto vedere ad un altro dell’aviazione, che lavorava lì anche lui, sempre in divisa, erano in due, e quando l’ha visto mi ha chiamato e mi ha detto che lo voleva anche lui, uno per lui e uno per la fidanzata. Allora a racimolare il materiale, che non era roba facile. Dovevo andare di notte, scardinare la porta, già scardinata per i bombardamenti, e i piani superiori bombardati, cercare gli interruttori di bachelite, portare via i pezzi. Io facevo quei bocchini lì delle sigarette e porta sigarette, che erano una meraviglia. Sono usciti dei gioielli. Neanche io credevo di essere capace di fare delle cose così belle. Il tempo l’avevo, ma sempre di nascosto però. Avevamo fatto il contratto che doveva darmi del pane. E quando sono andato a consegnarli, ero tutto contento. Ho detto “Stasera mangio”, e invece mi sono preso due calci nel sedere che mi hanno alzato da terra. Quello è stato il pagamento. E non era una SS, era dell’aviazione. Era rosso di capelli.

D: Lì, sei rimasto per quanto tempo?

R: Fino al 22 o 23 aprile del 1945. Purtroppo, tre o quattro giorni prima della Liberazione, diciamo, ci hanno caricato tutti su i camion ma è suonato un allarme ed è iniziato un bombardamento terrificante. Lì, ci siamo guardati un po’ ed ho deciso di scappare. Ci siamo trovati in cinque. C’ero io, c’era Gibillini Venanzio, c’era Selmi Umbro, c’era Nicolini e c’era …, un triestino, un istriano. Abbiamo fatto molta strada a piedi. Il pericolo era che si camminava vestiti da prigionieri. Allora abbiamo deciso di camminare a metà costa, sulle colline, tra una pianta e l’altra, per non farci vedere perché la strada era tutta piena di militari tedeschi che ritornavano sconfitti dal fronte, tutti feriti. E’ stata proprio una disfatta. Ho visto proprio la disfatta dell’esercito tedesco lì. Nel camminare, abbiamo trovato una donna che ci ha salutato. Noi abbiamo risposto al saluto e siamo arrivati ad un boschetto. Un boschetto, ma saranno state cinque o sei piante in fiore. Non posso dire se erano meli o se erano ciliegi, quel boschetto lì. Dopo 5 minuti che eravamo lì, è arrivata gente. Si sono presentati. Erano operai francesi, che lavoravano alla BMW. Ci hanno chiesto chi eravamo, e noi glielo abbiamo detto. E hanno detto “Non state in giro vestiti in quella maniera lì”, in francese, qualche parola si capiva, “perché vestiti a zebra, se vi vedono, vi pescano subito. Aspettate qua un’oretta, che andiamo dove lavoravamo, perché oramai lo stabilimento è distrutto, bombardato, cerchiamo dei vestiti borghesi e ve li portiamo”. Difatti, dopo un’oretta, sono arrivati con due sacchi pieni di vestiti. Ci hanno messo lì i vestiti, ci hanno dato una sigaretta per uno, cinque sigarette, e se ne sono andati. E noi ci siamo cambiati i vestiti. Nell’attimo di buttar via, anche i berretti ci hanno portato, cinque berretti, nell’attimo di buttar via i vestiti a zebra, abbiamo visto due canne di mitra e sentito delle grida. Ci siamo guardati in giro, ed erano due Sergenti delle SS del campo. Lì abbiamo capito che quella donna là ci ha indirizzato quella gente lì. Perché quelli ci hanno inseguito subito da come siamo scappati, però non ci vedevano. Si vede che hanno chiesto informazioni e qualcuno ci ha visto. Di sicuro quella donna là, è una che ha fatto la spia. E lì, avevano un bastone per uno, hanno passato il mitra nella mano sinistra e con la destra, con quel bastone lì, fino a che non hanno avuto in mano più niente, si sono sfogati su di noi. Tant’è vero che le ultime bastonate le ha prese il Gibillini Venanzio, che è caduto in un fosso, una pozza d’acqua, ma profonda 60, 70 centimetri. E ho detto “Quello lì annega”. E allora mi sono messo in ginocchio e con la poca forza che mi è rimasta l’ho tirato fuori. Il tedesco, quando ha visto così, si è sfogato ancora su di me e mi ha conciato proprio per le feste, però ho salvato Gibillini. Dopo, la strada che abbiamo fatto a fuggire, l’abbiamo fatta a tornare. Però hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Noi, quando ci hanno detto di spogliarci e chi eravamo, abbiamo detto “Civili francesi”. E quelli hanno detto “Togli il berretto”, e voleva dire essere scoperti, perché noi avevamo la Strasse. Come italiani e russi, oltre ad essere rapati a zero, avevamo la Strasse per riconoscerci, perché se ci hanno bastonato da dar via, era nostra e per i russi. Loro erano i nemici e noi eravamo i traditori. Abbiamo fatto tutta quella strada, che avevamo fatto durante la fuga, ma siamo tornati indietro. Siamo passati da una cascina, e abbiamo capito che quella era la donna di uno dei Sergenti che ci ha preso. Ci ha dato un carrello a mano, una carretta, e ci ha accompagnato in un magazzino bombardato. Ci ha fatto caricare margarina, salami, wurstel e bottiglie di grappa, e ce li ha fatti portare alla cascina e dare a quella donna là. Dopo che loro hanno mangiato, noi si guardava, non si sono degnati neanche di passarci un pezzetto di pane, allora siamo tornati al campo, quasi tutto di corsa per arrivare in tempo. Siamo arrivati al campo che era l’una di notte, circa.

D: Però non siete entrati nel campo?

R: No, ci hanno lascito fuori. Uno è entrato, ha chiamato sei SS, sono usciti con il moschetto e hanno formato il plotone di esecuzione. Ho detto “Ormai ci fucilano”. E dopo hanno litigato i due Sergenti. Quello che ci ha preso per primo ha detto “Li fuciliamo subito”. L’altro ha detto “No, aspettiamo domani mattina, che arriva il turno di notte, che ora sono fuori a lavorare, e passano in rivista”. “Passare in rivista” per dire “Chiunque tenterà la fuga, farà la fine di questi e li fuciliamo davanti a tutti”. Il Comandante, sentendo quella discussione, ha preso la motocicletta ed è andato al Comando Superiore. E’ rientrato dopo un’ora e mezza, sentivo la motocicletta nella notte che si avvicinava. Nella fuga, che abbiamo fatto noi cinque, si sono aggiunti due tedeschi politici, che anche loro hanno tentato la fuga ma sono stati presi come noi. Quando è rientrato il Comandante con la motocicletta, ha bisbigliato qualche parola, e poi ho visto i due tedeschi che si sono messi in ginocchio per baciare la mano a questo SS. Allora ho detto “Allora siamo salvi”. Però ho detto “E se è solo per quelli lì, che sono tedeschi?”. Dopo, invece, ha mandato via il plotone di esecuzione e ci ha detto di rientrare tutti in campo. Ci ha messo in un Bunker, che sarà stato lungo tre metri per due metri, senza finestre, con una porta stagna, con dentro circa mezzo metro d’acqua. E siamo stati lì fino a circa le 11 del giorno dopo. Non ci si poteva coricare, stanchi com’eravamo, se no si annegava, e ci siamo messi a coppie, in modo da poter star seduti uno sul ginocchio dell’altro e viceversa. Ci hanno tirato fuori alle 11 del giorno dopo. Era una giornata splendida, bruciavano gli occhi per il sole, con tutto il buio che avevamo sofferto. Il primo sole a momenti ci brucia gli occhi. Ci hanno dato una fetta di pane e ci hanno detto “State in campo”. A lavorare non si andava più, perché ormai la guerra era alla fine. Dopo due giorni, ancora incolonnati, rimangono quelli dell’infermeria, che sono quelli che non possono camminare, ci hanno contato, plotoni di cinquanta per volta e file di cinque. Noi cinque, che abbiamo tentato la fuga, ci siamo messi tutti vicini. Abbiamo fatto una fila. E come ci hanno visto uscire, hanno detto “No, tu qua, tu là” e ci hanno separato, ma dopo un po’ ci siamo riuniti ancora. E lì si è vuotato tutto il campo. Era la marcia di eliminazione. L’abbiamo capito dopo, perché chi cadeva veniva ucciso. Chi tentava di fingersi morto, quando si ripartiva dopo i 10 minuti di riposo, veniva ucciso anche lui con un colpo alla nuca. Era una prova che volevo fare anche io, ma mi sono guardato bene di farla perché avevo visto l’esito. E abbiamo capito che si girava sempre in giro ad una collina. Era sempre quello il panorama. Fino a che, verso le 5 di sera, tutto il cielo è diventato rosso, e ci siamo chiesti “Che cosa vuole dire? Cos’è questa roba qua?”. C’erano degli ufficiali con noi, prigionieri, che hanno detto “Nell’esercito, quando ci sono questi razzi, vuole dire di evacuare la città dalle Forze Armate”. Ci siamo guardati in giro, e non c’era più una SS. E’ finito. Ho messo le mani in tasca, che era proibito farlo, finalmente dopo dieci mesi mi sono messo le mani in tasca, e siamo rimasti liberi. Tanti sono ritornati al campo, alcuni si sono fermati lì, ed io, in tre, ci siamo diretti verso le prime abitazioni. Abbiamo trovato una cascina e ci siamo accampati fuori dalla cascina, sotto i portici, a dormire. Prima, però, ho trovato un tedesco, che anche lui mi ha messo in mano un carretto e mi ha detto di andare ad un magazzino alimentare, mi ha accompagnato lui, e mi ha fatto caricare dei viveri. Mi mandavano a rubare. Ho caricato dei viveri e li ho portati nella sua villa, anche quello lì se mi avesse detto “Grazie”, neanche un pezzo di pane. Il giorno dopo, quando ci siamo svegliati, siamo andati noi a saccheggiare qualche negozio e abbiamo mangiato. Il mattino dopo, un gran rumore sulle strade ci ha svegliato. Ho guardato fuori, proprio per primo, e ho detto “Ci sono i carri armati”. E il Gibillini mi fa “Ma che distintivo c’è su? C’è su una stella? Allora sono americani.” Infatti, siamo usciti e come ci hanno visti, eravamo vestiti a zebra, hanno fermato tutta la colonna e sono scesi a prendere informazioni. Parlavano tutti il napoletano, quei militari lì. Devo dire che ci hanno trattato proprio bene.

D: E lì sei rimasto fino a quando?

R: La nostra intenzione era quella di seguire il fronte. I militari americani ci portavano da mangiare tutti i giorni, mattina mezzogiorno e sera. Arrivavano due uomini con la pignatta e ci davano da mangiare. Posto, loro, non ne avevano. Erano accampati anche loro. Ci davano da mangiare loro. E quando si spostava il fronte, noi li seguivamo perché l’intenzione era di seguire il fronte per arrivare a casa prima. “Perché questi vanno verso l’Italia” pensavo io “Vanno verso l’Italia, li seguiamo, e ci troviamo là”. Invece, ci hanno portato in un altro paese. Lì ci hanno fermati, perché il paese era un po’ più grande, non mi ricordo che paese era, e ci hanno messo in un asilo a mangiare e a dormire. Lì, con i medici, ci hanno visitato, e ci hanno tolto tutti i pidocchi con il DDT. Ci hanno spruzzato con una pompa, ci spruzzavano sotto i vestiti, e di pidocchi non ce ne erano più. Siamo stati lì qualche giorno. Dopo, sono arrivati dei camion americani, ci hanno caricato e ci hanno portato a Bolzano.

D: A Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: A Bolzano ci hanno portato in una caserma. Tant’è vero che, meraviglia, a Bolzano giravano ancora i militari tedeschi armati, cosa incredibile. Era già finita la guerra.

D: Quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Poco, lo stesso giorno siamo ripartiti. Siamo ripartiti. Sono venuti i pullman. Ogni città mandava i suoi pullman. Milano ha mandato i pullman, Torino, Genova. Tutte le regioni mandavano i pullman, perché sapevano che c’era il rientro, e ogni comitato mandava i pullman. Io ne ho preso uno di Cernusco sul Naviglio, che ci ha portato fino alla Stazione Centrale di Milano. Abbiamo fatto una sosta a Trento. Un posto di preti ci ha dato da bere roba calda, e ci hanno dato un panino, credo. Poi siamo ripartiti subito, e siamo arrivati alla Stazione Centrale di Milano che era l’alba del giorno dopo.

D: E alla Stazione Centrale che cosa hai fatto?

R: Alla Stazione Centrale hanno fatto l’appello di quelli che eravamo. Quando sentivano il mio nome, tutti mi correvano incontro a guardarmi in faccia, ma nessuno parlava. “Sei Esposito Eugenio?”, “Sì”. “E allora vai a casa adesso?”, “Sì”. Allora mi hanno fatto un documento, un foglio di carta prestampato già. Hanno messo su il nome, la provenienza del campo, e mi hanno detto di andare a casa. Io esco dalla Stazione, dall’atrio, e sono rimasto imbambolato perché non sapevo dove abitavo. Non so che cosa mi è successo. Sarà stata l’emozione, perché non sapevo dove abitavo proprio. Dopo un po’ mi è venuto in mente che avevo dei parenti in quella zona lì. Pensa, pensa, e gironzolavo da solo, come una trottola. Penso e ho detto “Ma io, in viale Monza, avevo degli zii e dei cugini”. Allora ho chiesto dov’era viale Monza. Mi hanno indirizzato e sono arrivato in viale Monza. Ho bussato a tutte le porte dei palazzi, fino a che al 36 mi hanno detto “Sì, abitano qua”. Mi hanno detto il piano e sono andato su. Ho suonato il campanello, è uscita mia cugina e mi ha abbracciato. Mi ha detto “Sai di tuo padre?”, “Che cosa c’è?”, “Tuo papà è stato fucilato, qua in Piazzale Loreto”. Ecco, io l’ho saputo lì.

D: Poi ti ha accompagnato a casa?

R: Poi mi ha accompagnato. Prima di passare da casa, mi ha portato in Piazzale Loreto. Ho detto “Fammi vedere dove”. E quando sono arrivato lì, in Piazzale Loreto, c’era una catasta di fiori, corone e fiori. C’era il drappello dei Vigili Urbani in onore. Quando hanno saputo chi ero, si sono messi tutti sull’attenti. Dopo ho preso un taxi, che mi ha portato a casa. Mi ha detto “Non salire. Stai in strada, che vado su io”. Infatti, dopo 10 minuti è venuta giù a prendermi e ho trovato mia madre. Anche lei mi ha detto “Hai sentito del papà”, “Sì, ho sentito”.

D: A proposito del papà, il papà, che era stato arrestato con te, poi vi hanno diviso l’8 di agosto del 1944 nelle celle, il papà è stato fucilato?

R: Sì, in Piazzale Loreto.

D: Perché? Il motivo? Si dice che è stato per rappresaglia …

R: Rappresaglia di una bomba, che dicono che hanno messo le Gap in viale Abruzzi sotto un camion tedesco, dove sono morti nove tedeschi. Invece non era vero, perché nessuno può dire che erano morti dei tedeschi. Perché, né il rapporto della polizia, né i rapporti dell’ospedale, né la Prefettura, neanche i Comandi fascisti, neanche loro, lo hanno dichiarato, sono morti solo civili, non sono morti dei militari tedeschi. L’unico militare tedesco era l’autista, che ha avuto solo un graffio, qua sulla guancia, e basta. L’hanno medicato all’ospedale e l’hanno mandato fuori subito. Altri, in ospedale, hanno dichiarato che erano solo morti e feriti civili.

D: Dovevano essere ventisei ad essere fucilati.

R: Sì, nella lista erano ventisei.

D: Ricordi il primo di questa lista chi era?

R: Il primo ero io, il secondo mio padre, e poi avanti. E l’ultima ,era una donna, una certa Mozzolon Giuditta. Non se ne è più parlato. Abbiamo scoperto da poco che è morta a Sesto qualche anno fa. E’ stata insignita di medaglia d’argento. E’ morta che aveva quasi 90 anni.

D: Da ventisei…

R: Da ventisei, in undici siamo stati graziati. Dicono “graziati”, da pena di morte all’ergastolo, però ergastolo sempre come ostaggi. Eravamo sempre ostaggi. Per il primo fatto che succedeva, eravamo noi undici ad essere fucilati.

D: E poi, non tanto ergastolo quanto deportazione.

R: L’ergastolo voleva dire la deportazione nei campi di eliminazione, dove sono andato a finire.

D: In una parola, in due parole, l’esperienza dei Lager, che tu hai vissuto, cosa è stata?

R: E’ un’esperienza che non si augura a nessuno, neanche al peggior nemico. E’ un’esperienza che si può augurare solo a quelli che l’hanno fatta a noi.

D: Perché?

R: Perché è una cosa incredibile. Uno che non ha provato, non può credere. Si possono raccontare dei fatti, delle storie, ma uno che non l’ha provato ha il diritto di non credere. Io l’ho sempre pensata così e sempre la penserò così.

D: Per le cose che hai visto?

R: Per le cose orribili che succedevano in quei campi lì, la vigliaccheria, la brutalità, cose mai viste, mai sentite, mai scritte da nessuno.

D: Però ci sono state delle cose, chiamiamole così, belle tra di voi.

R: A beh, qualche atto di solidarietà c’era. Ho portato solidarietà sempre al mio carissimo amico Gibillini. A lui avevano rubato il pullover e soffriva molto il freddo. Io, a mia volta, in un …, che era la doccia per il controllo dei pidocchi, dopo ci davano un po’ di biancheria pulita in cambio di quella sporca, una volta o due è successo, sono riuscito a recuperare una camicia di tela, tutta ricamata però, bella, e la tenevo sotto il maglione. E quando Gibillini si lamentava che gli avevano rubato il pullover e aveva solo la giacca, era freddo, era quasi primavera ma era ancora la fine dell’inverno, l’ho chiamato da parte e gli ho detto “Senza farti vedere, adesso ti passo una camicia, che l’ho sotto nascosta”. Di fatti, ho tolto il pullover, ho tolto la camicia, e gli ho dato la camicia. Mi sono tenuto io il pullover di lana. A momenti mi bacia i piedi per quel favore che gli ho fatto, per quel regalo che gli ho dato, perché realmente c’era freddo e ne aveva bisogno. E poi l’altro fatto, quando gli ho salvato la vita, quando stava per annegare nel fosso, nel fossato, lì, mentre ci bastonavano.

