Navasa Milo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Buongiorno. Mi chiamo Milo Navasa, sono nato a Venezia il 27 maggio 1925. Figlio unico e abitavamo a Verona da parecchi anni. Mio papà lavorava alla Telve e io ero studente, scuole normali, liceo ecc.

Il 13 dicembre 1944 di notte abbiamo sentito un fracasso infernale giù alla porta d’ingresso della casa, hanno mezzo sfondato una porta ed era una pattuglia di SS. Sono venuti dentro, hanno beccato mio papà subito e stavano per portarlo via, quando girando per l’appartamento, sono capitati anche in camera mia che stavo dormendo, mi ero svegliato un po’ di soprassalto. Hanno chiesto a mio padre, il quale parlava tedesco tra l’altro e capiva, gli hanno chiesto chi ero e lui ha detto: “E’ mio figlio”. Hanno detto: “Komm” e mi hanno preso, anch’io.

Avevo diciannove anni, dunque non c’entravo un accidente, però mi hanno portato via. Ci hanno portato al sotterraneo delle SS qui in Corso Porta Nuova. Lì è cominciata la storiella. Mio padre è stato interrogato subito, io anche, però il mio interrogatorio si è risolto in una buffonata, perché allora io cascavo talmente dalle nuvole che evidentemente anche l’ufficiale che mi ha interrogato se n’è reso conto che non capivo niente, che non c’entravo un tubero. Siamo stati lì una quindicina di giorni mi pare, adesso ovviamente la memoria al giorno non ce l’ho più, ben inteso. Però un paio di settimane.

Dopodiché tutti e due ci hanno portato al Forte di San Leonardo, qua sopra Verona. Lì siamo stati due o tre settimane anche lì. Eravamo lì in carcere, avevamo un po’ di rancio, non avevamo uscite fuori, eravamo sempre dentro nella cella. Poi ci hanno trasferito al Forte di San Mattia, che è un altro forte qui di Verona, quello più alto. Anche lì tran/tran quotidiano, mio padre era fuori dalla grazia di Dio, io che non capivo cosa cavolo mi stesse succedendo. Un bel giorno ci tirano fuori tutti, ci imbarcano su un autocarro e ci portano su a Bolzano.

Mi sono ritrovato anch’io lì. Ci hanno messo nel blocco B, non sapevo niente praticamente, un po’ spaventato, un po’ tutto. Dopo due o tre giorni, adesso il giorno preciso non lo ricordo così, hanno fatto un appello e hanno chiamato assieme a tutti gli altri mio padre, non me.

Anzi, anche lì a Bolzano mi hanno fatto un altro interrogatorio così, che si è risolto in niente, una buffonata. Credo si siano accorti che non avevo le mani in pasta né con la Resistenza né con questo né con quell’altro, com’era vero infatti. Non ci pensavo. Hanno fatto l’appello, avranno chiamato due o trecento persone, fra le quali mio padre. Di fatti noi eravamo in piedi lì così e loro chiamati dovevano mettersi dall’altra parte del cortile allineati. Quello è stato l’ultimo giorno che ho visto mio padre, non ho più saputo niente là naturalmente.

Al primo maggio hanno aperto il campo, a gruppi di una trentina di persone ci hanno caricato su un autocarro che ci portava in giù. Lo sbarco, diciamo così, avveniva, l’ho saputo dopo, a paesi diversi. Hanno avuto probabilmente paura che mollando il campo di colpo ci fosse una reazione da parte nostra, perché penso saremo stati un migliaio, era affollatissimo. Allora probabilmente l’hanno fatto per questo scopo.

Allora a me hanno scaricato a Bronzolo, mi ricordo ancora. C’era tutta la retrovia tedesca che stava andando in su in ritirata, elmetti fin qua, mitra imbracciati, un inferno, qualche autoblinda ecc. Una strizza dell’accidente, però dico: “Devo andare a casa, è inutile che mi metta qua”.

Allora mi sono strappato via il distintivo, che avevamo il triangolo rosso. Tolto via quello ho cercato di apparire uno qualsiasi e ho cominciato a camminare. A camminare ci ho messo otto giorni, sono arrivato a Verona a piedi. Tra l’altro non è che avessi una gran forza, perché là sì, ci davano qualcosa da mangiare senz’altro, però non certo pasti.

Un pagnottino così al giorno. Poi tra l’altro quando ci hanno mollato avevamo già discusso tra noi che saremmo entrati in Bolzano a pescare il panettiere, perché queste pagnottelle, una al giorno, grandi così, si faceva così con le mani e strizzava fuori acqua. Pesava di più, perciò ci faceva pagare di più. Avevamo giurato di andare là e disfargli il forno. Invece, niente. Ci hanno mollato apposta, penso, per evitare rappresaglie probabilmente.

Mi ricordo ancora un episodio. Quando sono arrivato lì a Rovereto, c’era molta gente. Ad un certo momento mi vedo arrivare un carro armato in mezzo alla strada. “Porca boia”, dico, “ancora, madonna santa”. Un bestione che non finiva più. Allora va beh, mi sono messo ai margini della strada. Passerà anche questo. Ad un certo momento ha spalancato il portello di sopra, è uscito a mezzo busto un negrone, un bestione della madonna con due mani messe così. “Paisà” ha detto.

E giù sigarette in mezzo alla gente. Ho ringraziato il padreterno, “Dio ti ringrazio, qui ci sono gli americani, i primi che vengono su”. Dopo mi sono accorto che sul carro armato c’era una stella bianca dipinta, ma io non lo sapevo. Allora mi sono rilassato e ho fatto Rovereto Verona con più calma, perché ormai c’erano le truppe americane che venivano avanti e non mi facevano certo paura. Qualcuno aveva predisposto qualche posto di ristoro durante il campo e lì ho mangiato qualche minestra, ho dormito un po’ nei fienili. Sono arrivato a casa e mia madre era lì, ha visto arrivare me e non ha visto poi arrivare il mio vecchio.

Lui so che appunto è andato a Mauthausen e dopo l’hanno ammazzato, il giorno preciso non lo so, perché non sono riuscito a saperlo da nessuno. Sono andato appunto la settimana scorsa, sono andato là in pellegrinaggio perché per tutti questi anni non ho mai avuto il coraggio di andare su, non me la sono sentita. E’ da rimproverarmi, su questo d’accordo, lo capisco, ma non ce la facevo. Stavolta no, mi sono deciso, dico: “Vecchio mio”, perché quando mangio, tra l’altro, ho la fotografia del mio vecchio, ce l’ho davanti. Io sono da solo, ho la fotografia del mio vecchio e della mia vecchia davanti alla tavola della cucina, tutti e due, così che ce li ho lì tutto il giorno.

Allora dico al mio vecchio: “Stavolta vengo, stavolta vengo” e sono contento di essere andato, anche se sono ancora un po’ nei pasticci, non sono ancora uscito. La visita è stata una roba, come se mi avessero segato a pezzetti. Quello che non ho visto dentro… Mi figuro quei disgraziati cosa devono aver subito quando sono stati presi e portati lì dentro.

Ho visto i forni crematori. Hanno messo alcune fotografie che qualcuno ha fatto e ha salvato dalla distruzione, ingrandimenti così. Carri pieni di gente magra così, morti, mezzi morti e li stavano portando verso i forni. Ecco, per dire, roba del genere, sono uscito fuori da lì che ero fuori dalla grazia di Dio. Sono andato a vedere Gusen proprio e ho visto i forni crematori, ho visto le camere a gas, ho visto l’animassa che ti porta. Dopo pochi giorni fa ho visto Hayder seguito da folle osannanti e non vi dico cosa ho pensato, perché non è il caso, il turpiloquio non va bene.

D: Milo, scusa.

R: Dimmi.

D: Perché hanno arrestato il tuo babbo?

R: Adesso ti spiego questa cosa, che fa pensare proprio alla gente come può essere a volte. Mio papà con alcuni dei suoi coetanei, aveva quarantanove anni quando l’hanno preso, si erano buttati dentro, perché mio papà aveva fatto la Grande Guerra completamente dal primo all’ultimo giorno, per cui i tedeschi gli stavano qua e si era buttato nel Comitato di Liberazione.

Erano sette od otto che avevano fatto questo gruppetto, in casa non sapevamo niente e compagnia bella. Se non che si è infilato dentro uno italiano, il quale ha finto di essere dentro così e poi li ha denunciati tutti. Allora un giorno che ancora eravamo qui alle SS in Corso Porta Nuova ci hanno portato fuori a dare una mano, perché c’era il bombardamento, tirare via un po’ di macerie. Stavamo tutti e due andando insieme con gli altri, mio papà mi ha detto: “Ehi, Milo, attento. Guarda quello lì col cane. Guarda bene”. Io lo guardo bene, fissato, fotografato. “Quello è quello che ci ha fatto la cavalletta a tutti”. Quando sono tornato a casa l’ho cercato per un anno. Non so se avete visto quel film con Sordi, quando gli ammazzano il ragazzino, che poi va fino a che becca quello che…ecc… e’ “Un borghese piccolo piccolo”, mi pare che fosse. Faceva la stessa fine. Per un anno per tutte le strade ero lì che mi guardavo intorno, ma o era andato via o… Non l’ho più visto, non ho più saputo niente. Questa è la vecchia storia.

D: Quindi il tuo babbo faceva parte del gruppo…

R: Il Comitato di Liberazione di Verona.

D: Tu invece non sapevi nulla?

R: No, non sapevo niente. Ero un tataro qualsiasi, mio padre se n’è guardato bene dal parlarne a casa, perché altrimenti mia madre gli avrebbe fatto l’inferno. Allora in casa non sapevamo niente. Li hanno beccati tutti e sono crepati tutti, li conoscevo anch’io. Per fortuna hanno fatto un interrogatorio anche stringente, ma non potevo confessare, perché non avevo né fatto né pensato né niente. Ero un ragazzotto, uno stupidotto, non è che avessi delle mire a dire… Se ne sono probabilmente accorti e ne hanno tenuto conto forse, non so, perché non mi hanno cacciato in quel pasticcio, mi hanno lasciato lì fino alla fine della guerra.

D: Milo, cosa c’era su al Forte San Leonardo?

R: Niente, c’era un gruppo di SS e basta. Noi eravamo in una cella, qualche volta ci facevano prendere un po’ d’aria in alcuni passaggi che hanno lì dentro liberi. Nel forte non c’era niente, comandi, compagnia bella. Nemmeno in San Mattia. Prigioni erano, così. Ci hanno tolto dalla città e ci hanno messo là.

D: Quando vi hanno prelevato per partire per Bolzano, dove vi hanno caricato?

R: Eravamo al San Mattia, l’autocarro è venuto lì, ci ha fatto montare e poi è partito, siamo andati fin là.

D: Siete arrivati al campo di Bolzano?

R: Sì. Siamo arrivati direttamente al campo.

D: Eravate in tanti?

R: Parecchi. Non so dirti quanti, ma credo così adesso, la stima mia può essere…ma penso che dovessimo essere intorno al migliaio. Almeno credo. Io ero il numero 8.718, mio papà 8.717.

D: Durante il trasporto su a Bolzano il camion non si è mai fermato? Era un camion solo?

R: Un camion solo e basta, c’erano un paio di motociclisti, elmetto fin qua e basta. E’ andato via così.

D: Siete arrivati di sera su a Bolzano?

R: No, c’era ancora chiaro. Pomeriggio senz’altro, però c’era ancora chiaro. Ci hanno assegnato ai vari blocchi, io ero al blocco B, c’erano due grandi capannoni, erano separati per lettere, A, B, C, D, E, F era quello delle donne. Io sono stato al blocco B fino al momento che hanno aperto il campo.

D: L’immatricolazione lì a Bolzano ve l’hanno fatta subito?

R: Il giorno dopo credo, sì, sì, immediata. Col numero, triangolo rosso e il numero in bianco, 8.718.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: No, mi hanno lasciato quegli stracci che avevo. In casa non mi hanno lasciato neanche vestire praticamente, ho infilato un paio di pantaloni e qualcosa addosso, basta. Non avevamo niente, così proprio… “Weg, weg, komm, komm” e basta. Insomma, fatti cosa, a dire: “Un momento”, no, no. Come adesso, fai conto.

D: Ascolta, dentro nel campo cosa ti ricordi? Altre persone, altri amici? Parlavi delle donne.

R: Sì, il blocco delle donne era appunto il blocco F. Alla mattina per esempio avevi il momento che potevi stare sul cortile, potevi stare anche fuori dai capannoni, nessuno ti rompeva le scatole. C’è stato un solo episodio di un ragazzo di Milano, che avevano mandato fuori una squadra per pulire un po’ di macerie ed era andato fuori anche lui. Dopo al ritorno non l’avevamo visto e abbiamo sentito, c’era una specie di fabbricato in fondo vicino ai blocchi nostri, e abbiamo sentito per un paio di giorni delle urla mica male. Deve avere preso una pestata. Di fatti poi è uscito, aveva segni dappertutto. Ma è stato l’unico episodio però che ho visto.

Lì a Bolzano non è successo niente, porco cane. Non è successo assolutamente niente angherie, violenza. Niente. Alla mattina sveglia presto, tutti fuori in cortile, cappelli giù, via, cappelli giù e il momento di salutare la guardia. Poi ti davano un po’ di sbobba, mezzogiorno ancora un po’ di sbobba, questo pagnocchino infernale e la sera qualcosa d’altro. Insomma, onestamente fosse stato solo Bolzano avrei detto: “Va beh, una vacanza andata male”. Non di più, sul serio.

Non immaginavo allora che i campi di là fossero tutt’altra cosa, capisci? Dopo l’ho saputo, caspita, quando sono tornato a casa, quando cominciava a tornare della gente, ho cominciato a leggere e ho cominciato a sentire. Dio Cristoforo, dico, ma com’è possibile? A Bolzano non è successo niente. Non hanno ammazzato nessuno, non hanno pestato nessuno e non hanno messo in croce nessuno. Guarda che ci ho fatto dentro un paio di mesi.

D: Ti ricordi se assieme a te nel campo di Bolzano c’erano anche dei religiosi?

R: Erano quelli più codardi di tutti noi messi assieme. Mi ricordo che c’erano un paio di frati, era uno, un frate di Via Barana. Quello era sempre a chiedere conforto, anche a me. Lui sarà stato più anziano di me, avrà avuto a quei tempi quarant’anni. Ero un ragazzetto così. “Oddio, Milo, cosa dici, che qua, che là…”. Ma dico, padre, a un certo momento, santo cielo, doveva essere lui che consola, porca di una miseria. “Ma qui, ma là, hai visto qua, hai visto là”. Tutti i giorni una balla di questo genere. Dopo lo schivavo come la peste perché non è possibile, Sant’iddio.

Uno qualsiasi può avere le sue idee, ma non un religioso. Doveva essere lui a confortare noi o dovevo essere io a diciannove anni che consolavo lui? Porca miseria, no scusa. Di fatti lo schivavo come la peste dopo. Tagliavo corto, gli dicevo: “Si, va bene”. Bon, andavo via.

D: Ti ricordi come si chiamava questo padre?

R: No, purtroppo… Ho cercato di ricordarlo ancora, ma non sono più stato capace di ricordare.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano, hai visto anche dei bambini, dei ragazzetti molto più giovani di te?

R: No. Io no. Direi che fossimo tutti adulti, penso.

D: Ti ricordi del blocco celle?

R: Al blocco celle non sono mai andato. Sì, c’era, è un fabbricato in fondo. Ci sono i due capannoni lunghi messi così con A, B, C, D ecc. e poi in fondo c’era un fabbricato laterale così, quello era solo per i tedeschi. Lì so che c’erano le celle, perché quel milanese lì l’hanno suonato lì dentro. Ma lì non hanno portato nessuno, è l’unico che hanno portato dentro nel periodo che sono stato lì io. Anche non potevi fare ribellioni di nessun genere, cosa volevi fare?

D: Ma parliamo dei due ucraini. Te li ricordi?

R: Sì. C’è stato recentemente qualcuno a Verona che mi ha chiamato per vedere, perché avevano recuperato sembrava una foto di questi ucraini. Dico, a cinquant’anni di distanza non ce la faccio mica. Però erano quelli addetti al pestaggio e anche nelle piccole cose, perché per esempio la mattina in adunata, chiamiamola così, se c’era da dar qualcosa sempre grintosi con le mani.

Poi se c’era da darti un calcione, quello te lo davano volentieri, perché magari un centimetro là non è che ti dice: “Weg, weg”. No, ti dava un calcione. Quella era proprio l’abitudine. Tutti e due giovani, questi figli di buona donna, erano quelli proprio addetti. Per fortuna la politica del campo non era quella, perché se appena appena avessero avuto un po’ di libertà con quei due lì venivano fuori giostre da mettersi le mani nei capelli. Appunto due o tre mesi fa mi hanno chiamato perché mi hanno fatto vedere. “Caspita”, dico, “strano che abbiate recuperato le fotografie adesso, è passato troppo tempo, non potrei”, dico. “Non posso, mi spiace”.

Dice: “Sa, abbiamo saputo che…”. “Sì, lo so, c’ero”. Proprio sarebbero stati i due addetti che se il comandante del campo fosse stato una carogna o avesse avuto ordini diversi, gli addetti erano loro due. Proprio ce l’avevano nel sangue, li vedevi da come si muovevano, da come facevano. Comunque non è successo, lì da noi non è successo niente.

D: Milo, ti ricordi che c’era una donna soprannominata “la Tigre”?

R: No. No perché lì al blocco F qualche volta ci avvicinavamo per chiacchierare un po’ con prudenza, perché non volevano mica. Sai, scrivevamo così e non so dirti come fosse o se c’era qualcuna in particolare. Erano là tutte ammucchiate in questo baraccone.

D: Milo, attorno al campo c’era un reticolato e c’erano delle sentinelle su delle garitte?

R: Sì, sì. Agli angoli del campo sì.

D: Ascolta, tu sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano per diversi mesi?

R: Per lo meno guarda, fatti i conti adesso così, dei giorni ovviamente non riesco a fare il conto totale, ma penso di avere fatto un due mesi, due mesi e mezzo lì dentro. Fino al primo maggio.

D: Cosa facevate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Niente. Non ci facevano lavorare. Eravamo lì, eravamo dentro nel nostro blocco a ciondolare, non ci hanno fatto lavorare. Qualche volta hanno preso qualcheduno a caso, lo portavano fuori, ma quando c’era qualche bombardamento magari che c’erano macerie da portare via. Così sporadico però, ma a noi come prassi del campo non ci facevano fare niente. Eravamo lì.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno del blocco B, oltre al tuo babbo?

R: Sì, c’era Zanini che conoscevo ancora prima. Dopo, aspetta, chi c’era ancora… Accidenti, adesso dovrei fare un po’ mente locale, abbastanza difficile sai, perché di tempo ne è passato un fracco. Ricordo Zanini perché era il cosiddetto capo blocco nostro, era uno che teoricamente dava ordini a noi, va beh. Era un insegnante anche lui tra l’altro.

Dopo, un altro di Parma, un ragazzetto, Pietra, me lo ricordo ancora, un cognome stranissimo, Pietra. Ha detto: “Qui voglio scappare”. “Stai attento”, dico, “perché hai visto cos’è successo a quell’altro”. “Sì, ma io qua dentro non ci sto mica”. Avevamo fatto un po’ amicizia perché eravamo vicini di branda. Dopo, qualche altro, ma sai, è passato mezzo secolo.

D: Mentre voi del blocco B non siete mai usciti dal campo, altri uscivano dal campo per lavorare?

R: Sì, ti ho detto, qualche volta ma sporadicamente, molto poco. In generale era dopo i bombardamenti. Basta, ma non era che appunto fossero fuori per lavorare e tornare dentro alla sera, no. Episodi proprio, e basta, capisci? Magari volava una bomba, raccoglievano trenta o quaranta persone e le portavano fuori, davano una mano a pulire la strada, tirare via macerie e poi tornavano lì. Nessuno lavorava fuori dal campo di Bolzano, nessuno.

D: Ti ricordi se al campo, tu parlavi prima che avevate il triangolo rosso, c’erano altri triangoli di altri colori?

R: Triangolo giallo, che doveva essere quello degli ebrei se ben ricordo. Mi pare che fossero solo quei due colori lì. Mi pare però. Il rosso era teoricamente per loro per i politici, perciò era il nostro. Gli ebrei invece avevano il triangolo giallo, perché difatti hanno fatto un’infornata.

E pensa che dopo che hanno fatto la tradotta di mio padre, dopo dieci giorni circa hanno fatto una tradotta di ebrei, soli ebrei. Li abbiamo visti, eravamo in cortile, chiamati tutti, altre duecento persone o più. Li hanno portati, erano partiti, il giorno dopo sono tornati lì perché avevano già bombardato la linea gli americani. Da quel giorno lì hanno continuato a bombardare a Bolzano Brennero, non è più andato via nessuno. Se mio papà tardava un pelo, sarebbe ancora qui. Proprio l’ultima tradotta, porcaccia di una miseria, l’ultima. I disegni della Provvidenza sono quelli che sono, porco cane.

D: Milo, il gruppo di tuo padre ha lasciato il campo come?

R: Questo non lo so più, perché sono cose che sono avvenute dopo, io non lo so. A un certo momento li vedevi partire, tra l’altro sono morti dopo, dunque non so. Li chiamavano… Non so dirtelo questo proprio.

D: Non li hanno caricati su dei camion dal campo di Bolzano?

R: No, perché, vedi, l’ultima infornata è stata quella di mio padre e ho visto lui andare via così e basta. Non so con cosa l’abbiano portato là. Dopo non ho più visto niente, capisci? Hanno tentato qualcosa, ma non sono più riusciti a far niente, perché non potevano più. Le strade ormai erano impercorribili, perché gli americani avevano cominciato a fare sul serio, capisci? Sicché non so se li avevano portati con camion, boh. Sì, probabilmente con camion, senz’altro. Perché la distanza non è molta tra l’altro. Eri dentro, non sapevi niente.

D: Milo, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano tu, il babbo e gli altri compagni avevate avuto l’occasione di poter scrivere o di ricevere pacchi o posta?

R: Qualche tentativo c’è stato, ma arrivava il pacco, la carta e qualche pezzetto dentro, il resto tutto… Ti davano un cartoccetto così. Scrivere neanche a parlarne, c’è stato proprio silenzio fin quando sono tornato a casa.

D: Un’altra cosa, tu sapevi che dentro all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di deportati che lavoravano per la Resistenza interna nel campo?

R: No, non te lo so dire. Anche perché io penso che sarebbe stato estremamente difficile, perché lì armi non ce n’erano ovviamente, avevi la casacchina indosso e basta. La branda era un cuccio messo lì col pagliericcio e basta, non avevi armadietti, non avevi un accidente, per cui non penso che potessero far qualcosa. Avere l’intenzione di fare senz’altro, però al lato pratico, praticamente non era possibile. Sarebbe stato come in un campo di nudisti, che vanno a scassinare casseforti. Con cosa? Con le unghie?

Per cui anche se c’era l’animo senz’altro, mi pare che c’era l’animo, ma non potevi attuare. Ogni tanto ti capitavano dentro al blocco, davano un’occhiata in giro qua e là, per cui sapevi benissimo che se ti beccavano con un pezzetto di ferro così la passavi brutta. Allora nessuno poi faceva niente. Intanto non sapevi chi te le poteva portare, perché i contatti con l’esterno… Da fuori cosa vuoi, che entrasse uno col pacchettino di roba nascosto nella tasca? No di sicuro. Per cui non c’era niente lì, eravamo così come sono io adesso.

D: Quando hai saputo della morte del tuo babbo?

R: Ce l’hanno comunicato…intanto, visto che non tornava, ho immaginato subito. Qualche mese dopo ci hanno dato la conferma ufficiale, morto a Gusen e basta. Si fermavano lì all’Adige, non mi ricordo più adesso il posto, un attimo… San Giorgio, che avevano messo fuori le fotografie di tutti quanti.

Avevano messo fuori la fotografia di mio papà, lì arrivavano dei deportati e allora si chiedeva, c’era tutta una specie di bacheca fatta così. Sono andato giù per dei mesi, fin quando si è diradato completamente il ritorno di gente, nessuno sapeva un tubo. Per cui quelli che erano con lui sono crepati con lui. La notizia precisa non l’ho avuta da nessuno, data presunta della morte e basta, niente di più.

D: Scusa, questo San Giorgio dov’è?

R: San Giorgio è in riva all’Adige. Qua a Verona, quando vieni, che so io, da Ponte Navi, tu costeggi l’Adige, ad un certo momento vieni verso borgo Trento, quella zona lì si chiama San Giorgio. Dove si aprono le strade per borgo Trento.

Lì arrivavano a volte camion di gente che era deportata là, lavoratori e compagnia bella arrivavano giù. Avevano messo…c’era un muro e avevano messo fotografie, dopo andavano là per sentire se qualcuno veniva dai campi di là. Ho fatto settimane lì, poi mi sono stufato perché capivo che non riuscivo a combinare niente, allora basta. Sono andato a sentire qualche notizia e le ho avute dopo dall’associazione.

E’ stato lì, è morto a Gusen, la data precisa non si sa ancora, perché lì facevano l’infornata, non è che tenessero conto. Probabilmente tenevano conto del numero giusto per fare un bilancio matematico, ma non di più. Adesso hanno pescato fuori sulla Gazzetta Ufficiale, la morte di mio papà col giorno, sarà vero, non sarà vero… Non lo so. Mi hanno dato un giorno, poco tempo dopo che l’avevano portato via, il giorno è risultato neanche due settimane dopo che era andato via da me.

Probabilmente sarà anche giusta, probabilmente qualche dato l’avranno trovato magari in mezzo alla fureria di questi campi, forse. Tanto lo spazio era ristretto, che fosse quella settimana o quella dopo non cambia niente, non è un anno di differenza. Purtroppo sono stati quei due mesi lì, quel mese e mezzo lì. Bastava un poco di niente e sarebbe tornato a casa anche lui, porca vacca. Scusate il termine.

D: Milo, quindi lì a San Giorgio non c’era un ufficio però?

R: No, era lo scalo di quelli che venivano giù da là. A Verona, magari portavano giù anche quelli che erano andati a lavorare, tante belle storie. Scaricavano giù lì a San Giorgio poi ognuno andava per i fatti suoi, non era una zona prestabilita. Era soltanto per abitudine, si andava lì, allora c’era sempre gente, si chiedeva, si faceva vedere la fotografia. “Per caso, eri là, hai visto qua?”. Sono andato avanti un sacco di tempo, dopo ho visto che non serviva a niente, ho smesso e si era rarefatto anche il movimento di gente che veniva in giù, ormai si era già scaricato il fiume grosso.

D: La tua Liberazione, come siete stati avvisati voi?

R: Niente, una mattina ci hanno chiamati fuori all’appello. Uno ha tradotto: “Adesso si esce dal campo, si esce a gruppi, ci sono gli autocarri che portano via”. Basta. Bene. Allora sono montato su uno degli autocarri e lì uno scaricava qua, uno di là, uno in là, uno in qua in modo da evitare l’afflusso, perché se la sono vista brutta in quel momento lì. Se la sono vista brutta veramente. Noi appena scaricati, chi si mette lì a raccogliere gente per tornare indietro? Figurati. Avevamo solo voglia di menare le tolle. Abbiamo incominciato a camminare in giù, c’era una fiumana di gente continua che andava in giù.

D: Era maggio dicevi, no?

R: primo maggio.

D: Tu sei ritornato da solo?

R: Sì.

D: A piedi?

R: Ho schivato completamente la compagnia per un semplice motivo, che quando eravamo sul mio camion, eravamo sull’autocarro scoperto, avevamo già incominciato a incrociare le prime retroguardie tedesche che venivano giù, c’è stato uno sciocco. C’è la signorina, non volevo dire la parola. “Adesso è finita, eh!”. Dio Cristoforo, come gli sono saltato addosso.

“Se muovi ancora un dito ti strangolo, cretino d’un cretino. Ma ti accorgi che sono ancora armati, hanno le armi impugnate in mano ancora, perdincibacco! Un gesto così ci sparano addosso, adesso che è finita, cretino”. “Non credevo, non credevo”. Si è messo lì in un angolo, non ha più sbuffato. Stavo strangolandolo, porca vacca. Va bene. Allora la discesa me la sono fatta per conto mio, dove c’era il gruppo o mi fermavo o andavo avanti o mi spostavo o mi sedevo da una parte della strada.

Niente, l’ho fatta tutta da solo. Almeno io vado via a testa bassa, basta. Quegli altri difatti non mi hanno mai rotto le scatole, sono andati su incavolati, perché in piena ritirata, figurati. Però perlomeno io non li ho stuzzicati. Quell’altro così gli ha fatto, madonna mia, mi aspettavo una raffica di mitra secca. Dico, crepare proprio adesso a guerra finita no ragazzi. Allora solo soletto, altri mi dicevano: “Vai giù anche tu?”. “No, no, mi fermo”. “Di dove sei tu?”. “Sono arrivato, sono qui”.

Tutto così, piano piano. Ho fatto tutta la Val d’Adige, conosco abbastanza bene la Val d’Adige. Sono centocinquanta chilometri, non è che fossi molto allenato, un po’ per la fame, un po’ per tutto, non è che fossi proprio in condizioni splendide. Però sono arrivato da mia madre, poveraccia. Era ridotta uno straccio. Mi ha visto arrivare dalla strada, perché era seduta sul poggiolo. Mi hanno detto che stava sul poggiolo delle ore tutti i giorni. Ad un certo momento: “Oddio, Miletto, oddio sei tu?”. “Sono io, sono io”. Allora un abbraccio di tre quarti d’ora.

D: Milo, ci sono degli altri particolari che adesso ti sono venuti in mente sia dell’arresto, della carcerazione o della tua deportazione nel campo di Bolzano?

R: Più o meno a grandi linee ti ho detto tutto. No, direi di no. La mia è stata… Si fosse risolta così anche quella del mio vecchio, sarebbe stato niente. Nel mio caso a parte il morale, quello che ti sentivi dentro, la bomba dentro, però fisicamente io non ho sofferto.

Fame, un po’ di fame, va beh, diavolo, capirai bene cos’è. Botte non ne ho prese, la fame vera non l’ho fatta, una cuccia per dormire ce l’avevo, non mi spaccavano l’anima per lavorare perché non mi hanno fatto lavorare. Per cui a conti fatti avevo il coso dentro, d’accordo, però sofferenze fisiologiche io obiettivamente non ne ho avute. L’ho sempre detto questo. Non è che debba vantare adesso, chi è venuto giù da Bolzano raccontando sono balle, balle sacrosante. Chi s’è fatto grande con un po’ di sofferenze, qualcuno lo conosco anch’io. “Perché noi, sapessi, ci facevano..”. Non ci facevano una madonna, non ci hanno fatto niente. E’ stata una segregazione e basta, non di più.

Geloni Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Italo Geloni. Sono nato a Seravezza in provincia di Lucca il 23 novembre 1924.

Ho fatto il militare nella Marina. Sono stato imbarcato su un cacciatorpediniere poi, per motivi particolari, siamo stati destinati a terra. A terra era La Spezia S. Bartolomeo. Ero in contatto costantemente con gli antifascisti perché era appena passato il 25 luglio; con gli antifascisti della località Pitelli, sempre nella provincia di La Spezia, nel comune Lerici.

Quando è arrivato l’8 settembre arrivarono nella zona di S. Bartolomeo anche i nazisti. Riuscimmo a scappare, ci volevano prendere tutti ma noi riuscimmo a scappare e andammo nelle formazioni partigiane della zona. Poi scesi giù in città ad operare.

Il 2 luglio 1944 in via XX Settembre numero 50 ci fu un’irruzione nella casa da parte delle SS e dei fascisti. Fummo arrestati, uomini e donne, e portati alla Casa del Fascio, chiusi in un gabinetto di decenza. La sera al buio fummo portati nel carcere di Villa Andreini a La Spezia.

D: Italo, dove ti hanno arrestato? In che località?

R: A La Spezia in Via XX Settembre 50, l’avevo già detto.

D: Cosa c’era in villa Andreini a La Spezia?

R: C’era il carcere; era un carcere molto brutto.

D: Stavi dicendo che era un carcere molto duro?

R: Era un carcere più che duro. Tanto è vero che, perché non avessimo noi arrestati contatti fra di noi, si veniva messi soli nelle celle al sicuro, distanti l’una dall’altra almeno di due celle in modo da non aver la possibilità di parlare. Solo uno mi chiamò e mi disse: “Italo, mi raccomando” anzi, mi disse: “Olati”, che è il mio nome anagrammato da partigiano, “Olati, mi raccomando anche se ci ammazzano stiamo zitti”. Io risposi: “Stai tranquillo che io sto zitto e non parlo”. E di fatto così fu, io non ho parlato e lui parlò. Parlò dopo e fece arrestare una seconda parte di partigiani e di antifascisti. Si è ammazzato nel ’46, si buttò sotto il treno perché la mamma e la sorella finirono nel campo di sterminio di Ravensbrück. Dopo quattro giorni che eravamo in carcere si fu interrogati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che era stato ricostituito dopo l’8 settembre, e ci dissero che noi uomini saremmo stati condannati a morte e le donne a trenta anni di galera.

D: Poi cosa è successo?

R: Poi è successo che non ci hanno ammazzato per nulla anche in virtù di quello che aveva parlato.

Avevano preso questo impegno siccome c’era anche la mamma e la sorella. Ora la mamma è morta, da poco, aveva quasi 100 anni, poverina.