D: Ci sono stati altri deportati ad avere fatto gesti di solidarietà?

R: Pochissimi, tant’è vero che non li ricordo. Pochissimi ce n’erano. Lì, si pensava magari anche a rubarci uno con l’altro un pezzetto di pane.

D: Dicevi, che un giorno avevi quasi perso la voglia di resistere.

R: Chi mi ha salvato, è stato un ingegnere. Mi stavo per buttare sui reticolati della corrente elettrica a 12.000/13.000 volt. Mi è corso dietro l’ingegnere, adesso è morto anche lui, poverino, e mi ha strappato via, prima di toccare i reticolati. Io mi volevo buttare contro, almeno era finita, mi risparmiavo sei, sette mesi di sofferenze.

D: Ascolta Eugenio. Secondo te, è importante che i giovani di oggi conoscano questo aspetto della storia, questi fatti della storia?

R: Non dico che è importante, dico che è obbligatorio. Per il semplice fatto, che da che c’è mondo, c’è mondo, la storia si ripete. Io sono convintissimo che questi fatti si ripeteranno. Se li dimentichiamo, questi fatti si ripeteranno. E’ una mia convinzione. Spero di sbagliarmi, ma io sono convinto che si ripeteranno.

D: E’ importante, secondo te, che gli studenti, i giovani, vadano, per esempio, nei Lager?

R: Devono andare nei Lager, devono visitarli, ma devono sapere tutto dei Lager e tutto di chi ha vissuto nei Lager. Devono sapere tutta la storia dei Lager e quello che hanno sofferto tutti quelli che entravano in qui Lager lì, perché erano tutti innocenti, quelli che entravano in quei Lager. Solo perché si pensava diversamente da un altro, che la pensava male.

D: Ascolta. Dopo il tuo ritorno a casa, in questi cinquantaquattro anni, le istituzioni, lo Stato, la Regione, i Comuni, qualsiasi istituzione, secondo te, si sono impegnati, hanno fatto qualcosa, rispetto ai deportati, rispetto alla deportazione?

R: Pochissimo. Quel poco che è stato fatto, e dovuto alle richieste fatte dai nostri dirigenti, delle nostre Associazioni, perché, liberamente, nessuna autorità ha fatto niente per noi.

D: Quanto ti è pesato il dopo Lager?

R: E’ pesato tanto. Mi ha pesato l’insonnia perpetua. La notte, per me, quando dura tre ore, dura troppo. Non riesco più a dormire.

D: Tu pensi che sia per questo?

R: E’ da allora, perché io da giovane dormivo. Da allora io non riesco più a dormire. Non so che cosa sia, ma è così. Io, quando sono gli orari stabiliti che avevo là in Germania, mi alzo. Mi alzo alle 3,30 o 4,30, e non vado più a letto. Giro per casa come un fantasma, ma non vado più a letto.

D: E i sogni?

R: I sogni, i primi tempi, erano duri. Gridavo di notte. C’era mia moglie che ogni tanto si spaventava. Me lo diceva “Stanotte hai parlato, hai gridato”, “Io?”, eppure era così.

D: Nel campo non sognavi?

R: Niente. Nel campo l’unico pensiero era qualche volta della famiglia. L’unico pensiero era quello di portare a casa la pelle.

D: Del tuo trasporto, che ti ricordi, in quanti siete ritornati?

R: Io penso il 30%, 35% su 500. Adesso siamo rimasti il 2% o il 3%. Sono tornati in pochi.

D: Appunto. Quella lì che zebrata è?

R: E’ la giacca che avevo io in Germania, nei campi di eliminazione. Adesso non c’è più, ma qua c’era il numero di matricola con il triangolo rosso e la scritta “I”. E questa mi ha scaldato fino oltre i 20 sottozero, questa, una maglia e un paio di pantaloni. Io non ho mai posseduto il cappotto. Tanti avevano il cappotto, in tanti campi, anche nei campi dove sono stato io, ma mai io ho avuto la fortuna di averlo. Sono venuto a casa, vestito così. Avevo anche i pantaloni, ma erano tanto schifosi e laceri che li ho buttati via.

D: Poi lì c’è un pentolino?

R: Questo non è un pentolino, questa è la mia gamella. Io qua ci ho mangiato dieci mesi, dal caffè, se si può chiamare caffè quella brodaglia che ci davano il mattino, acqua calda sporca, alla zuppa del mezzogiorno, perché la sera era sempre secco il mangime. Era una fetta di pane e un pezzettino di margarina, un etto di pane. Negli ultimi mesi poi, la razione è arrivata a meno di un etto di pane. Perché era un bastone in undici, un bastone pesa un chilo, una forma di quel pane lì tedesco rettangolare. Gli ultimi mesi, perché c’era un po’ di carestia anche per loro, ci davano un bastone in undici prigionieri, che vuole dire meno di un etto, con un pezzetto di margarina. E come si teneva da conto, non si mangiava subito. Durava una mezzora quella fetta di pane lì, però sempre vigilata. Perché, se camminavi con il pane in mano, te lo fregavano subito, non durava, lo curavi più della tua vita stessa. Non si poteva girare con un pezzo di pane così. Se era roba da mangiare, te la rubavano. Come io lo rubavo ad un altro. La legge era quella. La fame è fame.

D: Morte tua, vita mia.

R: Morte tua, vita mia. La fame non guarda in faccia nessuno.

D: Il numero di data, non l’hai detto. Caso mai, ripeti il numero di data.

R: Sì. Qua c’era anche il mio numero di matricola. Era tanto lacero, che l’ho buttato via. Era 116.355 con la “I”, che vuole dire italiano. Gli jugoslavi avevano la “J”, il Belgio aveva il “B”, la Spagna aveva la “S”. Ogni nazione aveva la sua sigla. E i triangoli, i colori dei triangoli distinguevano la categoria del deportato.

D: Eugenio, questa qui che cosa è?

R: Questa è una fotografia, che ho fatto dopo cinque o sei mesi. Ci siamo trovati, tre o quattro, “Dai, andiamo a fare una fotografia”. Io ci ho messo la giacca, ed un altro ci ha messo il berretto. E’ venuto a casa con il berretto. E abbiamo fatto questa fotografia qua, vestiti da zebra. Qua ero già ingrassato. Comunque non è che io ero magro. Ero gonfio. Il peso non c’era, però ero gonfio. Con un po’ di cure, che mi ha dato il dottore, è calato. Ha detto che era nefrite. Qua sono ancora un po’ gonfio, perché non ero così dopo cinque mesi, ero un po’ più magro ancora.

D: ….

R: Non so che materiale era, comunque erano bottoni normali. Su quella strada lì, quando seguivamo il fronte, abbiamo visto un posticino dove c’erano dei cadaveri di militari. Erano tutti feriti, ad uno mancava la gamba destra, ad uno mancava la gamba sinistra, e ho preso una scarpa di uno ed una scarpa dell’altro. Avevo un 42 e un 43. Sono venuto a casa con quelle scarpe lì.

D: Te le sei fatte andare bene lo stesso.

R: Le ho fatte andare bene. Meglio degli zoccoli.

D: Va bene.

Figini Ines

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Figini Ines, sono nata a Como il 15-7-1922, abito a Como.

D: Allora Ines, quando sei stata arrestata e dove?

R: Io sono stata arrestata il 6 marzo 1944, sono stata arrestata a Como, all’interno della mia fabbrica dove lavoravo. Quel mattino quando io entrai, notai subito qualcosa di non normale e, infatti, giravano dei manifestini nei quali si incitava tutti a non lavorare, cioè a scioperare per tanti motivi, fra i quali questi: ribellarsi contro i fascisti, ribellarsi perché avevano tesserato tutto e l’operaio non poteva vivere con quello che la tessera passava, e poi malgrado c’era il Federale di Como che diceva Insomma l’operaio può vivere con un pezzo di pane e una mela”, e queste cose non andavano bene, e poi anche per incominciare a creare dei disordini perché c’erano i tedeschi e naturalmente si cercava in tutti i modi di combattere questa loro presenza in Como.

Così quel mattino naturalmente non so chi ha chiamato la polizia fascista, venne il Questore con dei fascisti armati, girarono tutti i reparti, e poi quando la sirena fischiò, era mezzogiorno, tutti si riversarono nel cortile, ed eravamo in molti. Il Questore tolse dalla tasca una lista con dei nomi, questi nomi erano stati scritti da un capo reparto e dettati da un altro direttore, erano cinque uomini e due donne.

Il Questore, che si chiamava Pozzoli disse che questa era una cosa che non si doveva fare, e che senz’altro sarebbero stati inviati in Germania a lavorare, naturalmente non si sapeva che esistevano questi campi di lavoro. Quando disse: “Aprite i cancelli adesso potete andare”, trattenendo appunto questi uomini e queste due donne, io non so come, mi trovai davanti al Questore e difesi strenuamente questi miei compagni, dicendo loro che se tutti avevano scioperato era logico che il castigo fosse stato per tutti, pensavo una cosa impossibile fermare la produzione e arrestare tutta la gente.

Al che lui mi venne vicino e mi fece dire i motivi perché avevamo scioperato e se sapevo chi aveva organizzato tutto questo. Io non sapevo chi aveva organizzato, perché anche io il mattino quando sono entrata con altri, non si sapeva di tutto questo e così lui mi venne vicino e mi fece notare che nessuno degli altri operai veniva a darmi man forte, cioè la difesa praticamente è stata solo mia. Poi mi disse che se mi impegnavo e il pomeriggio il lavoro veniva ripreso i miei compagni li avrebbe lasciati liberi, non so forse l’incoscienza dei miei giovani anni, promisi che senz’altro avrebbero ripreso il lavoro basta che lasciava liberi i miei compagni, e così fu.

Furono aperti i cancelli, loro uscirono anche loro con tutti, e arrivai a casa. Non dissi niente ai miei genitori per paura che prendessero altri provvedimenti, capendo anche la gravità della situazione, io non ho capito veramente la gravità della situazione. Pomeriggio riprendemmo il lavoro come se niente fosse, però durante la notte vennero questi fascisti, la polizia fascista e arrestò anche me.

Entrò in camera, con i fucili spianati, io meravigliata, dato che per me la cosa era finita, non pensavo più, poi nel sonno pensavo: “Forse hanno rubato, forse io sono testimone”, non so, comunque dissi: “Va bene mi alzo”. Rassicurai mio padre che mi guardava allibito, e dissi “Vado, definisco la cosa e torno subito. Non ti preoccupare papà e mamma, torno subito” e così. Però non so chi mi ispirasse dissi “Scusate avete un mandato, avete un foglio, avete qualcuno che si prende le responsabilità, voi mi portate via così” e loro mi fecero vedere questo foglio firmato dal Prefetto, dover c’era scritto arrestare tutti e mandare al lavoro in Germania. Di questo foglio ho ancora una fotocopia, ma perché dopo tanto tempo fu pubblicato sul giornale e i miei lo tennero.

Così seppi più tardi che una persona molto fascista, che lavorava in Tintoria Comense, più tardi si chiamò TICOSA, ma era Tintoria Comense ed era una delle ditte più grandi non solo di Como ma forse anche d’Europa, perché si lavorava per conto terzi cioè entrava il greggio, veniva purgato, tinto, stampato e usciva la pezza completa, e mi dissero che questa persona andò dal Prefetto, ma più che il Prefetto il Questore, e disse che non era una cosa da lasciare perdere perché se no tutte le altre piccole ditte, Como era molto industriosa, avrebbero preso l’esempio e tutte le volte ci sarebbero stati questi scioperi, quindi la restrizione di prendere queste persone e cercare di portarle via.

Mi portarono in Questura, mi interrogarono, naturalmente non sapevo niente, poi io, Ada Borgomaniero e Celestina Tagliabue, fummo chiuse in una cella e i cinque uomini, poi diventarono quattro, non so l’altro che fine a fatto, comunque lì non c’era, anche loro furono chiusi lì. Poi il mattino dopo ci portarono in una palestra di Como, la palestra Mariani, dove già c’erano altre persone, non so se ricordo se erano tutte politiche o se c’erano anche ebree, insomma ce ne erano diverse, fummo lì per qualche giorno, poi un mattino molto, molto presto ci incamminammo verso la stazione con la polizia e ci portarono a Bergamo.

D: Ines in questo periodo, da quando sei stata arrestata a quando sei partita per Bergamo, hai potuto comunicare con la tua famiglia, dire che eri lì …

R: Sì, perché la palestra Mariani aveva un piccolo spiazzo fuori, una specie di giardino, un cortile e c’era una rete. Sotto questa strada parlai anche con mia sorella e poi venne il direttore generale che passò e disse se avevamo bisogno di qualche cosa, ma però non sapevamo, ignoravamo se da lì ci avrebbero lasciato liberi, oppure ci avrebbero trasportato in qualche altro posto, perché naturalmente si ignorava ogni cosa.

D: Tu avevi addosso quello che avevi quella notte che ti hanno arrestato e basta?

R: Certo, il cappotto, il vestito e le scarpe normali, non avevamo niente, comunque ci portarono a Bergamo in questa caserma militare, che mi pare fosse il 78 Fanteria, e di lì riuscimmo, non so come, a comunicare con la famiglia, per cercare di portarci della roba anche per il cambio, non sapevamo dove andavamo a finire. Però non fecero più in tempo a venire, non vidi più nessuno, solo che lì la Tagliabue Celestina, forse soffriva ai reni non so, aveva le caviglie veramente molto gonfie, venne un dottore italiano, cercò di aiutarci, mandò a chiamare un dottore tedesco e gli spiegò che questa ragazza non poteva farcela ed è stata fortunata, la rimandarono subito a casa.

Noi il giorno dopo incolonnati C’erano altre persone che nel frattempo erano arrivate in maniera da formare un certo convoglio, attraverso la città andammo alla stazione fra due ali di gente, mi ricordo davano del pane, davano dei biscotti, davano delle caramelle, una cosa addirittura questa gente, vedevo, forse avevano già assistito a dei trasporti, ma leggevo sui loro visi della compassione, qualche cosa di triste perché nessuno parlava, e così ci misero in questi vagoni.

Eravamo rimaste solo queste due donne, io e Ada Borgomaniero, e poi ci furono cinque donne, mi sembra di Lecco, che anche loro nel frattempo avevano scioperato, e così eravamo sette donne, siccome eravamo in poche noi viaggiammo con il Comando, però non era ancora la SS, era un Comando militare, quindi parlavano, erano abbastanza, e lì scoprii che un militare, un sergente, parlava molto bene l’italiano disse che era di stanza a Como, e mi fece un nome che io conoscevo benissimo, allora gli chiesi matita e carta se poteva spedirmi una lettera per i miei genitori.

Così scrissi di non preoccuparsi, che stavo bene, che andavamo in Germania a lavorare, che c’era anche Ada Borgomaniero, di avvisare i suoi che tutto procedeva bene, con l’entusiasmo e l’incoscienza della gioventù, non sapendo certamente che fine noi avremmo fatto. Noi credevamo di andare a lavorare in Germania un anno o due, quello che poteva essere la nostra condanna, e poi naturalmente venire a casa. Questa lettera fu realmente spedita da Como, i miei genitori la conservarono, ancora oggi io ce l’ho.

Poi proseguimmo fino al confine, al confine ci fu la SS, ci prese loro e qui finì la pacchia, perché qui viaggiavamo abbastanza serene. Poi arrivammo a Vienna in una prigione, salimmo queste scale, questi lunghi corridoi, ricordo il rumore caratteristico di questi cancelli che si chiudevano, e ci portarono in un enorme stanzone e lì ci diedero della zuppa, una cosa schifosa, e noi ci guardavamo come facciamo dobbiamo dormire, non avevamo niente, così sedute sul nudo pavimento e cercammo di dormire, il giorno dopo vennero dei camion, ci caricarono e ci portarono a Mauthausen.

Mauthausen è un campo prettamente maschile, diciamo così, poi forse ci saranno state delle branchie femminili, però noi ci chiusero tutte e sette in una cella, e di lì probabilmente si aspettava altri convogli che dovevano arrivare, per fare questo lungo treno famoso, che ormai si vede in tutti i film e in tutte le riviste, per arrivare a destinazione, che era Auschwitz. Devi farmi qualche altra domanda?

D: Quindi a Vienna più o meno quanto siete rimaste?

R: Una notte.

D: E a Mauthausen circa?

R: Io penso circa una settimana, cinque o sei giorni, adesso precisamente non è che abbia un ricordo molto forte, posso dire cinque, anziché quattro, anziché sei.

D: Ti ricordi se a Mauthausen sei stata immatricolata?

R: No, no.

D: Hai mantenuto i vestiti?

R: Sì, sì. Quando arrivammo ci spogliarono, ci fecero una doccia, poi ci rivestimmo, e ci portarono in questa cella.

D: E non vi siete mossi dalla cella per cinque o sei giorni?

R: No. Solo uscivamo lì fuori della cella. C’era una specie di lavandino circolare con dei rubinetti per lavarci un po’ così e basta. Poi dopo qualche giorno si aspettò questo convoglio e di lì la nostra meta era Auschwitz, arrivammo ad Auschwitz.

D: Più o meno che periodo potrebbe essere questo del trasporto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Penso verso la fine di marzo, venti, venticinque marzo, penso questo periodo.

D: Sempre del ’44?

R: Sempre del ’44 naturalmente, e quando arrivammo a Mauthausen cominciammo a capire che non era una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Intanto scene apocalittiche, questo campo illuminato a giorno, gli urli e i comandi dei tedeschi, c’erano i dottori tedeschi, c’erano ufficiali tedeschi, c’erano Kapò, c’erano degli uomini con dei carrelli, che spingevano questi carrelli, e capii dopo purtroppo cosa era.

D: Questo è Mauthausen o Birkenau?

R: No, Birkenau, no Mauthausen partimmo e basta, non c’entra l’ho detto.

D: Che cosa ti ricordi del trasporto tra Mauthausen e Auschwitz, come avvenne?

R: Avvenne su questo convoglio, e noi eravamo non ammassati come gli ebrei tutti insieme così, ma c’era questo vagone, come i vecchi treni della terza classe, quasi a piccole cabine, chiuse dentro a chiave, quattro o cinque donne per volta, ed eravamo chiuse, eravamo smarrite, non potevamo neanche fare delle supposizioni “Ma dove finiremo? Ma cosa sarà” insomma domande senza risposte. Quindi un po’ si dormiva, un po’ si aveva paura, il soldato passava ogni tanto, è stata una cosa che non so, che non posso descrivere bene perché eravamo così in attesa di qualche cosa che definisse la nostra situazione, dove ci portavano, cosa sarebbe stato, cosa sarebbe avvenuto, tante domande che non avevano naturalmente nessuna risposta.

D: Vi hanno dato da mangiare in questo tragitto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Io non ricordo, prima di partire forse ci diedero del pane non so, non ricordo questo, non ricordo di aver …

D: Più o meno quanto è durato il viaggio lo ricordi?

R: No, non lo ricordo questo, perché si dormicchiava, non so, forse due giorni, questo non lo posso sinceramente dire, perché eravamo così fuori di noi, un po’ si piangeva, un po’ si dormicchiava, quindi il tempo per noi non era scandito da pensare che ora sarà, eravamo terrorizzate. Guardando fuori, vedendo tutta questa neve, io ricordo tanto questi candelotti di ghiaccio, questi pini, foreste immense, ho questi ricordi così, ma quasi sfumati nella mia memoria.

Non è che sia molto vivo questo viaggio, perché quando tu non sai cosa puoi fare, una ragazza di vent’anni, ventuno, eravamo su per giù quasi tutte giovani, mai viaggiato, mai avuto un’esperienza di viaggio, da sapere se eravamo in Austria, forse noi pensavamo Austria chissà dove era, Cecoslovacchia, un nome che a noi ci sembrava chi sa come, capisci è nebuloso quel periodo lì, sinceramente.

D: Però ti ricordi bene dove siete arrivate?

R: Certo. Naturalmente, io non sapevo ancora che si chiamava Oswiecim Birkenau, non sapevamo, quando vidi questo treno che entrava in questo posto, come dicevo, illuminato a giorno, con questi ordini, dicevamo “Ma dove siamo capitati? Ma chi sa?”

Poi il rumore dei vagoni che si aprivano, questi ordini così forti, tedeschi, duri, di scendere ed, infatti, noi giovani subito dai vagoni scendemmo, ma cera gente handicappata, gente anziana, bambini, gente che non poteva saltare addirittura, e quindi lì, questo l’ho in mente molto bene, salivano i militari, o a pedate o a buttare giù così anche i bambini, e scene che proprio che … “Ma dove siamo capitate? Forse è l’inferno? Ma cosa sarà?”.

Eravamo quasi gelati, non so se nella mente, che non si poteva neanche formulare dei pensieri dal terrore, il freddo intenso, perché puoi immaginare a fine marzo là c’era anche neve, immaginare una cosa così, questa gente che urlava, perché dividevano le famiglie, i bambini che piangevano e chiedevano della mamma, la moglie chiamava il marito, il figlio …, una cosa che forse anche avendo fantasia non si poteva immaginare una cosa così.

E di lì incominciammo a capire che non era naturalmente una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Poi ci incamminarono e lì avvenne la selezione. Noi naturalmente eravamo tutte giovani e forti, meno male che non siamo morte, e ci misero da parte, poi c’erano questi ammalati, handicappati, ecc, ecc, da un’altra parte, questi più giovani, insomma divisero, e penso che divisero anche gli ebrei dai politici.

Poi ci portarono in questa capanna dove c’era non so se era una soldatessa, o un’ausiliaria, o una Kapò, e ci impressero il tatuaggio, il numero, io cercai subito di cancellarlo ma non era possibile. Intanto guardavo la velocità che avevano di scrivere questi numeri, sono tutti in puntini, una velocità tale che quasi non si riusciva neanche a vedere quello che scrivevano. Lì chiesi “Ma io non ho fatto niente, perché numerarmi? Perché?” Vedi, allora si pensava che il tatuaggio, non è come adesso che l’hanno tutti, ma un tempo erano solo gli ergastolani, i marinai, ecco, questo noi intendevamo il tatuaggio su questa gente, quindi quando mi misero il numero capii subito che ero prigioniera, cioè qui allora cambia, questa è la situazione.

Poi ci avviarono verso la sauna …

D: Ci dici il tuo numero prima?

R: Il mio numero è 76150, naturalmente progressivo, e poi ci portarono in questa sauna, chiamata sauna, ma allora non si sapeva, queste docce, ci spogliarono, ci portarono via tutte le cose. Tornando indietro un passo, questi carrelli che erano alla selezione, venivano riempiti tutti dalle valigie degli ebrei, dalle pellicce, perché loro avevano fatto credere agli ebrei che sarebbero andati in un ghetto, quindi di portare tutto quello che occorreva, quindi soldi, non soldi, oro, e hanno portato via tutto, dentro in queste cose, forse gli avranno detto “Poi ci raggiungerete e le cose verranno distribuite”, non so.

D: Tu avevi una valigia, tu e le tue amiche?

R: No, io non avevo niente perché non hanno fatto in tempo i miei a venire a Bergamo a portarmi …, io avevo solo un cappotto, le scarpe pesanti, una cosa normale quando tu vai al lavoro.

Poi lì così ci fecero questa doccia, ci portarono via, anche io avevo una catenina d’oro, un anellino d’oro, e mi ricordo li infilai nel dentifricio, aprii il dentifricio e infilai nel dentifricio, pensai “Mi lasceranno il sapone e il dentifricio” mi girai, lo misi giù sulla panchina, mi girai e non c’era più niente, naturalmente forse loro sapevano che si nascondeva l’oro anche …, e poi a tante facevano anche le visite intime per vedere se si nascondesse l’oro, quindi dalla bocca e da altre parti, è una cosa umiliante, perché addirittura …

Va bene, poi da lì ci diedero questi vestiti, che era un vestito di cotone molto grezzo, a righe grigie e blu, con già impresso il numero, e poi una giacchetta sopra. Per intimo avevamo una maglia mezza rotta, un paio di mutande lunghe fino al ginocchio, sempre di quel cotone lì grosso, ancora come forse nel ‘800, che si allacciavano in vita, dei calzettoni, uno corto uno lungo, questi zoccoli che erano tremendi, perché poi ci arrangiavamo a scambiarli tra di noi perché magari ne avevamo uno grande e uno piccola, un foulard da mettere in testa per il freddo, e basta.

Poi ci portarono in questo capannone che si chiamava, dicevano “Block, Block”. Ogni Block aveva il suo numero, e lì in queste cuccette, chiamiamole cuccette, restammo terrorizzate, si tremava dal freddo, dalla paura, ma proprio una cosa tremenda perché il tremare, tremi per il freddo è un tremito, ma il tremito interno è una cosa tremenda, pareva che il cuore tremasse, ed è vero che la paura prende anche le ginocchia, si sentiva le ginocchia proprio …, sono sensazioni che solo chi le ha provate penso le possa capire.

Poi ci dissero di non parlare, sempre la gran Kapò, ci disse di non parlare e di cercare un posto dove poter dormire. Ti puoi immaginare, non padroni della lingua, non si capiva niente, se parlavamo fra di noi anche queste che dormivano si svegliavano “Rue, silenzio!” una cosa … finalmente trovammo una cuccetta, diciamo così, questa è una descrizione tremenda perché una cuccetta io non so quanto sarà larga, sì e no 2 metri non era larga, c’era della paglia, poi sopra una coperta, ci diedero una coperta per uno e tutte e cinque bisognava dormire lì, quindi ci coricammo e cercammo di dormire.

Al mattino presto col fischio della sirena o col gong dipendeva, la Kapò passava urlando “Alzatevi! Alzatevi!” naturalmente in tedesco. Aveva uno staffile di cuoio in mano e se non si era abbastanza svelte da scendere da questo posto lei picchiava, non c’è niente da fare. Poi da lì noi le prime necessità, dove ci si lavava, dove era il gabinetto, là proprio dalla vita normale, non è fatta solamente …, bisogna pensare anche a tante cose, non sapevamo, nessuno ci dava ascolto, anche le prigioniere medesime, un’indifferenza!

Forse dopo ho capito perché non ti interessava più niente, non c’era nessuno che ti diceva “Guarda a lavarsi si va là, al gabinetto devi uscire e devi andare di là” e quindi come scimmie cercavamo di imitare, se andavano a destra andavamo anche noi a destra, se andavano a sinistra … e scoprimmo dove c’era un po’ di acqua per lavarsi, ma era una cosa inavvicinabile, perché il mattino il Block era molto grande, non so quanto non potesse contenere, ma molte donne, cinque per ogni cuccetta, era a due piani se non a tre, quando arrivavano i nuovi convogli anche dieci al posto di cinque, quindi non ho idea di quante, so che erano tantissime, quindi impossibile avvicinarsi perché a questi rubinetti c’erano addirittura gruppi.

Poi scoprimmo dove erano i gabinetti. I gabinetti erano una cosa addirittura terribile, mi ricordo quando entrai la puzza e quello che vedevo, il vomito, sono uscita disperata perché era una cosa impossibile, allora era un lungo capannone, all’altezza ci circa 60, 70 cm, ogni 60 cm, 70 circa, intercalando a scacchiera c’erano dei buchi enormi e su questi buchi appollaiate c’erano queste donne e potete immaginare che spettacolo, e lì soffrivano già di dissenteria, una cosa atroce, però la necessità è la necessità, e, “O mangiamoci questa minestra o salta la finestra”, cosa devo dire, mi feci coraggio e cominciai ad entrare.

Poi c’era l’appello, fuori da ogni capannone, da ogni Block, schierate a cinque a cinque, c’eravamo noi. Certo il freddo era intenso, fermi su questo posto, cercavamo una con l’altra di essere abbracciate, perché il freddo era freddo, però era il vento che era terribile, il vento penetrava, il vento è una cosa tremenda, perché per quanto tu cerchi di rannicchiarti, poi vestite così ti puoi immaginare. Dopo l’appello, non so se prima o dopo, ci distribuirono questa gavetta, che era una specie di ciotola di forma rotonda con un buco e della corda e bisognava tenerla legata in vita, poi il cucchiaio nelle asole del vestito.

Non possedevamo niente, né fazzoletti, né carta igienica, domandare “Ma come? E se arrivano le mestruazioni come faremo? Non abbiamo niente?” E poi capii, perché mestruazioni non ce ne erano assolutamente, dicevano che nella zuppa mettevano delle sostanze che, infatti subito il primo mese a me, a nessuno di noi vennero le mestruazioni. Però succedeva anche questo che non avendo questo sfogo, tanti si ammalavano negli intestini, nelle ovaie; a me fortunatamente mi venivano una specie di ascessi, di bubboni nelle gambe, dovevo andare al mattino a farmi tagliare, mi tagliavano e poi mi mandavano ancora al lavoro, grazie a Dio non ho mai preso un’infezione.

Comunque finito di fare questo appello, sempre a cinque a cinque, in colonna e ogni quindici ragazze, c’era un soldato, naturalmente armato, con il cane. Quando si usciva dal cancello, sul lato destro c’era un’orchestra di ebrei, che suonavano delle marce per tenere il passo, perché distanziando bene era più facile anche la conta, quando tutto è ordine, quando tutto è così.

C’erano queste vecchie babe russe o polacche, non lo so, insomma gente vecchia che trascinavano i piedi, non potevano avere il passo come lo avevamo noi, e lì il soldato secondo come pensava o come agiva, arrivava e calcio del fucile sulle spalle o sulla testa, gli arrivava via, queste donne andavano avanti a fare il loro passo perché non potevano fare altro, fino a che arrivavamo sul posto di lavoro, so che camminavamo abbastanza, forse era lontano qualche kilometro, ed era una zona paludosa, che noi prigionieri prosciugammo.

Quindi ci diedero pala e piccone, ci fecero vedere dove c’erano questi canali da picconare, da scavare, e questo lavoro era molto duro perché la terra era argillosa, molto dura infatti, e picconare e poi con il badile buttare fuori da una parte, poi più tardi venivano messi dei tubi di questi rossi, adesso mi sfugge la parola, insomma dei tubi dove poi l’acqua veniva incanalata e la palude veniva prosciugata.

Quando poi era tutto coperto questo terreno veniva arato, e c’erano i cavalli, i buoi, non so, però anche noi ragazze con delle corde, in otto, dieci ragazze, si tirava questo enorme aratro, e di lì veniva poi seminato grano e orzo, e cresceva magnificamente bene, primo perché terra vergine e poi veniva ingrassato con la cenere degli ebrei, più di una volta si arrivava e buttava sul terreno, anche perché tanta cenere degli ebrei veniva buttata … come si chiama questo fiume?

D: Vistola.

R: La Vistola e anche quell’altro che c’è …

D: La Sola.

R: La Sola. Quindi pensate voi, i pesci si nutrivano di tante cose, il pesce veniva pescato, guardate il giro che si faceva, e l’uomo lo mangiava. Va bene. Comunque poi si lavorava fino circa alla una, poi arrivavano questi bidoni, chiamati ghible, piene di zuppa. La zuppa era acqua e cavoli bolliti, o acqua e rape; il soldato distribuiva nella nostra gavetta, si mangiava, poi non c’era acqua per risciacquarla, si prendeva l’erba che rigava bene tutto il grasso lì della ciotola, e si riprendeva il lavoro fino alle quattro, quattro e mezza, perché poi non possedevamo niente, non sapevamo mai che ora poteva essere.

Poi si ritornava al campo, un’altra ora di appello, poi ci distribuivano un pane in cinque, questo pane tipo pan carré scuro, una fetta per ciascuno e un quadratino di margarina, so che tante volte credo che all’ultimo boccone io dormivo di già.

E poi via la solita vita. Il mattino alzarsi, quindi diventava una routine, un robot, tutti i giorni che si andava avanti dentro di noi si perdeva qualche cosa, la nostra personalità, il nostro modo di vedere, il nostro modo di pensare, basta non esisteva, questa vita così e pensavo “Ma un giorno finirà questa vita! Un giorno arriverà qualcuno a liberarci!” e anche qualche parola che si faceva tra di noi pensavamo “Ma nessuno saprà che siamo qui? Ma nessuno si interessa di venire a vedere?” Insomma era una cosa … e a poco a poco si diventava anche indifferenti, perché dovete pensare che si perdevano tante cose, vivevamo come in trance, non lo so, in aspettativa che potesse sempre capitare qualche cosa.

Naturalmente la speranza non era mai morta, e tanti pensavano “Io non ce la faccio tutti i giorni! Io non ce la faccio!” e quante volte qualcuno andava a toccare i fili e rimaneva morto, invece per me l’idea fissa era “Un giorno voglio camminare su questo campo libero, un giorno voglio venire qua” cioè dentro di me sebbene quasi morta come idee e come pensieri, però sentivo che io tornavo, che ritornavo alla mia casa e alla mia Patria, non c’è niente da fare, viene come una fissazione, capisci.

E dopo di lì cosa vuoi, si sentiva che la guerra era ormai vicina, i russi erano vicini, perché ogni tanto si sentiva parlare, e poi i tedeschi diventavano sempre più cattivi, forse quando perdevano qualche cosa si vedeva che erano nervosi, fino a che arrivò, forse era novembre, dicembre, non mi ricordo bene perché sono passati tanti anni, mi mandarono a Ravensbrück, mentre la Ada Borgomaniero che era sempre dentro questo ospedale, non so se era stata operata di appendicite o di qualche altra cosa, rimase al Revier.

Così arrivai a Ravensbrück. A Ravensbrück ci mandarono a lavorare negli stabilimenti della Siemens, e qui lavoravamo per cose belliche, facevamo una settimana dodici ore di notte, e una settimana dodici ore di giorno, rotolavamo su dei rulli, su dei piccoli rulli, del filo di rame, che serviva naturalmente a loro.

Poi man mano che i russi si avvicinavano, quindi a gennaio, febbraio, hanno incominciato a mandarci in diversi altri campi vicino, camminavamo e ci portavano lì, poi man mano che si avvicinavano, io non so neanche i nomi perché come si faceva a sapere i nomi dei campi di concentramento, Auschwitz perché dopo là si parlava e sono stata tanto tempo, Ravensbrück idem con patate …

D: Posso chiederti una cosa?

R: Dimmi.

D: Il trasporto da Birkenau a Ravensbrück, hai un ricordo non so, vi hanno chiamato per un appello, vi hanno messo in un …, eravate in tante?

R: Sì, eravamo in tanti, ci fecero partire su dei vagoni, con il treno partimmo, però adesso io …

D: Ti ricordi se siete partiti da Birkenau o se vi hanno portato fuori?

R: Sì, sì, da Birkenau, però non ti so dire quanto tempo ho messo, perché come dico sai il tempo per noi era zero.

D: Eravate in tante?

R: Sì, sì eravamo in diverse.

D: Di varie nazionalità?

R: Io penso, sì.

D: Scusa un attimo Ines, nel periodo che tu sei rimasta a Birkenau, mentre invece la Ada era stata ricoverata al Revier, tu riuscivi sfidando la sorte …

R: Certo ad andarla a trovare naturalmente.

D: E a portarle anche delle cose?

R: E sì, perché gli ebrei lavoravano al Canadà, questo posto chiamato Canadà dove avveniva la cernita dei vestiti, e loro naturalmente qualche cosa contrabbandavano, e allora naturalmente da buon ebreo rivendevano con il pane. Quindi se io prendevo una camicia da notte per la Ada, perché là all’ospedale non passavano queste cose, dovevo magari per due sere non mangiare la mia porzione di pane, loro non lo dicono ma questo è anche vero.

Quindi io quel giorno lì io dovevo stare senza la zuppa del mezzogiorno perché arrivavo a trovare la Ada, la Ada era sempre stata fortunata che era sola nella cuccetta, perché la Ada è sempre stata fortunata, mi spogliavo andavo sotto con lei perché se magari qualcuno passava, ma poi quando arrivava la zuppa dovevo andare a nascondermi, prima quando arrivavano i dottori o c’era il giro di ispezione, io scappavo e andavo ai gabinetti, andavo a nascondermi, poi dovevo stare attenta quando rientrava la mia squadra per l’appello, perché se mancavo all’appello addirittura suonava l’allarme, quindi bisognava essere anche svelta.