D: Ti ricordi come si chiamavano?

R: Grosso modo, ma certi nomi non posso farli, è l’impegno preso. Proprio per quello che aveva fatto il figliolo e fratello.

D: Italino, lì siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti venti giorni.

D: E poi?

R: Poi un bel giorno ci hanno radunato tutti insieme in una cella grande e la mattina alle 5 siamo partiti per Genova, a Marassi. Entrati a Marassi eravamo scortati con camionette, motocarro e motocarrozzette armate di mitragliatrici avanti e indietro perché avevano paura che quando si passava nella zona partigiana si fosse attaccati per liberarci. Invece non ci vide nessuno, ci si fermò soltanto ad un ponte, ci permisero con i soldi che avevamo di comperare frutta e verdura, per mangiare e per far colazione.

Poi arrivammo a Marassi. Marassi era tutta piena, era domenica pomeriggio.

Era tutto pieno di soldati repubblichini armati fino ai denti, sui tetti c’erano le mitragliatrici e giù c’erano anche i mortai. Arrivammo e ci diedero il numero di matricola; a me diedero il 1.121 e l’ultimo aveva il 1.133, 1.134. Nel frattempo arrivarono delle SS, degli ufficiali: dicevano di aver bisogno di due da fucilare e, dato che eravamo stati condannati a morte e poi salvati, dissero: “Ci date due di questi”. Anziché prendere i primi due presero gli ultimi due, il 1.133 e il 1.134. Li portarono alla fucilazione insieme ad altri cinquantotto di cui avevano bisogno secondo le esigenze di poterli fucilare. Non mi ricordo come si chiamavano. Poi, lì, conobbi altri compagni.

D: Nelle carceri di Marassi di Genova quanto tempo sei rimasto, Italo?

R: Una quindicina, venti giorni; non di più, ora la date non me le ricordo.

D: E dopo?

R: Dopo siamo stati portati a S. Vittore a Milano, primo raggio, che funzionava per i deportati politici, prigionieri politici. Eravamo al terzo piano, cella numero 2, eravamo in dieci.

Un bel giorno si arrivò al 15 agosto, anzi vorrei ricordarlo perché è giusto. C’era un personaggio, che anche oggi è un personaggio, che si chiamava Mike Bongiorno il quale faceva lo scopino in carcere anziché stare nella cella addetta all’infermeria, cella di cui, come cittadino straniero, avrebbe avuto diritto e nella quale si stava molto meglio. Io avevo bisogno di determinate cure per dolori che avevo nelle gambe e nelle braccia, avevo bisogno di iniezioni. Quest’uomo convinse il medico del carcere, che era sottoposto ai nazisti, a venire a farmi tutti i giorni per una settimana le punture e me le fece. E mi sono sentito bene, anche dopo quando sono arrivato al campo di sterminio.

Poi conobbi anche Indro Montanelli il quale non è che si fosse comportato un granché bene. Ci avvertiva quando le cose andavano male, questo sì, era vero; però si seppe che lui la fine che si è fatta noi non l’ha fatta. Fu liberato perché la mamma, che era la responsabile nazionale delle donne fasciste, fece liberare il figliolo dal carcere. Non è che lui abbia fatto qualche cosa per noi.

C’è stato poi quando siamo partiti da Milano. La notte c’era stato un bombardamento e noi si urlava “Arrivano gli inglesi arrivano gli inglesi”, si sentiva all’interno del carcere un trambusto. Venivano radunati tutti quelli del primo raggio, portati fuori, caricati su dei mezzi, su autopullman e su un camion 26 con rimorchio. Le ultime celle, nell’ordine di quaranta, quarantacinque persone, andammo sul camion e davanti a noi c’erano i fascisti con un fucile mitragliatore piazzato verso di noi; partimmo per Bolzano.

Arrivati a Bolzano fummo assegnati ad un capannone insieme ad altri che c’erano già, i quali erano tutti comandanti partigiani, partigiani antifascisti che erano stati in carcere. Avevano chiuso, anche davanti, col filo spinato; era il blocco B mi pare.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Sì, 2.852.

D: Italo, quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Dal 16 agosto al 4 settembre, il giorno che siamo partiti.

D: Ti ricordi se c’erano delle donne?

R: Sì, diavolo. Ce n’era una che addirittura mi obbligava a spogliarmi in presenza sua per lavarmi le mutande e la canottiera che avevo addosso. Maria si chiamava, era anziana.

D: Italo, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, padre Giannantonio, prima di tutto, mi ha voluto tanto bene. Dopo lì, l’ho rivisto a Dachau. Il giorno stesso che mi hanno liberato era accanto a me che mi assisteva, lui e don Fortin, parroco di Terranegra di Padova.

D: Lì sei rimasto fino a settembre?

R: 4 di settembre.

D: E poi?

R: Quindi siamo partiti per Flossenbürg.

D: Cioè tu non sapevi dove andavi?

R: No, niente, si andava in Germania.

D: Italo, dal campo di Bolzano per la partenza dov’è che vi hanno portato?

R: Ci hanno portato di fianco alla conceria dei tabacchi, mi pare che fosse questo. Comunque c’era un laboratorio e c’erano delle donne che dalle finestre, con delle pezze di canna o di ramo, ci davano sigarette, fiammiferi, pane, frutta, mele in modo particolare ce n’erano tante. E poi si partiva.

D: Dopo siete andati sui vagoni?

R: Siamo andati sui vagoni e invece queste donne dalle finestre ci davano tutto.

D: Dicevi Italo siete partiti?

R: Sì, siamo partiti.

D: Quanto è durato il viaggio, più o meno, te lo ricordi?

R: Quattro giorni. Per arrivare a Flossenbürg.

D: L’arrivo a Flossenbürg come te lo ricordi?

R: Tremendo. Si arrivò alla stazione di Flossenbürg giù in basso, Flossenbürg campo era su in alto. Ci inquadrarono e ci fecero passare; fu lì che vedemmo per la prima volta le nostre divise e i nostri compagni che lavoravano e che erano deportati all’interno del campo. Si arrivò all’ingresso, erano quasi tutti uguali, abbiamo rivisto poi anche quello di Dachau. Andammo dentro il piazzale, mano a mano che si passava c’era un SS del campo con un gran bastone, lungo lungo, che mano a mano ci picchiava in testa. Io ero fortunato perché bassino; accanto a me c’erano dei compagni che le prendevano anche per me perché io ero basso. Si arrivò nel piazzale.

Ci fecero spogliare nudi. Ci fecero mettere la roba dentro ad un sacchetto e ci fecero scrivere quello che c’era dentro. Ci dicono che poi ce l’avrebbero riconsegnata ma io non ho avuto più nulla, né visto più nulla, nemmeno i soldi che avevo; avevo 130.000 lire dell’epoca che non erano solo mie ma anche degli altri compagni: non ho rivisto più nulla. Poi così, a caso, presero dieci di noi e li impiccarono davanti al campo russo cosiddetto. Poi ci portarono all’interno delle due baracche addette al ricevimento dei deportati che per la prima volta venivano al campo, ci presentarono al capo della zona che era un ex barone tedesco che aveva ammazzato tutta la famiglia e che per punizione avevano messo a fare il guardiano all’interno delle baracche, le due baracche della quarantena.

Giù, un pochino più in basso, c’era il forno crematorio, e noi si sentiva, sempre, costantemente, il latrato come se fossero dei cani e invece erano le cornacchie cra-cra-cra-cra che sentivano l’odore della carne bruciata. Si vedevano passare, lì in fondo, le barelle con i morti che venivano portati al forno crematorio.

D: L’immatricolazione quando te l’hanno fatta a Flossenbürg?

R: Dopo una decina di giorni.

D: Il tuo numero qual è?

R: Questo: 21.569. Me lo ricordo sempre, anche in tedesco. Ogni volta che mi chiamavano mi chiamavano in tedesco e se non rispondevo erano botte. Siccome le botte non le volevo perché ammazzavano con quello a forza di legnate, avevo imparato anche a rispondere in tedesco.

D: Dopo la quarantena cosa è successo?

R: Un bel giorno ci hanno chiamati e ci hanno portati al Wäscheraum: ci hanno fatto fare il bagno. Ci hanno spogliato. Ci hanno levato tutto quello che si aveva addosso che poi era una camicia e un paio di zoccoli olandesi a barca. Ci hanno portato dove c’erano i sarti e hanno dato a tutti la divisa del deportato. Ci venne messo il numero di matricola sul petto, sul berretto e qui sui pantaloni. Il giorno dopo ci hanno fatto andare giù a Flossenbürg.

Ci hanno fatto montare sul treno e ci hanno portato a Hersbruck, a 17 chilometri da Norimberga. Quello è stato il primo vero campo di sterminio. Con me c’era padre Giannantonio, Teresio Olivelli, Becciu Salvatore, Pani Mario e altri, di cui ora magari non ricordo il nome.

D: A Hersbruck eri addetto al lavoro?

R: Sì, tutti. Il giorno dopo ci assegnarono subito un lavoro. A me assegnarono allo Stollenbau in montagna, nelle gallerie; dovevo andare nel pomeriggio. Sennonché altri, alla mattina, come Pani Mario sardo partigiano li avevano assegnati al Kartoffel: Kartoffel sono patate. Chiamavano Pani Mario e lui rispondeva: “Ma io non ci voglio andare perché c’è quel mio amico, siamo paesani, voglio stare con lui, non ci voglio andare in quel commando”. Io gli faccio: “Ma sai che lì ci sono le patate” e lui: “Non mi interessa, voglio andare con lui”. Allora venne Teresio Olivelli e mi dice: “Senti, anche se ti danno due o tre ceffoni, pigliali, ma vai al comando Kartoffel e dì che l’italiano sei tu” e così feci. Quell’italiana invece dei due ceffoni per andare al comando Kartoffel la sera avevo già mangiato sei patate così grosse, cotte, non crude.

D: Italo, per andare dal campo di Hersbruck alle gallerie con cosa vi portavano?

R: A piedi.

D: Erano vicine o distanti?

R: 8 chilometri.

D: Tu cosa facevi dentro nelle gallerie?

R: Lì ci sono andato dopo, prima sono stato al Kartoffel. Spingevo vagoncini, li caricavo e li scaricavo insieme agli altri naturalmente, quei pochi che eravamo addetti.

D: E finito il lavoro?

R: A piedi si ritornava al campo. Si veniva frugati da tutte le parti per vedere se c’erano cose che non si dovevano avere. Poi ci mandavano in baracca. Nella baracca come si entrava bisognava stare attenti a non avere nemmeno un granellino di sabbia perché si sporcava.

C’era il capoblocco con i suoi scugnizzi coi bastoni e prendeva a bastonate tutti. Poi io avevo capito che non dovevo dormire in basso ma era meglio in alto perché per arrivare da me facevo in tempo anche a scappare. Difatti stavo su al quarto piano a dormire. Poi, la mattina, quando ci si svegliava non è che dicevano: “Oh oh svegliatevi che è l’ora”! Venivano coi bastoni e con gli sgabelli e sgabellate e bastonate a tutti. C’erano anche quelli che ci morivano, per i colpi in testa. Quando erano passati tutti scendevo ed ero tranquillo, cercavo di fare il furbo.

D: A Hersbruck quanto tempo sei rimasto?

R: Da settembre fino a marzo, quando poi siamo partiti per Dachau.

D: E’ stato smobilitato tutto il campo?

R: Sì tutto il campo.

D: Stiamo dimenticando un passaggio …

R: Il Kartoffel fu molto importante per me e per i miei compagni. Con un filo di ferro piegato in cima e in fondo infilavo le patate e me le mettevo nella gamba dei pantaloni perché anche se mi avessero toccato frugavano sempre quassù sulle tasche e io le portavo dentro il campo. Poi le distribuivo a quei compagni che più ne avevano bisogno, anche sulle indicazioni di Teresio Olivelli. Era una gran brava persona. Io distribuivo le patate. Però avevo un compagno veronese che si chiamava Luciano che veniva da Torino e stava in Via Vanchiglia n. 47. Ci sono stato dopo la Liberazione e non ci ho trovato nessuno della famiglia e lui invece era morto. Una volta invece gli portai le patate e lui mi disse: “Dalle a qualche altro perché io fra mezz’ora sono morto”. Eravamo stati insieme anche in carcere, nella stessa cella, e poverino non stava bene di salute.

D: Punizioni non ne hai mai subite?

R: Tante. Tanto è vero che una volta mi volevano impiccare perché avevo cercato di fuggire. Avevo già il cappio al collo, montato sullo sgabello, tesa la corda. Il capitano delle SS, il comandante del campo, guarda e vede dal mio numero di matricola che sono un italiano; mi domanda di dove ero e perché volevo scappare e rispondo: “Perché volevo andare a casa, volevo ritornare in famiglia”. E allora mi guardò un po’ e disse a quell’altro: “Mandatelo via” e difatti mi levarono il cappio. Mi fecero scendere e io me lo sento sempre addosso questo cappio.

D: Italino, e la storia della pietra quale è?

R: No, perché mi avevano messo, appunto perché avevo tentato la fuga, un disco rosso in campo bianco così davanti e di dietro. Non ci capisco perché sai tante cose mi sono passate di mente.

Dopo che avevo tentato la fuga per punizione dovevo portare una pietra sulle spalle.

D: Lavorando lo stesso?

R: Lavorando lo stesso. Poi c’era anche un sottoufficiale delle SS che quando poi andai a lavorare allo Stollenbau mi faceva: “Tu italiano” e mi indicava il forno crematorio che era in fondo al palazzo. “Tu crematorio!” e mi faceva proprio così anche con la mano. Io dentro di me gli dicevo: “Vai, vai, aspetta che poi te lo do io”. Passava sempre in cima al cordolo della montagna e sotto c’era un precipizio di 300 metri. Un bel giorno avevo la pala in mano, gli diedi una spinta e se ne andò di sotto. Non se ne accorse nessuno e morì. I compagni miei, deportati, videro tutto però non hanno mai detto una parola. Nemmeno così, di sottinteso, in modo che gli altri non mi avessero fatto del male; anzi passavano, facevano così, mi strizzavano l’occhio come dire è andata bene.

D: E l’evacuazione dal campo di Hersbruck avviene quando?

R: Nel mese di marzo del 1945. Dopo che ero già stato a Mauthausen, però, per punizione. Insieme a Teresio Olivelli, Becciu Salvatore e ad altri avevamo fondato il Comitato di Liberazione Italiano del campo, in modo che ci si seguisse dal punto di vista politico e di aiuto l’un con l’altro. All’interno del campo c’era anche la Gestapo che funzionava in mezzo ai deportati. Scoprirono un certo numero di deportati di tutte le nazionalità e in duecento un bel giorno ci presero e in presenza a tutti ci dissero che saremmo stati mandati a Mauthausen. Difatti c’erano i camion pronti, ci caricarono sui camion e ci portarono a Mauthausen; blocco numero 8.

Poi si andava a trasporto e comando, si scendeva e si montava le scale, la cosiddetta scala della morte centoottantasei gradini, col peso sulle spalle. C’era una specie di gerla che si metteva sulle spalle, mantenendola in questa posizione con la pietra che si portava in cima in cima sotto le mura del campo. Dopo lì venivano i comuni e i civili a pigliarle e le pagavano alle SS; le SS ce ne hanno fatte tante, centinaia di milioni.

D: A Mauthausen ti hanno portato quando? Te lo ricordi?

R: In febbraio. Fine di gennaio e febbraio del 1945.

D: Poi sei ritornato ancora a Hersbruck o a Flossenbürg?

R: Dei duecento, in quindici giorni, eravamo rimasti in cinque, perché c’era la punizione cui eravamo stati destinati. Noi cinque fummo riportati a Hersbruck. Era il mese di marzo. Dopo pochi giorni, mi pare dopo due o tre, fu evacuato il campo e ci portarono verso Dachau.

D: L’evacuazione del campo come è avvenuta? Vi hanno portato giù a Flossenbürg?

R: No no, a Flossenbürg portarono soltanto gli ammalati, quelli della infermeria e poi furono fatti fuori tutti, lo abbiamo saputo dagli altri. E noi lungo la strada si arrivò a Saal an der Donau, città sul Danubio, proprio sul Danubio. Era una cava dove lavoravano i deportati. Dopo due o tre giorni si riprese la strada e ci portarono a Dachau.

Appena passata la città venne una donnetta, mi sembrava la mia nonna santa. Aveva il grembiulino e sotto il grembiulino aveva un recipiente e dentro il recipiente c’erano delle patate cotte. Mi fa: “Tschüß!” e io: “Auf wiedersehen!” Tirò fuori cinque, mi pare, o sei di queste patate e me le diede, io le mangiai con la buccia e tutto, poi mi disse di distribuirle un po’ anche agli altri. Quando un Kapò la vide, fece la spia alla SS di scorta; la SS andò giù e prese la vecchietta tedesca, la mise di fianco, le sparò in testa e la ammazzò perché ci dava le patate da mangiare.

Poi per la strada non ci portarono più nulla da mangiare le SS. C’era uno, un ufficiale dell’aviazione, che ogni giorno portava a quattro o cinque che gli si erano sempre vicino dei pezzettini di carne cruda. Noi si mangiava anche quello perché si pensava ai cavalli, vacche, cani, gatti; tutti si pensava a queste cose ammazzate coi bombardamenti e mitragliamenti. Invece poi l’ultimo giorno ce lo fece vedere. La levava nelle parti molli dei nostri compagni. “Ah” mi disse: “e te cosa dici?”. “E che devo dire, che io anche se muoio non la mangio più”. Ma almeno così loro avranno cercato di portare la pellaccia a casa sapendo quello che era stato fatto nei campi di sterminio.

D: Poi siete arrivati a Dachau?

R: Siamo arrivati a Dachau. Ci hanno portati subito al Wöscehraum. Infilato in un mastello grande, di quelli da 200 litri con l’acqua calda. Chissà, forse l’acqua calda mi fece effetto: io stavo calando sotto, stavo affogando. I miei compagni mi videro e presi piano a bambinare la cosa. Si dice così nel gergo nelle cave là dove si deve muovere una piastra, un pezzo di marmo, si dice “bambina”. Allora mi fecero rovesciare con l’acqua e camminai almeno una decina di metri con questa acqua.

D: Italo, a Dachau sei stato immatricolato ancora?

R: Sì, non era più quello di Flossenbürg, era 154.749.

D: Lì non sei più andato a lavorare? Eri in qualche comando?

R: No, hanno cercato di mandarmici ma io d’accordo coi compagni me la squagliavo sempre. C’era Ettore, un tecnico della Ansaldo di Genova, antifascista, che mi diceva: “Te prima di partire rivolgiti sempre a me e ti dico cosa fare”. Io so che lui era in contatto con il Comitato di Liberazione Internazionale del campo, insieme a Giovanni Melodia, e io così ho fatto. Poi veniva a trovarmi padre Giannantonio e don Fortin e veniva anche monsignor Behran, arcivescovo di Praga, e Carlo Manziana, vescovo di Crema. Io che non sono un credente ho sempre creduto a quello che mi hanno detto, mi sono sempre comportato così come loro hanno voluto.

D: A Dachau te la ricordi la Liberazione?

R: Come no?

D: Dove eri tu?

R: Ero sdraiato in terra, sotto la finestra.

Al fianco da una parte e dall’altra c’erano padre Giannantonio e don Giovanni Fortin. Venne un americano, anzi prima di lui passarono monsignor Behran e monsignor Manziana, vescovo di Crema.

Ci avvertirono: “Siamo in contatto con la Croce Rossa internazionale”, tramite la radio clandestina che c’era nel campo, “non vi muovete per nessun motivo perché loro vogliono ammazzare tutti”, difatti ne ammazzarono diverse migliaia, “restate nella baracca anche se non si mangia perché da un momento all’altro saremo liberati”. E difatti fu così.

Il 29 aprile alle 17.45 arrivarono a liberare il campo. Mi ricordo che venne un militare vestito da americano e invece era un italiano che si era arruolato dopo l’8 settembre con gli americani. Un italiano di Lucca che io conoscevo. Appena entrò disse: “C’è qualcuno di Lucca qui?” “No, uno di Lucca no, ma ce n’è uno di Seravezza”, e glielo disse padre Giannantonio perché sapeva tutto di me. “Oh, come si chiama?” “Così e così.” “Oh, ma io lo conosco questo. Ci siamo conosciuti a Lucca in una certa occasione.” Disse anche in quale e io qui non voglio ripeterla perché si va a finire ragazzi, mi dispiace. In una certa casa ci eravamo conosciuti e si stava ben vestiti per picchiarci per questioni di precedenza. Lui è quello che venne e mi fece portare immediatamente ad un ospedaletto 150 chilometri distante dal campo. Ci sono stato quindici giorni; mi hanno curato bene e poi volli tornare a Dachau per stare con i miei compagni, perché stavo male lì dal punto di vista personale ma non dal punto di vista delle cure. Mi hanno curato bene finché poi mi hanno dimesso e volevo tornare a casa. Giovanni Melodia, che era il presidente del Comitato Italiano di tutti gli italiani rimasti che ora sta a Roma e sta molto male poverino di salute, ma molto molto, non mi voleva mandare a casa. Diceva: “Non sei neanche a posto, la salute è quella che è, bisogna che tu abbia pazienza”. Io dissi: “Voglio fare la prova; novantatre gradini e poi ridiscenderli.” Li montai così impettito che poi cascai dall’altra parte nella discesa perché non mi vedevano e allora partii e venni a casa.

D: Questo quando era?

R: Era il 24 giugno 1945.

D: Italino, ma quando tu sei arrivato a Dachau dopo un pezzo di marcia a piedi non avete preso anche un treno?

R: Sì, per gli ultimi 80 chilometri, dopo Saal an der Donau, dopo l’episodio di quella vecchietta poverina, ci fecero montare su dei vagoni. Mentre si era lì che si aspettava la partenza cominciò a piovere roba dentro il carro: erano patate crude ma noi le mangiammo anche crude pur sapendo che ci avrebbero fatto male. Io cominciai a urlare fuori: “Chi c’è fuori? c’è degli italiani?” Mi risposero di sì ma mi dissero anche: “Stai zitto” e stetti zitto, non parlai più.

Poi si partì. Eravamo cento per ogni vagone, quei vagoni che portavano il carbone, grandi, aperti, tutti così. Ogni tanto qualcuno moriva e per ripararsi dall’acqua ghiacciata che veniva giù io prendevo due morti e me li mettevo sopra così fino a che si arrivò a Dachau. Alla stazione vicina del campo ci fanno scendere. E chi va a Dachau ha delle fotografie della ferrovia con dei vagoni con cui siamo arrivati noi con tutti morti giù lungo tutta la scarpata della ferrovia. Io, di cento che eravamo su questo vagone, ci sono. Gli altri novantanove nella nottata erano morti tutti.

D: A Dachau non sei mai stato al Revier, non ti hanno mai curato?

R: Dopo che sono ritornato dall’ospedaletto americano sì, ci sono stato una quindicina, venti giorni.

Scuratti Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni. 

Mario Scuratti, nato il 9 febbraio 1926 a Muggiò, ora residente a Monza in Via Guerrazzi 55/B. Inizio il mio racconto.

La mia cattura è avvenuta, non so se è stato su delazione perché noi come gruppo, la 104 brigata Garibaldi collegata con quella di Cinisello, verso la Taccona c’era una cascinotto dove c’erano dentro delle armi e qualcuno ha parlato e sono intervenuti i fascisti e han bruciato tutto.

Forse han trovato i documenti come lì dicevano, invece, non so come è stato. Ci han preso, almeno il sottoscritto quando l’han preso l’han portato il Via Tommaso Grossi a Monza dove c’era il comando delle SS.

Lì così, l’interrogatorio, hanno messo là un centinaio di fotografie; conosci questo, conosci quell’altro. Sì, io conoscevo quelli di San Fruttuoso, come i fratelli Carpani che dopo son fuggiti con Moscatelli. Di lì, ci han portato, dopo l’interrogatorio, dopo un po’ di tirate d’orecchie, qualche sberla, finito l’interrogatorio, ci han portati, mi han portato al carcere di Monza, lì così.

D: Ecco, scusa Mario, quando ti hanno arrestato?

R: Ecco, lì ho le date, dev’essere stato il 14 gennaio o il 23 del ’45

D: Ecco, scusami sempre, tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo 18, quasi 19 anni

D: E lavoravi dove?

R: Io, no, lavoravo alla Pirelli però in quel periodo lì, diciamo così, il primo quadrimestre del ’26, allora, ero stato chiamato alle armi e io non mi son presentato e siam andati lì a lavorare un po’ nei campi degli agricoltori in quella zona lì.

D: Ecco ma tu abitavi lì, dov’è che abitavi allora?

R: Io abitavo, sempre a Monza, in Viale Lombardia 228, la nuova Valassina è lì.

D: E ti hanno preso a Cinisello?

R: No, mi han preso lì proprio a casa perché noi si dormiva sotto i magazzini, noi li chiamavamo i ripostigli e allora si era fatto come un rifugio, lì qualcuno ha parlato e son venuti a prenderci e dopo mi hanno portato …

D: In Via Tommaso Grossi

R: In Via Tommaso Grossi

D: Ma son venuti gli italiani o i germanici a prenderti?

R: No, erano italiani perché erano qui alla scuola di San Fruttuoso, c’erano dentro un po’ di tutti, alpini, bersaglieri, era un gruppo misto delle telecomunicazioni, praticamente era un centro, e ci han portati lì alle scuole di San Fruttuoso; di lì dopo mi han portato a Monza, in Via Tommaso Grossi, di lì, in una casa.

D: Ecco, ma lì in via Tommaso Grossi chi ti faceva gli interrogatori, erano italiani o germanici?

R: Ma, erano italiani, ma lì era la sede dove, io sono venuto a sapere, c’era il comando tedesco perché dopo, dato dei documenti, io praticamente ero in mano ai tedeschi, ci han portato in mano ai tedeschi, tant’è vero che dopo li avevano trovati a San Vittore, quella gente lì che ci aveva portato a Bolzano.

D: Quindi, scusa, via Tommaso Grossi, carcere di Monza.

R: Carcere di Monza, lì siam stati tre giorni. Dopo al mattino presto ci hanno caricato su un camion e lì è stato che, abbiam scoperto che eravamo lì in cinque di San Fruttuoso, tutti e cinque, allora c’era Bianchi Osvaldo, c’era Pessina, mi scappa il nome, c’era Fossati Franco e c’era Serrughetti, perché quello lì mi sembra che era stato già nell’esercito repubblichino, era scappato e dopo l’han preso, non so.

Si sospettava che fosse stato lui a parlare, perché, tutto lì, o che ci hanno ingannato e lì con i pullman, partendo di sera, ci han portato a Bolzano.

D: Scusami, a San Vittore, ti ricordi se ti hanno immatricolato a San Vittore?

R: San Vittore, tant’è vero che ho lì i documenti. A San Vittore avevo il milletrecento e qualche cosa, poi dopo i documenti, cella 17, ho lì un foglietto ancora, fatto da loro, fogliettino fatto da loro con su la cella del sesto raggio, quello dei deportati.

D: Che piano?

R: Piano, era forse l’ultimo, credo, perché era un casermone; eravamo là tutti e cinque, ci han dato una coperta a testa, due le abbiam messe di sotto e tre di sopra per coprirci tutti assieme, tutto lì.

D: E lì quanti giorni sei rimasto a San Vittore?

R: Lì siam stati un mese quasi, adesso io, praticamente le date della partenza e dell’arrivo corrispondono a quello che era il libretto di Bolzano, della Città di Bolzano.

D: E quindi da San Vittore poi vi hanno portati a Bolzano?

R: Bolzano

D: Ma come ti hanno portato a Bolzano?

R: Coi pullman, con dei pullman, lì alla sera, tant’è vero che c’erano delle strade sconnesse per i bombardamenti e siamo arrivati al mattino là.

I diciannove anni, tu mi hai chiesto quanti anni avevo, li ho compiuti a San Vittore, perché lì siam arrivati al 14, dev’essere stato il 20 di gennaio al carcere di Monza,il 23 a San Vittore, il 14 o 15 ci han portato a Bolzano e lì siam stati una settimana circa a Bolzano perché eravamo circa ottocento perché arrivavano da Torino, un po’ dappertutto. Siam stati lì circa una settimana, poi ci han messo sui vagoni, siam stati messi sui vagoni, siam stati lì circa 3 giorni in stazione, poi han incominciato i bombardamenti sul Brennero allora ci han tirati giù

D: Ecco, scusami, il viaggio da Milano, da San Vittore a Bolzano, lo avete fatto in pullman; con te c’erano gli altri tuoi quattro amici, quelli di San Fruttuoso?

R: Sì

D: Ecco, chi faceva la guardia sul pullman, chi erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi

D: Come ti ricordi l’arrivo nel campo a Bolzano?

R: L ‘ arrivo nel campo a Bolzano, noi quando siamo arrivati ci han portati al lavaggio, pelati tutti, teste e così via e ci han dato la tuta che era bianca come quella della marina, telone grosso e ci han dato i numeri, uno qui e uno da mettere sulla gamba

D: E il tuo numero?

R: Il mio numero era 9643.

D: E assieme al numero ti han dato un’altra cosa da mettere su, ti han dato un triangolo assieme al numero?

R: È quello, triangolo rosso e il numero era quello. Eravamo lì oltre a essere in campo, eravamo ancora cintati perché noi eravamo i pericolosi perché avevamo anche la “x” sulla schiena e confinavamo con le donne, era l’H, perché erano due cosi vicini, mi sembra che era E o H, tant’è vero che sul libro lì, ho segnato in rosso tutto quello che è.

D: Ecco, lì a Bolzano, cosa vi facevano fare, nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano, la mattina la sveglia, lavati e così via, poi la chiamata, inquadrati, cappelli su, cappelli giù, cappelli su, cappelli giù finché erano stanchi, poi quando uccidevano qualcuno ce lo presentavano là nel campo, se uno tenta di fuggire, questa è la fine, se uno non esegue quello che è, fa questa fine, sempre così, tutti i giorni la chiamata poi si ritornava dentro, si stava là a far niente, a fare, noi lo chiamavamo il rastrellamento, perché, a uccidere i pidocchi; croce rossa, croce nera erano i vari tipi e si faceva quel lavoro lì, ecco.

D: Ascolta, ti ricordi chi faceva le guardie, se erano italiani, se erano germanici?

R: No, no, tedeschi, tedeschi, poi era famoso quello che è scappato in Canada, e poi il comandante era quello che arrivava da Fossoli, il comandante.

D: E lì sei rimasto lì a Bolzano quanto tempo, nel Lager?

R: Nel Lager son stato lì una decina di giorni, perché dopo ci hanno spostato.

D: Dopo vi hanno portato sul treno per la partenza?

R: Per la partenza.

D: Come è avvenuto quel discorso lì della partenza, vi hanno chiamati all’appello?

R: Sì, sì chiamati uno a uno ci han portato con i camion in stazione, su, piombati, io praticamente mi son dissetato un po’ perché, non solo io, avevo un dentifricio alla menta, allora lo facevo passare un po’ a tutti per dissetarsi perché avevo un po’ di sete ma non si poteva neanche sedersi né niente.

D: E questo alla stazione di Bolzano o …?

R: No, no stazione di Bolzano.

D: Proprio alla stazione, e vi han fatto entrare in stazione e vi han caricato?

R: Tre vagoni là.

D: Sul carro bestiame?

R: Perché ci han portato dove c’erano i vagoni e ci han caricati, forse anche su un binario morto, non lo so.

D: E però il treno non è mai partito?

R: Mai partito perché dopo si sentiva un traffico di aerei, bombardamenti e si veniva a sapere un po’ così che bombardavano il Brennero perché quando si andava fuori in quella villa lì dove c’erano i famosi tedeschi, austriaci, quelli della…quelli anziani che si mettevano a controllarci perché non c’erano più giovani. E allora eravamo lì, primo lavoro che ho fatto è in questa villa che era su, in alto Bolzano, adesso non mi ricordo e là a fare l’imbianchino, era più l’imbiancatura che finiva su noi che quella che si dava ai muri.

D: Solo te o anche gli altri tuoi amici?

R: No, io e il Serughetti, in due, che poi lui ha tentato di fuggire, era fuggito, e io dopo l’ho chiamato perché stavano già sparandogli; “Peppino ritorna indietro, Peppino ritorna indietro” e allora è ritornato indietro ma in quel periodo lì eravamo già spostati giù in Val Sarentino e cosa han fatto? Quando è rientrato al campo, l’hanno messo al palo, tutta notte, senza mangiare e io penso adesso al rischio che ho corso, gli ho portato da mangiare, fuori alla sera, andar là a dargli qualche cosa da mangiare.

D: Questo in Val Sarentino?

R: Val Sarentino

D: Ecco, ma allora, andiamo un attimo; sei sul vagone per andare oltralpe, il treno non parte; eravate in tanti lì sul vagone?

R: Tre vagoni erano.

D: Tre vagoni?

R: Adesso il numero…

D: Solamente uomini o anche donne?

R: No, uomini soltanto, a me risulta, il mio vagone erano soltanto uomini.

D: E ti ricordi se c’era con voi qualche sacerdote?

R: C’era un sacerdote giovane, non mi ricordo il nome, mi ricordo il nome dentro il mio blocco, che era professor Poggi di Genova, c’era un tenore, però questo era tra gli ebrei, tenore Asco Campagnano che gli facevano sempre cantare “Il nemico della patria” dell’Andrea S… poi c’era un certo avvocato Ulisse, non so se era un nome di battaglia o che, c’erano proprio nel mio … diversi intellettuali che erano una ventina, non li abbiamo più visti.