Ma dopo quando vivi in queste comunità impari tante cose, impari a nasconderti, impari a capire questo, solo anche dalle espressioni dei militari e delle Kapò, eravamo abituate anche se non eravamo padroni di una lingua a carpire quello che volevano. Io li guardavo sempre in faccia, non avevo paura; li guardavo sempre in faccia per capire dalla loro espressione con una parola cosa volevano dire, tanto erano sempre quei comandi, “Lavora”, “Fai questo”, “Fai quello”, non è che dovevo fare conversazione. Quindi la Ada rimase sempre lì, lei è stata liberata il 27 gennaio, c’è la documentazione che lei è stata liberata. Dimmi?

D: Se tu ricordi il blocco del Reviere dove stava la Ada non era vicino al tuo blocco?

R: No, non era vicino, però non dirmi la strada che facevo perché guarda volavo, guardando sempre in giro a destra e a sinistra, e poi arrivando là, il terrore perché chi moriva durante la notte, nudi li buttavano fuori, quindi guarda non so quanto tempo sono stata, forse anche adesso, non sono più andata a vedere un morto nella mia vita, perché nudi, voi avete visto le fotografie, stare attenta a dove mettevi i piedi per infilarti dentro nella cosa, adesso mi dispiace che Ada sia morta, ma Ada può testimoniare tutto questo che facevo.

D: Quindi tu rischiavi dopo il tuo appello per andare a trovare la Ada…

R: Rischiavo le punizioni, e le punizioni erano tremende.

D: Tu una volta sei stata punita?

R: No, no, mi hanno dato uno schiaffo appena, perché non capivo bene a muovere il timone di un carro, però non mi hanno mai picchiato per esempio con il calcio del fucile o così.

Anzi una volta che mi sono ribellata perché non padrona della lingua e, le russe e le polacche erano tremende, al ritorno ci facevano sempre portare, al nostro gruppo sparuto italiano, queste ghible che pesavano, perché dovete sapere che c’era la roba calda dentro, e quindi per mantenere il calore erano molto …

Pesavano e dovevamo fare qualche kilometro, sempre una maniglia di qua e una maniglia di là, arrivavamo dopo aver lavorato, perché in coscienza lavoravo, dopo aver lavorato portare queste cose, un giorno ho detto appunto a queste ragazze italiane, il nostro gruppetto, “Adesso vado e glielo dico al soldato che non è giusto perché io lavoro come tutte e allora deve cominciare a …” “Ma Ines non farlo, non farlo, vedrai …” “Ma io vado” e sono andata.

Forse era anche ubriaco, era appoggiato ad un bastone, ricordo sempre i due occhi azzurri così cattivi, un naso aquilino, magro, ce l’ho in mente come chi sa che cosa, non so se era tedesco o polacco, questo non lo so, e sono andata e come potevo, nella lingua che potevo, un po’ polacco, un po’ tedesco “Che io lavoravo uguale, tutti uguali”, e che “non è giusto sempre ghible sempre italiane, questo non è giusto” lui mi guardò non so per quanto tempo, poi mi prese un braccio e mi fece fare un giro e mi dice “Tu menc italiana” “Sì sono italiana” ma intanto mi venivano giù le lacrime, mi sono girata e dice “Adesso vai tu” e lì parolacce, perché le più belle parole tedesche hanno un linguaggio così sporco ad insultare che non ti dico, le prime cose che imparavi, “Vai a prenderle te adesso, te e le tue amiche”, e gli ho detto “Ma vai all’inferno” e sono andata.

Al mattino quando veniva a distribuire il lavoro girava avanti e indietro “Oddio… mi cerca, Oddio adesso chi sa?” arrivava di lì e giravo di là, arrivava di là e giravo di qui, ma finalmente mi ha pescato, quando mi ha pescato l’ho guardato in faccia per capire l’espressione e ho visto che gli occhi non erano cattivi e ho detto “Ma chi sa cosa ha” e lui ha mormorato qualche cosa che non ho capito però ho detto alla mia amica che parlava tedesco “Cosa ha detto?” “Ha detto chi sa cosa penserai che ti prende il numero” perché mi tira indietro e mi prende il numero.

“Cosa vuoi che pensi, stasera dopo l’appello mi chiameranno al comando e avrò la punizione”, e infatti quando è finito l’appello mi chiamano e “Oh mamma mia”, mi accompagnano al comando, “Adesso chi sa”, sono andata che forse il cuore l’avevo in bocca, e invece sai cosa mi hanno dato? Un pane intero e un carnusco così di marmellata, quasi svengo, ho preso e via di corsa “Ragazze! Ragazze!” tutte a fare fettine e a mangiare marmellata.

Poi quando c’era questo che vedeva che io lavoravo, mi faceva il buono per andare a ritirare il pane e la marmellata. Sì, ma perché, perché ha capito che siccome là c’erano queste straniere, generalmente erano russe e polacche, facevano finta di lavorare, anche per ribellarsi, ma non lavoravano, e loro non erano scemi, capivano quando …

Invece io dicevo ad ogni picconata “Crepa!”, ma picconavo e cosavo, non mi sono mai … perché mi sono detta, è stupido, perché se io faccio finta di lavorare, loro non sono stupidi, e se vengono e mi picchiano anche solo con il calcio del fucile sulla testa, non so … io ero una delle poche che avevo ancora i capelli, non so cosa mi può capitare, mi può venire anche una commozione cerebrale con quei colpi lì, quindi ho detto è meglio che lavori bella tranquilla piuttosto che farmi così.

D: Scusa Ines, oltre al comando lì di scavo, tu accennavi ad un altro comando che era quello lì del …

R: Appena arrivata. Appena arrivata ci avevano messo a ritirare quello che erano le fosse, come si chiamano …

D: Il pozzo nero.

R: Lo scarico delle latrine, il pozzo nero, e bisognava scaricare questi. Erano gli uomini che buttavano via tutte le porcherie, ed erano quei carri che ogni tanto si vedono ancora in Polonia. Io era la prima volta che vedevo carri così, ed hanno un lungo timone davanti, il carro non è come il nostro che è piano, è piano ma ai lati vengono su delle assi fatte così, e di lì ti puoi immaginare, allora dietro le ragazze spingevano e noi davanti a tirare come i cavalli questo timone.

Siccome il terreno era molto argilloso le ruote potevano affondare, ecco dove mi ha dato questo schiaffo, l’unico che mi ha dato, io non sapevo che muovendo questo tremendo lungo timone le ruote specialmente dietro o davanti non ricordo, svirgolavano un po’ quindi le altre spingevano, ma quelle là facevano finta di spingere e il carro non andava avanti. La tedesca era una soldatessa è venuta “Sprechin in doich” chi la capiva si è messa ad urlare con me e io ho lasciato andare il timone per guardare cosa diceva e lei mi ha dato uno schiaffo, sai proprio sono rimasta a bocca aperta, perché lì sentivo la voglia di ribellarmi, ma come facevo, mi ammazzava quella. L’unica volta che ho preso uno schiaffo lì, lo schiaffo è lo schiaffo, ma prendi il calcio del fucile sulla testa o sulle spalle, ti segnavano. Va bene, questo è un intercalare ancora …

D: A Ravensbrück?

R: A Ravensbrück.

D: E ti hanno immatricolata di nuovo?

R: Sì, però non mi hanno tatuato, mi hanno solo cucito sul vestito, il numero che era, mi pare, 11154. Così andammo a lavorare in questa fabbrica della Siemens, poi si tornava naturalmente stanche, si dormiva, lì ogni tanto suonava l’allarme, ci mandavano fuori tutti, ci mettevano in un’altra capanna non so, ma io una volta e due, ma quando era la notte, io di giorno avevo talmente sonno, dormivo in alto il soldato non si accorgeva neanche. Entrava, vedeva che erano tutti fuori, dicevo “Tanto se è destino crepo là e crepo qui”, dopo da Ravensbrück man mano in questi campi dove si andava un giorno o due, poi si avvicinavano sempre …

L’ultimo Lager ci diedero una coperta, che arrotolavo intorno alla vita, del pane, delle scatole di carne, e sempre a cinque a cinque, sempre con il militare e i cani dietro, ci avviavamo chi sa per dove, chi sa dove, camminavamo, camminavamo, solo che c’era in ultimo il militare che se una non c’e la faceva più e cadeva per terra, le sparava e la piantava lì.

Però da lì incominciavamo a vedere la disfatta dell’esercito, loro che erano così baldanzosi, le giacche slacciate, camminavano uno di qui uno di là, carri armati abbandonati, camion mezzi su mezzi giù, proprio vedevi la disfatta, e noi eravamo contenti e dicevamo “E allora la guerra finisce presto, guarda che roba hanno perso ormai”. Eravamo su di morale.

Poi arrivammo in questo posto, mi pare che si chiamasse Poznam, Oddio adesso, mi pare Poznam, era il 5 maggio e quella notte lì, durante la marcia ci fermavamo nelle fattorie dove c’erano i contadini e gli stessi militari dicevano “Dateci le patate o qualche cosa da mangiare, perché guardate che se arrivano i russi vi portano via tutto”, allora ci davano le patate, le facevamo bollire nei secchi e dormivamo nel bosco con questa coperta, avvolte in questa coperta.

Poi arrivammo in questo posto e la sera tardi mi sono svegliata e non c’era più nessuno, non c’erano più né militari, non c’erano più né cani, non c’era più nessuno, un silenzio di tomba, allora ho svegliato i miei amici, perché era come un fienile ma basso “Ma guarda non c’è più nessuno, Oddio non c’è più nessuno, che gioia sono scappati, allora vuol dire che sono vicini” perché se non c’erano vuol dire che i russi erano vicini, e in tanto sentivamo il rombo del cannone e la mia amica “Andiamo fuori” “Ah no, chi vuole andare fuori, vada fuori, io sto qui, non vado fuori, mi arriva qualche scheggia”, e infatti così abbiamo fatto fino al mattino.

Al mattino verso le 5, mi sono svegliata, io ero una delle più giovani, ma oramai ero diventata la più … non la più svelta, avevo preso più l’acume di …, a furia di stare con queste persone che bisognava capire quello che …, apro gli occhi e vedo in fondo al portone una cosa tremenda, un soldato russo, dunque io non ne avevo mai visti, però ho capito che era russo perché aveva questo pastrano, di quel colore coloniale un po’ imbottito, e veniva avanti a tentoni.

Allora la sera prima, dopo che era successo che eravamo soli e pareva che i russi non si sentivano più, io e le mie amiche siamo uscite in questo posto per guardare intorno cosa c’era, e abbiamo trovato dei militari, così ci hanno detto, dei militari italiani, allora quando ho sentito parlare italiano “Ma voi siete italiani?” “Sì” “Noi dovevamo firmare alla Wermacht per tornare in Italia”, sai che facevano firmare per tornare in Italia “Però non siamo riusciti e siamo qui”.

Quasi piangevano “Ma le nostre donne come sono conciate” quindi puoi immaginare, sporche, dimagrite, conciate in una maniera, poi ci hanno fatto piangere perché uno ha levato dal portafoglio un fazzoletto di seta, come c’era una volta, tricolore “Ecco però la bandiera l’abbiamo sempre qui …” e ci diedero dei viveri, e poi ci diedero un secchio con dentro questa vodka che hanno trovato dai contadini.

Così siamo tornate lì la notte, ero io che controllavo cosa dovevano mangiare, da bere niente perché mi rimbambiscono tutte, la grappa la conoscevo, allora ho preso una bottiglia, ho buttato via quasi tutto, però c’era una bottiglia l’ho riempita, ho detto questa qui quando saremo giù la berremo, invece quando ho visto questo soldato che avanzava, ho preso la bottiglia e gli sono corsa incontro, da sola perché gli altri dormivano tutti, e intanto gridavo “Sono arrivati i russi! Sono arrivati i liberatori!”.

Questo ragazzo ha capito che ero italiana e mi dice “Italijanska” “Sì” E’ venuto con me e si è fermato nel posto dove eravamo noi cinque o sei italiane e ha detto di cantare “Mamma”. Mamma mia che commozione ancora, si cantava ma lui piangeva e noi piangevamo, e dopo questo ragazzo io gli ho dato da bere e lui dice “Bevi prima tu”, vedi avevano sempre un po’ di paura e difatti ho bevuto e dopo è andato a trovare le russe che erano diverse perché era tutta la colonna.

Poi ci diede tutte le notizie, era il 5 maggio, che la guerra era finita, che Mussolini era kaput, che c’erano in ballo queste bombe tremende, non era forse ancora la bomba atomica ma che anche con il Giappone doveva essere finita, tante cose e poi ci disse di andare al Comando che ci avrebbero dato disposizioni per tornare a casa, ti puoi immaginare, filammo subito al Comando e lì c’erano degli ufficiali e ci dissero che bisognava raggiungere una postazione di militari italiani, che era abbastanza lontana, circa 100 km, adesso non ricordo più bene il posto.

Come fare, perché erano quasi tutte maggiori di me, erano due slave del Montenegro, no non Montenegro, una delle parti di Magenta, ma non era questa piccola, era questa Ernestina, poi …, insomma quattro o cinque. “Come si fa? Non si può fare a piedi 100 km e poi la direzione!” Era tutto sporco, tutto fuori, tutto bombardato, allora eravamo riunite in questo campo di prigioniere, ma libere naturalmente e dice “Vai Ines in cerca di qualche cosa” e mi sono messa un po’ a girare il paese.

Ho visto che arrivava un carro tirato da due cavalli grossi così, sembravano quelli del Far West, coperto da un enorme tappeto, forse rubato da qualche chiesa, e c’erano dei francesi, loro erano arrivati e io gli ho detto se potevo prendere il carro, e loro mi hanno detto “Prendilo che noi siamo arrivati” e ci può servire. Mai visto un carro così tiro a due, ne ho preso uno per la cavezza, povere bestie mi venivano dietro come non so cosa e li ho portati all’accampamento.

“Oh mio Dio Ines Hai trovato” “Sì ma chi li guida perché non è mica facile guidare, adesso vado a cercare qualche militare”, a tutti quei militari che trovavo dicevo “Tu sei contadino? Conosci i cavalli?” uno sì, uno no, fino a che ne ho trovato due, bisognava organizzare non è facile guidare un carro con due cavalli, e poi il foraggio, bisognava sapere …, non so chi mi dava queste cose che non ho mai saputo …

Allora ho trovato questi due ragazzi e ho detto “Va bene”, andiamo al Comando ci facciamo dare quello che è la provvista per mangiare anche noi e poi bisogna andare a cercare per il foraggio per i cavalli. E infatti lo hanno trovato, lo hanno caricato e noi con il secchio, che erano le nostre pentole da far bollire, loro ci hanno dato del pane, delle cose così, dove arrivavamo … guarda come ho assaporato la libertà in quei momenti lì, il mio sogno che amavo i cavalli, amavo le bestie, dentro in queste foreste, ogni tanto trovavi qualche casupola, erano scappati, trovavi anche qualche cosa da mangiare, fermarsi fare il fuoco, in questo secchio magari facevi bollire qualche cosa, e dicevi, Oddio mio, i miei saranno magari a casa a pensare che fine ho fatto e io sono qui felice che assaporo finalmente la libertà.

Bene a farla corta siamo arrivate a questo accampamento militare e gli ufficiali dicono “Bene questo è il posto che dovevate raggiungere, scegliete un posto dove dormire”, allora c’era come una tettoia e c’era sotto un carro degli zingari, allora non sapevo neanche cosa era la roulotte, ma adesso penso che era come la nostra roulotte, abbiamo preso della paglia l’abbiamo messa giù, poi il tappeto del carro lo abbiamo messo sopra, le coperte ce le hanno date, e lì era la nostra casa e stavamo benone.

Poi con questi cavalli, i soldati uno lo hanno ammazzato subito e abbiamo fatto bollire tutta la carne e abbiamo mangiato in non so quanti, e quell’altro mi dispiaceva, lo tenevo, allora c’era un ufficiale che diceva “Per andare a cavallo, “Sì, mi piace”. Aveva delle cosce così, senza sella, quando camminava andavo giù di qui andavo giù di là, ma insomma ero così felice che non ti dico.

Poi un ufficiale ha detto “Ines ci sono qui vicino i cosacchi, hanno dei cavalli bellissimi, magari se gli diamo questi cavalli che anche loro hanno fame, facciamo il cambio” “Andiamo”, ci siamo tirati dietro questo cavallo e andiamo a contrattare con questi ufficiali. Loro l’hanno preso perché la carne di cavallo era bella grossa ed era buona, e ci hanno dato un cavallo che io credo che l’hanno scaricato perché era alto così, nero, terribile.

Allora senza sella, c’erano gli ufficiali che erano bravi a cavalcare e volevo andare a cavallo anche io. Quando andava giù, non andava mai, ma quando doveva tornare dovevi vedere, una volta una pianta mi ha dato un colpo che mi sono ribaltata indietro, un’altra volta c’era un rigagnolo un po’ grande, mi dicono perché dietro c’era sempre qualcuno “Stringi le ginocchia Ines, alza il sedere, buttati in avanti” ma il cavallo è arrivato lì si è impuntato e sono finita in acqua, non mi sono mai fatta niente. Ero così contenta perché assaporavo veramente il senso fisico della libertà, fisico è un’altra cosa.

Poi lì alla sera chi aveva trovato il piano, chi aveva trovato la tromba, chi aveva trovato la chitarra, c’era sempre musica e baldoria. Purtroppo però è scoppiato il tifo, tifo perché i russi prendevano tutti gli armenti, le bestie, le pecore, le mucche per portarle verso di loro naturalmente, ma la mucca se non hai una mungitura regolare diventa cattiva, avevano le mammelle così grosse e allora avevano detto “Se volete mungetele”, ma prendi una mucca quando è così, è terribile.

Io non so che coraggio avevo, prima mi attaccavo alla coda, e non sapevo che saltassero le mucche, le staccionate così e come corrono, prima per fermarle mi attaccavo alla coda e niente da fare, dopo alle corna, prendevo le corna ma si fregava sul terreno, un giorno una mi ha dato un colpo e sono andata a finire su un’altra che era sdraiata, a gambe all’aria, va bene lasciamo …, se racconto ero così contenta.

Poi un contadino mi ha detto “Ines per fermarla devi mettere le dita nelle sue froge e stringi” allora io correvo e cercavo di fermarla e la mia amica dietro con il secchio, e sono riuscita a fermarla mettendole le dita sotto al naso, l’ho fermata e quella si è messa a mungere, quando è stato ben pieno la mucca ha alzato il piede e si è infilato dentro nel secchio e io le ho detto “Io lo bevo ugualmente”. Insomma ti dico non lo so, è stato destino, è stato che lì il tifo si è propagato, io ho preso un tifo bestiale.

Chiamo un dottore italiano e mi dice “È una forma intestinale, ti faccio una puntura”, mamma mia la febbre altissima; tre giorni dopo arriva una delegazione russa di dottori e cominciano a girare il campo, vengono vicino a me e dicono “Tu cosa hai?” “Niente” ho nascosto la cartella “No, non ho niente, tutto bene” “No, no” dice il dottore “Fammi vedere la lingua”, perché la lingua ti viene gonfia, insomma mi è toccato e loro hanno capito, solo la febbre che avevo, figurati.

Non hanno fatto storie, hanno chiamato due militari russi o due infermieri, adesso non so, le cocche del lenzuolo e mi hanno preso su come un fagotto e mi hanno messo su sul camion, urlavo come una dannata, adesso che dovevo andare a casa questi mi portano via ancora, sai non era tanto piacevole. “Voglio il mio dottore italiano” quello là non si è più fatto vedere perché sapeva che … e mi hanno portato a circa 3 o 4 km penso, perché con il camion sono andata un bel pezzetto in un lazzaretto militare loro.

C’era la guardia fuori, la sentinella perché nessuno poteva entrare perché era proprio un reparto di malattie infettive, mi hanno portato lì, una dottoressa mi ha visitato, un’altra davanti allo specchio mi ha tagliato tutti i capelli a zero, che urlavo “Non tutti, non tutti” ma non c’è stato niente da fare. Poi alla dottoressa dico “In fine dei conti cosa ho dottore?” “Tifus” “Non è vero, non è possibile che abbia il tifo” insomma una scena.

Però mi hanno messo in una camera dove c’erano questi letti con le lenzuola bianche, ragazzi quando sono entrata in questo letto con le lenzuola una sensazione, qualche cosa di stupendo, mi sono addormentata di colpo, non capivo più niente, mai stata in un ospedale, mai stata da un dottore, mai avuto niente, puoi immaginare. Hanno incominciato con le analisi del sangue, le analisi delle urine, non sapevo come si faceva, che disastro.

Insomma quattro mesi sono stata fino ai primi di ottobre e mi curava un maggiore militare russo, di una gentilezza e di una bontà che non so, e c’erano le russe che parlavano di casa, e io capivo qualche cosa, però ero con la febbre alta non penso di avere avuto il delirio, però ero sempre assopita, alle volte al mattino mi svegliavo e dicevo “Forse sono già morta, perché sento odore di morte” proprio le braccia, mi odoravo le mani e dicevo “Forse sono morta”, poi riprendevo e poi tornavo a dormire e venivano le infermiere. Poi avevo gli incubi, questi li ricordo, vedevo la morte, sai la morte classica: il cranio, il mantello, la falce, cose che addirittura…

Quando incominciavo a riprendermi un po’ dissi: “Dottore non è possibile avere qualche italiana vicino” infatti me ne mise una, mi pare fosse di Torino, tutta notte a gridare “Dottore, dottore” e io “Fai la brava!” era sorda, le aveva preso le orecchie e non sentiva e morì. La mattina mi sveglio, “Ma, si vede che c’è qualche mosca” era coperta, e dico all’infermiera “Ma perché hai coperto?” e dice “Ma Ines è morta” “Oh Madonna santa, ho dormito vicino ad una morta”.

Dopo due o tre giorni me ne hanno messo un’altra, lei tutta notte una pena a chiamare la mamma, e muore anche quella lì e dico “Oddio la terza adesso sono io”, sai anche quello un po’ di superstizione ti veniva, veniva il dottore e dicevo “Ahi dottore, non ce la faccio più, ho idea che devo morire!” “No, toio serza dobra, il tuo cuore è buono, fai la brava; riuscirai ad andare in Italia”.

Lì ho chiesto matita e carta e scrivevo alla mamma, non perché non arrivassero, facevo su il pacchetto e dicevo alla russa vicino “Se io muoio, dalle ad un soldato italiano queste lettere”, poi vengono i primi di ottobre e questo mio amico di Lucca, che avevo conosciuto lì quando mi avevano liberato, è riuscito a farmi avere dentro una lettera, ha messo una croce rossa qua sul braccio e la sentinella lo ha lasciato passare, però arrivato sullo scalone gli infermieri hanno capito che era un italiano e lo hanno fermato.

Allora lui, ero l’unica italiana lì, gli ha dato questa lettera da consegnarmi. Lì mi spiegava che era passata una delegazione americana e aveva visto ancora le bandiere italiane, ma come ottobre ’45, fine settembre o principio ottobre ’45 e ci sono ancora gli italiani, bisogna organizzare, mandarli a casa, e pare che in una settimana dovevano organizzare questo viaggio. Ti puoi immaginare quando leggo così che avevo ancora la febbre, la flebite alla gamba.

Allora viene il dottore e glielo dico “Dottore guardi, io devo andare a casa, bisogna che lei mi lasci andare, i miei amici partono, come faccio” lui dice “Non c’è problema, tu stai qua con noi” “No, io non sto qua con voi, voglio andare a casa” “Ma non puoi, bisogna fare quarantena”, sai allora c’erano i quaranta giorni per le malattie infettive e “Poi tu hai una flebite” e mi spiega “Lì c’è un embolo, se ti si sposta e ti va al cuore muori oppure rimani paralizzata” “No io sono sicura che arrivo a casa” forse mi ha visto così disperata, che piangevo e urlavo “Garda che se stai otto giorni senza febbre” forse non ci credeva neanche lui “ti porto io alla stazione”, e lì mi ha quietato.

Non so se qualcuno da lassù ha guardato giù, o se le preghiere sono state accolte, non lo so, il mattino dopo, che di solito avevo 35 e poi la sera arrivavo fino a 41, il cuore era tutto così, altro che averlo buono, e verso sera, prima di darlo all’infermiera guardavo io, non avevo febbre “Oh mamma mia che gioia, sta zitta, sta zitta, forse anche domani” , il giorno dopo ancora senza febbre, il terzo giorno tento di alzarmi, faccio per alzarmi se non sono svelta ad attaccarmi lunga e distesa cado, non stavo in piedi, poi sempre con la gamba così e ho detto “Va bene, tanto sul vagone starò seduta, non ha importanza”.

Arriva il dottore tutte le sere e dicevo “Dottore, non ho febbre” “Bene, brava italiana, giorno italijanska” mi chiamava ancora italiana “Fai la brava”. È arrivato il giorno che dovevo partire. Ma lo sai che mi ha portato lui su un carro di buoi alla stazione? Tante volte dico che mi pareva di essere su una Rolls Royce, perché seduta così vicino a lui, che fremevo di arrivare, perché sapevo che arrivavo a casa, me lo sentivo, quando sono arrivata, sempre questi vagoni a convoglio con quaranta o cinquanta militari, mi caricano su e cosa faccio e mi danno un pane nero e delle scatolette, come faccio, io non posso mangiare questa roba, quindi sono stata un po’ di giorni ad acqua e qualche cosa, ho sbriciolato un po’ il pane.

In cantuccio al buio, perché quando viaggiavi non è che il treno partiva e arrivava, il treno si fermava magari anche un giorno, e li incominciavano anche le tue necessità, dovevi dire “Oh ragazzi tiratemi giù”, prima piangevo un po’ perché dicevo Dio mio quando penso che saltavo giù altro che dei vagoni e adesso devo chiedere l’aiuto, loro mi mettevano a seggiolino così con le braccia, mi portavano in fondo in mezzo al prato e stavo là. Io andavo a fare quello dovevo fare, poi dopo li chiamavo e stavo dentro lì così fino a che dopo ripartivamo. Un giorno siamo arrivati in Austria. In Austria c’erano gli americani e allora hanno incominciato a darmi un po’ di latte, un po’ di pane bianco, disinfezione ancora a tutto, e dopo di lì naturalmente a Bolzano è stato diretto.

Quando siamo arrivati a Bolzano c’era anche il treno ospedaliero, ma ti puoi immaginare arrivare in stazione in Italia in un attimo sul vagone non c’è stato più nessuno, mi hanno tirato giù, ma sai in Italia chi andava forse al bar, non so, so che ho provato un’emozione così grande: mi sono appoggiata al vagone, avevo un turbante in testa perché ero pelata, poi il fagottello sul braccio delle cose che avevo trovato per cambiarmi, e piangevo, ma piangevo, un’emozione perché poi c’era la musica, “Il Piave mormorava”, “Montegrappa”, “Mamma sono tanto felice”, una cosa che credo che il singhiozzo mi partiva dai piedi, una cosa!

Finalmente sono arrivati dei dottori perché se no ero ancora là a piangere, e questi dottori mi dicono “Vieni con noi, hanno detto che tu hai fatto il tifo, ci hanno avvisato i tuoi che hai viaggiato insieme, questi militari, vieni sul treno che ti guardiamo, ti controlliamo”. Quando mi guardano mi dicono “Ma non puoi proseguire il viaggio, i tuoi genitori te li facciamo arrivare “No ho detto che io devo andare a casa, sono in Italia sono a casa mia, non posso stare qui” “Ma guarda figliola che tu rischi, guarda questo, guarda quello …” insomma io non volevo, allora sai loro cosa hanno fatto? Mi hanno caricato su un’auto colonna inglese, e sentivo la gamba gonfia che mi tirava “Che il Signore me la mandi buona” e sono arrivata a Pescantina, vicino a Verona.

Lì c’era l’Opera Pontificia, allora subito anche questo, le sensazioni così belle che ho provato che non trovo le parole per descriverle, la pastina fatta con il brodo, ma quando ho visto il pane bianco ragazzi, toccarlo, mi pareva proprio di sentire il profumo del grano, le sensazioni nel toccarlo, ne ho presi due, li ho nascosti per portarli a casa, forse non ne hanno abbastanza perché era ancora tesserato, tutta notte sotto una tenda in terra ho dormito e poi verso sera su un’auto colonna inglese sono arrivata a Milano.

A Milano c’era il treno e c’erano due di un paese vicino a Como che praticamente facevano quasi la mia strada, insomma sono scesa e tutto il viale Varese, lo sai dove è, dalle piante, erano forse quasi tutte toccate perché non ce la facevo con la gamba così rigida e gonfia, lo sapevo che non era tanto una cosa che dovevo fare, e io abitavo in fondo alla via Tommaso Grossi, che è quella strada che va a Brunate, sai dalla stazione centrale, arrivare su fino in cima dove c’è dopo la Chiesa della Provvidenza.

Arrivata al crocicchio della via Dante loro dovevano andare, insomma tutti avevano fretta di arrivare e quindi sono rimasta lì sola e zoppicando mi sono avviata per questa strada, arrivata a circa 50 m dalla mia casa, dietro di me sentivo una voce che diceva, era un signore parlava da solo “Ma è la Ines? O non è la Ines? Ma forse la Ines è morta. La Ines dicono che le hanno tagliato le gambe. Ma sarà la Ines?” allora mi sono girata ed era il mio vicino di casa, ho detto “Sono proprio io, forse dico più ossa che carne, però sono io” “Oh Ines” è venuto vicino e mi ha abbracciato, dico “Voglio suonare il campanello e farmi trovare davanti a casa” “Non lo faccia, troppa emozione per i suoi genitori, sono anche già un po’ anziani, vado avanti io ad avvisare, e allora ho pensato forse è più saggio fare così, infatti è andato.

Ora che io sono arrivata poi c’era un grande cancello, una piccola discesa, un grande cortile. C’era fuori mia mamma, mio padre, mia sorella, il mio nipotino e tutti i vicini, non so il sesto senso, ai balconi, non erano le famose ringhiere, erano proprio bei balconi, “È arrivata la Ines” sarà stata mezzanotte non so che ora era …

D: Che giorno ti ricordi più o meno?

R: Era credo il 25 ottobre.

D: Dunque era ottobre quando tu sei arrivata a casa?

R: Sì, allora quando sono entrata in casa naturalmente mio padre era tutto felice “Guarda proprio ieri ho fatto la polvere alla tua bicicletta, ho detto domani arriva la Ines” e mia sorella dice “Tutti i giorni fa la polvere alla tua bicicletta e dice domani arriva la Ines”. Io tiro fuori le mie michette bianche e dicono “Cosa vuoi da mangiare?” e dico “Mangerei volentieri la polenta” perché la sognavo, allora polenta e latte, perché il latte era ancora tesserato, papà va a prenderlo da mio nipotino poco lontano, mangio questa polenta, poi tutta felice “Domani mi alzo, devo andare al distretto, devo fare questo, devo fare quello, devo fare su, devo fare giù …” sono stata a letto ancora quattro mesi senza muovermi.

Veniva il dottore mi curava questa flebite, poi sai il gioco del piede si era anchilosato, però dopo tutto è andata a finire bene, dopo quattro mesi mi sono alzata verso febbraio, ho incominciato a camminare, a riprendere il lavoro, poco a poco riprendere sempre la mia vita, ho incominciato ancora le mie montagne, i miei sport, e ora eccomi qua alla mia verde età …

D: Ti ricordi quanto pesavi più o meno quando sei tornata?

R: No, non mi ricordo perché sono sempre stata a letto, quindi non ho avuto …, dunque io normale pesavo dai 67 ai 70, quindi penso che sarò stata sui 55 chili, 60 al massimo ma sai…

D: Hai portato con te dei documenti quando sei tornata da …

R: No, non avevo documenti.

D: Neanche a Pescantina ti hanno rilasciato niente?

R: No, avevo solo queste mie lettere che scrivevo alla mamma che non ho mai mollate, queste sì, ma se no non c’erano.

D: E lì forse su quelle lettere c’era scritto dove eri, in che ospedale ti trovavi?

R: Non mi ricordo questo se c’era, non lo so, perché so che la data la mettevo, però non ricordo se mettevo, mi pare di no bisogna guardare.

D: Non sai se eri in Polonia, o a Poznam vicino a Berlino?

R: Bisogna che controlli, che guardi e poi vi farò sapere.

D: Forse c’è scritto dove è?

R: Non lo so, non lo so, perché vedi non avevi la roba di dire dove sono, cosa faccio, come si chiama, adesso se mi capitasse una cosa così è logico che mi informo, ma allora come il tempo ti passa e basta, va bene.

D: Le necessità erano altre.

R: E sì, la mia storia è finita, io penso …

D: Io volevo chiederti una cosa, adesso tornando in dietro, sei stata praticamente interrogata a Bergamo in Questura e basta?

R: No. A Bergamo …

D: No scusa a Bergamo, a Como in Questura?

R: E basta, no, mai più nessuno si è interessato.

D: Neanche alla palestra Mariani?

R: No, no.

D: Palestra Mariani, vuol dire la palestra di un istituto scolastico che si chiama Mariani?

R: Fa parte in Via Aperti …

D: Esiste ancora?

R: Sì, sì esiste ancora questa palestra, è dove andavo …

D: Via?

R: Oddio, via Aperti angolo via Aperti …, fa parte delle scuole della via Aperti.

Gibillini Venanzio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Gibillini Venanzio. Sono sopravissuto nei campi di Flossenbürg e Dachau. La mia storia comincia dopo l’8 settembre del 1943, quando gli alleati concedono l’Armistizio agli eserciti italiani.

Io ero l’ultima classe chiamata a militare. Ero andato a militare il mese di agosto del ’43 e venuto l’8 settembre, siamo stati due giorni in caserma e poi abbiamo fatto la fuga e dopo di lì ero considerato disertore, renitente, tutti quei proclami che con la nascita della Repubblica Sociale Italiana mi rendevano condannabile per la fucilazione. Perché non presentandosi a tutti quei bandi che nell’autunno del ’43, che la Repubblichetta Sociale Italiana ha tappezzato tutta Milano di quei bandi, allora sono finito per varie cause a lavorare al deposito di Milano Greco. Deposito che fa parte della zona industriale di Sesto San Giovanni di allora, adesso non so se ne fa parte ancora.

E lì naturalmente esisteva la Resistenza.

D: Sei finito a lavorare dove esattamente?

R: Sono finito a lavorare al deposito locomotive di Milano Greco.

D: E tu avevi quanti anni?

R: Avevo 19 anni, perché non ancora diciannovenne fui chiamato a militare.

Lì si sono avvicinati degli uomini, perché io allora ero un ragazzo di 19 anni, che dicevano appunto che lì non si lavorava e che al momento opportuno si sarebbero fatti dei sabotaggi, perché se no tutto quel materiale, tutto il materiale rotabile: locomotrici e altro che venivano riparati nel deposito finivano per i nazisti e poi veniva portato tutto in Germania.

Noi essendo diversi, essendo scappati dopo l’8 settembre, sbandati dopo l’8 settembre, già dimostravamo da che parte pendevamo.

Allora nel mese di giugno o luglio, adesso non mi ricordo più di preciso, comunque gli atti di sabotaggio si sono verificati. Sono saltate due o tre locomotrici e il deposito dell’olio. Allora i tedeschi, i nazisti hanno fatto una retata e hanno portato a San Vittore diversi compagni.

Anch’io finii a San Vittore e fui indagato come sabotatore.

D: San Vittore in che raggio?

R: A San Vittore, periodo bellico, perché era diviso in due parti: c’erano tre raggi per la sezione politica e tre raggi per i reati normali, reati per ladri eccetera.

A San Vittore sono finito anch’io come indagato per sabotaggio nelle Ferrovie dello Stato. Un bel momento, quando un giorno vado all’aria, perché ho fatto subito ventidue giorni in segregazione, la cella 62, al 1° piano del 5° raggio.