Però sono venuto a sapere che dopo il professor Poggi, a Genova, c’era ancora, perché leggendo i giornali, non so se dopo, forse perché erano gli ultimi periodi, si son salvati.

D: E poi c’era questo sacerdote giovane che dicevi.

R: Non mi ricordo più il nome.

D: E anche nel campo, ti ricordi se c’erano dei sacerdoti?

R: E sì, se c’era quello lì, c’era senz’altro qualcun altro.

D: E di donne ti ricordi qualcuna?

R: La moglie di Pesce, la Nori, la Nori, Pesce, me l’ha detto dopo quando ero là anch’io a Bolzano e lì dopo, in Val Sarentino eravamo lì a spaccare i sassi, lì praticamente nel torrente che vien giù dovevano fare un depuratore perché tutta la Val Sarentino è una galleria sola e da una parte avevano messo dei macchinari per fare proiettili, macchinari e noi eravamo giù, dentro ‘sto torrente, eravamo una cinquantina a spaccare ‘sti blocchi di sassi perché dovevano fare degli strati grossi, poi più leggeri, più fini; depurare l’acqua per alimentare tutte quelle gallerie

D: Ecco, com’è che vi hanno scelti per mandarvi in Val Sarentino?

R: Han preso tutti quelli lì; li han suddivisi, fatti scendere dal treno e li han divisi perché Pessina, Fossati e un altro, Bianchi li avevano mandati su a Vipiteno e dopo ho saputo; cosa eravate lì a fare? Si interveniva quando c’erano i bombardamenti a sostituire i binari che erano rotti; invece noi eravamo lì a far quel lavoro lì.

D: E invece voi vi hanno mandato in Val Sarentino?

R: Val Sarentino.

D: Solo uomini eravate?

R: Solo uomini, sì.

D: Ti ricordi com’è che avete fatto il viaggio per andar su da Bolzano, qui, a Val Sarentino?

R: Con i camion tedeschi, perché dopo lì c’erano delle baracche, lì proprio in Val Sarentino, perché facevano anche i lavori; c’erano delle baracche e noi rimanevamo lì in Val Sarentino, si usciva al mattino. C’erano i tedeschi a controllarci però c’erano anche i tecnici della, quelli che controllavano i lavori, come si chiamano quelli lì, la Todt.

D: La Todt.

R: La Todt, c’erano quelli lì che controllavano i lavori, però c’erano gli armati tedeschi a controllare.

D: Ecco Mario scusa, lì in Val Sarentino ti ricordi dov’era più o meno il campo, in che zona era il campo, vicino a delle case?

R: No.

D: C’era un castello, ti ricordi un particolare?

R: Mi ricordo dei particolari; quando si veniva giù e così via, c’erano quei famosi tedeschi, quella della zona dell’Alto Tirolo, con ‘sto grembiule azzurro oppure vestito, che ci sputavano addosso, ci davano qualche calcio.

D: Ma era vicino a qualche paese?

R: Paesi non ne ho visti però era una zona dove forse c’erano i famosi, le famose case, come si chiamano non mi ricordo…

D: Masi.

R: I masi lì, perché venivano giù a gruppi, a piedi.

D: Però il campo era vicino al torrente?

R: Al torrente sì, vicino al torrente.

D: Il campo era grande? Com’era il campo, come ti ricordi il campo?

R: Il campo era una baracca, sarà stato lungo, eravamo una cinquantina dentro, era una baracca.

D: Una sola?

R: Una sola.

D: Ed era recintata questa baracca?

R: Sì, sì recintata.

D: Il posto in cui lavoravate, era nel campo oppure per lavorare andavate fuori dal campo?

R: No, no si andava fuori, dentro nel torrente, perché quello lì era spostato dove c’era la baracca, si usciva dal campo e si andava verso il torrente a fare i lavori.

D: Ma pochi metri oppure era più lontano?

R: No, era un pochino lontano, non tanto ma era sulla costa, dopo le gallerie praticamente.

D: Sulla costa?

R: Sì, diciamo così.

D: Un po’ sul pendio?

R: Ecco, sul pendio.

D: E quindi per lavorare scendevate nel torrente?

R: Scendevamo dentro nel torrente

D: Dicevi le gallerie, queste gallerie qui, ci lavoravano altri deportati, nelle gallerie

R: Non lo so.

D: Nelle gallerie, tu non sei mai entrato?

R: No, noi eravamo lì a fare quei lavori lì ma non so se funzionavano già o meno perché praticamente, cosa avevano fatto; io ho visto, così passando, non che son andato dentro; da una parte delle gallerie avevano piantato i macchinari mentre dall’altra c’era la possibilità, con i camion, di portare avanti e indietro il materiale.

D: E’ come se avessero allestito un’officina dentro nelle gallerie?

R: Su un fianco della galleria avevano istituito delle gallerie, delle officine.

D: Però tu dentro non sei mai andato quindi non sai.

R: Mai, perché noi, no, no…

D: Hai visto movimenti, cosa facevano?

R: No, no.

D: Voi eravate addetti alle pietre e basta, e siete riusciti a fare quello sbancamento, quel filtro lì, quel depuratore?

R: Ormai ci han mandati lì perché in Germania o meglio in Austria non siamo più potuti andare per i bombardamenti, che si sentivano. Al Brennero tremava tutto, sembrava il terremoto perché i bombardamenti gli ultimi momenti erano intensi e allora per forza non han finito di fare i lavori che dovevano fare.

D: Dicevi che eravate in cinquanta in questa baracca?

R: Sì, una cinquantina.

D: Quindi più o meno vi conoscevate uno con l’altro? Eravate tutti, che ne so, tutti lombardi oppure c’erano anche altri ragazzi di altre regioni, più anziani di voi?

R: Sì, sì ce ne erano, parecchi anche perché dentro nel campo quando si faceva la famosa ginnastica: cappelli su, cappelli giù, si facevano su, giù, le flessione e così via, c’era qualcuno, gli anziani che cadevano, allora nervate, perché pretendevano l’impossibile da quei poveretti lì.

D: E comunque eravate tutti italiani?

R: No, io il viaggio l’ ho fatto anche con un russo che veniva da Torino, che aveva una cancrena al braccio, dopo non l’ho visto più, era un ingegnere lui mi diceva; parlava bene l’italiano e poi non l’ho visto più, mi ricordo benissimo di questo sovietico.

D: Ma lì nel campo della Val Sarentino c’era questo russo? Lì nel campo, in questa baracca di cinquanta persone più o meno, c’erano anche degli stranieri come prigionieri o eravate tutti italiani?

R: No, che mi ricordo eravamo tutti italiani.

D: E quanti erano i tedeschi che vi facevano la guardia, circa?

R: La guardia al campo?

D: Sì, a voi, Val Sarentino?

R: In Val Sarentino, in Val Sarentino c’erano poche persone, saranno state una decina sì e no.

D: Ma avevate un filo spinato intorno alla baracca?

R: Sì. Sì era cintato, era cintato; dentro in baracca, come ho detto, l’han messo là al palo; quello là era cintato ma non proprio contro, tanto è vero che come sono uscito da lì, incosciente dicevo di essere, chissà dove erano loro.

D: Ascolta Mario, nel periodo che tu sei stato a Bolzano o in Val Sarentino, sei riuscito a scrivere a casa o a ricevere delle lettere da casa

R: Mai.

D: O un pacco, qualcosa?

R: Il pacco l’ ho ricevuto da mio papà, dentro nel campo a Bolzano, ma del resto, tant’è vero che sul documento, sulle lettere: Come mai gli altri scrivono e tu non scrivi? Perché io non ho mai avuto la possibilità di scrivere e così via…

D: E questo pacco il tuo babbo come ha fatto a mandartelo su?

R: Tramite una; è stato all’ultimo momento che ha dovuto preparare tutto ‘sto pacco perché è venuto a sapere; ormai lì si facevano passare la parola i famigliari, che il giorno successivo sarebbe partito il camion per Bolzano, il camion della Falck e allora praticamente preparavano i pacchi e li portavano su.

Perché noi sapevamo, eravamo avvisati che se si riusciva a scappare, si doveva andare alla Falck, dove praticamente eravamo salvi.

D: Ascolta, la Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione. Ero in Val Sarentino, al mattino sono venuti a chiederci di andar su ad aiutare i tedeschi perché c’era stato un bombardamento, c’era un distaccamento tedesco su in alto, verso Vipiteno; di andar su ad aiutare a a recuperare i morti di ‘sto bombardamento; io me ne vado a casa. Allora ci han portato in centro, ci hanno dato un piccolo lascia passare che si veniva dal campo di Bolzano, un documento che diceva che noi eravamo arrivati a casa, ci avevano liberati.

D: Questo lascia passare ve l’ hanno consegnato nel campo, cioè vi hanno riportati al Lager di Bolzano, vi hanno dato il lascia passare oppure …

R: No, mi sembra al Lager, mi sembra che me l’abbiano dato al Lager.

D: Quindi siete ritornati al campo, vi hanno dato il documento.

R: Il documento perché ormai là non c’era più nessuno in pratica.

D: E questo che giorno è stato?

R: Il primo maggio del ’45.

D: E tutti e cinquanta vi hanno portato giù, dalla Val Sarentino, dal campo?

R: Sì, sì

D: Vi han portato giù al campo di Bolzano?

R: E dopo ci han dato il documento per la Liberazione.

D: E tu cosa hai fatto?

R: E io ho preso il documento e fatto la prima tappa con una coperta, perché tra l’altro c’era brutto tempo, la prima tappa Bolzano-Trento, a piedi, sì, a piedi.

Ma c’erano quelli che avevano anche le carriole, a Trento, dopo da Trento…

D: Scusa, scusa Mario, sempre con la tuta?

R: Sempre, sempre, fino a casa. Particolare della tuta, son arrivato a casa, ne abbiam parlato proprio ieri con mio fratello, allora c’era lì a casa il Bianchi perché stava lì da me, da noi in cortile, mi ha visto ed è andato a chiamare mia mamma. No, non entro in casa: preparami un bel mastello, allora si diceva così, per lasciar fuori la tuta da casa, perché ero pieno di pidocchi. Ecco, la cosa è stata così.

D: Però hai fatto da Bolzano a Trento a piedi, da solo, eri da solo?

R: No, non eravamo in tanti ma eravamo sette o otto. Dopo di lì abbiam fatto, non Rovereto ma siam andati su mi sembra verso l’Adamello e lì avevamo trovato dei partigiani, su, e nelle case lì ci offrivano le sigarette perché avevano le case piene di sacchi di sigarette perché avevano svaligiato la manifattura di Rovereto.

Dopo, da lì, siamo scesi, ed abbiam trovato gli americani appostati nella vallata perché non erano ancora venuti su. Da lì dopo siamo scesi a Torbole; Torbole, lì in una stalla ci han dato la polenta, un po’ da mangiare, quel poco che avevano anche loro, e abbiam passato la notte.

Al mattino ci hanno traghettato verso Limone, da Limone allora, pian pian Gargnano, a piedi, Gargnano, dopo siam arrivati a Brescia, praticamente ci abbiam messo nove giorni ad arrivare a casa, a Loreto, perché a Brescia abbiam trovato un camion, Serrughetti è andato a finire con un altro camion a Bergamo, invece a me mi hanno portato fino a Loreto e da Loreto altra passeggiata fino a casa.

D: A Monza a piedi?

R: A Monza e a piedi.

D: E hai portato a casa, dal campo, la tuta?

R: Tuta, il numero.

D: Il triangolo, il tuo numero e poi il cappello?

R: No, no il cappello non lo avevamo.

D: Il lasciapassare?

R: Lasciapassare che poi dopo, non mi ricordo più, forse l’ho adoperato per il …

D: Vitalizio?

R: Riconoscimento; vitalizio no, troppo problema, per la qualifica di partigiano, tutti quei documenti…

D: E l’hai spedito?

R: Spedito, allora mi han mandato.

D: E non ti è più ritornato?

R: No, i documenti sono rimasti tutti a Roma. Quello che mi è rimasto è la faccenda del vitalizio, lì è stato, prima di tutto c’era l’Angelo.

D: Signorelli

R: Signorelli, che continuava a dirmi, e Zilli che lavorava insieme, Fai la domanda, fai la domanda, fai la domanda; mai fatta, proprio perché ero disgustato in una maniera, per tutto quello che è successo dopo la Liberazione e allora l’ ho fatta dopo dieci anni circa. Poi è sorto il problema che il mio nome risultava con una t sola e lì praticamente ho fatto l’autocertificazione, gli ho mandato tutto, anche se nel foglio immatricolare dell’esercito c’è una t sola e io ho due t.

Allora, ho lì tutti i documenti, risulta il 9643, risulta Scuratti con una t e allora finalmente ho risolto, praticamente dopo un anno, no di più, di più di un anno e ho preso gli arretrati e i famosi 3.800

D: 50%

R: Di quelli che arrivano, il 50% dei famosi 15 milioni

D: Mario…

R: Dimmi.

D: Mentre hai salvato il triangolo e il numero, la tuta ..è bruciata?

R: Non lo so, prova a chiedere a mia madre ma non c’è più

D: Non c’è più la tuta?

R: Non c’è più.

D: Volevamo chiederti una cosa, quando eri a Sarentino, in Val Sarentino in quel campo lì, qualcuno di voi o tu siete riusciti a scrivere a casa, lì era possibile mantenere il contatto con le famiglie, vi sono arrivati dei pacchi oppure solo a Bolzano?

R: A Bolzano soltanto, io quello che ho ricevuto, l’ ho ricevuto soltanto a Bolzano, tanto è vero che ho lì la lettera che ha scritto mio papà, di accompagnamento, di quello che c’era dentro, pane giallo, liebig, varie cose e tre lire che chissà dove sono finite.

D: Ascolta, oltre al gruppo di San Fruttuoso, di Monza che erano su con te in Val Sarentino, ti ricordi qualche altro nome di qualche altro deportato, della Lombardia o anche non della Lombardia?

R: Sì, ho lì i nomi, ce n’era uno di Milano, poi ce n’era un altro di Verona, un altro di Asti.

D: E i nomi?

R: Quelli che eravamo più vicini, diciamo così…

D: I nomi non ti vengono in mente?

R: No, li ho lì scritti, c’è dentro il bigliettino, li ho li scritti.

D: Aspetta, io avrei ancora un paio di domande. Al campo della Val Sarentino, dicevi che c’era una baracca, c’era una baracca con voi dentro, c’era anche una baracca separata per il comando?

R: E sì.

D: Sì?

R: Praticamente, come posso dire, una baracca, una specie di quella che c’era lì dove c’è la Breda.

D: Era stretta e lunga?

R: Sì, lunga, tutta lunga.

D: E invece l’altra com’era?

R: Una baracca lunga in legno. Non mi ricordo, era più staccata, più in su.

D: E c’erano delle altre baracchette o c’erano solo queste due, una per il comando e una per voi, se ti ricordi?

R: Noi eravamo in quella lì, poi non mi ricordo, non vedevo le altre perché lì come si rientrava, basta, chiusi dentro, al mattino si usciva, non c’era la possibilità di girare o che.

D: E il mangiare, a che ora mangiavate e che cosa vi portavano, a Sarentino?

R: Il famoso orzo, quando c’era, un pezzo di pane nero, sembrava sapone, pesante come un accidenti, ma poca roba, allora si manteneva la linea.

D: Avevate la cucina lì nel campo?

R: Non lo so, non lo so perché.

D: E il rancio era uguale mezzogiorno e sera?

R: Quando c’era sì perché per esempio in campo di concentramento ci davano poca roba, tutta brodaglia e un pezzetto di pane nero con un po’ di margarina.

Volevo citare un particolare, nella Pasqua del ’45, l’Arcivescovo di Bressanone ha ottenuto la possibilità di mandarci dentro qualche cosa da mangiare, ci ha mandato un filone di pane bianco, due mele, uova, forse altre cose, non mi ricordo più; siamo stati tutti male, perché le uova, troppo sostanziose, noi non mangiavamo niente, eravamo tutti a correre dove c’era il fossetto, c’era il famoso fossetto dove si andava a lavarsi, dentro nel campo tutti diarrea, diarrea, dissenteria a tutto andare perché eravamo denutriti, lui ha fatto opera di bene però per noi…

D: Questo, l’Arcivescovo di Bressanone?

R: Sì.

D: Ma ve lo hanno detto lì che era stato l’Arcivescovo di Bressanone, da cosa te lo ricordi?

R: Sì sì proprio l’ Arcivescovo di Bressanone.

D: Ma questo quando eri su in Val Sarentino però?

R: No, nel campo di Bolzano.

D: Quando eri giù a Bolzano?

R: Giù a Bolzano ancora, perché la Pasqua è arrivata che ero ancora a Balzano.

D: Eri a Bolzano. Non è che è venuto qualche sacerdote a celebrare messa, dentro nel campo, non te lo ricordi?

R: No, perché a dirti la verità, noi uscivamo, cappelli su, cappelli giù, si rientrava e fino al giorno dopo basta.

D: Ecco, non ti ricordi se nella Pasqua del ’45 è entrato qualcuno a celebrare messa lì nel campo ma a Bolzano questo, non in Val Sarentino?

R: No, non è venuto nessuno lì.

D: Quindi questo pane, queste mele, queste uova; quando tu eri ancora a Bolzano?

R: Bolzano.

D: Non su in Val Sarentino?

R: No, no, no.

D: Perché in Val Sarentino sei stato su quanto tempo?

R: Bisogna guardare il libro.

D: Tu non ti ricordi più o meno?

R: Il libro, le date corrispondono giuste, in base ai documenti che ho io, in base alla prigionia a Monza, la partenza che eravamo in circa 800, che ci han messo su sui vagoni e che ci han tirato giù, è sul famoso libro del Comune di Bolzano.

D: Ho capito. Era il 25 febbraio quando vi hanno caricato sui vagoni per farvi partire, non siete partiti, poi vi han tirato giù, mandati a Val Sarentino e poi alla Pasqua del ’45 tu eri di nuovo nel campo di Bolzano, la Pasqua era nell’aprile del ’45, allora vuol dire che a Sarentino sei rimasto il mese di marzo?

R: Sì, alla fine, praticamente.

D: Un mesetto praticamente?

R: Praticamente era la fine, perché la Liberazione è avvenuta in Val Sarentino.

Scala Teresa

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Teresa Scala, comunemente chiamata Marisa Scala, da tutti, fin dalla prima età. Sono nata a Verona il 13 novembre 1919. Ho vissuto a Verona con la mia famiglia fino all’età di 15, 16 anni. Dopodiché lasciammo la città perché mio padre, dipendente della Cassa di Risparmio di Verona, dovette lasciare il lavoro perché non iscritto al partito fascista. Andammo in provincia, fra Padova e Vicenza, dove c’era un fratello di mio padre che era un grosso agricoltore. E lì vivemmo qualche anno coi miei fratelli, mia madre e mio padre.

Nel ’39 venni a Torino perché c’era una cugina di mia madre, che avevo conosciuto, vedova qui con due figlie. Venni a Torino per vedere Torino. Fui sua ospite per qualche giorno e invece mi fermai, quasi per sempre. Conosciute le figlie riuscii a trovare dei piccoli lavori perché la cugina era vedova, viveva di una piccola pensione con le figlie, per aiutarla in casa. Nel frattempo avevo cercato la famiglia Scala che sapevo essere a Torino e con cui non avevamo rapporti; mio padre non aveva rapporti non so per quale ragione. Rintracciai l’ingegner Giancarlo Scala, fratello di Luigi Scala che era in prigione da parecchi anni come appartenente e Giustizia e Libertà“, condannato dal Tribunale Speciale di Mussolini. Riallacciammo l’amicizia, la parentela in un certo senso e, con il fratello Remo, che spesso veniva a trovarmi a Torino ed era un giovane studente, fummo ospitati da Giancarlo in piazza Vittorio 13.

Non fui iniziata, diciamo così, alla vita politica, ero giovane, anche se mio padre per ragioni politiche aveva dovuto lasciare il lavoro, ma non ci aveva educato in quel modo. Mio padre era un uomo molto chiuso, molto silenzioso, aveva combattuto una sua guerra. Però un giorno avevo conosciuto un anarchico, un ciabattino anarchico in via della Rocca, mi pare, o in via fratelli Calandra a Torino; avevo portato un paio di scarpe a risuolare e l’avevo pregato di farlo in fretta perché a quei tempi, in tempo di guerra, non si aveva le quaranta paia che si hanno oggi.

E lui mi disse: “Ah, signorina si fermi, gliele faccio subito, gliele faccio”. E cominciammo a parlare. Mi disse che era un anarchico; e il termine di anarchico per me voleva dire rivoluzionario, assassino, quelli che ammazzavano di nascosto.

Vedevo quest’uomo mite, anziano, ciabattino, col suo piccolo desco e, non lo so, qualche cosa in me scattò. Cominciai a pregarlo di raccontarmi, di dirmi. Ricordo che mi disse una cosa: “Sono molto più importanti, avendogli detto di Luigi Scala, quelli che sono in carcere a soffrire che non i fuoriusciti, perché la voce dei carcerati è molto più potente del fuoriuscito”. Io non faccio commenti, non so cosa volesse dire, non capii e forse anche oggi non capisco bene. Comunque non parlai mai con Giancarlo di questo anarchico, forse qualche cosa mi tratteneva.

Nel frattempo attraverso Giancarlo conobbi persone di “Giustizia e Libertà”, fra cui Ada Gobetti, sua carissima amica, e altri. Così entrai un po’ in un circolo, ma sempre non con militanza politica o cultura politica; sempre, confesso, molto da ignorante, insomma. C’era in me la ribellione al fascismo ma era quella ribellione così, che una parte di italiani avevano. Io poi ero un po’ prepotente e quindi quello che era prepotente con me si scontrava. Comunque col tempo capii qualcosa di più.

Il mio impatto tremendo è stato nel dicembre ’42 quando, accompagnando Giancarlo a Castelfranco Emilia a trovare il fratello, glielo permettevano una volta all’anno, nella bassa di Castelfranco Emilia, tutta nebbia: questa fortezza, una fortezza mi pareva, e passando per la sorella di Luigi, siccome stesso cognome eccetera, le guardie mi fecero anche vedere Luigi, perché il fratello solo aveva il permesso, io non avevo il permesso.

Vidi un uomo lungo lungo, magro magro. Vidi gli occhi di Luigi, due occhi lucidi, splendidi che parlavano e lui chiese: “Chi è?”, rivolto a me, e allora il fratello gli spiegò chi ero. Io li lasciai subito perché sentivo che dovevano parlarsi loro due, il colloquio durò pochissimo. Uscii e quel ricordo mi rimane ancora oggi, ecco gli occhi di Luigi.

Passò del tempo e nel frattempo entrai più addentro in quello che era il movimento antifascista. Feci molte cose. Nel ’43 Luigi arrivò a casa in piazza Vittorio, inaspettato, liberato da Badoglio. Sentimmo suonare il campanello e vedemmo questa figura ieratica, così strana, e dice: “Sono a casa”.

Era Luigi Scala che tornava a casa, era in carcere dal ’36 ma era stato già in carcere nel ’31, per due anni o tre anni e poi liberato, riprocessato nel ’36 assieme con il gruppo famoso “Giustizia e Libertà”: Vittorio Foà, Franco Venturi, Mario Cugini e tutto il gruppo, e condannato a 20 anni o 30, qualcosa del genere.

La prima cosa che ci colpì fu la sua salute malmessa. Lo portammo a Cuneo dove viveva la madre. La madre viveva quasi sempre a Cuneo, in provincia di Cuneo, un paesino vicino, una frazione dove avevano una piccola bella proprietà terriera. Lo portammo lì e l’incontro fra madre e figlio, erano anni che non si vedevano, era dal ’36 che non si vedevano, fu una cosa commovente quanto mai. Per prima cosa le baciò la mano, ma non era un gesto borghese, era un gesto così, a cui era abituato da bambino. Poi la madre lo abbracciò e stettero così un quarto d’ora stretti.

Ricordo il primo pranzo a tavola, pranzammo assieme. Finito il pranzo venne servita la frutta e dico questo perché non sono ricordi borghesi, sono ricordi che toccano secondo me. Finita la frutta Luigi prese in mano una pesca e continuava a tenere la pesca in mano e poi sua madre disse: “Fallo”. Voleva tagliare la pesca nel vino come era abitudine in Piemonte, cosa che non si faceva a tavola, non si poteva fare.

Un uomo che aveva fatto anni di carcere chiedeva alla madre se poteva tagliare la pesca nel vino, ecco, chiuso. L’8 settembre dovevano portare via Luigi da Cuneo perché già la IV Armata dilagava nelle montagne.

A Cuneo gli Scala erano molto conosciuti, conosciutissimi a Torino ma a Cuneo in particolare Luigi Scala. Già a Torino avevano già avvisato le persone, Ada Gobetti e altri. Mi fermai qualche giorno ancora a Cuneo perché, nel frattempo, c’era questo dilagare pauroso della IV Armata, che scendeva dalle montagne e si riversava su Cuneo; Cuneo era già in mano ai tedeschi. Io con altri, disperatamente, cercavamo di convogliare i poveri disgraziati militari, vestiti da preti, vestiti da suore, vestiti in tutti i modi, verso non la stazione di Cuneo ma la stazione della Saluzzo-Cuneo, che nessuno conosceva, le piccole stazioni locali dove i tedeschi non c’erano, forse non le conoscevano neppure loro.

Io ho visto prendere dei giovani di vent’anni alla stazione di Cuneo così inermi, ecco in un modo tremendo, asserragliati sui camion. Dopo qualche giorno riuscimmo a portare con la Saluzzo-Cuneo Luigi a Torino. Abbiamo peccato di un’enorme ingenuità.

Era molto malato, malato di tubercolosi, è chiaro, e quindi abbiamo pensato che un uomo in quelle condizioni, inerme, non potesse dar fastidio a nessuno. Dovevamo spostarlo in Svizzera ma non poteva essere spostato attraverso le vie ufficiali, dovevamo spostarlo attraverso le montagne, non era in condizioni, doveva essere portato in barella. Le montagne erano già piene di neve e non si poteva andare. Siamo rimasti a Torino. Il 1 o il 2 novembre il fratello era a Saluzzo per ragioni di partigianato e sentimmo bussare dalla porta di servizio del numero 15 le “tre famose bussate più due” che era un po’ il segnale degli amici.

Luigi aprì la porta e ci trovammo davanti le SS italiane che dissero: “Luigi Scala”. Dice: “Sono io”. “E lei chi è?”, “Marisa Scala”. “Venite con noi”.

Ci portarono al commissariato di Via Verdi; a dire il vero il commissario finge di non sapere niente, e che doveva essere stato chiamato improvvisamente via, voleva lavarsene le mani, voleva fare qualcosa, ma di fronte alle SS!

D: Che anno era quello Marisa?

R: Il 1943, ai primi di novembre, non so bene il giorno. A mezzanotte sempre queste SS italiane ci portarono a piedi da Via Verdi a Torino all’Albergo Nazionale che era in Via Roma, Piazza S. Carlo, che era il comando delle SS tedesche. Addirittura dovemmo aspettare un quarto d’ora perché non ci volevano aprire.

Finalmente ci consegnarono alle SS tedesche, andammo nella solita camera con la faccia appoggiata al muro e aspettammo il mattino. Al mattino venne un maresciallo austriaco, Schumann. L’ho davanti agli occhi perfettamente, un uomo bonario sui quaranta anni, ci portò in ufficio per interrogarci.

Io con la mia solita prepotenza dissi: “Ma cosa vuole? Guardi che è molto malato, è molto malato quindi non è un partigiano; sì, è uscito dal carcere perché è un antifascista ma è molto ammalato. Io poi ero a casa con lui perché gli facevo un po’ da infermiera, gli preparavo da mangiare”, le solite cose che si raccontano.

Poco dopo entrò Schmidt, il comandante delle SS, e io di nuovo, in italiano, parlavo in italiano a Schmidt, dissi: “Ma è molto malato, è il dottor Scala, in carcere fascista, è molto malato ai polmoni!” e Schmidt guardò Luigi e disse, battendosi con le mani la fronte, “No paura, partigian, paura teste”. Fui interrogata varie volte. Vidi Luigi una sola volta in attesa di un interrogatorio ma lo interrogarono, mi disse, due o tre volte; non avevano niente da chiedergli. Nel frattempo mi dissero che Luigi l’avevano mandato in un convalescenziario per militari e io ci credetti, in un certo senso.

Io rimasi in carcere per tutto il mese di dicembre. Perché? Perché speravano che qualcuno si facesse vivo, di prendere qualcuno. Ripeto, quello che mi rovinava era il cognome Scala, che era abbinato a tante cose. Poco prima di Natale mi liberarono e mi dissero chiaro e tondo che dovevo abitare in Piazza Vittorio 13, non muovermi di lì, andare tutte le mattine dalle SS in Piazza S. Carlo perché speravano che sarebbe arrivato Giancarlo, che sarebbe arrivato qualcuno e di poterli prendere. E io vissi lì per parecchi giorni.

Era un alloggio enorme, con due entrate, dal 13 e dal 15; le stanze di allora, i vecchi palazzi di Torino, cinque metri di altezza, freddo da morire, eccetera. Dopo pochi giorni, intanto incontravo Giancarlo al Cottolengo.

Il Cottolengo è stato per noi, per lo meno per me personalmente, un buon rifugio perché entrare al Cottolengo anche per i tedeschi non era una cosa facile; cioè entravano, ma il Cottolengo era una città nella città e quindi era molto difficile.

Lì avemmo molti colloqui. A un certo momento dissi che io saltavo il fosso, non ce la facevo più. E da quel momento, naturalmente, saltai il fosso; venni via di lì, ebbi documenti falsi e cominciai a fare la mia vita di partigiana, collegamenti fra l’uno, l’altro, eccetera. Cambiavamo spesso case, indirizzi.

Nel frattempo mio fratello era in montagna, nel Cuneese, e io avevo notizie, non le avevo. Con la battaglia di Pasqua lo persi di vista perché so che erano stati ammazzati quasi tutti e invece poi lo ritrovai. E nel frattempo mio fratello venne a Torino e cominciò anche lui il lavoro di coordinamento con noi. Ai primi di luglio, mentre rientravamo a casa – rientravo a casa a mezzogiorno in via Piffetti – ho visto mio fratello che mostrava la pistola a tre persone: erano gli agenti del commissariato vicino. Io arrivai vicino a casa, però entrai nel portone. Lui mi vede, mi ride e disse: “Beh, andiamo in commissariato, voi lì telefonate e vedrete che ho ragione io, che sono un agente regolare”. Io entrai in portineria e chiesi al portinaio, che non mi conosceva, abitavamo lì da otto giorni: “Ha una pistola? Ha una pistola? Ha una pistola?” e quello mi guardò come una pazza.

Vidi portare via Remo, non potevo fare niente, però il mio terrore era che Giancarlo rientrasse anche lui per mangiare, ed era il comandante militare GL della piazza di Torino, quindi un pezzo grosso. Allora salii in casa e cercai di arraffare quanto più possibile perché pensavo che poi sarebbero ritornati. Nel frattempo arrivò Giancarlo Scala e io dissi: “Dobbiamo scappare, dobbiamo scappare; come? Usciamo dalla porta”. Abitavamo al quarto piano mi pare, abbiamo visto gli agenti che salivano da sopra, erano in sette o otto addirittura, che salivano la scala. Noi, dal quarto salimmo al quinto piano, suonando a tutti i campanelli, nessun rispondeva; in tempo di guerra erano tutti sfollati. Mentre gli agenti arrivavano alla nostra porta e cominciavano a suonare e battere, uno tira fuori la pistola. Noi intravedevamo da sopra, Giancarlo vide una scala legata alla tromba delle scale; era la scala che portava nelle soffitte perché c’era una botola. Riuscimmo a slegare la scala, aprire la botola, salire su. Mentre Giancarlo saliva cominciarono a sparare perché si erano accorti del rumore. Siamo riusciti, nelle soffitte, trascinandoci, a passare da una via ad un’altra via, un altro palazzo, poi uscire fuori sui tetti e passare su un balcone.

Io, a dire la verità, ero attaccata, non mi volevo mollare; Giancarlo mi pestò le mani e caddi su questo balcone. Di lì entrammo in un alloggio anch’esso disabitato. Riuscimmo ad aprire, scappammo in Corso Tassoni con le sirene che suonavano. C’era l’Umpa (forse UPI), c’erano le guardie, c’erano tutti perché avevano capito che c’era un covo importante, non per me ma per Giancarlo.

Arrivata in Corso Tassoni io caddi lunga distesa per terra. Ero tutta graffiata, tutta sporca. In una piccola osteria, che ho cercato e che era sparita dopo qualche anno, entrai, c’erano degli operai che mangiavano qualche cosa. Mi presero in braccio, mi portarono dietro, mi diedero un bicchiere di grappa da bere, qualcosa, non mi ricordo più. Io urlavo come una pazza perché sapevo che Remo era stato preso.

Stetti tre giorni nascosta e poi ricominciai la mia vita. Mi dicevano che Remo era in buone mani, che lo stavano aiutando. Avevano trovato in casa, purtroppo, non il denaro che ci era stato paracadutato da distribuire alle bande ma le coordinate del lancio. Difatti Remo non lo disse ma so che passò al controspionaggio in Piazza Callina con i carabinieri, perché era intesa col nemico proprio. Chiuso.

Ad agosto, in un incontro in via fratelli Calandra con Pedro Ferreira, comandante GL della piazza di Aosta, fummo catturati alle 11 del mattino perché una spiata aveva denunciato il fatto. Difatti la casa, questo palazzo, era dalle cantine alle soffitte tutto quanto pieno di agenti. Le Brigate Nere presero Pedro Ferreira e me, e ci portarono in Via Asti, nella caserma di Via Asti, al Comando delle Brigate Nere. Stetti un mese lì con Pedro Ferreira. Poi suoi ragazzi catturarono una decina o venti tedeschi ad Aosta e scambiarono Pedro Ferreira con questi, fecero uno scambio.

Lui, mentre lo liberavano, mi urlava: “Marisa, ne prendo trenta per te!”

Ero in via Asti insieme con Aurelio Peccei, prigioniero di stato di Mussolini, il famoso Peccei della Fiat, ed altri politici.

Ad un certo momento venivo interrogata di notte all’una o alle due da, non ricordo il nome, una bestia nera proprio, lo chiamavano “il macellaio”, della questura di Torino.

Mi veniva a interrogare e mi diceva: “Ho visto tuo fratello piangere disperato perché dice che lo hai accusato, che lui non c’entra niente, poveretto!” Lui sapeva di mio fratello, voleva emozionarmi. Furono interrogatori tremendi, non per l’una o le due di notte in cui il cervello non è tanto limpido, quanto per quello che mi diceva di mio fratello. Poco dopo arrivarono le SS, che nel frattempo avevano saputo che ero stata presa, a prelevarmi e mi portarono in carcere. E lì ricominciò di nuovo l’interrogatorio con le SS.

Dal carcere fui mandata in una caserma di corso Stati Uniti dove ho visto un duecento o trecento persone che nella notte sarebbero partite con me per un convoglio per la Germania probabilmente, a lavorare in Germania. Eravamo nella caserma in un grande stanzone. Ad un certo momento pioveva fuori, io avevo un impermeabile e mi misi un foulard in testa, avevo delle sigarette in tasca dell’impermeabile, e uscii da una porta. Mi incamminai lungo la caserma per l’uscita, mi fermai davanti alla sentinella tedesca SS, mi accesi la sigaretta e la salutai, e uscii fuori, corso Unione Sovietica. In quel momento passava il tram numero 8, era un tram che veniva dalla Fiat, senza porte, un tram degli operai quasi. Corsi davanti al tram che fece una frenata paurosa, salii sul tram e dissi: “Corra, corra, sono scappata, se mi prendono mi ammazzano.” Nessuno parlò, era pieno e nessuno aprì bocca; il tranviere fece due fermate e mezza e fermò il tram fra una fermata e l’altra, fermò. Io saltai giù, attraversai il cavalcavia di via Sacchi e corsi, corsi, corsi fino in piazza San Carlo e mi rifugiai nella farmacia di via Giolitti; sapevo che era uno nostro di GL il proprietario.

Di lì mi portarono al secondo piano dove c’era Gina Lupo, una nostra, una signora anziana che aveva già tenuto alcuni inglesi nascosti. Stetti tre giorni in casa di questa Gina in attesa che mi portassero in qualche posto. Al mattino del terzo giorno, alle 5 del mattino, bussarono alla porta e dissero: “Dateci Marisa Scala”: una seconda spiata.

Queste cose vanno dette perché, purtroppo, sono successi tanti fatti gravi in seguito a elementi che si erano intrufolati. Fui portata in Via Asti di nuovo, tre giorni.

Le SS mi ripresero, mi portarono di nuovo in carcere, alle Nuove. E Schumann mi disse: “Stavolta, mia bella signorina, Lei non scapperà più”. Nel convoglio, mi pare non ricordo più bene, fosse ottobre, fui ammanettata, caricata su un pullman insieme con altri.

Eravamo scortati da Brigate Nere, non SS. Arrivammo a Milano. A Casale ci fermammo. Io dovevo andare alla toilette. Non mi tolsero le manette e un ragazzo di 16 anni mi portò alla toilette, mi tirò giù le mutande e io feci la pipì. Poi me le tirò su.

Arrivammo a Milano e ci portarono nel carcere di S. Vittore fino al pomeriggio; poi ci intrupparono assieme con Vasari, Magini ed altri e partimmo per Bolzano, sempre ammanettata. Viaggiammo tutta la notte, l’indomani mattina arrivammo a Bolzano. Arrivata a Bolzano ricordo Muller o l’altro, non so: mi videro, mi guardarono con occhi un po’ particolari. Questa donna ammanettata! C’erano tanti uomini, donne non ce n’erano, eravamo soltanto in due.

Mi misero da una parte, mi misero. Poi tolsero le manette, mi misero nel blocco delle donne, e lì rimasi fino al gennaio del ’44, nel blocco. Non potevo uscire, andare a lavorare, la mia speranza era di unirmi a dei gruppi perché avevo anche la speranza di scappare.

D: Che anno era questo?

R: ’44, ’45; a cavallo del ’44 e del ’45. Natale ’44 lo feci in blocco.

In seguito ad una partenza, mi pare, di quel gruppo di Milano, di Vasari e altri, io fui convocata al comando insieme con la Margherita Montanelli, la moglie del giornalista, e accusata di aver passato aiuti, siccome il nostro blocco era vicino, attraverso le inferriate. Stiamo tutto il giorno al comando, terrorizzate tutte due perché non era una cosa piacevole; poi la Margherita la rimandarono nel blocco e io fui portata in cella. Non voglio parlare della mia deportazione in Bolzano che ho ripetuto, era una cosa dove si sopravviveva, direi benino, se noi pensiamo.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Aspetta, ce l’ho qua: 6.678.

D: E il blocco in cui ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Era il blocco delle donne. C’era un solo blocco e il capoblocco era una certa “Cicci” di Milano; non so per quale ragione fosse lì, come non seppi mai la ragione per cui tanta gente era in campo di concentramento. C’è stata la gente che si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato, presa dai tedeschi. Comunque con me in blocco c’era la dottoressa Silvia Pons, socialista di Milano, la Schumacher di Trieste, l’altra dottoressa. Beh. Fui portata nelle celle e furono veramente quaranta giorni di terrore che passai: le celle erano dominio assoluto di due ucraini, due ucraini pervertiti, pervertiti non so se sessualmente, indubbiamente di cervello lo erano.

Non ho visto niente salvo la tortura di un giovane, che lo scambiavo quasi per mio fratello Remo perché gli assomigliava un pochettino. Però ho sentito per quaranta notti le urla e le imprecazioni, i lamenti di gente che veniva torturata, seviziata, stuprata da queste due bestie. Nel campo di Bolzano il vitto era quello che era, ma non si moriva di fame, si sopravviveva; se ci sono stati dei morti è perché sono stati ammazzati. Non morti di sfinimento come nei campi KZ, gente che aveva cercato di scappare, gente che aveva fatto cose che non doveva fare.

Mi risulta che dalle celle la mattina successiva, ogni tanto portavano fuori i morti nei sacchi. Di cosa erano morti? Ci sarà qualcuno che lo saprà. Io posso solo dire che gli urli erano tali che non li ho neanche sentiti nell’Albergo Nazionale dove sentivo lamenti quando interrogavano, a Torino. Dopo quaranta giorni fui rimessa nel blocco, tornai alla mia vita sedentaria lì, fino all’attesa della scarcerazione.

D: Quando eri rinchiusa a Bolzano non sei mai uscita a lavorare dal campo?

R: Mai uscita. Eh, era la mia speranza! Anche perché mesi di inerzia, seduta sul castello, seduta per terra, era già tremendo quello. E verso la fine, un mattino – noi avevamo un recinto dove potevamo uscire – chiusi in questo recinto metallico vidi un gruppetto al di fuori del nostro recinto, cinque o sei uomini vestiti da aviatori, col berretto, giubbotto. Era Edgardo Sogno, Catone, Mario Luino ed altri, che erano stati presi a Milano mentre tentavano di liberare Ferruccio Parri che era stato arrestato. Io ho riconosciuto Edgardo Sogno col quale avevo dei contatti a Torino, ero della Franchi, il servizio inglese di spionaggio. E lo chiamai: “Edgardo, Edgardo sono Marisa”. Lui mi guardò e fa: “Ma sei qua?” “Sì, sono qua” “Ti credevo in Germania” “No, sono qui” “A Torino come va?” “Lo sai cosa è successo?” “No” “Hanno ammazzato Duccio Galimberti”.

E’ stato l’altro grave colpo della mia vita, perché di Duccio Galimberti si dovrebbe parlare molto di più di quanto non si parli. Un uomo meraviglioso, un uomo pieno di vita, un uomo proprio trucidato dalle Brigate Nere di Cuneo per vendicarsi del nobile cuneese, figlio del senatore. Proprio la vendetta bassa, la vendetta animalesca quindi.

Fummo liberati. Rientrai assieme con un gruppo, col professor Meneghetti di Padova poveretto ed altri, col professor Zin, professore universitario di Torino, con Edgardo Sogno e con altri: rientrammo a Torino attraverso la Svizzera. Entrammo: Merano, la Svizzera, e poi ordinaria amministrazione.

Tengo a dire che rientrando a Torino ebbi notizie della mia famiglia, di mia madre che di quattro figli che aveva, uno era in guerra dal ’39 e non si sapeva niente. Mia sorella l’avevano presa, messa in carcere a Verona, agli Scalzi, ma era scappata durante un bombardamento e viveva un po’ nascosta; di mio fratello Remo non sapeva niente e di me pure. Io avevo un peso sullo stomaco, il peso di mio fratello, perché essendo più vecchia di cinque anni ed essendo stata edotta in certe cose più di lui, in fondo l’avevo portato in montagna.

L’avevo portato? Era cosciente di quello che faceva ma insomma ero la sorella più vecchia e avevo un certo qual rimorso. Allora mi buttai a una cosa. Intanto sapevo che a Bolzano c’era la Lancia, che era sfollata da Torino. Difatti per chi scappava dai campi di concentramento l’unica salvezza era di infilarsi alla Lancia dove gli operai non li mettevano nel forno, è chiaro, ma li nascondevano dietro i forni, non so. Andai alla Lancia e dissi: “Io devo andare a Bolzano, so che voi avete…”, “Noi abbiamo i camion che vanno.”

Partii la prima volta da Torino a giugno, su un camion della Lancia, seduta su dei cassoni dietro, Torino-Bolzano. Non cabina. Arrivai a Bolzano e seppi che cominciavano a rientrare i prigionieri della Germania, militari, politici, eccetera.

Ma non vidi dei prigionieri, ebbi notizie. Col primo camion di ritorno tornai a Torino e da quel momento cominciai ad andare alla Fiat da Aurelio Peccei e poi dalla Maria, la mia cara amica, che era la segretaria dell’ufficio stampa della Fiat.

Dissi ad Aurelio Peccei: “Voglio un’autoambulanza, me la devi dare, devo andare a Bolzano”. La Fiat mi prestò la prima autoambulanza con autista, e arrivammo a Bolzano. A Bolzano ci avviarono a delle scuole dove c’era gente per terra, sdraiata, malata, non malata, eccetera. Lì facemmo un primo carico.

Io dicevo: “Torino, Piemonte”, perché mi pareva che prendere un napoletano dovevo portarlo a Torino, speravo che altre regioni portassero i loro insomma. Ormai l’Italia era stata liberata. E infatti feci due viaggi. Il primo con l’autoambulanza della Fiat, il secondo con l’autoambulanza dell’Ordine di Malta per la quale fui accusata dall’Associazione Deportati di essere una monarchica. Cosa che, se lo fossi stata, non c’era niente da vergognarsi perché i due fratelli Valenzano, nipoti di Badoglio, sono stati presi, con le armi in pugno, dai tedeschi e portati a Mauthausen.

La terza volta, che fu ai primi di luglio, andai con un’altra autoambulanza della Fiat.

In una scuola vedevo la gente che si lamentava per terra nel semibuio.

Mentre passavo e dicevo: “Torino, Piemonte, Piemonte, Torino, Cuneo” mi sentii tirare la gonna. Guardai e vidi una persona, subito non capii se era un uomo o una donna perché vidi una cosa per terra nel semibuio. Poi mi sentii chiamare per nome: era Luigi. Di nuovo rividi gli occhi che avevo visto nel ’42 a Castelfranco Emilia.

Voi direte che sono monotona, non sono monotona: Luigi ha parlato con gli occhi e vissuto coi suoi occhi, non coi polmoni, non col suo sistema sanguigno.

Lo presi in braccio ma mi scivolò via, perché pur essendo ridotto pelle e ossa era molto alto. Lo caricammo sull’autoambulanza insieme ad altre cinque persone.

Sull’autoambulanza avevamo delle assi perché ogni tanto c’erano delle buche verso Trento per i bombardamenti e dovevamo mettere le assi per passare. Sul lago di Garda ci fermammo per lavare un po’ il sangue dall’autoambulanza perché eravamo un po’ tutti pieni di sangue.

Arriviamo a Torino, mi pare due giorni, un giorno e mezzo, è stato un viaggio tragico. A Torino ci aspettavano, sapevano già di Luigi, ad una clinica in collina dove fu ricoverato. La prima cosa che disse il professor Penati allora: “Caro amico Luigi sta morendo, non può vivere in queste condizioni”. Era cardiologo ma bastava fosse medico. In quella piccola stanza visse otto, nove giorni e passò tutta Torino, cioè la Torino GL, la Torino comunista. Lui aveva un sorriso e una parola per tutti, però la sua parola era: “Marisa ho visto Torino libera, Torino libera, il sogno della mia vita”. Aveva pagato molto caro il sogno della sua vita.

Andai a prendere la madre che non lo vedeva dal ’43, che lo credeva in un sanatorio in Svizzera e che su un giornale di GL aveva letto: “E’ tornato Luigi da Mauthausen, ma sta morendo”. La Fiat mi dette una macchina, andai a prenderla nella sua piccola proprietà, la portai a Torino. Si chiuse in questa stanza a Torino per un’ora, sola. Dopo un’ora, un’ora e mezza uscì e mi disse: “Mi vorrei riposare un po’, c’è un salotto?” Si riposò un’oretta e poi mi disse: “Mi puoi portare a casa adesso.”

Riprendemmo la macchina e ritornammo a Cuneo, aveva salutato suo figlio.

Luigi moriva dopo due, tre giorni. Tutta la notte lo abbiamo tenuto, io una mano, il fratello l’altra. Ci guardava, sorrideva. Gli demmo l’ossigeno e poi morì.

Vorrei che ricordaste non i funerali perché era ateo per cui è stato portato davanti alla Madre di Dio, ma l’orazione funebre del professor Monti, una cosa toccante; dice: “Ma cosa è servito liberare Roma se non c’è più, ……. non mi ricordo il nome. Cosa è servito liberare Torino se non c’è più Luigi Scala”. Il famoso, quello che ha un nome strano, quella moglie brutta. Amnesie. Comunque l’orazione di Monti è una cosa epica, ve la farò avere, è una cosa meravigliosa.

D: Marisa, la tua Liberazione del campo di Bolzano come te la ricordi?

R: Me la ricordo in modo strano perché noi al mattino aspettavamo che da fuori tirassero il catenaccio per aprire la porta per la conta, la famosa conta, ma quel mattino qualcuno, non so chi forse io forse un altro, appoggiandoci alla porta quasi cademmo perché la porta era aperta. Cominciammo a uscire nel campo.

Però siccome cinque giorni prima, o sei o sette, era arrivato un pullman della Croce Rossa Internazionale in campo e aveva raccolto tutti gli ebrei e li aveva portati via, allora noi politici abbiamo bestemmiato tutto quello che era possibile bestemmiare perché insomma “E noi chi siamo?” Aspettavamo anche noi il camion della Croce Rossa Internazionale.

Nel frattempo sentivamo “radio bugliolo”, noi la chiamavamo, sentivamo bombardamenti giorno e notte, i treni non passavano più.

Quel mattino siamo usciti, qualche donna è uscita, poi abbiamo visto degli uomini pure uscire. Ci guardavamo interrogandoci e guardavamo anche nelle torrette: nelle torrette non c’era più nessuno. Allora poi ci siamo fatti coraggio naturalmente, ci siamo incolonnati e siamo usciti da quel famoso cancello che esiste ancora adesso a Bolzano, con l’entrata.

D: Questo quando era?

R: Il 28 o 29 aprile, prima di maggio.

D: E una volta uscita dal campo cosa hai fatto?

R: Una volta uscita dal campo, siccome il campo allora era in campagna, c’erano delle piante da frutta. C’era della gente ed era il Comitato di Liberazione di Bolzano, esisteva e ci chiamavano: “Venite, venite, venite”. Noi eravamo titubanti perché insomma avevamo sempre paura di una mitragliatrice, di qualcosa.

Poi ci siamo incamminati. Nel frattempo Edgardo Sogno fa: “No, no, siamo liberi, siamo liberi”, ha parlato con uno e in un gruppetto di venticinque persone ci hanno portato a mangiare in un palazzo a Bolzano, non so dove, non so da chi, comunque era uno dei nostri insomma che ci dette da mangiare e ci disse che appunto si era procurato questo mezzo e che saremmo partiti per Merano.

Il tragico era che arrivati al confine fra Merano e la Svizzera, non so come si chiami, c’era ancora la postazione tedesca che non aveva avuto l’ordine di lasciare mentre a Bolzano non esisteva più nessuno. Lì ci fermarono, non volevano farci scappare. Per fortuna un socialista, mi pare il conte Soleri di Venezia, aveva conosciuto a suo tempo il capitano che comandava questa postazione, tedesco. Si avvicinò, avendolo riconosciuto, in tedesco gli disse: “Ma noi siamo stati liberati dal campo di concentramento di Bolzano, non esistono più i tedeschi né a Bolzano né a Merano, in nessun posto, voi cosa fate ancora qui?”. Questo ci guardò sconsolato e fece alzare le sbarre; di là c’erano gli svizzeri che ci chiamavano. Naturalmente gli svizzerotti, da bravi svizzerotti, siccome Edgardo Sogno si mise subito in contatto con il comando inglese a Berna, ci risparmiarono la quarantena. Però ci fecero salire su camion militari svizzeri, scortati, senza mai scendere, tutto il Parco Nazionale svizzero in braghette di tela, un freddo boia.

Rientrammo in Italia attraverso la Valtellina, dico bene? Non mi ricordo più.

Lì c’erano al confine altri che avevano saputo nel frattempo e che ci raccoglievano, ci portavano a Milano. Vi dico una cosa che ci tengo a dire.

Io andai nella casa del giornalista Angiolillo, amico di Montanelli, assieme con la moglie. Siamo stati invitati al pomeriggio alle 7 ad un ricevimento a Milano.

Dunque, voglio che capiate cosa voglio dire. Eravamo rientrati da un campo di concentramento, a Milano si davano già i ricevimenti, e noi siamo stati invitati al ricevimento.

Todros Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Alberto Todros, nato a Pantelleria il 21.7.1920.

D: Quando?

R: 21.7.1920.

D: Alberto, i motivi dell’arresto, del vostro arresto.

R: Per individuare i motivi dell’arresto devo fare una premessa. Io sono figlio di un matrimonio misto tra un ebreo e una cattolica. Cattolica mia madre, ebreo mio padre. Durante la Prima Guerra Mondiale mio padre era di stanza a Pantelleria, ha conosciuto mia madre e si è sposato appena finita la guerra nel 1918, fine del ’18, inizio del ’19. Ha portato mia madre a Torino, per cui io sono nato a Pantelleria perché come tutti i siciliani, come tutte le donne siciliane, quando devono partorire, vanno presso i genitori a Pantelleria. Infatti anche mio fratello Carlo è nato a Pantelleria. Trasferiti a Torino, nel ’25 ho perso il padre, per cui ho vissuto con la madre, sostenuto dai nonni paterni. La vita è stata una vita di stenti, difficile, perché senza padre a Torino non era facile vivere. Però ho potuto fare gli studi fino all’università, quando ad un certo momento nel 1938 durante il fascismo sono state promulgate le leggi razziali. Qui c’è la prima origine del mio interessamento alla politica, in quanto essendo figlio di matrimonio misto, non battezzato perché i miei genitori avevano deciso che ci saremmo battezzati, avremmo fatto la scelta religiosa alla maggiore età, non battezzato, sono stato dalle leggi razziali dichiarato di razza ebraica. Perciò espulso da tutte le scuole pubbliche. Per poter continuare ho dovuto iscrivermi all’Istituto San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino, perché era ammessa, essendo mia madre cattolica, la possibilità di continuare gli studi nelle scuole private. Ho fatto il liceo scientifico e appena finito il liceo scientifico le leggi razziali erano già state promulgate, non avrei potuto iscrivermi all’università. Qui c’è un episodio importante della mia vita: essendo intenzionato a continuare poiché essendo dichiarato di razza ebraica col liceo scientifico non avrei potuto fare nulla come occupazione, mi sono recato al Politecnico dove ho incontrato il direttore amministrativo, che si chiamava Martini, al quale ho chiesto, essendo figlio di matrimonio misto, battezzato, perché mia madre mi aveva poi fatto battezzare, di iscrivermi al Politecnico, anche se dichiarato di razza ebraica. Naturalmente tralascio tutte le vicende, sono state vicende lunghe che mi hanno portato ad un colloquio col Preside del Politecnico, dopodiché hanno accettato che io mi iscrivessi al Politecnico prendendomi la responsabilità di dichiararmi di razza ariana. Mi sono iscritto al Politecnico e ho fatto il primo biennio. Però da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo che mi aveva così emarginato, creato mille problemi, dichiarato di razza ebraica anche se io mio padre lo avevo conosciuto fino a cinque anni, cioè per pochissimo tempo. Quando il Politecnico è stato bombardato io mi sono trasferito con la famiglia ad Imperia, ad Imperia Porto Maurizio dove ho continuato a fare dei viaggi di studio ad Acqui dove era stato trasferito il Politecnico. Viaggi che sono stati interrotti, perché durante un viaggio, io ero all’età della leva, però essendo dichiarato di razza ebraica ero stato escluso dal servizio militare, di conseguenza mi trovavo senza documenti militari e con la mia età… una pattuglia ha rastrellato il treno. Io ho capito che se mi prendevano mi avrebbero arrestato, mi sono gettato giù dal treno e non sono più andato ad Acqui per evitare inconvenienti di questo tipo. Però a Porto Maurizio proprio per la mia origine e le vicende che avevano tratteggiato la mia vita mi sono gettato nella politica con un primo contatto con un gruppo di giovani antifascisti, coi quali facevamo delle riunioni clandestine, divulgavamo la stampa clandestina di quel tempo e discutevamo sul da farsi per lottare contro il fascismo. Fino a che è venuto l’8 settembre.

D: Scusa Alberto, con te c’era anche tuo fratello?

R: Mio fratello è venuto dopo. Nel primo periodo delle riunioni con questi giovani antifascisti c’era un giovane comunista, c’era un liberale, c’era un giovane del Partito d’Azione, c’erano diverse componenti dell’antifascismo giovanile di allora. E’ intervenuto l’8 settembre, avevamo avuto notizie che i tedeschi si avvicinavano ad Imperia, occupavano la Liguria. Da allora per evitare che le armi che esistevano ad Imperia cadessero in mano ai tedeschi la prima cosa che abbiamo fatto con questo gruppo di giovani, siamo andati sul molo d’Imperia. Ad Imperia c’è un lungo molo che penetra nel mare per circa settecento metri. Abbiamo buttato in mare tutti gli otturatori dei cannoni antisbarco. Poi siamo andati alla capitaneria del porto dove abbiamo gettato in mare delle casse di munizioni, pistole, mitra, tutto quello che abbiamo trovato. Poi ci siamo recati alla caserma della quarantunesima fanteria tra Porto Maurizio e Oneglia, abbandonata dall’esercito perché l’8 settembre l’esercito si è sciolto, sono scappati tutti. Abbiamo incominciato, ed è qui che è entrato mio fratello, con alcuni giovani raccolti a Imperia abbiamo iniziato a trasferire le armi che abbiamo trovato in un rudere nella collina antistante la caserma della quarantunesima fanteria. Durante uno di questi viaggi un compagno di scuola mi ha visto da lontano, dalla collina di fronte e questo fatto si è poi tradotto nel motivo fondamentale del mio arresto, perché ad un certo momento verso le 18.00 dell’8 settembre abbiamo avuto notizia che i tedeschi erano arrivati ad Imperia. Per cui la prima cosa che si pensava facessero era di recarsi nella caserma per vedere cosa era successo. Abbiamo abbandonato il trasferimento delle armi e ci siamo recati nelle nostre abitazioni. Questo compagno di scuola appena i tedeschi hanno preso possesso della città e ristabilito le cariche fasciste e tutto l’apparato fascista che si era dileguato all’8 settembre, appena stabilito questo rapporto ha fatto una denuncia. Questa denuncia è andata in prefettura, il prefetto, che era ancora il prefetto del periodo badogliano, ha ordinato immediatamente l’arresto. Di conseguenza la milizia volontaria ha fatto il primo arresto. Io in quel periodo per poter vivere facevo il supplente in una scuola magistrale superiore di un comune vicino a Imperia dove la scuola dopo i bombardamenti si era trasferita, Ponte Dassio. Mentre sto facendo lezione arriva il commesso e mi invita a recarmi in presidenza. Mi reco in presidenza e in presidenza trovo i poliziotti della questura di Imperia che mi dicono che devo recarmi con loro dal questore per un interrogatorio. Mi portano sotto, mi caricano su una macchina, vanno ad Imperia. Quando arrivano a Oneglia, anziché proseguire per la questura, mi scaricano al carcere di Imperia. E lì è il primo arresto.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Questo è avvenuto ai primi di ottobre del ’43. Ai primi di ottobre del ’43 mi portano nel carcere a Imperia dove trovo tutto il gruppo che aveva con me fatto il trasferimento di armi dalla caserma della quarantunesima fanteria alla collina di Imperia. Rimaniamo ad Imperia in carcere, ritrovo mio fratello, sono nella stessa cella con mio fratello. Il capo del carcere, un certo Cangemi, era un antifascista. Di conseguenza ci ha molto aiutato per i rapporti con la famiglia. Potendo avere rapporti con la madre io mi sono ricordato che il figlio del prefetto era un mio carissimo amico. Allora io invito mia madre ad andare a parlare al figlio del prefetto, il quale parla al padre e il padre che cosa fa? Stabilisce che ci può rilasciare considerando i fatti che abbiamo compiuto come una ragazzata. Io ero il più vecchio, avevo ventitré anni, gli altri erano tutti più giovani di me. Per cui dopo quindici giorni di carcere ci mettono fuori. Io riprendo a fare lezioni all’Istituto Magistrale Superiore di Fisica e Matematica quando un giorno il verbale del prefetto va in mano alla Gestapo, la quale non crede che quanto asserito dal prefetto sia un fatto da lasciare non colpito e ordina l’arresto di tutti i sette ragazzi che avevano fatto l’azione l’8 settembre. Per cui ad un certo momento i carabinieri, invitati dalla Gestapo, si recano nelle case di tutti i sette ragazzi e non trovano nessuno, perché erano tutti fuori casa e li invitano a recarsi dai carabinieri. Loro discutono se recarsi dai carabinieri o no, poi ad un certo momento, dato che tra i sette c’era il figlio di un comandante della Milizia, Gazzano, il quale dice: “Se ci fosse stato qualcosa di particolare mio padre sarebbe stato avvisato”, decidono di presentarsi. Si presentano tutti e sei dai carabinieri, i quali li arrestano, li ammanettano, li legano alla catena tre e tre e li portano da Porto Maurizio di nuovo al carcere di Imperia. Io non c’ero perché ero a lezione di matematica a Ponte Dassio. Quando torno da Ponte Dassio e passo davanti al municipio d’Imperia li vedo tutti e sei arrestati coi carabinieri che vanno verso il carcere. Vado a casa, mia madre disperata dice: “Hanno arrestato di nuovo tuo fratello, scappa almeno tu”. Io vengo preso da un tormento: scappare o non scappare? Poi a un certo momento, dato che ero il più anziano e responsabile dell’azione, ho deciso di presentarmi ai carabinieri. Di fatti ho preso un pacchetto con la biancheria, mi sono presentato alle tre ai carabinieri, i quali, meravigliati, mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.

D: Questo quando?

R: Questo sempre nel novembre del ’43. In carcere ad un certo momento è arrivato l’ordine di passaggio alla Gestapo di Savona. Allora ci hanno preso dalle celle, tutti e sette ci hanno caricati su un furgoncino e ci hanno portato a Savona. A Savona nella piazza della stazione c’era un albergo occupato dalla Gestapo. Ci hanno consegnato alla Gestapo, la quale ci ha trasferito al carcere di Savona. Il carcere di Savona era un carcere vecchissimo, terribile, senza i confort normali di un carcere, per cui noi siamo stati scaraventati in una cella con dei delinquenti comuni, con dei ladri, con dei prigionieri comuni. Siamo stati lì alcuni giorni, fino a quando verso la fine di novembre un giorno ci hanno fatti uscire dalle celle insieme ad altri, ci hanno portato nel cortile. Nel cortile c’era un furgoncino, ci hanno caricato su quel furgoncino e ci hanno portato a Marassi di Genova sotto la SS. A Marassi di Genova siamo entrati in questo carcere che era terribile, perché non si usciva a prendere aria, si mangiava una volta al giorno, una fetta di pane e un cucchiaio di zuppa, non si poteva stare seduti sul letto, la sentinella controllava dallo spioncino in continuazione. Bisognava stare in piedi, tutte le mattine c’era l’ispezione del comandante del carcere della SS che ci faceva mettere in perfetto ordine d’altezza, controllava se i letti erano fatti alla perfezione. Se non erano fatti alla perfezione succedevano dei pasticci. Di conseguenze è stato un periodo dove sia per la mancanza di aria che per il vitto scarso siamo tutti quanti deperiti abbastanza. Per cui quando nel febbraio del ’44 è arrivato l’ordine di trasferimento a Fossoli di Carpi eravamo tutti già abbastanza provati, deperiti e provati per il carcere che avevamo subito. Ci hanno caricati su un carro merci e coi binari che erano davanti al carcere ci hanno portato alla stazione. Lì un fatto particolare: mentre formavano il treno che sarebbe andato a Fossoli, davanti al treno che si stava formando è passato un treno della Genova Ventimiglia sul quale c’erano dei conoscenti di Imperia. Quando mi hanno visto, io ho detto: “Voi dove andate?”. Loro hanno detto: “A Imperia” dal finestrino, “Tu chi sei?”. Ho detto il mio nome, mi ha detto: “Non ti riconoscevo più” tanto ero deperito. Allora ho potuto attraverso di loro mandare notizie a mia madre. Siamo partiti, siamo arrivati a Fossoli e a Fossoli la scena che si è manifestata all’entrata nel campo è stata una scena terribile, perché si passava per arrivare al campo politico davanti alle baracche dove c’erano gli ebrei, dove c’erano bambini che giocavano all’esterno. Era quasi sera. Giocavano all’esterno delle baracche dove c’erano dei vecchi. C’era una popolazione di ebrei che aspettava di essere trasferita al campo di concentramento. Siamo entrati nella baracca numero 10 di Fossoli e a Fossoli si è sparsa una prima voce che saremmo stati liberati se aderivamo alla Repubblica Sociale. Dato che la baracca non era ancora organizzata, mancavano i castelli, mancavano i materassi, mancava tutto quanto necessario per poter vivere, durante la notte abbiamo discusso cosa fare. Una parte ha optato per presentarsi per poi scappare e andare in montagna, una parte ha deciso di non presentarsi e io e uno dei due fratelli Serra, perché con noi c’erano altri due fratelli, abbiamo deciso di non accettare. Ma la cosa non era vera, infatti alla mattina non se n’è nemmeno più parlato. La nostra vita a Fossoli è stata una vita abbastanza interessante, perché eravamo all’aperto, si lavorava in lavori molto leggeri, ricevevamo i pacchi dalla madre, che intanto si era trasferita a Carpi, ci mandava tutti i giorni il pacco dei viveri, si poteva discutere. E’ lì che io ho avuto i primi incontri politici con alcuni comunisti e socialisti, che facevano durante le ore di riposo le scuole di partito ai giovani. La vita è andata avanti fino a giugno del ’44, quando una mattina si è sparsa la voce che il giorno dopo ci sarebbe stato un trasporto per la Germania.

D : Scusa, Alberto, a Fossoli ti hanno immatricolato?