Il 5° raggio era un raggio silenziosissimo, al piano terra esistevano tutte le celle con fuori l’etichetta “pericoloso”, “pericoloso”, “pericoloso”. 1° piano idem. E poi ogni tanto arrivavano delle disposizioni, perché esisteva anche lì una certa Resistenza e malgrado tutto la Resistenza funzionava anche a San Vittore che “diffida da questo”, “diffida da quello là”, “spia fascista”, “spia qui”, “spia là”.

C’era un certo Bruno Zanotta che è stato un animatore per quello, perché ha dato compassione proprio per la causa giusta della Resistenza.

Sono all’aria, perché all’aria ci portavano quelle poche volte che ci hanno portati, nello spicchio d’aria da soli e in cima a questa rotonda c’era un secondino che parlava con un altro e diceva: “Chi deve pregare la Madonna adesso sono solo i ferrovieri”. E infatti ho saputo che tre ferrovieri, tre uomini che avevano 40 anni o forse più, li hanno portati indietro, non so se erano i responsabili di tutto quello, li hanno portati indietro e hanno fermato tutti gli operai che lavoravano al deposito e davanti a tutta la maestranza li hanno fucilati.

Invece io ho subito un interrogatorio solo a San Vittore. Un giorno, dopo non so quanto tempo che ero in cella da solo, si apre la porta e viene un secondino che mi dice: “Interrogatorio”. Sono sceso giù nell’ultima cella, infondo al piano rialzato, proprio al piano terra; c’era un ufficio, una cella adibita ad ufficio, c’era un tedesco. Suonavano le 10,00, perché al tempo di guerra alle 10,00 suonavano le sirene per coordinare se tutto funzionava bene e per vedere se funzionavano anche quelle. E c’era un SS che scriveva a macchina e poi c’era un altro vestito in kaki, perché era il mese di luglio, tutto elegante in un altro angolino della cella, in una scrivania. Nessuno parlava. Io ero lì in piedi sull’attenti davanti a loro, nessuno diceva niente. Poi quello in borghese, che ho saputo chi era dopo, si alza con il pacchetto delle Serraglio. C’erano le Serraglio, un pacchetto azzurro, piatto e mi chiede: “Fumi?” e io gli ho detto: “No”. E lui “Fumi!” e io ho capito che era un po’ una imposizione e allora ho accettato la sigaretta. Lui ha preso l’accendino, me l’ha accesa e ho cominciato a fumare. Si è seduto ancora, poi si alza e intanto che stavo fumando mi ha dato una tremenda sventola e mi ha fatto volare la sigaretta. E mi dice: “Vai avanti, raccogli la sigaretta e vai avanti a fumare”. Allora io ho raccolto la sigaretta e sono andato avanti a fumarla e poi incominciavano a fare delle domande un po’ a trabocchetto: se conoscevo il tizio. Io dicevo che non conoscevo nessuno, io ho lavorato qualche mese ma non conoscevo nessuno. Beh in conclusione, dopo non so quanto tempo, mi dice:” Ti manderemo in Germania a lavorare, guadagnerai dei soldi che manderai a casa a tua madre” e mi ha fatto firmare delle carte che io ho firmato senza sapere cosa erano e poi sono tornato ancora in cella.

Invece mi hanno mandato in Germania, a lavorare sì ma non …

D: Scusa due cose: quando ti hanno arrestato, non ti hanno arrestato in fabbrica?

R: No.

D: Ecco, dove ti hanno arrestato?

R: Lì è stato un po’.. Lì hanno ingannato un po’ mia madre, perché si sono presentati due dell’UPI, e si sono presentati dicendo che erano miei compagni di lavoro, che dovevamo scappare insieme perché la cosa diventava…

D: Dicevi che quelli dell’UPI sono venuti, hanno raggirato la mamma…

R: L’hanno raggirata dicendo che erano miei amici, dovevamo scappare insieme e lei ci ha creduto. Gli ha detto dove mi trovavo e in poche parole mi hanno arrestato.

Uno di quei due ha aperto una borsa e mi ha detto di non cercare di fare il furbo perché se no mi avrebbe sparato dietro e mi hanno accompagnato a San Vittore in mezzo a loro due.

D: Eri da solo?

R: Ero da solo.

D: Dicevi che lì a San Vittore, in cella, sei stato per più di venti giorni da solo in isolamento. Poi ti hanno messo in cella con altri?

R: Sì. Dopo mi hanno tolto dall’isolamento, quando ormai tutta la mia sorte futura era destinata e mi hanno messo dal 5° raggio, che era il raggio più terribile, mi hanno messo nel 6° da dove poi siamo partiti.

E lì sono andato a finire in cucina. Ho fatto gli ultimi dieci giorni, un paio di settimane, in cucina a fare da mangiare per i detenuti politici.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno di cella di San Vittore?

R: Ero con Molteni Mario, mio compagno ferroviere che poi lui è ritornato in ferrovia nel dopoguerra ed è deceduto nel ’98-’99. E Dario Borroni che è deceduto a Flossenbürg. Da Flossembürg l’hanno mandato a Mauthausen ed è morto a Mauthausen o Gusen non so di preciso. E poi un certo Bosè Egidio, anche lui ferroviere che è morto a Flossembürg.

Perché di sette tre sono stati fucilati, sette ci hanno deportati in Germania, cinque sono rimasti lassù, Gargano Andrea è morto a casa ma subito pochi giorni dopo e io e Molteni Mario siamo sopravvissuti; che Molteni è deceduto tre o quattro anni fa.

D: Poi c’era anche Esposito?

R: E poi c’era Esposito. Esposito era sullo stesso piano, adesso non mi ricordo più. Il papà di Esposito era nella cella 64 se non sbaglio. Quella notte che nel Piazzale Loreto, quando hanno assassinato i quindici martiri di Loreto, l’hanno tirato fuori e sentivo dire: “Ma dove vado?” “Vai in campo di concentramento a Bergamo” Invece alla mattina all’alba li hanno portati in Piazzale Loreto e li hanno fucilati tutti.

In Piazzale Loreto c’è un particolare: mia mamma si trovava, dove abitavo io da ragazzo, dall’ortolano, non so in un negozio a fare la spesa e ha sentito la novità e ha lasciato lì tutto ed è venuta in Piazzale Loreto per vedere se c’ero anche io. E le hanno detto: “Signora se trova suo figlio niente scene.” E li ha fatti girare. Poi l’ultimo sembrava che era girato e le hanno detto:”Suo figlio è un ingegnere” e lei ha riposto.”No,no” e le hanno detto:”Beh allora l’ultimo era un ingegnere” e non c’entrava niente con me.

E di lì invece, il giorno 17 agosto, fui inviato al campo di concentramento di Bolzano.

D: Con che cosa vi hanno portato a Bolzano?

R: Con dei pullman dell’azienda tranviaria o del municipio. Durante la notte hanno fatto tutto al 6° raggio, tutta la chiama. Il primo di tutta la chiama era sempre il Padre Gianantonio Agosti. E alla mattina, albeggiava già al mese di agosto, era il 17 di agosto, ci hanno portato a Bolzano.

D:Scusami Venanzio, chi c’era a fare la guardia sul vostro pullman?

R: La 24^ Legione. I ragazzi della 24^. Portavano un fez con il fiocchetto sulla spalla. Erano ragazzi più o meno della nostra età, naturalmente fiancheggiati da auto con su i tedeschi.

Ma seduti sul pullman proprio con noi c’era la 24^ Legione fascista.

D: E siete arrivati a Bolzano?

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D:Come te lo ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Allora non era come adesso, era periferia lontana. L’impressione un po’ brutta, perché erano capannoni quasi industriali.

Io fui mandato al blocco B e la mia matricola era 3111, a Bolzano. Naturalmente lì abbiamo subito visto delle scene un po’… La scena di padre Gianantonio, perché lì tutti venivano già rasati, davano via un triangolino di Bolzano, perché quella sera lì una coperta, un qualche cosa e una scena un po’ toccante che abbiamo visto è stata la scena di prendere il Cappuccino che era con noi, Padre Gianantonio, preso per la barbetta a pedate nel sedere tagliandogli la barba, tagliandogli i capelli che come religioso, se non hanno rispetto per un religioso che con un saio di Cappuccino, che era della chiesa dei Frati di Via Premuda Porta Monforte. Lui era dentro perché era stato arrestato perché nel confessare gli ebrei in Duomo gli dava documenti falsi e per quello ha pagato. Da Flossenbürg è finito a Dachau nel blocco dei religiosi con diversi religiosi italiani. Invece noi dopo Bolzano siamo finiti…

D:Parlami ancora di Bolzano. Ti hanno messo nel blocco B, ti hanno dato un numero.

R: Il numero 3111 con il triangolino rosso politico.

Lì era già dura la vita, naturalmente lì la fame per noi ragazzi del popolo si sentiva più degli altri, perché con noi c’era anche gente che stava bene: generali, professionisti, gente che poteva avere i loro famigliari alla porta che gli portavano i viveri di sussistenza. Invece per noi ragazzi del popolo la fame si sentiva. Io la sentivo già a Bolzano, la sentivo già anche a San Vittore. Però a Bolzano si sentiva di più perché scarseggiava già e poi cominciava già proprio quel timbro di nazismo, di teutonico che cambiava un po’ l’aria che si respirava. Era buona l’aria come clima ma…

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano, oltre questi capannoni?

R: Mi ricordo che come sono entrato i capannoni li trovavo sulla destra. Adesso non mi ricordo, il B doveva essere il penultimo, doveva essere stato un blocco centrale. Poi c’erano le celle in fondo per le punizioni. Di rimpetto a questi capannoni c’era il comando. C’era la cucina, c’era il comando.

E mi ricordo che d’estate, qualche sera, non sempre, ci hanno fatto fare delle docce. La doccia consisteva in un tubo in cui passava dell’acqua forellato in doversi punti, all’aperto.

D: Quindi la doccia la facevate all’aperto?

R: Sì. Quella poche volte non sempre. Lì ci portavano fuori, c’era una cava, e quelli che ci portavano a lavorare, però lì c’erano tanti tipi di trasporto.

Ho trovato dei miei amici che abitavano nella zone dove abitavo io in Milano, che uno mi ha raccontato che un certo Marangoni era appena partito per Mauthausen, ma lui era finito invece a lavorare in una fabbrica in Germania. Perché lì partivano un po’ tutti: i rastrellati, chi non aveva da San Vittore un qualche cosa già prenotato per il viaggio partivano a lavorare. Invece la maggior parte eravamo politici, per esempio Teresio Olivelli, per me una figura molto nobile, portava la coccarda in più di dietro. Una coccarda come fuggitivo perché i settanta trucidati a Fossoli, lui non so dove si è nascosto se in un fienile o dove, è stato lì due o tre giorni e quando è arrivato a Bolzano portava già quella coccarda rossa di dietro. Deve essere stata rossa e bianca o qualche cosa di pericoloso perché era già fuggito e ripreso al momento che avevano evacuato il campo di Fossoli.

D: Tu mi dicevi prima che a Bolzano ti hanno dato il numero e un triangolino. Ma voi avevate i vostri vestiti ancora?

R: Sì, a Bolzano io mi ricordo che avevo un vestito grigio con un gessato o qualche cosa di simile. Avevo una bella camicia, le scarpe con il carro armato che si usava allora, poi in tempo di guerra anche.

D: A lavorare quindi uscivate dal campo?

R: Sì, ci portavano in una cava a lavorare, sempre con quei camioncini lì a riempire, sempre quei lavori di facchinaggio, di sterro.

E anche lì la fame già la sentivamo noi. Perché io ed Eugenio, che adesso non c’è più poverino, noi dormivamo proprio vicino a Padre Gianantonio e Padre Gianantonio per essere un religioso era un po’ coccolato da tutti, specialmente dai professionisti, e allora lui dormiva con una borsa, una sporta, un qualche cosa sulla pancia con dentro le mele e le pere e una volta io ed Eugenio abbiamo provato a vedere se riuscivamo a portare via qualche cosa dalla borsa. Invece lui mi ha fermato la mano e poi ce ne ha date una per uno. Perché lui essendo un uomo già anziano, un uomo di cinquanta anni forse già allora, era un po’ coccolato da tutti gli ufficiali superiori che c’erano con noi, professionisti, letterati. Non so c’erano avvocati, dottori e allora era un po’ ben visto, ecco.

D: Ti ricordi se tu nel periodo che sei rimasto a Bolzano hai ricevuto da casa tua qualche lettera o qualche pacco?

R: No, niente. Ho scritto io una lettera che conservo ancora. Tutta lacerata naturalmente. Scritta con una matita, un foglio di carta con una busta rossiccia, non proprio rossiccia e c’era timbrato ……… che scrivevo censurata e che chiedevo ai miei se potevano mandarmi, allora fumavo, tabacco, cartine, qualche galletta per mangiare, un po’ di marmellata, qualche cosa, perché la fame la sentivo già lì. E invece… Comunque al mio ritorno quella lettera l’ho trovata ancora e adesso l’ho fotografata. E’ un documento che ha cinquantasette anni circa, carta anche del tempo di guerra.

Si capisce poco o niente. Comunque fotografata soprattutto per la busta, l’indirizzo e il mittente.

D: Ti ricordi quando tu eri lì a Bolzano se hai assistito, se hai visto azioni violente?

R: Ecco questo me lo ha chiesto anche Maris, però quel caso lì delle azioni violente io non le ho viste perché sono successe in ottobre novembre, più avanti.

Io ero già partito per la Germania. Perché lì quando il campo si riempiva preparavano il trasporto. Il trasporto prima di noi è andato a Mauthausen, il nostro è andato a Flossembürg e poi ce n’è stato un altro subito che è andato ancora a Dachau.

D: Ecco ti ricordi altre due cose: nel campo hai visto se c’erano delle donne?

R: Sì le donne c’erano e ce n’erano anche tante. Anzi le donne le sentivo anche cantare alla sera, perché a Bolzano la sera cantavano le donne.

Poi c’era un certo Lupo, un ragazzo partigiano, che cantava bene. Cantava quelle canzoni un po’ nostalgiche: “La bella Madunina”, “La mamma”. Quei motivi che al momento della sera che eri nella tua cuccia ti veniva un po’ di malinconia. E dove esistevano le donne si sentiva .., perché le donne sono forse, su certe cose, sono più coraggiose e più resistenti in tante cose rispetto all’uomo.

D: E oltre a Padre Gianantonio hai visto altri religiosi?

R: Religiosi li ho conosciuti dopo. Ma dopo leggendo libri dopo la Liberazione ho trovato che più o meno la mia stessa Via Crucis l’hanno fatta diversi. Per esempio a San Vittore quando c’ero io c’era Don Paolo Liggeri, c’era un Vescovo di Crema Don Manziana che è finito nei blocchi, uno è finito a Mauthausen e dopo verso la fine, l’inverno del ’44, la primavera del ’45 erano finiti tutti nel blocco religioso di Dachau.

D: E sempre lì a Bolzano per caso tu hai visto se c’erano anche dei bambini?

R: Si. C’erano gli ebrei, c’erano famiglie intere. Perché al 5° raggio di San Vittore, al 5° raggio sopra ai camerini, c’erano famiglie intere di ebrei. Che, anzi, sentivo a quanto dicevano che gli facevano fare anche delle cose orribili o li facevano mettere giù davanti alla latrina a camminare. E allora lì li tenevano separati da tutto il resto di noi non ebrei al 5° raggio. Che poi la maggior parte di loro sono passati per Bolzano, ma poi sono partiti e sono andati nei campi dove sono entrati e sono passati per il camino.

D: Quindi tu a Bolzano, nel periodo che sei rimasto, sei uscito per andare a lavorare in questa cava.

R: Sì, una cava dietro lì.

D: E non ti ricordi più o meno dove? Facevate tanta strada, poca strada?

R: Non tanta, perché andando a lavorare alla cava non incontravamo mai nessuno. Perché era già periferia di Bolzano allora. Era una strada lunga verso le montagne e sulla destra c’era questo campo, si usciva e si andava in questa cava …… con i lavori di sterro, non so cosa combinavano con quel lavoro lì.

Tanti giorni ci lasciavano anche in pace a Bolzano, tanti giorni non ci facevano niente. Si aspettava gli eventi, si organizzava da mangiare e basta.

D: E il comandante del campo, comunque delle SS del campo, ti ricordi …?

R: Del comandante del campo mi ricordo di Maltagliati. Maltagliati era il fratello, un parente della famosa Evi o Eva Maltagliati attrice di cinema.

Non so, ecco io allora ero un ragazzo, comunque Maltagliati. Poi a Bolzano, proprio il comandante lo vedevo quando alla sera parlava, faceva discorsi, però non mi ricordo né nome e né niente. Di Maltagliati si.

Poi anche lì hanno fatto i capi blocco, una cosa e l’altra. Fra l’altro il capo blocco del mio blocco lì a Bolzano se non sbaglio era Mazzullo, Luigi Mazzullo, che era tenente dell’aviazione allora, adesso è generale. Anzi adesso è l’ambasciatore italiano dei deportati a Dachau. C’era Castelli che era già un pittore. Ce n’erano diversi, tutta gente che ho incontrato a Bolzano che poi a Bolzano sono arrivati con noi tutti quelli dei Lager di Fossoli. Lì la maggior parte erano gli arrestati degli scioperi del marzo del ’44. Ce n’erano diversi che poi…

C’era un certo Ferrario che è rimasto là e ce n’erano diversi di quei ragazzi lì, adesso la fisionomia… Tanti nomi li ricordo, leggendo dei libri li ricordo perché parlando di questo periodo erano senz’altro con me.

D: Il campo di Bolzano aveva una recinzione?

R: C’era una cinta, una mura. C’era un qualche cosa di così, perché sembrava quasi una falegnameria, un deposito, un hangar, tipo hangar, qualche cosa di simile.

D: E c’erano delle …. delle sentinelle?

R: Le reti delle sentinelle sugli angoli naturalmente e le entrate erano un cancello che si vedevano di fuori.

D: Non c’erano scritte?

R: No, non credo, almeno non mi ricordo di questo.

D: Lì a Bolzano tu sei rimasto quanto tempo?

R: A Bolzano sono rimasto dal 17 di agosto fino al 5 di settembre, alla mattina che ci hanno incolonnati i famosi cinquecento e ci hanno portato allo scalo di Bolzano, sullo scalo merci, per una destinazione che non si sapeva; la destinazione era ignota.