R : Sì, mi hanno immatricolato. Io avevo una delle prime matricole, adesso non mi ricordo nemmeno più il numero, mi sembra il 10, perché il campo politico è stato costituito con il nostro gruppo. Poi sono arrivati da Genova, da Milano, da Torino, sono arrivati altri prigionieri e siamo diventati un gruppo numeroso. Tralascio tutti i tentativi di fuga fatti, perché sono scritti in un libro di memorie che io ho compilato. Fino a che, arrivata la notizia, una mattina si è presentato il maresciallo delle SS, ha incominciato a chiamare un certo numero di persone e man mano che li chiamava si allineavano da una parte. Dopodiché sono arrivati dei pullman, ci hanno caricato sui pullman e portati alla stazione di Carpi. Durante l’andata alla stazione si doveva compiere un tentativo di fuga che non si è compiuto, però è descritto in un libro che Bonfantini, uno dei prigionieri che era con noi, ha scritto, “Il salto nel buio”, dopo il ritorno. Siamo arrivati alla stazione di Carpi, ci hanno caricato su questi carri bestiame, cinquanta, sessanta per carro. Era giugno, faceva caldo. Mia madre intanto, che aveva ottenuto a Verona dalle SS il permesso per venirci a trovare a Fossoli al campo di concentramento, quando è arrivata le hanno detto che noi stavamo partendo per la Germania. E’ venuta alla stazione, tramite l’aiuto della popolazione di Carpi, che è una popolazione meravigliosa, che ha fatto delle cose meravigliose per l’antifascismo, ha raccolto dei viveri, dei vestiti ed è venuta alla stazione. Ha cercato di avvicinarsi al treno, inizialmente le SS non l’hanno lasciata venire, poi resistendo e scavalcando un muretto si è avvicinata al vagone, ci ha consegnato questi viveri e questi abiti. Il treno ad un certo momento hanno chiuso i vagoni ed è partito. Tra l’altro, alla partenza ci hanno detto che durante il viaggio per ogni prigioniero che sarebbe scappato, all’arrivo dieci sarebbero stati fucilati. Ad un certo momento con noi nel vagone c’era un anarchico di Genova che era un uomo coraggiosissimo, che era già scappato due volte dalla SS, il quale alla partenza, mentre noi abbiamo ricevuto i bagagli dalla famiglia, lui ha consegnato alla moglie tutti i suoi bagagli, ha detto: “Ci vediamo in tal posto, perché io scappo”. Infatti appena chiuso il vagone ha incominciato a tentare di tagliare il fondo del treno, perché gli addetti alla stazione di Carpi ci avevano consegnato un fiasco di vino con dentro un fascio di lime per il ferro e poi una mezza forma di formaggio, ci avevano dato un mucchio di cose. Per cui questo qui con le lime che aveva trovato nella valigia ha incominciato a segare il fondo del treno. Però era giorno, non si poteva scappare in quel modo, perché la SS occupava un intero vagone e controllava tutti gli altri vagoni. Per cui ci siamo messi d’accordo a una certa ora, appena veniva buio, di tagliare il filo spinato che c’era sul finestrino del vagone, calarsi giù uno alla volta. Lui si è proposto di essere il primo, con l’impegno di attaccarsi alle sbarre di apertura del vagone e aprire la porta del vagone. Infatti questo qui ad una certa ora, appena si è fatto buio, io ero sotto il finestrino, l’ho aiutato a salire, è uscito dal vagone, sì è trasferito davanti alla porta e ha aperto la porta del treno. Appena aperta la porta, io l’ho tirata, tre o quattro sono saltati giù, io ho chiamato mio fratello. Mio fratello, faceva molto caldo, eravamo tanti nel vagone, si era addormentato, per cui si è svegliato. Nel momento in cui arriva fino alla porta del vagone, il treno si ferma a Rovereto, per cui non siamo potuti scappare. Dopo la partenza abbiamo tentato di rifare lo stesso gioco altre volte, ma non ci siamo più riusciti, perché gli altri prigionieri si sono opposti dicendo: “Una volta possiamo dire che l’hanno aperta dall’esterno, lo facciamo due volte ed è la fine di tutti”. Per cui siamo arrivati a Mauthausen. L’arrivo a Mauthausen è una cosa allucinante: di notte, con questi SS coi cani, con le grida, i colpi col calcio del moschetto, del fucile se non facevamo presto. Siamo scesi dai vagoni, ci siamo incolonnati e abbiamo iniziato la salita verso Mauthausen, perché Mauthausen è in cima a una collina e ci sono parecchi chilometri per poter salire. Io e mio fratello avevamo i bagagli che ci aveva dato la madre. Durante la salita non ce la facevo a portarli su e lui continuava a dire: “Resisti, resisti che questi saranno la nostra salvezza”. Ad un certo momento con molta fatica resistendo a lasciare i bagagli vediamo nel cielo una luce che man mano ci avviciniamo aumenta. Sembrava un incendio. Invece, era l’illuminazione del campo. Quando arriviamo davanti al campo si aprono le porte del campo e noi entriamo dentro questo campo di concentramento che aveva un grosso piazzale, a destra c’erano la lavanderia, la cucina, l’ospedale e a sinistra tutte le baracche. Entriamo e ci mettono tra il muraglione, sembrava una fortezza con dei muraglioni alti tre metri con sopra il filo spinato con l’alta tensione. Ci mettono tra la baracca della lavanderia e il muro per la notte, perché siamo arrivati a sera tarda. Tra l’altro, pur essendo in giugno faceva freddo. Vediamo delle ombre che si avvicinano, che sono come dei fantasmi, perché hanno la testa rapata con una striscia in mezzo alla testa, poi hanno dei vestiti con tanti tasselli di colore diverso, un numero. Sono prigionieri del campo che si avvicinavano e ci dicono: “Domani vi porteranno via tutto, perciò date a noi i valori che avete e noi, quando ritornate nel campo, ve li restituiamo, oppure date a noi i valori che vi diamo una bottiglia d’acqua” perché eravamo tutti assetati dopo un giorno e una notte passati nel vagone, eravamo tutti assetati. Allora molti accettano, lì succede una scena che a raccontarla sembra ridicola, che tutti cercano di mangiare tutto quello che possono. Appena sanno che gli portano via tutto, mangiano lo zucchero, mangiano quello che possono. Alla mattina arriva la SS, ci fa spogliare completamente, si ritira da una parte i documenti, i gioielli, i soldi, tutto quello che abbiamo. Mette i vestiti su un mucchio di vestiti e poi, mano a mano che siamo spogliati, ci manda sotto la lavanderia, c’erano le docce.

Ci manda sotto le docce dove nella prima camera c’erano degli altri prigionieri che con un rasoio senza sapone, senza niente ci depilano completamente, sia i peli del pube che le ascelle, i capelli. Ci depilano completamente e poi ci mandano in un secondo salone dove ci sono le docce. Uno alla volta veniamo messi tutti lì dopo essere stati classificati, catalogati, prima di entrare …. Quando siamo tutti dentro questa grande doccia esce l’acqua, ci fanno la doccia, naturalmente doccia senza sapone, senza niente. Poi usciamo dall’altra porta e ci sono due mucchi di vestiti, mutande e camicia. Si passa davanti ad un mucchio, ci danno una camicia, dall’altro le mutande e poi fuori. Naturalmente non essendo scelte c’era il magro che aveva le mutande grandi, il grasso che aveva le mutande piccole, tra noi facciamo dei cambi per avere il minimo della possibilità di vestirci con questi. Poi ci mettono in fila e ci portano nei blocchi di quarantena. La quarantena era un periodo che si passava in un blocco tra una baracca e l’altra, era il periodo più terribile del campo dove avveniva la prima eliminazione. Tutti i deboli che non resistevano venivano subito mandati all’ospedale ed eliminati. In questa quarantena io ero al blocco 17, erano quattro blocchi di quarantena, 15, 16, 17, 18, poi c’erano due blocchi, 19 e 20, che erano i blocchi della morte. Pur essendo all’interno del campo avevano una seconda cinta che li ricingeva e lì dentro venivano mandati i condannati a morte, erano trattati…tra poco lo descriverò quando tratterò della fuga che hanno tentato. In quarantena la vita era terribile perché si stava in piedi tra i due blocchi, senza scarpe, con camicia e mutande. Questo avveniva per noi fortunatamente a giugno, ma per gli altri anche a gennaio. Si stava lì in mezzo, sempre in piedi, non si beveva, non si poteva far niente se non chiacchierare tra noi, non ci si poteva sedere per terra perché il capo della baracca subito arrivava col manganello di gomma e ci dava delle bastonate. Ad un certo momento alla mattina ci mettevamo in fila e facevamo la ginnastica col cappello: “Mutzen ab, Mutzen auf”, cioè su e giù il cappello. Poi arrivava l’orzo, il mestolo di orzo che ci davano. Tra l’altro avevamo poche gamelle, per cui ce la passavamo uno con l’altro. Poi rimanevamo lì, a mezzogiorno ci davano un mestolo di zuppa di rape che era terribile, i primi giorni non si riusciva a mangiare, poi la fame faceva mangiare anche quella zuppa. Dopo si passava al pomeriggio, alla sera davano una fetta di pane e un cucchiaio di margarina. Poi ci facevano mettere, questa è la cosa più allucinante, in fila e ci portavano dentro il baraccone dove c’era il camerone per dormire. C’erano dei materassi di paglia per terra. Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno coi piedi. Finita la prima fila c’era un piccolo corridoio in mezzo, seconda fila, un altro corridoio, terza fila. Naturalmente quando non ci stavamo tutti, perché eravamo molti, veniva il comandante con questo bastone di gomma a picchiare per farci stringere, stringere e far entrare quelli che erano rimasti fuori. Naturalmente si passava lì la notte senza poter dormire, perché io cercavo di avere sulla faccia i piedi del fratello o dell’amico e di conseguenza era meno… Tra l’altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso. Alla mattina ci si alzava, ci si doveva lavare nel Wascheraum, che era una vasca con tanti zampilli dove ci si lavava alla bell’e meglio. Poi si tornava fuori, si stava così quaranta giorni. Al quarantesimo giorno o trent’otto, trentasette secondo i bisogni veniva il trasferimento al comando di lavoro. Allora veniva la SS con un elenco, chiamavano un certo numero di nomi e questi che venivano chiamati venivano inquadrati a parte, poi uscivano dalla quarantena, li vestivano con la giubba di tela e i pantaloni di tela e gli zoccoli e andavano nel comando cui erano destinati, perché erano destinati ai vari comandi di lavoro attorno a Mauthausen, nelle officine, in vari luoghi dove c’era il lavoro forzato. Io non vengo chiamato, mentre mio fratello viene chiamato. Io non sono stato chiamato perché arrivando a Mauthausen ho detto che ero studente d’ingegneria e sul mio cartellino hanno scritto “Bauteckniker”, tecnico in costruzioni, perché ero studente di ingegneria civile edile. Tecnico in costruzione, perciò come specialista non vengo chiamato. Qui era un comando di manovali, di fatti sono stati portati a Melk e la metà è morta subito, dopo i primi mesi. Non vengo chiamato, non mi ero mai diviso dal fratello. Vado dal segretario del Baukomando e chiedo di non dividermi dal fratello, di mandare anche me in questo comando. Lui prende il mio cartellino e dice: “No, tu non puoi perché sei tecnico specializzato, devi rimanere qua”. “Allora lasci mio fratello qua”. Quello dice: “Non posso, non posso”. Poi con la mia insistenza cosa fa? Prende mio fratello, lo toglie dal comando, lo rimette in quarantena e mette al suo posto un altro prigioniero. Il giorno dopo io vengo chiamato al Baukomando e mio fratello invece rimane in quarantena. Vengo chiamato al Baukomando che era il comando costruzioni. Tutte le mattine alle 7.30, alle 8.00, secondo la stagione alle 8.30 venivamo inquadrati nella piazza d’appello e portati fuori a fare dei lavori edili, strade, baracche, a fare dei lavori, muretti di recinzione, a fare dei lavori. Io vengo destinato al gruppo degli scaricatori. Ad un certo momento arrivavano camion pieni di ghiaia, cemento, sabbia, materiali edili. Io dovevo tutto il giorno scaricare questi materiali e portarli nel deposito.

D: Scusa una cosa, Alberto. Quando vi hanno immatricolati a Mauthausen?

R: Appena arrivati.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 77.604. Era molto importante perché da quel momento la nostra identità è scomparsa e siamo diventati dei numeri. Faccio questo lavoro con la preoccupazione, tornando in campo tutte le sere, di non trovare più mio fratello. Faccio questo lavoro per quindici giorni, è un lavoro faticoso, sento che non ce la faccio più. Combinazione, il segretario di questo comando era un delinquente comune, un ergastolano viennese, il quale quando ero arrivato aveva sentito che io ero italiano, lui amava molto Venezia, Roma, Firenze, per cui si ricorda di me e mi manda a chiamare dal luogo dove scaricavo i camion. Mi mette un registro davanti di pagine bianche e mi chiede se sono capace di fare le linee nei fogli tutti uguali, dato che sono studente di ingegneria dovrei essere capace. Mi mette alla prova. Naturalmente io lo faccio, lo faccio molto bene perché erano fogli a quadretti, per cui era facile col righello fare tutte queste righe. Lui contento dice: “Va bene, allora rimani qui a lavorare con me”. Mi mette a lavorare in una baracca al caldo. Questo qui era uno dei primi arrivati a Mauthausen, un Kapò, mangiava ogni ben di Dio perché facevano il traffico con l’esterno, con i gioielli dei deportati. Mi faceva sedere vicino, ogni tanto si faceva delle grosse pastasciutte. Tra l’altro essendo viennese faceva con lo zucchero e il cioccolato. Quando rimaneva un po’ me lo passava. Era il dolce più prelibato che ho mai mangiato nella mia vita. Dopo una settimana di questo lavoro al chiuso, al caldo, al coperto mi dice: “Ma come mai sei qui tranquillo e sei sempre lì preoccupato, silenzioso?”. Gli dico: “Io ho mio fratello in quarantena, tutte le sere che vado su ho paura di non trovarlo più”. Mio fratello in quarantena quando andavo a trovarlo alla sera, perché alla sera dopo il lavoro, dopo aver mangiato avevamo mezz’ora e potevamo girare nel campo, andavo verso la quarantena e alla quarantena lo trovavo e diceva: “Hai fatto male a togliermi”. Adesso era con dei russi, con tutti altri… “Io non capisco nessuno, non conosco nessuno, almeno andavo con gli amici. Se mi mandano a lavorare non so come farò a resistere senza conoscere nessuno”. Allora lui mi dice: “Perché non me l’hai detto prima?”. “Io non gliel’ho detto, Lei è già così gentile con me, non volevo…”. Allora alla sera arrivo, questo era un uomo potentissimo perché il comando all’interno, l’organizzazione era in mano a questi Kapò. Alla sera ritorno, trovo mio fratello trasferito nello stesso mio blocco e nello stesso mio comando.

D: Che era il blocco del campo libero numero?

R: Dieci, numero dieci.

D: C’era anche Don Gaggero?

R: C’era anche Don Gaggero, è stato un elemento favoloso. E così alla mattina dormiamo nello stesso letto in ottanta centimetri io e lui, siamo di nuovo assieme, viene a lavorare e a prendere il mio lavoro a Mauthausen, il lavoro da scaricatore. Io continuo a scrivere, a fare il segretario. Insomma, fatto sta che, per farla breve, la mia vita a Mauthausen è stata una vita fortunata, perché tolto questo mese di quarantena, tolti i quindici giorni passati a fare lo scaricatore, ho trovato un lavoro stabile, seduto, mangiavo qualche cosa di più, stavo al caldo rispetto agli altri che invece hanno passato dei momenti terribili. Con la mia posizione ho potuto vedere dei fatti terribili, per esempio l’uccisione dei sabotatori di Vienna. Erano trentasei operai di Vienna che sono stati arrestati per sabotaggio e mandati nella scala della morte. A Mauthausen c’era una scalinata che andava alla cava di pietra di 186, 187 gradini. A questa scala lavorava la compagnia di punizione, caricavano dei grossi massi sulla schiena e li facevano portare su per i 186 gradini tutto il giorno, fin quando non ce la facevano più e li eliminavano. Questi operai viennesi sono stati mandati in questa compagnia, hanno cominciato a caricare delle pietre molto pesanti e andare e venire. Man mano che cadevano li ammazzavano. Io ho visto, perché lavoravo vicino, ho visto cadere uno per uno tutti questi deportati, ammazzati. La cosa strana che mi sono sempre chiesto è come mai quando hanno visto il primo, il secondo, il ventesimo, il trentesimo non si sono mai ribellati. L’istinto di conservazione è più forte della volontà di ogni uomo, per cui speravano sempre che la cosa finisse. Ho visto tanti altri episodi importanti, per esempio a un certo momento è arrivato a Mauthausen un gruppo di ebrei ungheresi trasferiti nella collina, perché nel campo non c’era più posto. Nella collina, di fronte alla camera dove io dormivo. In questa collina li hanno recintati, li hanno lasciati lì che morissero un po’ alla volta. Io alla sera arrivavo dal lavoro, c’era il mucchio di cadaveri di quelli che erano morti durante il giorno, tra i quali c’erano ancora molti vivi, perché si vedevano delle braccia e delle gambe che si muovevano. Poi veniva il carretto, li caricava e li portava nel forno crematorio. Li hanno ammazzati quasi tutti, donne, vecchi, bambini, tutti, fino a quando li hanno poi caricati su dei pullman. Noi l’abbiamo saputo, li hanno portati sul Danubio e hanno affondato la vecchia nave nella quale li hanno caricati.

D: Vicino a te, nel blocco 10, dormiva Hans, se non mi sbaglio.

R: Sì. Dunque, Hans è stato un deportato che mi ha aiutato molto. E’ stato un po’ la causa quasi della mia morte, perché in quarantena è arrivato davanti alla quarantena… Hans era un deportato di Bolzano che parlava benissimo il tedesco e che era stato messo in un comando importante, quello del pane. Lui una sera, saputo che erano arrivati degli italiani, è venuto davanti al blocco di quarantena, è il primo che mi ha spiegato che cosa era Mauthausen, quale inferno era Mauthausen. Poi prima di andare via mi ha dato una sigaretta. Naturalmente la sigaretta non si poteva fumare nel cortile, allora quando siamo entrati nel blocco, messi a dormire, abbiamo trovato un fiammifero e, quando il Kapò è uscito, abbiamo acceso la sigaretta. Poi io l’ho passata al mio vicino che era un comandante partigiano, Valentini. Valentini l’ha passata a Vecchi. Mentre passava la sigaretta a Vecchi è entrato il capo blocco, li ha visti e li ha presi tutti e due. Li ha portati nel Waschraum, noi abbiamo sentito gridare, sentito delle urla che non finivano più. Poi questo qui è entrato dentro e ha detto: ” Chi ha acceso la sigaretta venga fuori”. Io avevo acceso, questi erano vicino a me, non potevo che essere io ad aver acceso la sigaretta. Allora mi sono alzato, sono arrivato lì e ho trovato tutti e due insanguinati, svenuti per terra e quello ha cominciato a picchiare me. Mi ha picchiato, quando svenivo con un secchio d’acqua mi faceva rinvenire, poi ha detto: “Adesso vado a chiamare la SS”. Dato che al nostro arrivo a Mauthausen ci avevano letto il regolamento di Mauthausen, cioè chi veniva pescato a fumare veniva impiccato immediatamente alle travi del blocco, questo dice: “Vado a chiamare la SS”, c’era un segretario spagnolo, politico che dice: “Ragazzi, siete finiti perché se arriva la SS vi impicca tutti e tre”. Io parlavo tedesco perché avevo studiato al liceo scientifico tedesco, parlavo un po’ di tedesco. Allora gli dico: “Ma Lei è un fumatore, erano quattro mesi che non fumavamo in carcere, ecc. Abbiamo ricevuto una sigaretta, abbiamo sentito il bisogno di fumare. Lei dovrebbe capirlo”. Questo qui è uscito, dopo un quarto d’ora invece di tornare con la SS è tornato e ha detto: “A dormire”. Alla mattina ci ha chiamato fuori, ci ha detto chi voleva andare all’ospedale, perché eravamo tutti pieni di botte, di ferite, ecc. Ci avevano detto che andare all’ospedale era meglio non andare, perché lì si moriva. Abbiamo detto di no e abbiamo continuato la nostra vita. Quando siamo andati a lavorare e ci hanno messi al blocco 10, nel letto di fianco al mio c’era Hans, il quale si alzava alla mattina molto presto per andare al comando del pane. Dato che non aveva tempo di fare il letto, perché lì volevano il letto squadrato, fatto alla perfezione, abbiamo fatto un contratto. Dice: “Sentite, voi mi fate il letto quando vi alzate un’ora dopo, un’ora e mezzo dopo, io tutte le sere vi porto un pezzo di pane”. Abbiamo fatto il contratto e abbiamo mangiato il pezzo di pane tutte le sere che lui ci portava e abbiamo fatto il letto.

D: Alberto, scusa, il forno di panificazione era dentro nel campo di Mauthausen?

R: No, era fuori.

D: Ma fuori giù verso il villaggio?

R: Fuori, nelle baracche esterne dove c’erano gli uffici, la segreteria, dove c’erano le baracche della SS. Era fuori.

D: Il momento della Liberazione.

R: Il momento della Liberazione è stato una cosa meravigliosa e drammatica nello stesso tempo. Noi sette, otto giorni prima della Liberazione, che è avvenuta ufficialmente il 5 Maggio del ’45 naturalmente, prima della Liberazione un giorno ci comunicano che non andiamo più a lavorare. Allora noi abbiamo subito capito che stava finendo, perché avevamo le notizie che la guerra andava male, che gli alleati erano vicini. Però il comitato internazionale dei deportati nel campo ci ha informati che avrebbero tentato di farci fuori tutti, allora ha dato delle disposizioni per cui ciascun gruppo, ciascuna nazionalità doveva aggredire una parte della cinta per cercare di fuggire, qualora avessimo visto che facevano i preparativi per eliminarci tutti. Fatto sta che mentre noi facevamo questa organizzazione loro non hanno fatto in tempo a far niente. Una mattina hanno raccolto tutti i gioielli, i soldi, le cose che avevano, sono saliti, hanno preso i Kapò e sono scappati. Per cui ci hanno lasciati liberi. Alla Liberazione è successo il finimondo, perché di 40.000 persone che eravamo 30.000 stavano morendo di fame. Per cui organizzare il campo era difficilissimo. Di fatti il CLN ha armato delle squadre per ogni nazionalità e le squadre costringevano i deportati ad andare in cucina a far da mangiare, costringevano i deportati a tenere un minimo di pulizia. Facendo da mangiare, cos’è successo? Che cambiando il vitto è scoppiata un’epidemia di diarrea. Per cui morivano come le mosche. Il blocco era come un gabinetto, pieno, non facevano in tempo ad andare nel Washraum, tutti i letti…era una morte continua. Tanto che, questo è l’episodio più bello di Mauthausen, Don Gaggero, che era in una condizione terribile, aveva le gambe gonfie, magro, stava in piedi per miracolo, raccoglieva tutte le lettere, i dati dei moribondi e poi un giorno mi dice: “Alberto, io ero stato nominato segretario, non segretario politico, segretario burocratico del comando della baracca 10”. Mi dice: “Senti, io voglio andare a Mauthausen”. Prima mi dice: “Facciamo la sepoltura a tutti quelli che muoiono”. E abbiamo incominciato col primo a fare la sepoltura, ma morivano così tanti che non siamo riusciti a farlo. Poi mi dice: “Voglio andare a Mauthausen a prendere l’ostia e gli abiti per dire la messa al campo”. Parte, va a Mauthausen, dal prete di Mauthausen, si fa dare l’ostia, si veste da prete, ritorna al campo e dice la messa al campo di Mauthausen. Un episodio meraviglioso, perché l’abnegazione di Don Gaggero è stata una cosa indescrivibile.

Cussigh Ferdinando

L’intervista è stata resa in dialetto. La trascrizione è stata tradotta in italiano.

Sono stato arrestato a Udine.

D: Aspetta, ti chiami, scusa?

R: Cussigh Ferdinando.

D: Sei nato?

R: Nato il 14 settembre 1925.

D: Dove?

R: A Savigliano del Torre, Comune di Povoletto.

D: Sei stato arrestato quando, Nando?

R: Arrestato il 4 settembre 1944.

D: Dove e da chi?

R: A Udine dalla SS.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché mi hanno arrestato? Perché ero un po’ con lo zoppo.

D: Cioè eri un partigiano?

R: Sì, assieme a me c’era tanta gente, tanti amici. Di cinque sono rimasto solo io. Siamo stati in prigione a Villaco, a Villaco in prigione ci hanno portati.

D: Da Udine? Ti hanno arrestato a Udine?

R: Sì e portato a Villaco, nelle prigioni di Villaco. Dopo, un trasporto a Dachau.

D: Ma ti hanno interrogato?

R: Interrogato niente. Non sono mai stato interrogato, neanche a Dachau.

D: Il libro lo puoi lasciare stare adesso. Stai tranquillo. Allora, da Villaco?

R: Da Villaco a Dachau, trasporto su un treno.

D: Era un treno come?

R: Era un treno pieno di ebrei, parte di Zaga, Jugoslavia, pieno di ebrei era. Zeppo, insieme a noi.

D: Ma era un carro merci?

R: No, era chiuso. Un treno passeggeri no, sempre un carro merci. Eravamo slegati, era pieno di pacchi perché li avevano portati da mangiare gli ebrei, erano pieni di tutto loro. Dopo, invece, a Dachau ci hanno spogliati di tutto, anche dei vestiti. Via tutto.

D: Quanto è durato questo viaggio?

R: Questo poco, Villaco e Dachau erano a pochi chilometri.

D: Quando sei entrato a Dachau cos’è successo?

R: Entrati a Dachau ci hanno dato un numero, dopo il bagno, ci hanno levato tutti i vestiti. Dopo ci hanno dato dei vestiti alla rinfusa, che avevano loro, andavano bene, non andavano bene è uguale. Ci hanno fatto la doccia, ci hanno rasato la testa, hanno rasato anche il resto. Dopo ci hanno mandati fuori, ci hanno dato il numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: No, quello di Buchenwald sì, 100.328, hunderttausend-dreihundertachtundzwanzig. L’altro invece in tedesco non lo so, neanche in italiano.

D: Quello di Dachau non te lo ricordi?

R: Aspetti che vediamo qua, c’è qua il numero. Guardo.

D: Allora, Ferdinando, sei arrivato a Dachau, lì ti hanno spogliato ecc., poi ti hanno mandato in blocco di quarantena?

R: In quarantena, sì.

D: Ti ricordi quale blocco?

R: Il blocco non me lo ricordo, ero in quarantena, proprio al margine, contro Monaco, si sentivano bene le sirene suonare per l’allarme. Sono stato circa trenta, quaranta giorni, proprio non lo so, bisogna vedere.

D: Dentro nel blocco?

R: No, no, in quarantena.

D: Non lavoravate lì?

R: No, no. Fermi. Dopo abbiamo fatto un altro trasporto. Erano tremendi i trasporti, perché si era chiusi, bombardamenti sempre. Ci hanno portati a Buchenwald. Altro controllo, altro bagno, cambiato il numero, cambiati i vestiti. Anche lì sono stato non in un blocco, in una grande tenda in fondo al campo, una tenda proprio grandissima. C’era fango, c’era freddo. Ho conosciuto i fratelli Villa, padre e figlio. Il padre dopo è morto a Mauthausen, invece il figlio è vivo ancora. Dopo un altro trasporto ancora, fino ad Alberstadt.

D: Ma lì a Buchenwald quanto tempo sei rimasto più o meno?

R: Poco in quei campi, Dachau e Buchenwald, poco tempo. Dopo sono stato più ad Alberstadt, che allora era una fabbrica di apparecchi. Ci hanno messi ad aiutare i Meister, si fabbricavano ali degli Junker.

D: Lì c’era un campo?

R: Sì, era un campo chiuso, vicino alla fabbrica. Era il migliore, si è potuto stare bene proprio, abbastanza. Si mangiava abbastanza, non era male lì. Dopo, invece, ci hanno trasferito di notte.

D: Ma in questo campo dove costruivi gli apparecchi c’erano anche dei civili con te?

R: Civili? Un civile e un deportato, faceva l’aiuto lui come me.

D: Ti ricordi se la fabbrica aveva un nome?

R: Sì, Junker, la Junker.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Lì sono rimasto sicuramente tre mesi, ma lì si stava, si poteva… Dopo ci hanno trasferiti a Langestein, lì invece era dura. Non tanto dura per me, perché io ero dentro nelle gallerie a montare il macchinario, perché doveva servire per fare pezzi di ricambio per Dora. Invece quelli esterni come il dottor Burelli, Berti erano a lavorare, a spingere vagoni, vagonetti per estrarre materiale. Quelli stavano molto peggio.

D: Il campo lì a Langenstein era fuori dalle gallerie, ma vicino alle gallerie?

R: No, no. Il campo era nel bosco. Per andare nelle gallerie c’erano sicuramente due chilometri. Alle sei alla mattina, senza vestiti, senza niente e camminare. Andata e ritorno. Alle sei si partiva, si ritornava alle… Dodici ore ci toccava fare dentro lì.

D: Le gallerie lì erano grandi?

R: Erano dietro a costruirle, sì, adesso non lo sono più, adesso la DDR le ha fatte più grandi. Le ha viste Lei?

D: No.

R: Adesso è lusso, ma quella volta erano piccole ancora, dove lavoravamo noi erano abbastanza grandi per mettere i macchinari, per montare i macchinari, ma era ancora da finire tutto.

D: Lì sei rimasto quanto tempo a Langenstein?

R: Fino a quando è avvenuta la marcia della morte.

D: Che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: E’ avvenuto… Anche quello è scritto. Nel mese di maggio, il 2 maggio mi pare. E’ finito abbastanza male.

D: Parlaci un po’ di Langestein, com’era organizzato questo campo?

R: Il campo di Langestein era organizzato, quello nel bosco era tutto dei deportati che facevano le gallerie, noi eravamo sull’orlo della strada chiusi, separati dagli altri.

D: Ma eravate anche voi deportati?

R: Uguale a loro. Solo che c’era un lavoro più leggero. C’era … di Trieste assieme a me, dopo c’era Primas Mario, anche quello era di Capo d’Istria, dopo c’erano molti russi, Ebrei mai visti, non li ho mai visti. Dopo c’erano tedeschi anche, c’erano i Kapò che erano tremendi. Entrando nelle gallerie, sempre botte. Dopo il pane lo rimpicciolivano ogni giorni di più. Trovando allora la colonna che entrava e che usciva si chiedeva: “A quanti pezzi danno il pane?”. “….” rispondevano i russi, avevo imparato anche il russo un poco io.

D: Quindi la pagnotta di pane veniva divisa?

R: Sempre, dopo ultimamente non era niente quasi, davano pezzettini così.

D: Ascolta, il campo dei deportati che lavorava nelle gallerie era nel bosco?

R: A parte, sì.

D: Erano nel bosco? Mentre voi eravate di fronte alle gallerie?

R: Di fronte, ma sempre nel bosco quasi, perché non passava mai nessuno lì.

D: Ma sempre con le SS attorno?

R: Sempre con le SS, sempre…

D: E anche voi nelle baracche?

R: Baracche nuove noi avevamo, perché eravamo appena arrivati.

D: Sempre attrezzate con i letti a castello le baracche?

R: Sì, tre o quattro posti. Uno sopra l’altro.

D: Voi facevate i turni?

R: Turni niente, di giorno facevamo noi, non so dopo durante la notte se facevano. Mi pare di no, mi sembra i turni solo quelli che erano nel campo grande, quelli sì facevano il turno.

D: Quelli adibiti allo scavo?

R: Non ci si incontrava mai con quelli, solo per la strada oppure si chiedeva il pane, dopo non sapevo se lavoravano come meccanici o a scavare le gallerie. Non si poteva vedere, guardare dove si voleva. Lì mi è morto il mio amico, Primas Mario, nel mese di febbraio. Era di Cassaco, vicino al mio paese.

D: Come mai è morto?

R: No Primas Mario, Conbelli Luca, ho sbagliato. Si può ritornare indietro?

D: Non preoccuparti.

R: Conbelli Luca era di Cassaco, è morto perché allora aveva messo un po’ di carta perché aveva freddo, l’hanno trovato, l’hanno pestato, l’hanno picchiato. Dopo gli sono venuti i buchi nello stomaco e le gambe così grosse, dopo è morto. Le gambe così, non ho mai visto una gamba uguale. Si spingeva dentro il dito e rimaneva il buco, una roba da non credere. Dopo abbiamo portato dei morti per una settimana intera su, fuori dal campo, dove adesso abbiamo il monumento. Anche quello abbiamo fatto. Dopo siamo partiti per la marcia della morte.

D: Com’è che vi hanno detto, dovevate evacuare il campo?

R: Sì. Tanti sono rimasti dentro, come Berti, come Burelli. Io non lo so, noi invece…

D: Ascolta, la marcia della morte quando è iniziata, la tua marcia della morte?

R: La mia marcia della morte… Anche quello sarà scritto qua, mi pare il 2 aprile.

D: Eravate in tanti, Nando?

R: Tremila. Sono rimasti quattrocento o cinquecento di loro.

D: Ma cosa vi hanno detto? “Sveglia”?

R: “Sveglia, incolonnati e fare per partire”. Non si sapeva neanche cosa facevamo, dove andavamo. Il bello è che si andava contro i russi, perché sono stato liberato dai russi io.

D: Raccontaci un po’ di questa marcia della morte. E’ stata lunga quanto?

R: Allora, dal 2 fino al 29, un mese. 300 chilometri, dico pure.

D: Camminavate di giorno?

R: Camminavamo di giorno, forse di notte. Camminavamo svelto, perché loro potevano ucciderci se non si andava avanti. Se cadevano erano morti, toccava mandarli via, era un disastro. Dietro si sentivano gli spari che li uccidevano quelli che cadevano. …., quello triestino, abbiamo parlato un giorno. Prima, “Quando vengo a casa ti porterò tanto pesce”. Il giorno dopo l’hanno fatto fuori. In quella lettera chiedono se è vero che … era con noi, se è morto, se è vivo. L’ha letta quella lettera? Sono venuti… mi ha rubato la…a vedere com’era la storia e avvertono anche la mia famiglia, che se non è rientrato vuol dire che è morto anche lui. Io ho detto che purtroppo l’ho visto uccidere.