Anzi tanti dicono che dopo o prima di Monaco, non so dopo Innsbruck, è stato fermo, il treno ogni tanto rimaneva fermo, che dovevamo andare a Mauthausen e invece all’ultimo momento siamo andati verso…

D: Ecco scusami sempre, dal campo di Bolzano, in questo posto che vi hanno portato allo scalo tu dici eccetera, vi hanno portato come?

R: Per cinque, incolonnati a piedi. Camminavamo, non so se era l’Isarco o un fiume vicino; quello mi ricordo.

Era mattina presto, si vedevano già gli operai con le biciclette che entravano; perché lì era zona industriale. Entravano in fabbrica. E a noi ci hanno portato in questo scalo, c’erano già pronti tutti i vagoni e dopo un po’ di cerimonia, non so se con una lista o con un numero, adesso non so di preciso quando, io penso sessanta o settanta, ci hanno messo dentro, chiusi i vagoni fuori, anche il finestrello del carro bestiame, era con i reticolati anche quello. Basta, chiusi dentro lì tutti i sogni di evasione erano impossibili, perché tanto adesso si parla ma allora non si poteva. Prima di tutto per gli anziani che c’erano con noi, ufficiali, che se mettevamo in repentaglio la vita di loro, perché se ci mancava qualcuno…

E poi dopo insomma la mattina, dopo tre o quattro colpi che si è mosso il convoglio, era la mattina del 5 di settembre, hanno aperto i vagoni il 7 di settembre con le urla dei cani. Eravamo arrivati a Flossenbürg allora.

D: Quindi il tuo viaggio è durato due giorni e due notti. Avevate sul vagone qualche cosa da mangiare e da bere?

R:No, io non avevo niente, perché anche a Bolzano avevo già sofferto la fame, perché non avevo niente, non aveva niente la mia famiglia in tempo di guerra, non c’era niente. Naturalmente noi siamo partiti con tutto quello che avevamo addosso e chi aveva valigie o borse. Io avevo il mio fagottino e non c’era niente.

Allora c’era gente che aveva avuto i mezzi e sono partiti. Naturalmente di notte mangiavano, perché avevano vergogna a farsi vedere mangiare. Perché questa è la verità, non si può mangiare. Perché sai nel momento che vai verso l’ignoto pensi subito :”Qui soffrirò la fame”, allora se hai una scatoletta cerchi di conservarla per il domani. Invece quando siamo arrivati a Flossenbürg il domani non esisteva più, perché là c’è stato portato via tutto, tutto, tutto. Dai capelli, i peli, la barba; tutto ci è stato portato via. Nudi come ci ha fatto nostra madre. Basta, lì non avevi più niente.

D: I bisogni corporali durante il trasporto?

R: I bisogni corporali erano un po’.., anche lì, perché insomma c’erano persone anziane, persone che avevano bisogno più sovente rispetto ad un giovane.

La resistenza, perché adesso io alla mia età un viaggio di quelli lì mi buttano giù dal treno. Comunque per fare la pipì andavamo dove c’era la porta che scorreva e lì si faceva la pipì sperando che si perdeva tramite le fessure. Ma per fare qualche cosa di più pesante, di più bisognoso dovevamo farlo con un pezzettino di carta e poi buttarlo da quel finestrello lì, perché? Perché si è verificato che dal 5 al 7 di settembre che di giorno c’era un caldo terribile, chissà che puzzo che c’era dentro quel vagone lì perché sessanta, settanta persone chiuse lì con quella finestrella lì. E invece di notte un freddo incredibile perché era l’incontrario, di notte c’era freddo.

Poi anche la notte per trovare di allungare un po’ i piedi, trovare la posizione. Poi in quel pezzettino lì c’era gente anziana, cercava di resistere magari se aveva bisogno proprio dei bisogni fisiologici di farli di notte, perché è un po’ meno vergognoso, un po’ meno deplorevole che farli in faccia a tutti anche se la luce filtrava poco, ma di giorno ci vedevamo in faccia, invece di notte puoi farle scomparire.

Ma tra i corpi, tra gli odori e il resto puoi immaginarti.

D: Il treno si fermava ma le porte non si sono mai aperte?

R: Non si sono mai aperte.

D: E da bere e da mangiare?

R: Per bere e mangiare quando siamo partiti hanno messo una cassa, non so chi l’ha pagata, perché ce l’hanno fatta pagare quella cassa lì. Una cassa di mele sul mio vagone, perché sugli altri non so cosa ci fosse stato. Sul mio carro, no vagone. Sul mio carro bestiame l’hanno messa. E sono venute fuori due mele a testa, una o due mele a testa. Basta, quello lì è stato il nostro vitto e basta fino a Flossenbürg.

D: Una volta arrivati a Flossenbürg, dopo due giorni e due notti di viaggio, allora lì hanno aperto i vagoni.

R: Perché quella ferrovia terminava proprio a Flossenbürg; l’ultima stazioncina tedesca terminava a Flossenbürg. Arrivati a Flossenbürg basta, prima che il treno si fermava definitivamente si sentiva già urlare in tedesco. Ma l’abbaiare dei cani!

Lì albeggiava, era l’alba del 7 di settembre. Poi hanno aperto il vagone e ci hanno fatto saltare giù lì.

Naturalmente ognuno vedeva quell’altro com’era conciato, perché io non potevo specchiarmi. Vedendo i compagni, ognuno vedeva la faccia dell’altro. Lì ci hanno incolonnati per cinque e dopo quando siamo scesi tutti con il nostro bagaglio, io non avevo niente.

La stazioncina di Flossenbürg era proprio all’imbocco del paese, poi c’era una salita che sarà stata lunga 1,5 o 2 km, non so. Tutto il paese su quella strada lì e poi in cima c’era il campo. E sicché andando su, quando ci hanno messo per cinque, camminavamo verso il Lager, la prima cosa che mi ha scioccato, che ci avrà scioccato un po’ tutti, era la vista di questi zebrati.

Io vedevo già quei vestiti da galeotto con la testa rapata, con gli zoccoli silenziosi, magri. Io pensavo: “Ma qui è una colonia penale”, non so come i film che si vedevano quando ero ragazzo e cercavo di non pensare che dovevo finire in quel posto lì.

Siamo entrati e infatti la zebra era tutta sparsa per tutto il campo.

D: Lì avete attraversato il paese?

R: Tutto il paese, fino in cima. Perché adesso anche in cima dove c’è il campo ci sono delle villette. Invece prima c’erano solo le villette degli ufficiali delle SS e Flossenbürg era tutta quella strada lì con a parte quei cascinali, con la chiesetta protestante che c’è. Ci sono due chiesette mi sembra. E basta.

D: Gli abitanti del paese vi hanno visti?

R: Ci hanno visti, ma indifferenti proprio. Anche i bambini, niente, come fossero abituati forse a vedere questi passaggi.

E dopo circa quaranta giorni abbiamo rifatto quella strada ma tutti vestiti elegantemente con la zebra nuova, con gli zoccoli nuovi ai piedi senza più bagagli, senza più niente e l’abbiamo fatta per andare a …

D: L’ingresso del campo di Flossenbürg, quando siete arrivati, come te lo ricordi?

R: All’ingresso del campo di Flossenbürg c’è la Kommandantur che è una cosa impressionante. Adesso è bella pitturata dipinta. Metà è del comune e metà è una associazione di ex deportati.

Allora invece era tipo teutonico con quella specie di torre centrale lunga e vedendo proprio di facciata si entrava verso la nostra destra che c’era come una lingheretta, qualche cosa, come un ballatoio subito lì rialzato e lì c’erano già i cancelli che si aprivano e lì si entrava e ci contavano sempre per 5: 5,10,15, ecc. e intanto ci contavano. Si entrava non dal portone. Abbiamo girato indietro che era la piazza dell’appello, e lì chi aveva i bagagli li aveva depositati. Qui sto già parlando di Flossenbürg. Dopo un po’ è uscito un ufficiale e ha detto che adesso ci avrebbero chiamato per nome e che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo sentito il nostro nome e al momento che avremmo sentito il nostro nome avremmo dovuto rispondere “Qui”

Ecco dovevamo rispondere così. Infatti quando è arrivato il Gibillini Venanzio io risposi “Qui”. E siamo stati lì un po’, perché era mattina e quando siamo arrivati nel blocco che ci hanno assegnato era sera, diventava già buio.

Lì siamo stati circa una, due, tre ore, perché ci hanno abbandonato lì con un indifferenza totale. Però vedevo che dentro erano tutti di corsa, tutti silenziosi. Poi ci hanno portati allo spogliatoio sotto una tendopoli e lì ci hanno spogliati. Lì i nazisti hanno detto che ci dovevamo spogliare e consegnare tutto quello che avevamo: dalla fede alla catenina, una fotografia. Non dovevamo avere niente e tutto ci sarebbe stato restituito al momento opportuno.

Mi hanno fatto una specie di ricevuta con un pezzo di carta e poi me lo hanno stracciato proprio come presa in giro.

Io naturalmente non avevo niente e quando mi hanno tolto il vestito e la camicia che avevo su, io basta non avevo più niente da nascondere.

E lì c’è stata gente che ha cercato di salvare qualche cosa: una fede, una fotografia. Ho visto stracciare dei soldi di carta piuttosto che darli, ma se li pescavano li avrebbero uccisi senz’altro; li avrebbero uccisi a bastonate. E nei tubetti di dentifricio mettevano dentro la fede o la catenina, che poi in quell’ambiente lì non siamo più andati.

Dopo eravamo tutti nudi, un po’ grotteschi, perché noi allora avevamo diciannove, vent’anni anni ed eravamo i giovani. Ma c’era gente di quarantanove, cinquant’anni, c’era gente già con un po’ di pancetta un po’ di qualche cosa che andava un po’ storto insomma. E il nostro processo di spersonalizzazione lì cominciava già in pieno, perché quando un uomo è nudo davanti ad uno vestito con gli stivali e con in mano un frustino è già una nullità quello che è nudo e mantenersi davanti a quello lì.

D: Ma anche Padre Gianantonio era con voi?

R: Si, anche lui tutto nudo.

D: Quindi anche lui ha subito questo?

R: Tutto quel processo lì. E se c’era anche il Sommo Pontefice, tanto per dire, l’avrebbe subito anche lui. Cardinali, Prelati, alti Prelati li hanno subiti tutti.

Dopo averci denudato ci hanno portati al bagno. Il Wäscheraum c’erano due scalinate che scendevano in un seminterrato ed entrato nel primo locale seminterrato tutto piastrellato, tutto fatto bene. Naturalmente sui fianchi del Wäscheraum i primi colpi che ricevevi li ricevevi con il Gummi che era un tubo di gomma con dentro dei fili elettrici, ma esistevano anche a Dachau, esistevano dappertutto. E quello lì ti dava il colpo, ti intontiva senza lasciarti il livido quasi, perché la gomma era piena fuori, sicché era pesante. E qui ti pigiavano e quelli che pigiavano erano vestiti zebrati. I primi colpi non è che li ricevi in un posto talmente terribile, coraggio ragazzi qui dovete…. Qui niente, tutti picchiavano, tutti urlavano e non si capiva più niente.

Allora ci hanno messo dentro quel locale lì, prima c’era una preanticamera abbastanza grande tutta piastrellata e c’erano dei manifesti, dei poster proprio, delle gigantografie con il pidocchio che scritto in tutte le lingue diceva: “Difenditi da questo parassita che sarà la tua morte”.

Poi siamo entrati in profondità più avanti e c’erano dei traversini di legno con su il pavimento, le solite docce.

Prima ancora sono venuti i Friseur, i parrucchieri che erano tutti compiti che svolgevano gente aristocratica del campo. Perché lì il bifolco, il triviale, il duro acquistava valore in un Lager, invece il laureato, quello con gli occhiali con i denti d’oro veniva menato.

Lì ci hanno sbarbati un po’ dappertutto, ci hanno tolto i peli da tutte le parti. I capelli erano già tagliati da Bolzano e lì ce li hanno tagliati ancora. Poi ci hanno fatto la Strasse, con una macchinetta molto fine proprio una strada. La strada di Hitler, che partiva dalla fronte e finiva alla nuca. Poi ci hanno disinfettato con il petrolio, non so che cosa fosse lisoformio non credo, era un qualche cosa che bruciava enormemente perché tagliati i peli e barba dappertutto con quelli che ormai non erano più rasoi ma erano coltelli e tutti mezzi insanguinati e dopo ci hanno cacciati sotto le docce. Quando eravamo sotto le docce hanno aperto l’acqua calda così bollente che ti spelavi e acqua fredda che faceva contrasto. Penso che sia stata una cosa veloce, poi fuori. Arrivavano sempre colpi che si cercava di schivare perché il più impappinato, il più anziano li prendeva invece io avendo diciannove, vent’anni cercavo di schivarli.

E lì ci hanno fatto una visita medica, tutti nudi davanti ad uno che penso sia stato un dottore, un ufficiale medico con i suoi aguzzini intorno, si andava davanti ci guardava davanti, ci giravamo e ci guardava da dietro e poi un incaricato di quelli lì con la vestaglia bianca con una vernice rossa ci faceva una lettera sulla fronte: A, B, C; penso che sia stata una lettera. E lì era già una selezione che facevano per la forza lavoro e la forza non lavoro.

Dopo di quello ci hanno vestito. C’erano un mucchio di stracci della guerra ’15-’18 e non so ad uno capitava magari una cosa spaccata, rotta o scalcinata, ti buttavano lì una giacca e un paio di pantaloni e penso una camicia. Biancheria intima lì non esisteva più.

Naturalmente quando siamo stati vestiti per la sera ci hanno dato già il filo e qualcuno ci ha incaricato che quel filo doveva durare per diversi per attaccare il nostro numero di matricola che lì ero diventato il 21626 triangolo rosso. Politico perché nel Lager si distingueva il politico perché era la maggioranza di quasi tutti i Lager, che era il triangolo rosso. Poi c’era il triangolo verde che erano i signori del Lager, perché la maggior parte erano criminali, la maggior parte tedeschi che sapevano la lingua e più erano feroci e più facevano carriera.

E poi il Lager era formato da tutta una miriade di gente che girava intorno: gli addetti alla … , gli addetti ai bidoni, gli addetti alle latrine, gli scrivani, tutta una miriade di gente che organizzavano e riuscivano anche a mangiare qualche cosa di più di quelle miserrime razioni che davano via.

D: E poi ti hanno mandato in blocco.

R: E poi mi hanno mandato nel blocco. Nel blocco naturalmente dopo due giorni ormai era arrivato sera e cominciava già a diventare buio quando tutta questa cerimonia è durata un giorno, perché pensa che chi arrivava al mese di gennaio con il freddo con i 15-20 gradi, io sono arrivato a settembre, con i 15-20 gradi sotto zero tutta quella processione che abbiamo fatto noi loro la facevano all’aria aperta fuori nudi così delle ore sotto la neve, sotto all’acqua. Che poi lì a Flossenbürg erano 1000 metri, non so, è sempre stato freddo. E dopo mi hanno assegnato il blocco. Naturalmente nel blocco avevamo bisogno del gabinetto. Due giorni e due notti, ormai era al terzo giorno, e allora si doveva andare cinque, dieci persone alla volta alla latrina e poi ritornare indietro. I primi che vanno:”Eh che gabinetto!”. E allora siamo andati tutti anche per la curiosità di vedere questa latrina. E la latrina era un locale, mezzo blocco, un quarto di blocco, con due buche profonde in mezzo con delle tavole di legno per accomodarsi e tutto intorno c’erano dei lavandini sempre in legno con ad ogni vetro un rubinetto con “Vietato bere: acqua non potabile”. E sotto quei lavandini c’erano già i morti. Erano già accatastati sotto i lavandini in attesa perché il crematorio era sotto.

Sotto il blocco 23, il blocco 24, esisteva il crematorio. Che poi per andare giù nel crematorio c’era una scalinata che si andava giù con una trentina di gradini, non so di quanti metri. Però loro non li portavano giù con la barella. Sotto l’ultima garitta c’era un sottopassaggio con un vagoncino, caricavano i corpi decessi e scivolavano giù sul tetto del crematorio. Dal tetto del crematorio li scaraventavano proprio davanti all’ingresso e poi venivano bruciati. E quell’odore lì del crematorio stagnava tutto il giorno quando poi c’era la bassa pressione che pioveva, perché là in quaranta giorni che sono stato a Flossenbürg ho visto il sole non so se una volta e mezzo o due, il resto sempre freddo perché si andava verso ottobre.

D: Il numero del tuo blocco qual era?

R: Il mio blocco era il 23. Vicino al nostro blocco c’era il 24, che non era il Bunker, erano i terminali.

Quando uno non moriva allora via, veniva portato al 24. Al 24 venivano buttati là dentro e basta. Se aveva la forza di uscire a prendere la zuppa usciva, se no moriva lì con gli escrementi. E quando uno se la faceva addosso, tutti i Kapò dicevano: “Ah italiano sporcaccione!” Prendevano l’idrante e ti lavavano con quello per far vedere che noi eravamo degli sporcaccioni. Di conseguenza ti veniva la broncopolmonite e non morivi per la dissenteria ma per la broncopolmonite fulminante.

D: Ci racconti una giornata di Flossenbürg? La sveglia, cosa vi davano da mangiare.

R: A Flossembürg era molto terribile. Prima di tutto perché è stato anche l’impatto della deportazione, la prima settimana c’erano già morti due fratelli. Dopo dieci giorni, anche per il crepacuore, perché capivi che non potevi sopravvivere dentro lì. E’ stato considerato forse uno dei peggiori, per niente ripulito, venticinque legnate, venticinque frustate, un gabellino apposta per metterti lì. E poi se vedeva che ero un italiano amico, chiamava me per picchiare. Io picchiavo adagio andavo giù anche io finché usciva un russo o un polacco per non prender lui picchiavo forte. E quando picchiavano i Kapò te dovevi contare i colpi che ricevevi e loro addirittura si fermavano a riposare e a prendere fiato.

D: E da mangiare?

R: Da mangiare al mattino alle 4,00 d’estate, 4,30 dicono d’inverno, ma noi abbiamo sempre fatto quasi il mese di settembre e ottobre, c’era ………: 5, 10 minuti l’appello. Allora subito, perché l’appello ti uccideva. Fuori pioveva nevicava, tu sempre sugli attenti; quegli appelli lì erano terribili.