D: Era assieme a te durante la marcia della morte?

R: Sì, sì. Era lui. Dopo era Primas Mario di Capo d’Istria, vicino là. Quello l’ha fatto fino in fondo, dopo l’hanno portato in ospedale anche. Dopo durante la marcia della morte, è scritto lì ancora, uno delle SS ci ha fatto andare fuori, scappare fuori dalla fila. Noi siamo scappati, io, Primas e tre belga, appena fuori poco dopo capitano tre ragazzini piccoli così col fucile, quattro colpi e li hanno fatti fuori tutti e tre. Noi per fortuna, perché il bosco là era così, loro sono scappati per di qua, noi per di là, ci siamo salvati. Non so come, non ci hanno visti, siamo qui ancora. Anche il Primas Mario è vivo ancora. Uccisi tutti e tre. Dopo sono tornato a vedere io, dopo liberato. Allora uno era appeso ad un albero, era più vecchio di tutti. Poteva morire se appeso con la cinghia. Gli altri due erano proprio morti con le pallottole. Un fucile, non pistola, un fucile avevano. Il campo era vicino proprio lì, allora loro hanno fatto quel lavoro lì apposta per farsi uccidere. Era un capo della Hitler-Jugend quello lì. Ieri sera ho cercato carte, ma io quando parlo di questa roba qua mi…

D: Ti ricordi il posto dov’era però? Così a memoria ti ricordi? Ti ricordi dov’era questo campo qui?

R: Sono tornato dopo anni a cercarlo, ho voluto trovarlo.

D: E dov’è quel posto?

R: Sono andato con Berti, con una signora che anche il suo marito non credevano, c’era mia moglie, c’ero io, il cognato di Berti, Nicoletto, non so se lo conosce. Avevo pressappoco in mente i binari, perché abbiamo camminato tanto sui binari che non si riusciva a passare, alzare le gambe per passare di là, non si riusciva a passare. Allora mi sono ricordato dei binari, dopo mi sono ricordato che era Wittenberg Uttestadt. Allora siamo arrivati a Wittenberg Uttestadt, abbiamo chiesto nelle chiese, no, no, no, no. Ma io volevo trovare i binari e li abbiamo trovati, ma non erano quelli. Ci siamo fermati in un posto, io guardavo sempre a destra, mai a sinistra. C’era una casa qua, andiamo a chiedere là. Prima abbiamo chiesto in paese, nessuno sapeva niente, andiamo a chiedere là. Allora siamo andati a chiedere là, era una professoressa. Berti sapeva il tedesco, chiedeva. Ha preso la macchina, comincia a girare, a chiedere per le case, nessuno sapeva niente. A un certo punto la signora e Berti: “Andiamo alla forestale”. C’era ancora un forestale, sono andati, io intanto aspettavo. “Adesso lo troviamo” ha detto Berti. Allora la signora, lei avanti, noi dietro e abbiamo trovato il paesino.

D: Che si chiama?

R: Si chiama…non so, il paesino Quaka, ma non credo che sia quel nome lì.

D: Tu non te lo ricordi adesso?

R: Sì che me lo ricordo adesso, ma il nome non so.

D: Stai lì tranquillo, stai lì, appoggiati dietro. Così. Perché altrimenti c’è un problema di microfono. Quindi avete trovato questo posto?

R: Abbiamo trovato quel posto lì, gli ho insegnato dove eravamo io e il Primas, gli ho detto che era un grande uomo, padrone di una fattoria. I russi gli hanno pulito fuori tutto. Dopo Primas Mario si era ammalato, ci ha dato il carretto quel signore e l’ho portato otto chilometri, ho portato Primas Mario fino in ospedale a Wittenberg Uttenstadt. Guarda che forze che avevo ancora.

D: Appoggiati dietro… Così.

R: Io non sono fatto per queste robe qua.

D: No, vai benissimo.

R: Eh, sì.

D: Nando, va benissimo. Ascolta un attimo, ma quando questo tedesco vi ha detto di scappare, lì avevate camminato quanto già?

R: 200 metri neanche, il campo era vicinissimo, quello della Hitler-Jugend. Ci hanno fatto andare apposta per farci uccidere. Non so com’è successo, siamo stati fermi in un acquitrino io e il Primas, abbiamo visto una casa, di notte quando era scuro siamo saliti sul fienile. Non ho dormito, dopo io sono sceso perché ho visto le galline, sono andato giù a prendere il mangime delle galline, ho portato su il mangime. Dopo qua che non si mangiava. L’ho portato su anche a lui, il mangime. L’indomani mattina lui sapeva lo slavo, somiglia al russo, allora abbiamo sentito parlare e ha detto: “Sono arrivati i russi”. Erano arrivati i russi quella notte lì. Tre giorni prima, due giorni prima hanno ucciso quei ragazzini lì.

D: Ma Nando, lì ormai la marcia della morte era già finita?

R: Sì, era già finita. Noi non sappiamo dopo, perché io sono rimasto lì con Primas, tre sono morti, siamo rimasti nascosti. Dicono che la marcia della morte è finita subito dopo, ma non so.

D: In tutto avete camminato quanti giorni?

R: Venti giorni, anche più.

D: Per fare 300 chilometri?

R: Sì, mica si andava per le strade, per i campi, per tutte le deviazioni. Abbiamo incontrato molte colonne che venivano, che andavano.

D: E mangiare?

R: Il topo, ho mangiato il topo. Dopo ho trovato una patata per terra, mi sono abbassato a prenderla e mi ha dato un pugno, qualcosa, qua ho il segno, uno delle SS, non mi usciva neanche sangue più. Pesavo trenta chili, neanche.

D: Tu sei andato a prendere una patata?

R: Hanno seminato le patate, si passava per i campi. Mi ero solo abbassato per prenderla, perché era appena seminato, le tagliano e le mettono giù. Ho cercato di prenderla, mi è arrivato un pugno proprio qua, mi ricordo bene. Menomale che non mi ha ammazzato, non mi ha ucciso.

D: E la storia del topo cos’è?

R: La storia del topo, la notte ci si accampava o qua o là per terra. Per fortuna io ho trovato un topo che era vicino a me, l’ho mangiato. Cosa avrebbe fatto Lei? Mangiare alberi, foglie, quelle robe lì. Non si mangiava niente più.

D: Non vi davano niente?

R: Niente, no, no.

D: E sul trenino in quanti siete arrivati?

R: Dicono quattrocento vivi. E’ scritto tutto lì.

D: Quando avete incontrato i russi cos’è successo?

R: Incontrato i russi, per prima roba ci hanno presi, ci hanno cambiati i vestiti. Io ero tutto marcio di scabbia, tutto marcio, fradicio, proprio fradicio. Pieno di pidocchi. Anche lui, uguale. Ci hanno dato una famiglia, ci hanno portato i vestiti, ce li ho ancora di ricordo a casa. Dopo ho trovato una valigia con una pelliccia dentro, l’ho portata a casa anche quella. E’ appesa anche quella là. I russi ci hanno trattato bene.

D: E’ lì che hai preso il tuo amico e l’hai messo sul carro?

R: Da lì l’ho portato sul carretto, non carro, l’ho trainato a mano all’ospedale di Wittenberg Uttestadt, al …

D: Per 8 chilometri?

R: 8 chilometri, sì. Dopo ho saputo che sono 8 chilometri, il giorno che ho trovato il paesino, quando siamo andati via ho visto che sono 8 chilometri per arrivare in città.

D: Hai lasciato il tuo amico in ospedale?

R: Il mio amico in ospedale insieme, è partito prima di me. Ormai mi portavano nella vasca da bagno, mi buttavano dentro perché era per chi è ammalato, perché ero tutto marcio. Ero peggio di lui dopo, peggio di Primas. Dopo, un bel giorno si dava la minestra in ospedale. Sono arrivato dopo e ho trovato che mangiava la minestra, anche la mia minestra quello là. Sarà anche così, ma in ogni modo… Tutto quello fatto, perché sarebbe morto anche lui. Primas, era lui che mi mangiava la minestra anche dopo. Perché se io lo lasciavo là… Dopo sono andato a trovarlo io a Capo d’Istria, mica lui. Perché lui credeva che fossi morto, perché stavo malissimo. Invece è rimasto di sasso quando mi ha visto.

D: Lì in ospedale quanto tempo sei rimasto?

R: E’ qua tutto.

D: Quanto tempo sei rimasto in ospedale?

R: Il 10.5.1945 sono entrato, uscito il 30.06.1945.

D: Quest’ospedale era gestito da chi, dai russi?

R: Era gestito dai russi, ma erano medici tedeschi, c’era anche un medico che si chiamava Rossi, italiano e lavorava anche lui per noi. Abbiamo trovato anche signore, signorine, ex deportate di Auschwitz. Lì ho conosciuto Pitar Maria, era di Gorizia. Dopo c’era un’altra di Gorizia, purtroppo è morta lì, era una bambina ancora, è morta proprio nell’ospedale. Io sono andato a guardarla, …. , addio, viene freddo. Morta proprio nell’ospedale in un modo proprio… E Pitar Maria è morta subito dopo a casa.

D: Quando ti hanno lasciato andare dall’ospedale cosa hai fatto?

R: Cosa ho fatto? Sono stato ancora fino al giorno di Sant’Anna al mese di giugno, sono stato a Dresda a piedi, tutto a piedi. Dopo ci hanno caricati a un campo di smistamento, ci hanno portati in Italia. Allora sul confine siamo passati sotto gli americani. Sotto gli americani un po’ col treno, un po’ con i camion sono ritornato a casa. Ero uno degli ultimi io.

D: Che percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Brennero, dopo dal Brennero siamo venuti per Udine.

D: Vi hanno fermato a Bolzano?

R: Sì, hanno fatto una disinfestazione … Non so che nome si chiamava quello là. In zona austriaca ancora. Ci hanno fatto pulire.

D: In zona austriaca vi hanno fermato?

R: Sì.

D: E in Italia dove vi hanno fermato?

R: Nessun posto. C’erano i preti che parlavano male dei russi, già quella volta parlavano male dei russi.

D: Sono venuti su i preti a prenderti?

R: Erano lì dove si passava il confine dell’Austria, erano lì, parlavano.

D: Questo viaggio l’hai fatto in treno?

R: Fino al confine in Austria, dopo in camion mi pare. Non sono proprio tanto… Dopo il treno abbiamo preso, e uno, un ex deportato, forse non ex deportato dai campi, era fermo lì, arriva il treno e lo uccide, era un carnico. Roba da non credere. Anche quello.

D: Tu sei arrivato a casa a Udine?

R: Il giorno di Sant’Anna a Udine e volevano che pagassi il biglietto del tram. Sono arrivato a Tricesimo e c’era tutta la gente a guardare come se fosse arrivato chissà cosa, perché ero il figlio unico, giocavo a calcio, ero un po’…

D: Quand’è il giorno di Sant’Anna?

R: Il mese di luglio, quel giorno sono arrivato io. Ero tra gli ultimi, tutti erano rientrati ormai, come quelli di Mauthausen, subito dopo erano a casa, invece io…

D: Durante la tua deportazione, quindi a Dachau, a Buchenwald, a Langenstein, negli altri campi, sei mai stato punito tu?

R: Punito? No, non sono mai stato punito.

D: Hai visto azioni violente?

R: Conbelli Luca, purtroppo. Si era bastonati sempre, entrando nei tunnel delle gallerie c’era un bastardo…

Appia Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come vi chiamate?

R: Appia Anna.

D: E siete nata, quando?

R: Il 18 gennaio 1921.

D: Dove, Anna?

R: A San Giovanni al Natisone.

D: Provincia?

R: Di Udine.

D: Anna, quando vi hanno arrestato?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Le SS tedesche.

D: Perché?

R: Eh perché, per attività partigiana, per quelle cose lì.

D: Vi hanno arrestato dove, in casa?

R: In casa alle 4.00 del mattino sono venuti, hanno circondato tutto e hanno fatto il rastrellamento, ci hanno portati via tutti, tutta la famiglia, e ci hanno portato via tutto quello che avevamo: biancheria, coperte, tutto, ci hanno pulito la casa e mi hanno portato a Gorizia, prima a Cormons, poi a Gorizia, nelle carceri di Gorizia.

D: Tutta la vostra famiglia?

R: La mia famiglia dopo un po’ l’hanno mandata casa e la mia mamma l’hanno portata con me; per quaranta giorni è rimasta fino a che lei l’hanno mandata a casa e noi siamo partite.

D: Vi hanno fatto qualche interrogatorio?

R: Sì, come no, tutti gli interrogatori. Io avevo il fidanzato, è stato quello il motivo più grande: lui era venuto a casa l’8 settembre da militare e non sapeva con chi stare, doveva pur lavorare. Lui lavorava però era attivo con gli altri, non con i tedeschi, come devo dire? Con i partigiani. Ma lavorava però, era in attività con loro. E allora è stato tutto lì.

Loro volevano sapere da me qualcosa, ma io non ho mai detto niente perché non sapevo neanche niente, noi ci vedevamo poco: c’era il coprifuoco di notte, di giorno si lavorava e non si poteva incontrarsi mai. Come posso sapere io che cosa fa un uomo? Non ero mica sposata per sapere cosa faceva l’uomo. Allora io ho detto proprio quelle parole lì. Io le cose di un uomo non posso saperle. Volevano sapere di quello, dell’altro, di tutti, della gente. Che ne so? Io non ho mai detto niente perché uno non sapevo e anche se avessi saputo non sarei andata a dirlo a loro.

D: E dopo cosa è successo?

R: L’8 settembre ci hanno messo in trasporto. Siamo partite con la tradotta, con il treno merci. In quaranta di noi dentro in un vagone, senza bere, senza mangiare per sei, sette giorni, fino a che siamo arrivate a destinazione, senza sapere dove si andava, senza potere fare i bisogni corporali, perché era quello che era. Per sei, sette giorni siamo state ammucchiate in quaranta di noi sdraiate a terra in un vagone. E non si sapeva dove si andava. Siamo arrivate ad Auschwitz.

D:Siete entrate col treno?

R: Siamo entrate sulla ferrovia, col treno e poi siamo scese, ci hanno fatto camminare, portare tutta la roba che avevamo. Cammina, cammina, cammina, non si sapeva niente; era di sera, poi ci hanno fatto stare in piedi tutto il tempo e siamo arrivate in un capannone. Lì ci hanno preso tutto, ci hanno spogliate del tutto, proprio spogliate, nude e poi ci hanno fatto il numero sul braccio.

D: E il vostro numero, Anna, qual è?

R: 88.651. E poi ci hanno tagliato i capelli, tutte quelle cose lì. Dopo ci hanno fatto la doccia, ci hanno messe sotto la doccia fredda senza niente, senza asciugarci perché non avevamo più niente. Poi ci hanno dato uno straccio di vestito bagnato e l’abbiamo messo su. Mi ricordo queste cose che non dimentico mai. Siamo state tutta la notte in piedi, quella notte. Tutta la notte in piedi perché si vede che non avevano posto dove metterci: tutta la notte, senza mangiare, senza bere, dopo sei giorni. Poi ci hanno accompagnate nella baracca, avevamo un metro di posto per dormire in sette di noi. Un metro, non era di più, in sette, otto di noi. La mattina ci alzavamo che era notte, verso le 4.00 di mattina al buio e ci facevano stare in piedi fino a che veniva giorno. Cinque, sei ore in piedi nel freddo e col freddo che era; era paludoso il terreno. Era tutta argilla, fango, e stare in piedi tutte quelle ore fino a che passavano a fare l’appello… Dopo si andava a lavarsi la faccia, non c’era neanche l’acqua, tutto il giorno così. La sera uguale.

Siamo state lì dall’8 settembre, siamo arrivate verso il 12, 13 settembre, e siamo rimaste fino alla fine di ottobre.

D: Lì non lavoravate?

R: No, solo tutti i giorni ci spogliavano, ci visitavano, ci facevano fare i bagni con le docce per lavarci i vestiti, per disinfettarli, e poi ogni altro giorno ci facevano visite per vedere chi fosse sana, buona, brava, bella, tutte le belle presenze, eravamo giovani. Fino che ci hanno mandato in trasporto.

D: Ti ricordi il numero della tua baracca.?

R: Era il numero 13. Mi ricordo sì, come no.

D: Di Auschwitz?

R: Era tutto attaccato lì.

D: Quello grande, grande.

R: Sì. Poi quello che si vedeva, tutti i camini che fumavano. Quell’odore acre di grasso bruciato. Era terribile, non si può descrivere quello che abbiamo visto lì noi perché uno che non ha provato, non ha visto, non può capire neanche lontanamente: solo noi, chi ha visto e provato, sa. E’ come raccontare una storia.

D: E da mangiare cosa vi davano?

R: Un po’ di brodo di carote, di rape e una fetta di pane e basta.

D: Dopo è venuto il trasporto. Come vi hanno scelto, ti hanno chiamata?

R: Sì, ci sceglievano. Quelle che erano belle, sane e giovani le mandavano a lavorare e ci hanno scelte. Mi hanno scelta e siamo partite un’altra volta con la tradotta; anche lì siamo state due o tre giorni senza mangiare prima di arrivare a destinazione perché siamo venute in Germania poi a lavorare in Bassa Sassonia. Siamo arrivate in una città che si chiamava….e lì abbiamo lavorato tutto l’inverno in una fabbrica di armi. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, o di giorno o di notte, perché c’era turno continuo, la macchina non si fermava mai, dodici ore di giorno e dodici di notte, una settimana per sorte. Siamo state lì fino a che sono venuti i bombardamenti che hanno distrutto tutto. Una notte hanno distrutto la fabbrica; era una grande cosa perché quella notte lì mancava la luce, c’era stato il bombardamento di mattina e noi eravamo lì a dormire. La sera mancava la luce. Siamo andate a lavorare ma non ci hanno fatto lavorare, ci hanno fatto tornare indietro perché non c’era la luce. Quella notte lì è andata giù la fabbrica perché hanno bombardato, hanno bombardato tutta la notte. É andata già tutta la città quella notte.

Dove dormivamo noi siamo rimaste tutte salve e dopo era tutto rotto, non c’era acqua, non c’era da mangiare, non potevano fare, ci mandavano a pulire le macerie nelle case, nelle fabbriche dove c’era bisogno. Siamo state lì a fare quel lavoro fino al 13 aprile.

D: Anna, quando eravate in questo campo ti hanno dato un nuovo numero?

R: Numero di che cosa?

D: Numero di immatricolazione; o avevi sempre quello?

R: Sempre quello. Eravamo sempre sotto la protezione di Auschwitz noi, era sempre quel comando anche se eravamo nella fabbrica.

D: Il campo era vicino alla fabbrica o era fuori dalla fabbrica?

R: Era fuori; non era un campo, era una grande fabbrica anche quella dove eravamo a dormire. Sotto era fabbrica e sopra dormivamo noi. La fabbrica dove lavoravamo io e lei era fuori nella città. Allora ci trasportavano a piedi, andavamo in fila, ci portavano e ci tornavano a portare qua perché erano le donne militari che facevano…

D: Quindi vedevate i civili?

R: No, perché si andava via che era notte, si tornava che era notte e poi come si faceva a vedere i civili, anche se li si vedeva? Avevamo le guardie, non si poteva mica. Andavamo in fila noi.

D: Eravate solo donne?

R: Sì.

D: Non c’erano uomini?

R: Dove, a lavorare? C’erano i maestri solo, i capi.

D: Erano militari i capi?

R: No, erano vecchi, si vede che erano della fabbrica, i capifabbrica e noi si lavorava, loro ci insegnavano. Sa come fanno i capi.

D: Lì cosa costruivate?

R: Armi. Ognuno aveva il suo lavoro. Io ero su una macchina in piedi alta così, ero abbastanza grande, stavo in piedi tutto il giorno.

D: E cosa facevi Anna?

R: Avevo un ferro che era un otturatore di moschetti, facevo i buchi coi trapani, sulla macchina lavoravo.

D: E lì sei rimasta fino a quando?

R: Fino a che hanno bombardato la fabbrica: era il 5 marzo e poi ci hanno fatto lavorare ancora, perché ci mandavano a pulire macerie. Si vede che non sapevano dove mandarci. Dopo il 13 aprile ci hanno trasferite a piedi. Siamo andate in un campo che si chiamava Leitmeritz e siamo state una settimana. Lì non abbiamo né lavorato né niente.

Poi ancora a piedi siamo arrivate in Cecoslovacchia; c’era una polveriera, non so come si chiamasse quel posto, non saprei dire; abbiamo lavorato quindici giorni fino alla fine, si facevano le bombe per i carri armati col tritolo. Riempivamo i cosi di tritolo e poi si metteva il detonatore.

D: E la fabbrica era sempre vicino al campo o era più distante?

R: Era tutto vicino lì. Lì siamo stati fino alla fine.

D: E anche lì non vi hanno cambiato il numero.

R: No. Perché il numero lo hanno fatto solo ad Auschwitz.

D: E basta?

R: Ci chiamavano sempre con quel numero perché eravamo un numero, non un nome.

D: E ti ricordi il tuo numero in tedesco?

R: No, me lo ricordo in polacco ma non in tedesco.

D: E in polacco com’era?

R: Perché erano le polacche che al blocco comandavano!

D: E a chi non capiva cosa succedeva?

R: Ormai si capiva, si doveva capire, sennò era meglio tacere.

D: Hai mai ricevuto punizioni tu?

R: Qualche schiaffo ogni tanto ma non grandi cose, perché ho sempre lavorato.

D: Al Revier sei mai andata?

R: Cos’era?

D: L’infermeria.

R: Sì, perché avevo male ad un orecchio. Avevo un ascesso, mi era venuto come un grande raffreddore, mi era venuto l’ascesso all’orecchio; c’era una dottoressa polacca e mi ha curato. Mi ha pulito, avevo paura ad andare. Non avevo voglia di andare. C’era una slovena che mi ha detto: “Andiamo, andiamo che io so parlare, vieni che non ti fanno niente.” Ma sai com’è. Allora sono andata, mi ha curata. Quello sì.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione? Fino all’8 maggio abbiamo lavorato. Una sera abbiamo caricato un grande camion di quelle bombe poi siamo andate a dormire e abbiamo visto la luce fuori nel campo, era illuminato. Abbiamo detto: chissà che cos’è? Perché non era mai accesa la luce e si vede che loro intanto erano scappati e noi la mattina ci siamo trovate sole: era il momento in cui arrivavano i russi. E’ venuta una polacca e ha detto: “Finita la guerra!”.

Allora noi eravamo contente, felici. Senza mangiare, non importava. Siamo state tutte riunite insieme e abbiamo detto: “Cosa dobbiamo fare?” Aspettare i russi non si poteva perché non si sapeva quando arrivavano e poi eravamo solo ragazze. Allora abbiamo detto: “Mettiamoci a camminare, andiamo avanti e troveremo qualcosa”. Non si sapeva dove andare, non si sapeva parlare e ci siamo riunite tutte le italiane e ci siamo messe a camminare sotto il fronte, perché i tedeschi si ritiravano e i russi stavano arrivando.

Gli aeroplani mitragliavano le truppe che si ritiravano e noi si camminava sull’orlo della strada, sul margine della strada, l’una dietro l’altra, in fila.

Pensare che mitragliavano e noi si andava nel fosso per ripararsi! Però nessuna si è ferita. Potevano ucciderci tutte per strada i tedeschi che erano tutti armati coi fucili, invece nessuno ci ha fatto niente. Abbiamo camminato tutto il giorno, era il 9 maggio, il giorno che è finita la guerra. Loro si ritiravano tutto il giorno e noi sempre a camminare. Via, avanti fino a che è venuta sera, senza bere e senza mangiare. Però eravamo libere almeno di camminare. Quando è venuta sera siamo arrivate in un paese e lì sono arrivati i russi, i primi carri armati russi e noi tutte sulla strada che si alzava le braccia. Si vede che loro hanno visto chi eravamo perché avevamo lo Straf dietro la schiena: hanno cominciato a buttarci giù pane, roba da mangiare. Lei non può capire quel momento lì cos’era. Nessuno lo può capire. Uno piangeva, uno pregava, uno cantava. Non si sapeva cosa fare. Vedere roba da mangiare, affamate! ci siamo inginocchiate e non sapevamo cosa dire.

Abbiamo messo giù una coperta, abbiamo raccolto tutta la roba e abbiamo cominciato a mangiare e via, e così è finita la giornata.

D: Poi cosa avete fatto?

R: Poi si andava a dormire dove si poteva: in una stalla, in una stanza, in una casa, dove si poteva. Siamo state lì due giorni e dopo abbiamo trovato uomini italiani che tornavano come noi, soldati militari. Abbiamo cominciato a parlare e loro hanno detto: “Se volete ci facciamo compagnia, andiamo avanti da qualche parte”. Non si sapeva, eravamo in Cecoslovacchia. Allora hanno detto i ragazzi: “Andiamo avanti perché è meglio che andiamo avanti per non stare coi russi”, perché avevamo paura che ci trattenessero anche loro. Non si sapeva come comportarsi. Allora noi abbiamo detto: “Sì, almeno ci sono anche uomini che ci guidano”. Eravamo sole, senza guida e senza niente.

Siamo andati avanti camminando e siamo arrivati a Praga e siamo stati a dormire nella Casa d’Italia, in una grande sala tutti insieme là. Dopo abbiamo cominciato un’altra volta a camminare, ad andare avanti, fino che siamo arrivati in Austria, fino a Linz. Abbiamo camminato per quindici giorni così. Di sera si trovava qualche fienile oppure anche nei prati si dormiva, senza niente. Fino che siamo arrivati a Linz e a Linz c’erano gli americani. Poi ci hanno radunati tutti in un altro campo che era libero e ci hanno tenuti lì un mese in attesa di rimpatrio.

In giugno siamo partiti e siamo arrivati a Bolzano. Da Bolzano sono venuti da Udine a prenderci con una corriera che veniva ogni giorno a prendere i prigionieri. Allora ci hanno portati giù a Udine e dopo sono venuta a casa, il 25 giugno sono arrivata a casa.

D: Come oggi.

R: Come oggi, di mattina.

D: 55 anni fa.

R: 55 anni fa, sì, sono tanti, no?

D: Come hai trovato la tua casa?

R: Ho trovato la casa tutta rotta, senza niente perché c’era stata la guerra anche lì. C’era un ponte vicino a casa mia, avevano buttato giù il ponte, bombardato, era rotto. E poi ci avevano portato via tutto. Abbiamo dovuto cominciare a lavorare e tornare ad aiutarci come si poteva, ma nessuno mi ha aiutato però. E’ la prima volta che qualcuno si interessa a me dopo cinquantacinque anni. Mai nessuno si è interessato a me, mai.

D: Anna, a Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: Era un bel posto, eravamo in tanti lì, non so cosa fosse, qualche scuola, qualche posto. Siamo stati un giorno.

D: Cos’era un ospedale, una caserma?

R: Deve essere stata una cosa di quelle perché c’era tanta gente.

D: Ti hanno rilasciato un certificato a Bolzano?

R: No.

D: Vi hanno dato da mangiare?

R: Sì, da mangiare sì. Arrivavano lì, si vede che era un posto apposta per ricevere la gente.

D: Anna, ritorniamo ad Auschwitz un attimo. Nel periodo in cui sei rimasta ad Auschwitz non hai mai lavorato nel campo?

R: No, non abbiamo lavorato là.

D: Potevi scrivere?

R: No.

D: C’era qualcuno che riceveva dei pacchi?

R: Che abbia visto io no. Da dove? Chi sapeva dov’eravamo? Neanche parlarne. Pacchi? No. Può chiedere quello che vuole, io Le dico.

D: Non hai mai visto neanche persone della Croce Rossa?

R: No.

D: Nemmeno negli altri campi?

R: No, io no.

D: Quando eri ad Auschwitz o negli altri campi hai visto per caso se c’erano anche delle ragazzine?

R: C’erano anche bambini ad Auschwitz, ho visto bambini che giocavano e anche bambine piccole, ragazzine, di tutte le qualità, sì. Abbiamo visto anche scendere dal treno quei poveri vecchi di ebrei, tanta gente che scendeva dai treni.

D: Nel campo della polveriera, come si chiamava?

R: Era un altro posto che non saprei cosa fosse, non abbiamo saputo che cos’era.

D: C’erano anche degli uomini?

R: C’era qualche uomo, devono essere stati militari mi pare, ma che abbia conosciuto io, no, io non ho avuto a che fare.

D: E quanto tempo sei rimasta in quella polveriera?

R: Gli ultimi quindici giorni.

D: Anna, tu non sei più ritornata a ….?

R: No, non voglio neanche andarci. E’ abbastanza una volta, poi guai, non potrei tornare a vedere quei posti. Non mi sento.

D: Ti ricordi altri episodi di quando eri ad Auschwitz o in altri campi che ci siamo dimenticati adesso?

R: Cosa vuole, episodi!!

D: Per esempio, quando parlavi degli abiti che ti hanno dato, vi hanno dato della biancheria?

R: No, che biancheria? Un abito, uno straccio di abito e basta, con gli zoccoli di legno. Io avevo i piedi piccoli, erano così, li trascinavo. Con quel fango non si poteva camminare. Che vuole?

D: Delle tue compagne che sono partite con te in trasporto quante sono ritornate?

R: Siamo tornate tutte quelle che conoscevo. Però una è morta a casa. Noi siamo tornate.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: I nomi. Una si chiamava Bruna, povera che è morta. Ines che è viva è a Cividale, Elvia e io. Poi ce n’era un’altra che si chiamava Antonietta, è morta anche quella e poi ce n’erano di Gorizia, di Trieste, ce n’erano tante, siamo tornate in tante di quelle che conoscevo io. Quelle che eravamo a lavorare siamo tornate. Però non so perché si sono anche ammalate per la strada. Quelle non so se sono tornate o no. Come ad Elvia, le è venuto male quando eravamo a Praga e hanno dovuto portarla all’ospedale, lei è tornata dopo, in settembre. E’ guarita ed è tornata dopo di me, a settembre ottobre.

Barbieri Agostino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Agostino Barbieri, sono nato il 30 marzo 1915 ad Isola della Scala in Provincia di Verona. Sono stato arrestato in una frazione di Isola della Scala che si chiama Tarmassia perché facevo parte di una missione militare che aveva lo scopo di fornire informazioni agli eserciti alleati e organizzare gruppi di partigiani.

Sono stato arrestato il 22 novembre 1944 dalle Brigate Nere di Verona con l’ausilio della polizia tedesca perché quando sono venuti ad arrestarmi di notte i fascisti non erano riusciti a portare a termine l’operazione e hanno chiesto l’aiuto della polizia tedesca.

La difficoltà dei fascisti era dovuta al fatto che io e il contadino che mi affittava l’alloggio, perché andavo a dormire solamente da questo contadino, abbiamo reagito al fuoco e c’è stata una sparatoria.

Durante la sparatoria, siccome vicino alla cascina dove io andavo a dormire qualche volta c’era un comando tedesco, sono partiti i tedeschi e hanno completato l’operazione dell’arresto.

Dopo l’arresto siamo stati portati alla Brigata Nera di Verona che allora aveva le carceri della scuola di avviamento Sanmicheli. Siamo stati lì una settimana naturalmente sotto gli interrogatori, i soliti interrogatori a base di botte, di sevizie, di maltrattamenti di ogni genere.

Dopo una settimana siamo stati portati al comando delle SS che aveva la sede nel palazzo delle Assicurazioni in Corso di Porta Nuova a Verona.

Siamo stati lì una settimana, ma non ci sono stati interrogatori. Dopo una settimana di detenzione in questo carcere, siamo stati portati al campo di Bolzano.

D: Un attimo, signor Agostino, quando Lei parlava di organizzazione, cos’era? Militare, si ricorda come si chiamava.

R: Sì, la Missione Rye.

D : Ma lì com’era organizzata questa Missione Rye. Innanzi tutto si ricorda il significato di Rye?

R: A dir la verità Rye è una sigla, deriva dal greco, non ho mai chiesto il perché, la ragione. Era una sigla che si davano tutte le organizzazioni clandestine, specie quelle militari. Ogni missione aveva una sigla che derivava o dall’alfabeto greco o latino o da altri generi di letteratura, di idiomi.

D: E come eravate organizzati? Il reclutamento per esempio come avveniva?

R: Il reclutamento da parte mia per quanto mi riguarda è avvenuto perché io avevo fatto il servizio militare di prima nomina come ufficiale al 79° Reggimento Fanteria e il comandante della Missione, il professor Teruzzi, aveva fatto il servizio militare con me nel 79° Fanteria, perciò mi conosceva.

Mi ha fatto avvicinare tramite due ragazzi, i fratelli Corlà, che erano ragazzi che seguivano l’Azione Cattolica perché Teruzzi era stato anche Presidente dell’Azione Cattolica a Verona.

Loro mi conoscevano, non perché io fossi dell’Azione Cattolica. Io non ero niente. Io ero lì, stavo a Isola della Scala dopo aver fatto però una certa attività col Comitato di Liberazione dell’Alta Italia per la messa in salvo dei prigionieri alleati che sono stati sorpresi dall’ armistizio. Era un primo impegno che aveva preso il Comitato di Liberazione.

Finita questa operazione che si faceva portandoli col treno da Venezia a Milano, poi a Milano io li davo in consegna ad altri compagni che li portavano al confine svizzero, finita questa operazione perché a un certo momento l’organizzazione era polizia fascista che si era organizzata, perciò non era più possibile farli viaggiare in treno, mi sono ritirato a Isola della Scala dove vivevo, avevo mia madre, mio fratello.

Lì sono stato raggiunto da uno di questi fratelli Corlà, mi ha parlato della Missione, mi ha parlato di Teruzzi e compagnia bella e allora abbiamo cominciato ad operare in quella zona.

Io ho avuto la responsabilità di una vasta zona del basso veronese, poi ho avuto il comando di un battaglione di partigiani.

D: Un’altra cosa sempre a proposito della Rye. La zona operativa della Rye dov’era? A Verona solo o anche in provincia?

R: Verona e tutta la provincia e anche confinava per una certa parte della Provincia di Vicenza. La provincia era divisa in zone. Ogni zona aveva un comandante. Io avevo il comando della zona della pianura insomma.

Altri ufficiali come il Colonnello De Miglio per esempio che era stato Capo Aiutante Maggiore al 79° Reggimento Fanteria dove io avevo fatto servizio, che conoscevo, il suo comando era a Cologna Veneta. Io l’avevo stabilito invece a Tarmassia, nella canonica di Tarmassia. Perché nella canonica?

Prima di tutto perché il comandante della Missione, come ho detto, faceva parte dell’Azione Cattolica, era molto dentro in quest’ambiente. Lui aveva la radiotrasmittente, ricetrasmittente che collocava sempre o nei seminari, o nei conventi, insomma in zone che almeno sembravano sicure.

Ho avuto una grande collaborazione dal parroco di Tarmassia, il quale s’è dimostrato partigiano veramente attivissimo. Ha lavorato moltissimo con me, mi ha dato molto aiuto.

Abbiamo ospitato lì in canonica un corso per l’addestramento all’uso dell’esplosivo plastico che noi non conoscevamo, né io come ufficiale di Fanteria, né nessuno dei fratelli Corlà che era appena stato nominato ufficiale, ma che aveva appena abbandonato il servizio.

Teruzzi, il comandante, ci ha mandato un esperto in esplosivi, che aveva fatto catapultare dall’alto, venendo dall’Italia già liberata. Abbiamo fatto questo corso. Durante questo corso siamo stati arrestati.

Per fortuna non durante la “lezione”, ma in quel periodo, perciò non abbiamo potuto completare l’istruzione e attuare quel programma che doveva essere attuato di sabotaggio.

D: Se si ricorda, la maggior parte dei componenti eravate tutti militari della Rye?

R: No, no.

D: No?

R: No, no. C’era una rappresentanza direi di tutte le parti politiche. Non c’era la prevalenza dei militari. Anche Teruzzi era militare di complemento, non era un ufficiale effettivo. Io ero un ufficiale di complemento, Corlà era un ufficiale di complemento.

D: L’obiettivo, i compiti di questa missione speciale della Rye qual era?

R: I compiti erano quelli di segnare, indicare gli obiettivi militari in questo modo. Se si formava per esempio, un comando oppure un deposito, oppure un’officina, oppure soprattutto il controllo della ferrovia Verona/Bologna che era la dorsale che portava tutti i rifornimenti sul fronte di Bologna e io avevo il controllo da Verona fino ai ponti di Ostiglia.

Ho avuto una grandissima collaborazione anche, perché avevo mio fratello ferroviere, dai ferrovieri. I ferrovieri hanno partecipato in un modo veramente entusiasta. Io dai capistazione sapevo esattamente tutto quello che trasportavano.

D: I diversi movimenti di truppe, materiali?

R: Esattamente. Deviazioni che facevano i treni perché per esempio partivano, ma poi ad un certo momento li facevano deviare. C’era tutto questo movimento a mia conoscenza. Di tutto questo movimento era perfettamente al corrente.

D: Voi avevate quindi rapporti anche con gli angloamericani?

R: I rapporti con gli angloamericani venivano fatti direttamente dal comandante.

D: Avevate un tesserino, qualcosa?

R: No, nessuna tessera.

D: Anonimato.

R: Nessuna tessera per carità. Le tessere… Niente, io avevo dei documenti falsi perché allora c’era il coprifuoco ed era proibito circolare col coprifuoco. Tramite mia moglie, mia moglie lavorava in un’agenzia di esportazioni di frutta e verdura e per avere i permessi per mandare la frutta e la verdura in Germania doveva andare al comando tedesco.

Al comando tedesco ha conosciuto un ufficiale che era ufficiale con me al 79° Fanteria che era passato ai tedeschi. Tramite lui abbiamo avuto quasi tutti i documenti per me e anche per tutti quelli che operavano con me di essere operatori della Todt, allora c’era quella compagnia per reclutare lavoratori e il permesso di circolare di notte.

E infatti una notte sono stato fermato dalla Brigata Nera, anzi da una pattuglia di tedeschi, ho fatto vedere il documento, loro mi hanno detto: “Bravo, bravo Italiano”.

D: Durante gli interrogatori però è uscita questa vostra partecipazione nella Rye?

R: No. Non è uscita perché se fosse uscita per noi ci sarebbe stata la fucilazione, perché è chiaro, è la legge di guerra, che chi opera a livello di spionaggio, specialmente per un ufficiale in borghese, c’è la fucilazione. Non è uscito nulla, per fortuna.

D: Ancora una cosa della Rye perché è un gruppo importante. Grosso modo eravate in molti voi della Rye?

R: Ma, io avevo direttamente quattro o cinque collaboratori. Poi siccome si lavorava a scompartimenti stagni perché c’era l’obbligo preciso, non lo so. Ad un certo momento l’ho saputo dopo la Liberazione, quando sono tornato da Mauthausen ho conosciuto altri collaboratori che prima non conoscevo, non avevo conosciuto.

D: Quindi dal Palazzo dell’INA, riprendiamo la narrazione, dal palazzo dell’INA dov’è stato portato, da lì al campo di Bolzano.

R: Sì.

D: Eravate in molti su quel trasporto?

R: No, eravamo una decina per quanto mi ricordo. Poi sono stato molto poco al campo di concentramento, intanto mi avevano messo in un capannone di pericolosi non so per quale ragione, si vede che mi hanno ritenuto pericoloso.

Verso Santa Lucia mi sembra, prima di Natale sicuramente perché Natale l’ho passato a Mauthausen, sono stato trasportato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno portato dove per infilarvi nei vagoni, nei carri bestiame?

R: Alla stazione, penso io. Siamo andati alla stazione, ci hanno messo sui carri bestiame, hanno sigillato i carri, poi siamo partiti. E’ durato sei o sette giorni questo viaggio, una roba bestiale.

D: Più o meno in quanti eravate su quel trasporto?

R: Forse una quarantina.

D: Per vagone però, quaranta per vagone.

R: Sì, per vagone. Si doveva defecare, urinare tutto lì, sedersi sullo sterco, una cosa spaventosa. Poi c’era il problema della sete. Il problema della sete gravissimo. C’è stata gente, i vicini alla parete del vagone che leccavano il piccolo ghiaccio che si formava dall’umidità e dal freddo esterno finché avevano la lingua rossa di sangue, perché la sete è stata una sofferenza atroce veramente.

D: A Bolzano non l’hanno immatricolata?

R: Quello non lo so. Non ho capito niente, mi hanno sbattuto entro questo stanzone e non sono più uscito. Mi hanno detto che non si poteva uscire perché eravamo pericolosi. Non so perché ero pericoloso. Non l’ho ancora capito.

Lì ho incontrato quello che è diventato il mio più grande amico: Piero Caleppi, Piero Caleppi che poi è diventato senatore, poi è diventato vice presidente del Senato e sotto segretario di Stato.

E’ nata questa amicizia che è durata fino al giorno della sua morte.

D: E altre persone di cui si ricorda? Che ha incontrato lì nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano non ricordo, non ho praticamente nessun ricordo particolare perché ero così attaccato a Caleppi. Lui era già dentro, praticamente chiamiamolo “anziano”. Io dormivo in una cuccetta, lui dormiva in una cuccetta attaccata alla mia, stavamo sempre assieme. Non ricordo altri personaggi, amicizie.

Poi più avanti ho conosciuto Pappalettera, Pappalettera che ha scritto quel bellissimo libro “Tu passerai per il camino”.

D: Si ricorda se c’erano dei religiosi anche?

R: Di religiosi ho conosciuto ma a Mauthausen, adesso mi sfugge il nome, Padre Gaggero, un filippino arrestato a Genova, un grande sacerdote che poi è stato spretato dopo la Liberazione.

Adesso invece è nata una storia in questo periodo. Io parlavo prima dei fratelli Corlà che sono stati arrestati. Ad Isola della Scala il paese della loro nascita s’è formato un comitato per la beatificazione. Erano due ragazzi molto, molto, molto religiosi. Dicono che hanno con la loro azione, con il loro comportamento, con la loro parola, con la loro convinzione hanno convinto l’avvocato Spaziani che era il Capo del Comitato di Liberazione di Isola a convertirsi. Sembra.

Però c’è una dichiarazione che io ritengo molto… che questa conversione sia avvenuta nel campo di concentramento di Bolzano. Quello che è stato scritto, è stato dichiarato che a Bolzano ha potuto assistere alla Santa Messa e fare la comunione.

Io ho chiesto, so anche la risposta vostra, a Bolzano se era possibile questo durante la detenzione, se c’erano servizi religiosi, questo è il punto interrogativo. A me non risulta, però non posso escluderlo, perché io ero dentro in questo baraccone, non potevo uscire, neanche prendere l’aria, perciò non so niente di quello che è successo.

Che ci siano state delle messe io non lo ricordo, perché non credo che i tedeschi… Non so, questo è un problema che non è ancora risolto.

D: Dopo sette giorni di viaggio e relative notti siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì.

D: Come si ricorda l’ingresso nel Lager di Mauthausen?

R: Siamo scesi dal treno naturalmente nelle condizioni in cui eravamo, ci hanno inquadrati perché dalla stazione a Mauthausen c’era un pezzo di strada in salita anche che bisognava percorrere a piedi naturalmente.

Quando siamo arrivati lì il comandante del campo ha chiesto se c’era qualcuno che sapeva l’italiano. E’ venuto fuori uno, ha fatto l’interprete. Siete a Mauthausen, qui esiste solo la legge dell’obbedienza, perciò chi vuol tentare di fuggire, si guardi attorno e vedrà che non c’è nessuna possibilità. Bisogna solo tacere e obbedire.

Ci hanno portati dentro in un enorme stanzone. Ho fatto un bagno bollente e immediatamente dopo un bagno freddo secondo le regole perfette dell’igiene.

Poi ci hanno messi fuori sei minuti nudi, tagliato tutto, rasati sotto, sopra tant’è vero che io scrivo sul mio libro che io ho avuto la sensazione che mi tagliassero via tutto quando il Friseur prese in mano il pene. Qui resto senza niente.

Poi ci hanno messo fuori in fila ad aspettare. Intanto nevicava e noi fuori ad aspettare. S’è completata la fila, poi ci hanno portato nelle baracche di quarantena dove si dormiva in tre, qualche volta anche in quattro su un materasso a terra.

Ci mettemmo giù di fianco, la SS col tubo di gomma ci batteva finché ci si stringeva, imballati come le sardine. Lì abbiamo fatto parecchi giorni.

Poi facemmo dei comandi per andare a lavorare. Io, Caletti, Pappalettera, ho conosciuto una persona, vive ancora, purtroppo stavo dicendo perché è molto ammalato, il Dottor Calore. Non so se voi l’avete…

Il Dottor Calore per me è un dio, un bravo, bravissimo… S’è comportato veramente, abbiamo stretto un’amicizia e mi dispiace moltissimo che stia veramente male, molto male. L’ho visto un paio di mesi fa.

Lì ho conosciuto il Dottor Calore e Pappalettera. Siamo andati a Sant Aegid, nella Stiria, è un paesino bello anche, molto bello perché uscire di notte per andare a fare la pipì e vedere queste casette dove filtrava qualche piccola luce pur essendoci la proibizione dell’illuminazione, sembrava di essere in un presepio.

Io lo scrivo questo anche nel mio libro. Ti riempiva di nostalgia, di casa. Purtroppo c’era la baracca dietro, c’era la SS, ma più che le SS c’era il Kapò. I Kapò erano forse peggio delle SS, erano peggio delle SS. I Kapò tremendi.

Hanno fatto poi una brutta fine perché il giorno della Liberazione il 5 maggio sono stati malmenati, sputacchiati, qualcuno ci ha rimesso anche la pelle. Insomma, se lo meritavano.

D: Prima di andare però al comando di lavoro lì a Mauthausen vi hanno immatricolati?

R: Sì, mi hanno dato una nastrina con del filo di ferro che ho perso perché l’ho data ad una mostra e non me l’hanno più restituita. Se la son tenuta a Verona. Hanno fatto una mostra, mi hanno chiesto quello che avevo, l’unica cosa che avevo era quella lì, non me l’hanno più data. 113883 il mio numero. Quando mi sono tolto il giaccone l’ho buttato via.

Io sono tornato con un frac che ho trovato in un magazzino e un paio di braghe delle SS.

D: In questo comando di lavoro c’erano altri italiani, vero?

R: C’era Caleppi, c’era quello che ho nominato prima Pappalettera, non mi ricordo più i nomi adesso. Sì, c’erano italiani, eravamo un gruppo di Italiani.

D: Solo italiani?

R: No, ma c’era un gruppo di iItaliani abbastanza numeroso. Lì non si stava… Si stava male, intendiamoci, dire che si stava bene sarebbe ridicolo. Siccome era un campo piccolo, c’era meno disciplina. C’era da lavorare perché si andava a scavare per fare le fondamenta per le baracche per i sinistrati, lì si lavorava giorno e notte, acqua, vento. Si andava e si ritornava in baracca con la divisa, quella a righe che ci avevano dato e poi te la mettevi la mattina che era quasi ghiacciata.

D: Il vostro lavoro lì in cosa consisteva?

R: Piccone, badile, carriola per me. Mi hanno dato un piccone, era alto così. Guai se la carriola non era strapiena. Caleppi ha avuto lì il periodo più brutto della sua esistenza. Gli hanno rotto una gamba apposta di botte e doveva trascinare la carriola con la gamba rotta. Si trascinava così, con la mano trascinava la carriola.

Ha trovato per fortuna il medico, era un medico iugoslavo che parlava molto bene l’italiano che ha avuto compassione, in un certo senso direi che l’ha curato anche, se curare si può, intendiamoci, perché lì non c’era niente. Almeno per un certo periodo è riuscito a toglierlo dal lavoro.

Poi quando siamo tornati, siamo rientrati a Mauthausen, ricordo che ho vissuto il momento della Liberazione con Caleppi abbracciati a piangere tutte due in quel di maggio. Durante il viaggio del rientro Caleppi è stato costretto, è stato ricoverato in un ospedale svizzero perché è stato malissimo, molto male.

D: Il campo dov’eravate, questo sottocampo, era grande, era piccolo, c’erano molte baracche?

R: Piccolo, piccolo, 400 baracche. Sant Aegid.

D: Era recintato come tutti i campi?

R: Recintato con i fili spinati naturalmente con l’alta tensione.

D: Rispetto al paese il campo era vicino al centro abitato o era fuori?

R: No, era staccato, ma la popolazione in un certo senso ci ha aiutato, lasciava cadere delle patate, dei pezzi di pane. Io ho avuto anche un’esperienza, l’ho scritto anche sul mio libro, di una SS, di una giovane SS che mi sorvegliava. Sono stato portato da solo a fare un terzo lavoro. C’era questo giovane SS, avrà avuto diciotto anni poverino, faceva una pena. Io stavo peggio di lui, ma comunque…

Ad un certo momento ha lasciato cadere un pacchetto. L’ho visto il pacchetto, ma continuavo a lavorare. Se per caso mi muovo, quello lì mi… Lui continuava a guardarmi, poi mi ha fatto segno di prenderlo.

Allora mi sono fatto coraggio. Erano biscotti. Questa è stata una cosa stupenda. Questo ragazzino che evidentemente forse era anche lui lì per forza, non era che sia stato uno che ha avuto questa idea, forse suggerita dalla famiglia, dalla mamma certamente, da qualcuno. Ho avuto questa sorpresa.

Poi il problema era mangiarli o non mangiarli? Se sono avvelenati? Li ho tenuti in tasca. Poi la fame era fame e li ho mangiati.

D: Voi al lavoro lì, diceva prima che eravate addetti a degli scavi, a costruire dei basamenti…

R: Sì.

D: Lavoravate per qualche ditta?

R: Questo non lo so. Non lo so perché lì si vedevano solo deportati, Kapò, capisquadra, persone civili non ne ho mai viste. Può anche darsi.

D: Quando siete ritornati a Mauthausen più o meno quand’era? Quando è stato evacuato…

R: Siamo tornati… Dunque, la Liberazione è stata il 5 maggio, un mese prima circa, cioè quando le truppe russe stavano sfondando il fronte tedesco. Siamo tornati quasi quasi assieme ai profughi che lasciavano a piedi naturalmente, dormendo per terra, dormendo sui marciapiedi, dove capitava.

Poi ci hanno portati dentro nel penitenziario, è durato quattro/cinque giorni questo trasferimento perdendo parecchi amici, parecchi compagni perché non ce la facevano, si buttavano per terra, gli sparavano e morivano.

D: Era una delle tante marce della morte?

R: Una delle tante marce della morte, come quello che si temeva noi di Mauthausen, parlavano di evacuazione di Mauthausen le SS e l’evacuazione di Mauthausen, qui non ci resta più nessuno.

E invece no, la mattina del 5 maggio al posto delle SS sulle torrette abbiamo trovato i soldati della territoriale che se ne fregavano di noi. Da lì abbiamo capito che… Ma pure fino a quasi all’ingresso degli alleati ci sono state delle SS che hanno sparato, sparavano ancora, ammazzavano fino all’ultimo momento, fino all’ultimo momento, finché un carro armato ha sfondato il portone ed è entrato.

Lei deve sapere che però gli spagnoli aspettavano i russi, avevano preparato delle bandiere. Quando hanno visto che erano gli alleati, hanno fatto marcia indietro. Son cose che capitano.

D: E cos’è successo poi al 5 maggio del ’45?

R: Il 5 maggio del ’45, sentivamo da qualche giorno il rumore dei carri armati, l’aviazione che circolava sopra di noi perciò era chiaro che il fronte si stava avvicinando.

Poi c’era anche radio Fante, la chiamavano ed erano i prigionieri spagnoli, ancora della guerra civile spagnola, che avevano occupato certi posti di scrivano, magazziniere, quelle cose lì. Avevano possibilità di attingere notizie che poi riportavano a noi. Sapevamo che si stavano avvicinando le truppe alleate, nessuno però sapeva se erano alleati o russi. Erano alleati o russi? Poi quando sono entrati abbiamo visto che erano gli alleati.

Ci siamo trovati nella piazza dell’appello grande più di uno stadio tutta strapiena, c’era gente che era riuscita persino ad andare sui tetti delle baracche, non so come abbiano fatto, abbiano trovato la forza di andare.

Lì ci siamo abbracciati piangendo, urlando, siamo liberi, siamo liberi. E c’è stata la Liberazione.

D: Però lì a Mauthausen siete rimasti quanto ancora voi?

R: Un paio di mesi, non di più. Si sono organizzate subito delle commissioni tra le quali c’era anche il Dottor Calore che era proprio l’animatore. Sono andati in Svizzera, hanno preso contatto con la Croce Rossa. Subito hanno promesso gli elenchi dei sopravvissuti, poi ci hanno dato la possibilità di scrivere a casa. C’è stata la Liberazione.

D: Il ritorno invece com’è stato?

R: Il ritorno, sono tornato con un camion dell’esercito alleato. Abbiamo fatto un giro lunghissimo, siamo andati a finire… Abbiamo attraversato tutta la Germania. Poi siamo arrivati a Bolzano. Siamo andati… Non ricordo più, abbiamo fatto un lungo giro. Siamo arrivati fino a Monaco. Mi ricordo Monaco distrutta. E siamo arrivati a Bolzano.

A Bolzano, mia moglie che allora era la fidanzata, era stata a Bolzano due giorni prima ad aspettarmi assieme a mio fratello, ma invece il giorno in cui sono arrivato io non c’era.

C’era un camion organizzato dal comune di Isola della Scala per accogliere i deportati, quelli che rientravano. Sono salito, sono rientrato a casa.

D: Ed era quando questo?

R: In giugno, verso la fine di giugno mi sembra. Ho trovato mia madre che non aveva più lacrime perché aveva perso il marito in guerra. Quando è venuta ad accompagnarmi alla stazione di Porta Vescovo, quando siamo partiti per la Russia, perché io ho avuto anche questo grande onore, di partecipare anche alla Campagna di Russia, lei ha detto: “Ho perso il marito, adesso perdo anche il figlio”.

Quando son tornato invece che le ho telegrafato da Rimini. Che son rientrato a Rimini, non ha voluto venire alla stazione perché temeva di vedermi o senza una gamba o senza un braccio.

D: Al ritorno dalla Russia?

R: Al ritorno dalla Russia.

D: Era?

R: Quella era una storia…

D: Ha partecipato all’Armir, al Don?

R: Io sono stato tra i primi in Russia con il SIR, Corpo di Spedizioni Italiane in Russia. Dove siamo andati in Russia, qui è successa una cosa che Mussolini certamente non s’aspettava. Non so se voi avete letto qualche libro di storia, non quelli scolastici perché non dicono niente quelli scolastici. C’è una vecchia edizione di Einaudi dove dice che quasi tutti i comandanti partigiani erano ufficiali reduci dalla Russia.

Perché siamo partiti con la testa piena della propaganda fascista, i russi mangiano i bambini, i russi qua, i russi là e invece abbiamo trovato una popolazione di una dignità assoluta veramente.

Molti italiani, ma molti italiani nella grande ritirata si sono salvati per merito delle donne russe che li hanno raccolti, li hanno scaldati, li hanno nutriti. Molti italiani. Molti anche si sono accasati, sono rimasti lì.

Io ho avuto la fortuna di evitare questa ritirata perché mi sono ammalato. Per fortuna mi sono ammalato. E’ triste dire che è una fortuna ammalarsi, ma comunque è stata una fortuna, mi hanno rimpatriato prima. Ma lo stesso quella popolazione che ho conosciuto io aveva una dignità estrema. Povera, ma guardi, una cosa… Un rispetto, rispetto persino per noi che eravamo degli invasori. Ci davano, anche quel poco che avevano qualche volta ce lo davano da mangiare perché non arrivava il cibo.

Poi io sono simpatizzante dei russi. Adesso ho visto all’ospedale, mia moglie è tornata dall’ospedale pochi giorni fa, c’era un’infermiera russa. Il tipo di russo… Io ho scritto un racconto su un incontro che ho avuto in Russia con Capascha, era una partigiana russa.

Eravamo diventati… C’era un affetto. Poi l’ho trovata morta su un camion. Ho trovato questa russa, quando l’ho vista ho detto tu sei Capascha. Di una bellezza… Bella, bella, bella e lei ha voluto leggere il libro.

D: Agostino, del tuo trasporto della deportazione quanti siete tornati vivi da Mauthausen?

R: Questo non lo so. Dicono che siamo tornati circa l’8-10%, ma cifre esatte non ne ho. Non mi ricordo, pochi comunque, siamo tornati in pochi.

D: Di Isola della Scala in quanti sono stati deportati?

R: Di Isola della Scala siamo stati arrestati in 10 e siamo tornati in 3.

Bianco Natalina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Bianco Natalina detta Pasqualina. Sono nata a Susa il 18 Gennaio 1928. Sono stata presa dai fascisti alla Trattoria Balma”. Ero con mia sorella, ed erano venute delle persone a dirci che ci aspettavano in montagna nascosti dietro i sassi i nostri fratelli con altri partigiani. Aspettavano che portassimo loro qualche cosa da mangiare, e mia sorella, mi sembra fossimo in cinque, aveva fatto cinque sandwich con quei grandi pani di campagna e con un po’ di vino. Si vede che quando sono venuti ad avvisarmi c’erano già le spie: mi hanno presa proprio sul cancello con lo zaino in spalla. Avevo gli scarponi per andare in montagna. A quei tempi si usava il nastrino rosso ed è già tanto che non me l’abbiano fatto mangiare, perché era rosso. Di lì ci hanno portati giù in paese.

D: In quale paese, Natalina?

R: San Giorgio di Susa, perché la Balma è sotto San Giorgio di Susa. C’era pure mia sorella. Ci hanno portati alle scuole di Sant’Antonino. Ci facevano pure l’appello, c’erano dei partigiani e ci facevano stare attenti, nella piazza della scuola. Dicevo: “Qui siamo a posto, ci fucilano anche qui”. Siamo stati tre giorni nella scuola a dormire per terra sulla paglia. Dopo hanno trovato un partigiano nascosto sul sottotetto; il fatto è che avevamo della paglia, dei conigli e hanno fatto rumore, allora loro hanno voluto salire su con le baionette nella paglia, hanno trovato il partigiano nascosto e l’hanno portato con noi assieme alle scuole; poi l’hanno portato al cimitero. C’era una serie di partigiani che sono stati fucilati e noi presenti, sull’attenti, a vedere la fucilazione. Poi di lì ci hanno poi portate alle Nuove a Torino; avevamo la camera vicino ad Anna e di tanto in tanto toc toc.

D: Quando ti hanno portato a Torino? Ti ricordi?

R: Alla fine di maggio, perché era giugno quando eravamo a Torino.

D: Ti hanno mai interrogata, Natalina?

R: Sì, sì ma non alle Nuove; lì ormai eravamo già predisposte per la Germania. Lì avevamo con noi in cella Ondina, così si chiamava, mi sembra fosse biellese e poi non è rientrata più, l’hanno fatta morire nel campo di Ravensbrück; l’hanno subito fatta fuori perché mi sembra che avesse qualche disturbo, era malata. Allora quelli che erano malati venivano fatti fuori subito, eliminati. Volevano gente sana e robusta che doveva lavorare sodo.

D: Dopo le celle delle Nuove di Torino cosa è successo?

R: Siamo andate a finire a Porta Nuova sul vagone in quattordici. Per poter far capire ai miei che partivo per la Germania abbiamo fatto dei bigliettini, li abbiamo buttati fuori dal finestrino, sperando che qualcuno facesse sapere, c’era un po’ di gente, che facesse arrivare alla famiglia la notizia che noi non eravamo più alle Nuove, così che mia mamma non dovesse venire più a portare i pacchi o qualcosa alle Nuove, perché noi non c’eravamo più.

D: Tu e tua sorella.

R: Sì, siamo sempre state assieme. Eravamo in tre in cella, con Ondina. Poi è partita la tradotta. Abbiamo fatto tutto il percorso detto da Anna, attraverso l’Austria e via, con la paura di essere fermati dai partigiani. La nostra tradotta viaggiava sotto sorveglianza dei tedeschi perché lo sapevano che era piena di deportati che andavano in Germania. Allora pensavamo anche noi di subire un attentato, essere liberate, e non so se qualcuno è fuggito via e ce l’ha fatta, perché delle sparatorie ci sono state. Comunque siamo rimasti in Austria a Innsbruck per un po’ di tempo, un po’ di giorni. Poi siamo partite direttamente per la Germania.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Ravensbrück ?

R: Terribile! La Carletti ha fatto tutto questo traffico per la strada, faceva la matta, si sedeva per terra, sulle valigie: ma lei era una diva, non era una poveretta come noi! Comunque a Ravensbrück come siamo entrate la prima cosa che ho visto furono le carriole piene di pietre e i prigionieri a portare queste pietre, io non lo so dove le portavano queste pietre. Dicevo: “Mamma mia, se noi dobbiamo fare dei lavori così, siamo a posto”. La prima cosa che ho visto è stato tutto quel filo spinato e poi mi ricordo che siamo entrate in quello che sembrava un bagno. Io me lo ricordo che abbiamo passato notte e giorno nudi; tutta questa roba che abbiamo tolto e tutta questa roba che abbiamo portato per cambiarci, la biancheria, io me lo ricordo che l’abbiamo messa tutta nel sacco già, tutta nel sacco, i gioielli, l’orologio, tutta nel sacco. “Verrà restituito quando andate via”, “Ce l’ha restituito?” Dovevamo lavarci, pulirci, non si poteva bere l’acqua perché c’era pericolo di tifo. Era l’acqua del lago. Senza bere, oltre che senza mangiare anche senza bere. Dopo siamo andate nelle baracche. Non so più se avevano solo due letti a castello, erano basse queste baracche. Io mi ricordo che quel cibo non potevo mangiarlo. Mia sorella mi dava il suo pezzo di pane per non vedermi morire. Comunque si mangiava quella porcheria, per me era immondizia cotta.

D: E tu avevi allora quanti anni?

R: Sedici.

D: Ti ricordi il tuo numero di matricola di Ravensbrück ?

R: 44.151, non so più se mia sorella aveva 152 e io 151.

D: Cosa ti hanno dato per vestirti dopo?

R: Ci hanno dato subito quel tipo di camicia, sembrava grigia; era d’estate, era leggera, altro che freddo. Noi eravamo dalle quattro all’appello fino alle sette, sull’attenti. Quando passavano le …noi per non farsene accorgere ci aiutiamo l’una con l’altra con la schiena così per scaldarci un po’, perché eravamo anche nude, oltre che alle quattro del mattino. É una zona fredda. Ci davano quella ciotola lì senza cucchiaio, senza niente, dovevamo noi magari cercarci qualcosa, scagliare dai letti qualche cosa per non prendere il cibo così con le mani. Mi sembra che avessimo la vasca con l’acqua, i rubinetti; nell’ingresso c’erano le baracche coi lettini. La prima cosa: guai a non essere pulite. C’erano pure le botte se non ci tenevamo pulite. A me sembrava di essere in quarantena. Non so se siamo state quaranta giorni.

D: Avete subìto delle visite?

R: Sì, eravamo sempre in coda e sempre nudi. Per visitarci, anche gli occhi o la bocca, dovevamo essere nudi, era fatta così. C’era gente anziana, purtroppo per la gente anziana è un’umiliazione forte. Di lì ci hanno destinati a Schönefeld a lavorare nel campo.

D: Lì ti hanno dato un altro numero?

R: Io non me lo ricordo questo numero della fabbrica, non me lo ricordo.

D: Tu cosa facevi in quella fabbrica?

R: Eravamo tutti allineati con i martelli pneumatici a mettere i chiodi agli apparecchi da caccia. Tutto il giorno così, facevamo dodici ore, una settimana di giorno e una settimana di notte. Comunque quando siamo arrivati lì ci hanno dato un po’ di mangiare normale, abbiamo toccato il cielo con le dita, ma era solo per il primo giorno. Ci hanno dato una caramella da succhiare, era come una caramella da succhiare, ci hanno trattato coi fiocchi il primo giorno e poi invece c’erano i bombardamenti. Mi ricordo sempre: tante volte venivamo all’appello, non c’era da mangiare per tutti perché non arrivava, noi aspettavamo il turno degli altri e poi andavamo a lavorare senza mangiare. Anche lì avevamo i letti a castello; ero al terzo piano, guai, dovevamo avere sempre il letto in ordine. Il pagliericcio che vada giù qualcosa! É successo anche che mi abbiano rubato tutti i trucioli e ho reclamato. Ho preso pure le botte. Dato che mia sorella distribuiva il mangiare là dentro ha cercato di recuperare qualcosa per aiutarmi, altrimenti io dormivo sempre sulle assi perché dovevo stare attenta a cosa mi succedesse. Purtroppo eravamo di tutte le razze. C’erano zingari, c’erano russi, c’erano slavi.

D: Natalina, anche tu ti ricordi a Ravensbrück di aver visto dei bambini?

R: Sì, erano alti così, andavano anche in fila a fare le visite. Io penso che fossero ebrei, delle famiglie ebraiche.

D: Che tu ricordi a Ravensbrück uomini non ce n’erano.

R: No, noi vedevamo in centro un tipo di torre che girava, sorvegliava, con sopra un tedesco; pensavamo che dall’altra parte ci fosse un altro campo come il nostro. Di là c’erano gli uomini e di qua c’erano le donne.

D: Natalina, come te la ricordi l’interruzione del ciclo mestruale?

R: Noi abbiamo capito subito che avevano messo qualcosa, delle polverine nella minestra, perché era tutto uguale. Io già avevo dei problemi, mia sorella che aveva quindici anni più di me aveva detto alla mamma: “Fai visitare la bambina, falle fare delle iniezioni perché non è normale che a quindici anni non abbia ancora il ciclo”. Appena fatte le iniezioni per farmi venire il ciclo me le hanno fatte per farlo andar via. Questo influisce molto sulla salute, penso. Poi c’era quella ragazza, Bice, con noi, a lei invece venivano come emorragia. Ha capito com’è? Lei doveva stare molto attenta perché a lei venivano come emorragia e allora è peggio ancora. Ad ogni modo io lì a Schönefeld avevo Bice vicina a dormire, invece mia sorella non dormiva con me. Forse Anna era in un altro padiglione dove c’era mia sorella. Anna era piuttosto robusta e ben piazzata, per quello la mandavano a prendere il rancio, diciamo rancio, magari fosse stato rancio, per me non era rancio, era schifezza.

D: Natalina, tu non ti sei mai ammalata?