L’unico pregio che aveva era che era un po’ calda. Però io non so quante volte l’ho bevuta. Dopo verso le 11 ti davano la zuppa. In quel blocco lì eravamo circa in seiciento e non c’erano le gamelle per tutti; c’erano circa cinquanta, sessanta gamelle. Di conseguenza le gamelle continuavano a girare fino a che avevano servito tutti i deportati, tutto il blocco. Di conseguenza nessuno voleva entrare per primo, perché forse entrando per primo aveva la gamella pulita però pescava l’acqua perché il bidone fresco, 50 litri di roba se c’è qualche cosa di sostanza o pesante resta sul fondo e lui non mescolava, lui pescava l’acqua e ti dava l’acqua. Allora gli addetti a quello spingevano con il tubo di gomma per andare sotto. Poi l’affare girava fino a che arrivava l’ultimo che andava sotto. Ma l’ultimo poteva pescare il pezzo di ratto, un pezzo di carota, qualche cosa di sostanzioso. Questo alle 11,00. Poi si parlava alla sera. Di sera rientrando in blocco, chiamandoti per numero, che se non uscivi al tuo numero giusto le prendevi, perché dicevano che sabotavi e che prendevi la razione di un altro che non ti aspettava, e lì la sera c’era il pane che da sei è diventato in otto poi una fettina di pane tedesco fatta nel Lager, non so di che composizione fosse quel pane lì. E poi c’era o una fetta di margarina o un cucchiaio di marmellata o una fetta di salame.

Ogni tanto davano una fetta di salame, ma un salame gommoso proprio che lo masticavi ma tutto era buono da cacciare nello stomaco che non so di che cosa fosse stato fatto. E quello lì era la razione che ti aspettava al giorno.

Naturalmente durante il giorno quando non ci prendevano, perché lì eravamo in quarantena, perché qualche comando, cinquanta uomini con me, no uomini 50 pezzi, 50 Stück. Dicevano, per portare pietre alla cava ci lasciavano in pace e si parlava solamente: “Se andiamo a casa faccio fare da mia mamma la pastasciutta, lo spezzatino, il pane, il tonno”

D: E il lavoro invece?

R: Lì eravamo in quarantena perché sai i tedeschi organizzati, perché prima di contaminare quelli che erano già moribondi ti facevano fare la quarantena. Allora lì il lavoro consisteva nel portarti alla cava, sempre quei lavori di sterro, sempre con picconi, zappa e martello.

E lì c’erano degli affari da mettere sulla spalla come zaini in legno che avevano come appoggio una tavoletta o diverse tavolette dove tu mettevi la pietra, il masso e lo portavi. Tante volte penso che li facessero portare su e poi riportare giù, non so.

Comunque penso che tante cose le facessero fare proprio per demolire e lì sentivi proprio la mancanza. Io vedevo le nubi nel cielo che si spostavano e vedevo la libertà di un qualche cosa fisicamente che si spostava, il poter viaggiare, il poter spostarsi. E questi erano i lavori. Finita la quarantena a Flossenbürg già si parlava che per sopravvivere lì, perché nessuno rimaneva nel campo madre. Flossenbürg non so quanti campi satelliti aveva intorno. E l’unica sopravvivenza era di finire in un comando diciamo dolce, che faceva paura già a qualcuno anziano che abbiamo trovato dentro.

Il primo trasporto italiano è stato il nostro ma proveniva da altri campi. Ci hanno detto: “Cercate di difendervi dall’inverno, perché se arriva l’inverno che siete a Flossenbürg a portare le pietre non si salva più nessuno”. Allora gli ultimi tempi, ormai era l’ottobre del ’44, i tedeschi capivano che la guerra la perdevano, malgrado tutto, allora avevano bisogno di meccanici. E allora ci è arrivata la voce che dovevano fare un esame per vedere chi era meccanico.

Loro hanno fatto presto a fare l’esame. Nella piazza dell’appello hanno messo un tavolino con non so se era un ingegnere o un civile tedesco e lì siamo andati tutti uno ad uno davanti a questo ingegnere e lui aveva degli strumenti su questo tavolino che erano il calibro, la vite micrometrica, le punte elicoidali. Ha preso in mano un calibro e mi ha chiesto: “Quant’è?” Tanti millimetri tanti decimi. Poi ha preso in mano la vite micrometrica è mi ha detto:” Quanto?”. Poi ha preso due punte elicoidali mi ricordo: una affilata bene e l’altra invece da una parte affilata malamente e dall’altra non poteva più tagliare. E in principio che se uno ha fatto il meccanico… e chi ha indovinato quello lì penso che l’abbiano indovinato quasi tutti. Chi l’ha indovinata ci hanno mandato a Kottern, un sottocampo di Dachau. Però lì abbiamo cambiato matricola, abbiamo cambiato tutto. Perché ho abbandonato Flossenbürg con il 21626 e sono andato a Dachau e sono diventato il 116361. Questo era il mio nome a Dachau. E da Flossenbürg ci hanno mandato addirittura, ecco il viaggio che da Flossenbürg va a Kottern non me lo ricordo più. L’abbiamo fatto sul treno ma penso che non ci hanno neanche chiuso sul vagone, perché c’erano due SS seduti lì. Ci hanno tolto quegli stracci che al momento opportuno ci aveva dato al momento della doccia a Flossenbürg, ci hanno dato una zebra nuova, degli zoccoli nuovi e anche un cappello. E non so se il numero da Dachau ce l’hanno dato direttamente lì o se ce l’hanno dato a Kottern. Adesso questo non me lo ricordo più.

Di conseguenza dicono che il treno non si è fermato più neanche ad una stazione, si è fermato su una scarpata, e di lì ci hanno portato nel Lager. In quel Lager c’erano circa 2000 persone. Era un piccolo Lager rispetto agli altri, però il trattamento era sempre quel trattamento. In più però noi lavoravamo per la Messerschmitt in un capannone. Lavorare per la Messerschmitt era stata la mia fortuna penso, perché io ho schivato quasi tutto l’inverno, via che un quindici, venti giorni che ho fatto a trasportare delle lamiere con la slitta ghiacciata all’aperto, perché quei lavori ti decimavano completamente, invece lì facevo l’aggiustatore.

Dovevo, con delle dime, limare dei pezzi che poi li montavano E lì quando entravi le SS ti portavano alla porta, poi i Kapò ti portavano al posto di lavoro e poi entravano i Meister. I kapò non potevano più far niente al momento che entravano i Meister. I Meister erano dei civili che ci davano il lavoro. Man mano che questi Meister segnalavano che il tale non rendeva più venivano inviati ancora a Dachau e quando andavi a Dachau non so se facevi in tempo a fare un altro trasporto.

Se andavi a Dachau, perché non facendo più produzione perché eri deperito, la maggior parte di tutti noi, insomma dei duecento circa che abbiamo fatto la marcia di eliminazione ormai eravamo poche decine. Tutto il resto era tornato a Dachau.

D: E lì quante ore lavoravate?

R: Dodici ore di lavoro al giorno. Dodici ore per quindici giorni di notte e dodici ore per quindici giorni di giorno. E ogni quindici giorni ci cambiavano il turno e quella domenica lì ci lasciavano in libertà. Quella domenica lì si poteva scambiare qualche parola, andare a cercare qualche amico che poi magari scoprivi che era tornato a Dachau o era andato da qualche altra parte. Perché quando siamo tornati ci siamo detti dove eravamo finiti.

Noi eravamo NN: entrati nella notte e usciti nella nebbia. Si scompariva così. E voglio dirti un particolare. In quella fabbrica lì con me e con i Meister c’erano anche i militari. E c’era un ragazzo tedesco, un aviatore tedesco, che più o meno avrà avuto la mia età e io ho iniziato a lanciargli degli sguardi e lo vedevo bello pulito nella sua divisa che mangiava e che beveva. Lui mi guardava e forse io gli facevo compassione vestito da zebrato, affamato, pieno di pidocchi, e ha cominciato che quando beveva la birra ne avanzava sempre un pochino nella bottiglia e poi mi faceva un cenno come dire di andare lì a prendere la birra. E questa cerimonia è durata per un po’ di tempo, perché ha fatto tanti mesi anche lui lì. Quando facevo il turno di giorno lo incontravo. E un giorno, giudicandolo un buono, un dolce, non come un SS, un giorno ho osato. Vedevo che stava affettando il pane e lo mangiava con la marmellata e gli ho chiesto se me ne dava un pezzettino. Lui mi ha guardato e mi ha detto:”Nein”. Come dire: “Niente. Perché sei prigioniero? Sei un bandito? Sei un partigiano?” E con quello è cessata anche la cerimonia della birra. Perché forse io non dovevo chiedere, perché prima di tutto era pericoloso anche per lui, perché il tedesco, il nazista non considerava quegli atti, quei valori non li considerava. Se uno doveva morire doveva morire. Era una bocca in meno da dare da mangiare, anzi uno che non lavorava era inutile tenerlo in vita, doveva andare al crematorio.

E questa era la mentalità del nazista. E la compassione e quegli atti, perché se vedevi qualche atto che ti centrava, che ti toccava, qualche flash che vedevi perché qualche cosa che era il contrario della malvagità ti restava impresso. Perché io quel ragazzo lì quando vedevo che ha continuato per diversi giorni, forse per settimane a darmi la birra ho pensato che forse a cercargli un pezzetto di pane mi avrebbe dato anche quello. Invece il pane non me lo ha dato. O era poco anche per lui, comunque mi auguro che viva ancora e che sia al mondo e sia un uomo felice.

D: Lì a Kottern quanto tempo sei rimasto?

R: A Kottern sono rimasto tanto, sono rimasto un infinità. A Kottern non ce la facevo più. La Pasqua del ’45 era …… proprio, perché per entrare al Revier dovevi avere almeno 39 di temperatura, 39 di febbre. Se no non entravi al Revier. Mi hanno controllato la temperatura. Il Revier di Kottern era in miniatura, non era una baracca. Dove mi hanno messo era un tavolazzo tutto lungo su tutta la lunghezza della Stube che era in muro e uno vicino all’altro. E lì avevo la febbre. Naturalmente entrando al Revier perdevi tutto. Nudo con un camicione sempre a righe e mi hanno messo lì sul castello. E un infermiere, un deportato anche lui, un polacco, mi ha dato una pillola. Non so che pillola fosse, ma mi ha fatto cessare la febbre e basta mi hanno tolto dal Revier e sono tornato in fabbrica.

Ma gli ultimi giorni la fabbrica ormai bombardata una volta, due, tre è stata bombardata definitivamente. Allora ci adoperavano solamente per fare quei lavori sempre di sterro. Sulle massicciate delle ferrovie dove c’erano i binari divelti, dove c’erano i vagoni, case, macerie, tutti quei lavoracci lì, fino alla fine che al 25 aprile, alla mattina ormai c’era stato un appello in generale e solamente il comandante è rimasto. Lì ci hanno incolonnati, ci hanno permesso di prendere la nostra coperta.

Pioveva come Dio la mandava e con la coperta sulle spalle o sulla testa sottobosco, non nelle vie principali, e anche lì abbiamo camminato due giorni e due notti. Tanti dicono che ci hanno dato dei chicchi di grano; bevevamo l’acqua piovana perché il camminare ci ha provocato una sete terribile. Io non mi ricordo cosa ci hanno dato, questo particolare non me lo ricordo. Però l’hanno detto in due o tre e io ne prendo atto.

E così fino a che siamo arrivati a Fronten. Arrivati a Fronten, questo è quello che ho visto io, ho visto un razzo luminoso alzarsi.

Tornando indietro un passo, intanto che noi camminavamo, ci portavano sempre verso le ultime città tedesche e poi c’era l’Austria. Ci portavano verso l’interno, non so. Noi vedevamo tutta la ritirata dell’esercito tedesco che veniva contro di noi come marcia di direzione. Si vedeva proprio lo sfacimento. Siamo arrivati lì che era sera e ho visto un razzo luminoso alzarsi verso il cielo. In quel momento le SS che ci accompagnavano si sono fermate. Naturalmente la colonna era ormai tutta disordinata, perché man mano che restavi indietro sentivi gli spari e venivano seminati anche per la strada. Poi sono arrivati degli autocarri che si sono fermati e le SS sono andate su e sono filati via. I Kapò hanno cercato ancora di tenerci inquadrati e lì non si capiva più niente perché in quel momento c’era il caos più terribile. Poi i russi e i polacchi con la loro forza da spinta d’urto per cercare da mangiare non ci sono stati più né Kapò né mica Kapò. Lì lì sono andati a cercare tutti e i Kapò sono stati sopraffatti. Però come siamo entrati in paese i contadini asserragliati nelle loro case ci sparavano contro perché vedevano questa marea di zebrati affamati e le loro truppe tedesche che si allontanavano e questi qui che venivano avanti, allora ci sparavano. Allora io, Eugenio e un certo Bruno ci siamo messi sotto una tettoia fuori dalla strada provinciale, perché era un piccolo paese dove c’era solo quella strada lì, ci siamo messi lì e poi però la fame era più forte di noi e siamo andati a cercare da mangiare. E infatti siamo andati in un magazzino dove c’erano dei civili e non civili che si azzuffavano per prendere qualche cosa e abbiamo visto dei barattoli che nessuno li prendeva e allora piuttosto che niente ne abbiamo preso uno e lo abbiamo aperto e dentro c’erano i cetrioli sotto aceto. Ecco la prima cosa che ho mangiato è stata quella e così ha disinfettato tutto. Dopo però abbiamo preso un carrellino che una donna tedesca aveva già riempito di cibarie, scatolette di carne, abbiamo fatto la fuga e siamo andati ancora sotto quel cascinale dove eravamo prima e piovigginava ancora. Era il 27 aprile. E lì tra il cetriolo che abbiamo mangiato, tra una scatoletta di carne, siamo crollati tutti e tre e ci siamo impappinati lì che se tornavano le SS ci facevano fuori tutti. Alla mattina invece c’era un’alba stupenda, c’era un sole che annunciava proprio la libertà. E’ uscito il contadino con tre caraffe di latte appena munto e ce le ha date. In quel momento non avevamo ancora visto le truppe alleate, invece dopo un po’ hanno cominciato a passare i carri armati e i camion che andavano in su più o meno dove andavamo noi a piedi, verso l’Austria e sono passati per tutto il giorno.

Io ho visto che tutti i veicoli portavano la stella bianca e allora ho chiesto al contadino :”Chi sono?” E lui ha detto che non erano russi ma americani. E quindi al mattino abbiamo capito realmente che eravamo liberi.

D: E dopo per tornare in Italia?

R: Gli zebrati alcuni sono ritornati a piedi, alcuni sono ritornati in Dachau, alcuni sono andati verso la Svizzera: Ferruccio Belli, Magenis sono andati verso la Svizzera e in Svizzera li hanno messi ancora nei campi di concentramento per fare la quarantena. Era un campo di concentramento bello ma erano ancora chiusi lì dentro. Invece io, Eugenio Esposito e Bruno Donelli siamo sempre rimasti insieme. Allora siamo andati verso l’Italia e siamo entrati in Austria in una cittadella del Tirolo e la differenza vedevi che le bandiere bianche della resa le vedevi dove eravamo stati liberati e invece come siamo entrati in Austria c’era la sua bandiera nazionale rossa e bianca, purché si definivano anche loro invasi dai nazisti. Però dico una cosa, perché i nazisti negli ultimi giorni ci hanno fatto fare quelle marce lì che hanno seminato tantissime persone. Sono partiti in 14000 e sono arrivati in 1000-1500 persone, seminati tutti per la strada. Quella è stata l’ultima carneficina inutile da fare fino al momento che sono arrivati gli americani, fino a che non hanno visto i carri armati americani hanno continuato a punirci e ad ucciderci.

D: E poi in Italia però da dove sei entrato?

R: In Italia sono entrato da Bolzano.

D: Dal Brennero?

R: Dal Brennero. Io avevo organizzato uno zainetto, avevo tolto la zebra e invece Eugenio l’aveva portata a casa, mi sono pentito perché potevo almeno tenere il triangolo; l’unica cosa che ho portato a casa è il cucchiaio. Perché noi eravamo dei barboni, avevamo il cucchiaio e la gamella con un pezzo di corda attaccato all’altra corda che faceva da cintura. Gli americani con la camionetta in quindici persone con quindici zaini ci hanno portato a Bolzano. Lì siamo andati all’ospedale di Bolzano e ci ha preso in mano la Croce Rossa e dopo con il camion del Comitato di Liberazione di Cernusco sul Naviglio siamo partiti da Bolzano e siamo arrivati a Milano.

D: Quando sei arrivato a Bolzano c’era un comitato di assistenza?

R: Sì c’era qualche cosa, ma non come forse ci doveva essere. A parte che rientravano dalla Germania di tutte le qualità: rientravano i lavoratori liberi, rastrellati. Non tutti erano dei campi di eliminazione. Io ero nei campi di eliminazione ma c’era gente che era là a lavorare. In Austria siamo finiti in un asilo ospite; eravamo occupati dentro in un asilo austriaco in una bellissima cittadella di montagna. E lì ci hanno dato la tessera. Invece quando siamo arrivati a Bolzano ci hanno fatto una visita medica sommaria e a Bolzano abbiamo iniziato a vedere gente con le fotografie che cercavano i loro parenti e che chiedevano da dove venivamo e se avevamo visto i loro parenti. E penso che l’amico Esposito ha saputo della fine di suo padre che è stato fucilato in Piazzale Loreto, malgrado lui l’avesse sospettato, però la conferma l’ha avuta a Bolzano proprio al ritorno di quei quindici fucilati in Piazzale Loreto che poi sono stati tirati su per le gambe dai nazisti.

D: Lì a Bolzano ti hanno fatto un certificato di rientro?

R: No a Bolzano non me lo hanno fatto, però me lo hanno fatto a Milano. Ce l’aveva anche Eugenio, me lo hanno fatto in Porta Vittoria. Era un tesserino rosso dove c’era scritto proveniente da Dachau.

D: Quindi te lo hanno fatto lì a Milano.

R: A Milano all’ex sindacato fascista.