R: Ringraziando il cielo, ho pregato tanto, piangevo e pregavo. Sono sempre stata piuttosto debole da quel lato. Purtroppo mi sono vista la vita distrutta, poi pensavo alla mamma da sola, e i fratelli via. Poi chissà come va a finire! Comunque è stata fortuna anche che magari, essendo giovane, uno resiste di più. Difatti mia sorella non ce la faceva, cercavo di aiutarla, l’accompagnavo fuori quando andavamo coi badili e la zappa a fare le trincee. Trascinavo lei, portavo il badile e la zappa sua per poter riuscire a fare qualcosa. Lei non ce la faceva proprio più a stare in piedi e l’hanno portata all’ospedale.

Quando è rientrata io lavoravo già alla FIAT. Pensi un po’. Noi siamo state, questo me lo ricordo, liberate anche il 25 aprile, e mia sorella è entrata a ottobre e io lavoravo già alla FIAT. A quei tempi, avendo la casa incendiata con tutto quello che è successo, avevo solo da dire “beh” e subito sono stata presa.

Proprio mi rifiuto, non voglio sentirne parlare più dei Lager. Andare a vederli per me è la morte. Mi sembra di morire. L’ho vissuta come una tragedia. Quando siamo rientrati ci hanno fatto fare una grande manifestazione in divisa al cimitero generale, con il rullo di tamburi. Io ho sempre pianto e mi ci è voluta più di una settimana per mettermi a posto. Sono già di carattere più fragile, non lo so.

D: Descrivici una giornata di quelle che hai trascorso a Ravensbrück.

R: Tutte tragedie. Per me era tutta una tragedia. Mia sorella nelle sue condizioni mi sgridava, mi faceva forza e coraggio. Lei non aveva la forza di trascinarsi e io ero fragile. Mi vedevo… io non so se sarò stata lì da dieci giorni, mangiavo il pezzo di pane che mia sorella mi faceva passare perché quella sbobba non mi andava proprio giù, mi veniva da rimettere. Come si può mangiare una cosa che è contro lo stomaco?

D: Il ricordo più negativo che hai sono le violenze, le percosse oppure la fame, il freddo?

R: La fame, anche il freddo e quell’appello da stare tre ore dalle 4.00 alle 7.00 del mattino sempre tre ore lì sull’attenti. Non è facile da mandare giù, perché dovevamo farlo, perché dovevamo farlo? Non so se avevo 44 di numero eravamo in 44 penso. 44.000? Non lo so.

D: C’erano altre ragazze della tua età?

R: Sì, ce n’erano, degli altri paesi, dell’Italia eravamo solo noi quattordici. Poi non so perché ci sono stati altri gruppi, magari altri periodi, quando siamo andati via noi sono venuti degli altri o che erano venuti prima. Non so.

D: E in fabbrica hai lavorato fino a quando?

R: Fino a che hanno capito che si sentivano già i colpi dei cannoni; quello ci dava un po’ di forza, un po’ di coraggio. “Forse ce la facciamo, forse ce la facciamo”. A noi i Meister non potevano dare tanta confidenza, quando avevamo tutti i chiodi così, facevamo il mucchio, dicevamo tra di noi: “Sta venendo avanti il fronte. “Alles kaputt”: capivano che arrivava la fine per loro, tant’è che poi abbiamo trovato anche i bagni caldi, le case ancora riscaldate, ancora a posto quando noi siamo entrate e ci siamo trovate libere.

D: Ma prima della Liberazione vi hanno riportato a Ravensbrück ancora?

R: Io questo non me lo ricordo. Mi ricordo solo che ci hanno fatte preparare per andare via, abbiamo fatto un percorso in camion, poi a piedi. Mi ricordo che viaggiavamo sembrava in una foresta. Una cosa che mi ricordo è che ho visto un bel vischio sopra un pino. Ho detto: “Questo forse è il portafortuna”. Difatti io me ne sono accorta e poi ci siamo trovate noi libere. Poi ci siamo trovate chiuse in un locale che mi sembrava una stalla. A me sembrava una cosa così.

D: E tua sorella era con te?

R: No, mia sorella era all’ospedale, mia sorella non ce l’ha fatta a venire via, era all’ospedale e non si sapeva niente. Poi è arrivata e io lavoravo già alla FIAT.

D: Avete trovato i russi in quella stalla?

R: Erano fuori, erano fuori. Lì avevamo delle russe, loro hanno capito che oramai eravamo sole. Dovevamo stare molto attente perché c’erano gli apparecchi di continuo che mitragliavano, una cosa o l’altra. Dovevamo stare molto attente a non essere prese, a scamparla. Arrivare alla liberazione e lasciarci la pelle!! Stavamo molto nascoste, il più possibile, perché gli apparecchi caccia si abbassavano a mitragliare.

D: E da quel posto lì….

R: E da quel posto lì abbiamo fatto armi e bagagli e il necessario per vestirci, cambiarci, sul carretto abbiamo fatto 300 chilometri a piedi, fino all’Elba. Tutta la parte russa l’abbiamo fatta tutta a piedi: al fiume Elba dall’altra parte avevamo gli americani e allora era tutta un’altra cosa. Ci hanno fatto attraversare di là. Ad ogni modo eravamo con Anna, in tutto quel percorso siamo state molto unite con Anna. Eravamo vestite da maschietti per mascherare che non eravamo mica ragazze. La violenza lì non mancava e dovevamo stare nascoste per la violenza, violenza sessuale.

I russi, l’abbiamo subìta dai russi la violenza sessuale. Noi ci siamo trovate in ville con bei lettini, ci siamo sistemate lì a dormire, eravamo due nella camera mia, due o tre nell’altra camera. Per quello poi siamo state molto unite e vestite da maschio: sono venuti i militari russi ubriachi, col mitra, sul tavolino da notte e dover subire. Ce l’ho fatta a sgattaiolare e scappare. C’era una pozza di sangue. Andarmi a nascondere, poi sempre stare nascosta. Da allora con Anna restavamo nascoste, andavano i ragazzi, gli amici, fuori a fare la spesa; noi facevamo da mangiare, nascoste. É guerra. Noi tutta questa violenza di cui stanno parlando adesso l’abbiamo subita, purtroppo.

D: E dopo vi hanno preso gli americani?

R: Quando poi abbiamo attraversato e ci hanno preso gli americani ci davano da mangiare la mensa buona, ci davano la cioccolata, le caramelle. Ci davano quello di cui avevamo piacere; ce l’avevano e ci rispettavano. Abbiamo dovuto passare tutto un percorso per arrivare a destinazione e raggiungere l’Italia che era molto lontana.

D: Però l’avete raggiunta l’Italia.

R: Ce l’abbiamo fatta.

D: Come avete fatto Natalina?

R: Non so dire, non so dire perché sulla tradotta non c’era posto per tutti; c’era gente sopra i treni e quando passavano sotto i ponti e sotto le gallerie ci lasciavano pure la pelle. Tutti volevano prendere il treno, tutti volevano prendere il treno, tutti volevano venire in Italia. Tutti cercavano dei mezzi il più veloci possibile per arrivare in Italia. A Milano non ho trovato un gran che di accoglienza.

D: Quando sei arrivata in Italia?

R: Ero con Anna, siamo state liberate il 25 aprile, poi abbiamo fatto tutto questo percorso: siamo arrivate a luglio, siamo arrivate a luglio.

D: Passando per Bolzano, per il Brennero?

R: Sì, ecco dal Brennero. Quanta gente ha attraversato dal Brennero e ci ha lasciato la pelle, perché tutti volevano prendere il treno. Tutti volevano venire, ma più di tanti non ci si stava, neanche accavallati.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Non mi ricordo più. Anna diceva che ci hanno dato quella roba, era appena dopo la guerra, tutti avevano dei problemi per i fatti loro, non è che abbiamo avuto un’accoglienza del tipo “Arrivano i deportati”, no, no.

Da Milano ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto anche un tratto col pullman, forse da Bolzano alla stazione di Milano.

D: Tu non ti sei fermata a Pescantina?

R: No, non me lo ricordo neanche quel nome. Forse non davo tanto peso, non ci facevo tanto caso. Anna è più brava di me.

D: Poi sei arrivata a Torino.

R: Sì.

D: Tu accennavi prima alla tua casa incendiata. Lo sapevi che la tua casa era stata bruciata?

R: No.

D: Questo è avvenuto dopo.

R: Dopo; quando sono arrivata a Bussolengo ho incontrato un amico di mio fratello. E’ stato lui ad accompagnarmi, ad andare ad avvisare mia mamma che stavo arrivando per non farle venire un infarto. Essendo tutta la casa disastrata lei ha avuto anche i suoi problemi e poi non era più tanto giovane.

D: Quando vi hanno incendiato la casa e chi?

R: I fascisti.

D: E quando?

R: Quando siamo state portate via. Non so se l’hanno fatto subito. Io ho anche un fratello deportato, Bianco Romano: è stato a Trieste, alla Risiera di San Sabba.

D: E poi?

R: É stato preso più tardi in una chiesa fuori da Chivasso, mi sembra.

D: Ma è ritornato da San Sabba?

R: Sì, è ritornato anche lui. Lui ha fatto un po’ più tardi, ha fatto meno prigionia, penso.

Girardi don Domenico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Domenico Girardi, sono nato a Montesover, Comune di Sover in Val di Cembra il 14 agosto 1910.

D: Don Domenico, quando siete stato arrestato Voi?

R: Sono stato arrestato la metà di gennaio 1945.

D: Dove e da chi?

R: Lì ero parroco a Montalbiano di Valfloriana in Val di Fiemme e dico subito non ho fatto niente di particolare, soltanto opera di carità, son vissuto da buon cristiano. Altro che passavano di lì tanti italiani, tedeschi, anche russi, ucraini, americani, due per esempio che erano stati colpiti quando bombardavano il ponte di Egna si sono salvati col paracadute, son passati lì da me, ho dato ospitalità. Fra i tanti assistiti c’erano due tedeschi disertori dal fronte di Cassino. Son rimasti due mesi, poi son partiti. Come disertori erano condannati a morte in contumacia. Dunque sono stati ripresi dai tedeschi sempre dalle parti di Merano sopra Lavis. Hanno chiesto: Dove siete stati in questo frattempo, cioè dalla diserzione ad adesso?” Ed hanno fatto il mio nome.

Allora la mattina per tempo son venuti a prelevarmi sotto l’accusa di essere collaboratore di Banditen.

D: Chi è venuto ad arrestarvi?

R: Sono venuti ad arrestare la mattina in paese verso le 2.00, le 3.00. Il paese era circondato da circa duecento persone tra polizia trentina ed altri tedeschi. Mi sono accorto di cannoncini piccoli, non so il termine tecnico, erano nei punti strategici del paese. Credevano che fosse un paese pieno di partigiani e invece non era niente.

Ad ogni modo mi sono accorto perché un tale, Simone Nones, aveva comperato una mucca a Brusago e doveva andare a prenderla. Allora non son potuti passare. E’ venuto in canonica, mi ha suonato, mi sono alzato e allora siccome bestemmiavo un po’ di tedesco, sono disceso e ho fatto da interprete. ” Dieser Mann hat eine Kuh gekauft”, ha comperato una mucca. Niente da fare. Un’ora dopo circa il casaro che doveva andare a fare formaggio la medesima cosa. Intanto la mattina sono venute le 5.00. Sono entrati i tedeschi, la polizia trentina in tutte le case e hanno fatto uscire tutte le persone, gli uomini radunati lì nel piazzale davanti alla Chiesa, le donne lasciate libere.

Sono andato a celebrare la Messa. Era in latino, ci si voltava a dire “Dominus vobiscum”. Ho visto due SS con lo schioppo, baionetta in canna sulla porta della chiesa. Ho pensato tra me: “Guarda che buoni cristiani, stanno lì ad ascoltare la Messa”. Finita, entrato in sacrestia erano lì pronti. “Kommen Sie mit. Venga con noi. Ja, sehr gern.Molto volentieri”. Credevo nella mia ingenuità per non dire ignoranza che mi prendessero come interprete. Guardate la presunzione umana.

In quel momento così là era. Sono uscito, messo lì da parte. Ho cominciato a rientrare in me stesso. Devo andare a far colazione anche. “Nein”. Un po’ di colazione sono abituato a farla, un po’ comico. Allora mi hanno permesso, sempre accompagnato.

“Ha delle armi?” Qui è il punto, mi è venuta paura, perché avevo una Beretta, schioppo da caccia, non l’avevo denunciato perché mi premeva troppo, era nuovo, era stato un bel regalo. L’avevo nascosto su in cima, sopra l’armadio.

I tedeschi sono andati dentro. Ma davanti c’erano macchine di proiezioni per le scuole. Uno di loro è salito sulla sedia e in quel momento “pataclicchete”, è andata bene, s’è fermato, s’è fatto male al ginocchio. La mamma era con me. “Bono”, dice. “Bono”. Cioè hai avuto il giusto premio. Insomma, non l’ha trovato.

Dopo mi sono messo lì insieme con gli altri. Ad un certo punto tutti in fila verso il comune e da lì verso Trento, la prigione, via Pilati.

D: Ma tutti? Oltre a te anche gli altri paesani?

R: Non tutti, no. Ne hanno scelto una quarantina. Lì anche li hanno lasciati, anziani e così via. Quelli sui quali si sospettava maggiormente. La gente piangeva. Io li rincuoravo. “Ma no, perché?” “Noi torniamo?” “Volete che conducano via il parroco? No, io ritorno, sono insieme con gli altri. Come ritorno io…”. Sempre ingenuo, ignorante vorrei dire, non capivo la situazione in quanto io avevo fatto un’opera di bene, l’avevo detto alle SS. “Io ho fatto solo il sacerdote, predico la carità, ma prima di predicarla, devo tradurla nella pratica. Io non ho fatto niente dal lato politico o altro. Niente. Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati”.

Ero anche giovane, avevo trentacinque anni, ma potevo capirle certe cose. Non le ho capite sempre nella mia ingenuità. Poi in via Pilati. Qui sono rimasto due mesi e mezzo in cella.

D: In cella due mesi e mezzo d’isolamento?

R: Isolamento. Veramente isolamento per tanti motivi che non posso neanche nominare. Non posso dire. Questo isolamento, abbandonato da tutti. Ci si vedeva lì solo, abbandonato da Dio, abbandonato dal prossimo. Proprio non si poteva comunicare, almeno in un primo tempo, con nessuno, dopo venivano le mie sorelle a trovarmi, allora qualche notizia, altrimenti solo.

Pensavo: “Signore, è una scuola anche di psicologia, ma Signore, cosa ho fatto? Ho dato da mangiare, un’opera di misericordia, perché arrivare a ‘sto punto?” Entra quella debolezza anche morale. Non da perdersi di coraggio, non mi sono mai perso di coraggio, ma in certi momenti di ipotensione cardiaca si abbassava il morale.

Affamati naturalmente. In un primo tempo, un quartino, forse non era mezzo litro di brodo di dadi al giorno e due pezzetti di pane al giorno. A quell’età avevo anche appetito. Fatto sta che tra lì e poi al campo di concentramento ho sentito la fame.

Premendo sotto lo sterno si sentiva qualcosa di duro, era la spina dorsale. Adesso non la sento più. Era la fame, la fame. Arrivati ad un certo punto si diventa deboli, fiacchi. La sete è la cosa peggiore. Insomma io sono rimasto lì. Dopo due mesi e mezzo ci trasportano.

D: Scusa, don Domenico, ti hanno mai interrogato quando eri lì in prigione?

R: Sì, si. Mi hanno interrogato alla Villa Rossa dove adesso c’è l’ambulatorio del Dottor Torri, mi pare, lì davanti alle scuole. Due volte mi hanno interrogato.

D: Chi t’interrogava?

R: Era un tale di cui non conosco il nome, un tedesco. Dopo c’era un traduttore, aveva l’interprete. Mi è rimasta impressa una signorina, non aveva ancora trent’anni penso. Iena la chiamavamo. E’ venuta lì. Credeva che sapessi il tedesco. Parlando in fretta in tedesco naturalmente, ho capito un po’, ma ho fatto finta di non capire.

Alla fine coi pugni sotto, indietro, indietro, perché c’era il duro. Mi sembrava che mi era venuta la voglia, la tentazione di far così con quella forza, ho trentacinque anni, così di metterle le mani al collo. Mi sembrava di essere in grado di forarla. Quinto non ammazzare, però in quel momento… In certi momenti quasi quasi lo dimenticavo.

Dico: “Calma”; sono stato capace di mantenere la calma, di rientrare in me stesso. Mai, prima pensare e poi parlare.

D: Ma sei stato accusato di che cosa tu?

R: Di collaboratore di Banditen. Non di armi, collaboratore di banditi perché dando da mangiare a questi che per loro erano banditi, scampati, disertori, io ho tenuto la scala. Loro hanno rubato e io ho tenuto loro la scala. Pensate che io sono sacerdote, predico la carità, le opere di misericordia.

Anche mio papà mi ha detto, oltre che tutti gli altri, “Non è quello che predichi quello che vale, il bene non è quello che predichi, è quello che fai”.

“Ho dato da mangiare agli affamati. Per di più a due dei vostri, due tedeschi, per di più. Non mi pare di aver fatto niente di male”. Per loro erano Banditen perché condannati a morte. Per loro erano Banditen. Il mio reato è aver fatto il bene.

In prigione si può andare non soltanto quando si ruba, ma anche quando si ama.

D: Scusa, don Domenico, quando tu eri qui in prigione a Trento, era inverno vero?

R: Inverno.

D: Faceva freddo?

R: Sì. Questo inverno ha anche degli episodi belli. Il terreno tutto ghiacciato. Quando gli americani, gli inglesi bombardavano la città, lo scalo ferroviario, c’era tutto il terreno ghiacciato, dunque un corpo unico. Sembrava che le bombe cascassero lì vicino. Allora ci facevano discendere “Hinunter” dicevano, come rifugi sotto, negli avvolti delle prigioni. Lì una bella lezione.

Il momento della morte è il momento in cui anche i bugiardi dicono la verità. Inginocchiati, devoti, uomini. Le donne erano in un altro appartamento. Ci dia l’assoluzione. Inginocchiati come all’inizio di una battaglia. Atto di dolore. “Io vi assolvo dai vostri peccati, nel nome del Padre…”

Segno di croce con tanta devozione. Non segno geroglifico, ma un segno veramente da buon cristiano. Bisogna che dica, c’era anche il maresciallo Herr Kunt si diceva, erano tutti italiani lì, ma l’autorità maggiore era questo maresciallo tedesco. Arrivava, certe volte stava lì anche lui. Non il segno di croce, però stava sull’attenti.

Mi sembrava d’aver colto almeno il rispetto per l’azione che stavamo compiendo.

Un altro episodio. Dopo il primo tempo ho organizzato anche gli aiuti esterni. I miei parrocchiani ogni settimana mi mandavano un bel pacco.

Non ho mai sentito la gioia della carità come in quei momenti perché quando si riceveva qualcosa da fuori, al successivo raduno lì nel rifugio si condivideva. La gioia nel dare, perché altri venivano da altre province, non avevano nessun mezzo, nessuna assistenza. La gioia nel dare, in maniera che avevo da mangiare il primo giorno in cui ricevevo la visita, il secondo e dopo era come gli altri. Non ho mai sentito… Insomma, la gioia nel dare. Di voler del bene.

D: Don Domenico, le altre persone arrestate con te, quelle del tuo paese, sono state poi liberate?

R: Sono state liberate tranne il parroco di Casata, il parroco Don Partis, è rimasto lì con me quindici giorni e poi è stato liberato. Gli altri sono andati a casa tranne due.

D: Chi erano questi due?

R: Due. Uno era un mio parrocchiano, dopo il medico condotto, un certo Dottor Nicolini che dopo è venuto medico condotto dalle parti di Egna, Neumarkt.

D: Dopo due mesi e mezzo di carcere qui a Trento ti hanno portato dove?

R: A Bolzano, Durchgangslager, campo di smistamento. Lì eravamo circa duemila. Dico circa perché ne arrivavano cinquanta di nuovi e ne partivano trenta per Dachau, da quelle Büchenwald ,parti lì, almeno così si diceva. Ne arrivavano cento, ne partivano cinquanta e così via. Era Durchgangslager, dunque campo di smistamento.

D: Con cosa ti hanno portato da Trento a Bolzano?

R: A Bolzano su un camion, eravamo in quarantadue, anche lì è stata bella. Quarantadue su un camion scoperto naturalmente, ai quattro lati del cassone quattro SS col mitra sempre pronto.

Arrivati a Gardolo: “Schauen Sie dort” “Guarda lassù”, sei bombardieri scendevano in picchiata per bombardare il ponte della Vis, ma a quell’altezza sembrava la nostra direzione e allora “Schauen Sie durch”; hanno visto, fermano il camion alle prime case di Gardolo, siamo entrati in una casa fino al cessato allarme e poi siamo saliti.

Intanto uno l’è partito. Saliti sul camion per continuare, 50 metri un altro allarme. Dentro. Al primo è andata bene. Sono partiti altri tre. Da quarantadue siamo rimasti in trentotto. Ci avevano avvisati, ognuno che parte, che scappa, dieci vengono fucilati. Allora ne erano partiti quattro, eravamo in trentotto, tutti in fila, due file così. Ai lati SS, ce la siamo vista un po’… Dovevo dare coraggio perché ero prete. uno su dieci, siamo intrentotto, dovrebbero ammazzarne quattro, volete che vadano a Trento?

Fatto sta che pronti lì con il mitra, l’abbiamo vista brutta, ma dopo non hanno sparato. Invece che continuare per Bolzano, siamo ritornati a Trento in prigione dove eravamo prima e siamo partiti durante la notte per arrivare poi a Bolzano durante la notte.

D: Quindi durante la notte tu sei arrivato al campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Come te lo ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: L’ingresso, in fila, anzi due file. Tedeschi su dritti, bisognava fare i segni, cappelli, bisognava fare questo segno. Posso alzarmi? No. Allora bisogna far così. Giù, anche se uno non aveva cappello. C’era una damolina, una certa Kapeller. Il Dottor Nicolini, medico condotto, una persona molto intelligente, cappelli pronunciato dai tedeschi, Kapeller si è voltato un po’ a destra, a sinistra ‘sta Kapeller.

Il tedesco è andato lì, non uno schiaffo, un pugno. Era lì davanti. Un pugno, s’è riversato verso di me. Svenuto. Stava per svenire, allora l’ho fregato sulla testa, coraggio. Si è rimesso in sesto. Questo è stato il primo impatto.

Dopo ci hanno messi a dormire nel primo blocco, blocco A riservato agli ebrei. Durante la notte ne sono morti due, due ebrei che erano andati a prelevare da una casa di riposo. Uno scrupolo di coscienza da giovane, avevo poca esperienza. Uno proprio sotto di me. Eravamo in tre, uno sopra l’altro, tre.

Un moribondo, noi sacerdoti siamo abituati, le preghiere. Cosa fare? Non avevo niente. Ho dato l’assoluzione. Ho chiesto a uno che faceva la guardia di notte. Cosa c’è? Un vecchietto che sta morendo, niente, niente, sta morendo.

Uno, prima il saluto al medico con un pugno, uno sta morendo… Ho cominciato un po’ a raccapezzarmi. Dopo il secondo giorno ci hanno assegnato al nostro blocco, il mio era il blocco G, eravamo dentro in circa duecento.

Il blocco era come una divisione, camerette. Una malga, uno stallone con diversi divisori. Naturalmente uno sopra l’altro, anche lì tre. Anche lì da soffrire, però tanta consolazione, perché sapevano che io ero prete, mi avevano levato la veste naturalmente, mi avevano vestito… Una roba comica. Mi avevano dato un paio di calzoni da cavaliere, stretti… ” Diese Hosen sind zu klein, dico. Ste brache mi sono troppo strette. Nein”.

La prendevo con filosofia. Allora provare a metterle dentro. Erano proprio strette. Le ho messe dentro con fatica naturalmente. Dopo ho respirato. “Crac” hanno fatto e li ho visti ridere. “Diese Hosen sind zu klein”, dico calmo, tranquillo, cercavo di non arrabbiarmi perché ho come esperienza che man föngt mehr Fliegen mit dem Honig als mit dem Essig, cioè se ciapa più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, più con le buone che con le cattive.

Con i tedeschi mi sono arrabbiato una volta sola, lì l’ho vista brutta. Volè che ve la conta? Lì è una pagina brutta perché sono venuto a sapere che mio papà era morto. Papà e mamma erano con me in canonica. Sono venuto a sapere che era morto. Allora sono andato lì. “Mei Vater ist gestorben”. “Il mio papà è morto, fatemi qualsiasi condizione, pur di vedere la mamma”. La mamma per me era tutto.

A un certo punto c’era un tavolo alla porta d’uscita, una scala, un tavolo rettangolare, ascoltava. Dicevo: “Non ho soldi qua, ma ho campi, prati a casa. Pago tutto, vendo un campo pur di vedere mia mamma”, perché mia mamma non sapeva neanche se ero vivo.

D: Questo è successo quando era in campo di concentramento?

R: In campo di concentramento, sì. L’altro dopo aver ascoltato, anche qui ingenuo, credevo, forse mi sembrava commosso. S’è alzato, adesso non posso muovermi, ha fatto il giro, ho visto dal segno del piede che stava per darmi un calcio. La porta era aperta come un ponticello dopo la scala. Non mi ha raggiunto, mi ha raggiunto soltanto di striscio con quelle scarpe di montagna qui nella parte deretana, ne porto ancora la cicatrice.

Cicatrice nel senso che la pelle è un po’ ruvida. Non posso lasciarvela vedere. Quando sono stato in fondo, mi sono voltato ho detto: “Heute mir, morgen dir”, cioè oggi sono io che le piglia, ma domani potresti essere tu. Cric crac per il campo. Lì sono diventato un po’ furbo, invece che andar diritto, andavo così perché era più difficile. Non ha sparato, ma me la sono vista veramente…

Toccarmi negli affetti più cari, più intimi, papà e mamma, non sono stato capace di vincermi.

D: Don Domenico, quando allora sei entrato ti hanno messo al Blocco A, poi al Blocco G.

R: G.

D: Ti hanno tolto il tuo abito?

R: Sì, questo me l’hanno levato, l’hanno messo in un sacco da cemento vuoto. Dopo ho guardato dove lo mettevano. L’hanno messo sopra le prigioni del campo. Ho guardato proprio perché magari pensavo che un domanisarei andato a prendermelo. Mi hanno dato la divisa, ho detto prima, quella divisa da cavaliere non andava bene. Allora mi hanno dato una tuta grigia. Bianca era originariamente, ma era grigia con la croce di Sant’Andrea davanti, sulla schiena e nei calzoni.

Croce di Sant’Andrea perché era un segno. Non si poteva uscire. Se si voleva scappare bisognava andare come si era e quindi si veniva riconosciuti. Invece il segno eccolo qua. Qui uno che non l’ha provato, non può immaginarselo.

Più delle botte mi faceva soffrire questo segno. Più delle botte. Qui era nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale, era tutto, tutto. Vicino a questo c’era il triangolino rosso. I colori di questi segni erano tre: il giallo per gli ebrei, l’azzurro per gli ostaggi, cioè scappava un figlio, andavano a prendere il padre e il rosso per i politici, per i peggiori. Io ero uno dei peggiori.

Questo vuol dire: nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale. Anche un cane ha un nome: Fido, Bobi, così come quello della televisione. Un cane ha un nome. Tu sei peggio di un cane e questo moralmente era una sofferenza proprio che colpiva.

D: Lì dentro?

R: I soldi, quando sono partito da casa sono sempre stato povero, avevo trecento lire. Centocinquanta le ho lasciate ai miei e centocinquanta me le son prese io. Entrati nel campo ce le cambiavano perché non si poteva comperare, né negoziare con l’esterno. Ci davano dei soldi di valore, questa era una lira.

Questa era anche una scuola. Lì dentro c’era il Comitato di Liberazione Nazionale, il famoso CLN. Lì rappresentati da cinque partiti: Comunisti, Socialisti, Partito d’Azione, adesso Repubblicano, Democrazia Cristiana e Liberali.

E quando alle 6.00 di sera ci chiudevano nei blocchi, allora ci trovavamo tutti i rappresentanti di questi cinque partiti. Sono stati gli altri perché di politica non me ne intendevo niente, come me n’intendo poco anche adesso magari.

Mi hanno dato quello della DC, la firma è Pirelli, credo che sia quello delle gomme Pirelli, porto ancora la firma, questo è l’originale. Reverendo Girardi Don Domenico, matricola 10626 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di Bolzano e merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata in riconoscimento dei sacrifici sofferti per la patria oppressa.

Perché questo sia valido, doveva essere munito del documento di scarcerazione, eccolo qua, Entlassungsschein, il documento di scarcerazione e poi questo tagliandino, il distintivo speciale, questo.

D: Don Domenico, quando ti chiamavano allora per l’appello, ti chiamavano con il numero?

R: 10626 pulizia. Allora andavo. Il mio lavoro da principio era la pulizia dei gabinetti, non si può neanche dire perché di gabinetti non ce n’erano. Descrivo come era. Era un bidone di circa un ettolitro, un bidone di latta, in cima c’erano due orecchini così. La mattina questo funzionante gabinetto era pieno di escrementi.

Allora io e un altro prendevamo un palo, lo infilavamo in questi aggeggi, lo si portava fuori in una buca. Dopo hanno fatto una specie di orinatoio scorrevole. Allora avevo meno lavoro. Questo era il lavoro: fare le pulizie.

Dopo il lavoro batter su legna, è una delle belle consolazioni. Consolazioni per una scuola. Immaginarsi una bora di circa 20 metri, ai lati due SS col mitra sempre pronto a sparare, guai a parlare, non dicevano vai in fretta o altro, no, non parlare.

Avanti così. “Padre mi confessa?” “Sì, volentieri” Quando diceva “Confessami”, veniva lì vicino a me, intanto lavoravamo insieme, sempre in movimento. Tante volte, tanti, ma tanti che venivano a confessarsi. Dando l’assoluzione, alzando la mano facevo finta di asciugarmi il sudore, non c’erano fazzoletti.

“Io ti assolvo dai tuoi peccati in nome del Padre…” Un segno geroglifico ed era l’assoluzione. Finito un ramo dopo ne veniva un altro e tutti i giorni. Più di tutto la sera quando ci chiudevano nei blocchi, “Mi confessa Padre?” “Sì, volentieri”.

Io ero al terzo piano, lì vicino alla finestra, finestra senza vetri, mi sono preso anche una faringo/laringite cronica, per questo la voce con facilità mi scappa. Lì confessare. Barba lunga, testa rapata, confessore, confessando tutti uguali. Non mi sentivo di stare seduto, inginocchiati tutte due.

Per me era una bella consolazione poter dare una parola di conforto.

D: Don Domenico, quando sei arrivato tu nel campo di Bolzano ti ricordi che periodo era?

R: Il periodo era fine marzo.

D: Del ’45?

R: ’45. Arrestato la metà di gennaio.

D: Un’altra cosa Don Domenico. Tu potevi celebrare Messa?

R: No, mai, mai, né in prigione a Trento, mai, né celebrare, né dire il breviario, anzi, non si poteva avere niente. No, mai, mai celebrato.

D: Ti ricordi se c’erano altri sacerdoti con te a Bolzano?

R: Sì, a Bolzano lì al momento non ne vedevo, ce n’erano stati, Don Guido Pedrotti, ma era già partito. Dopo Monsignor Daniele Longhi anche. La domenica veniva un Monsignore di Genova dicevano, un Monsignore di Genova a celebrare la Santa Messa.

Un fatto che mi è rimasto impresso: la terza domenica di aprile ormai c’era odore di libertà. E’ venuto Monsignor Bortignon, allora Vescovo di Feltre/Belluno, dopo è diventato Arcivescovo di Padova. Quel famoso, bravo Vescovo che ha dato l’Olio Santo in fronte ai partigiani uccisi dai tedeschi a Bassano. S’è preso una scaletta, erano impiccati e ha dato l’Olio Santo.

Questo Vescovo, erano presenti anche SS, ha parlato in maniera ineccepibile, non potevano accusarlo i tedeschi, ma ha fatto capire a noi che ormai la vittoria, l’uscita, la Liberazione era vicina.

Anche il bell’episodio. Io avevo messo insieme un coro, cantavamo durante la Santa Messa. Le canzoni che sono conosciute dalla Sicilia fino a Bolzano. “Mira il tuo popolo”, “Lieta armonia”, “Inni e canti”, “Sciogliamo un cantico”, ecc. Queste canzoni che comunemente cantiamo o cantavamo dappertutto perché adesso ci sono altre novità.

Immaginatevi, duemila cantori. Ero su un podio, era una cassetta che scricchiolava, ero in pericolo di cadere, che dirigevo “Mira il tuo popolo”. Erano dei canti, credo che Riccardo Muti di fronte a quei concerti sarebbe risultato inferiore. Voglio dire una massa di gente stonata, non vorrei offendere la fama di Riccardo Muti…

Che sia canto stonato o non stonato, ma un’impressione, duemila persone a squarciagola che cantano “Lieta armonia”, “Mira il tuo popolo”, “Inni e canti” e così via. Vicini alla Liberazione, almeno così presentivamo. Una bella pagina.

D: Don Domenico, ti ricordi se c’erano anche delle donne nel Lager di Bolzano?

R: Sì, c’era un blocco riservato proprio alle donne. Era il blocco mi pare, non ricordo se era il blocco N. Era circoscritto, potevano uscire a pigliare l’aria fuori del blocco, potevano uscire in un piazzale. Naturalmente c’era il reticolato. Non si poteva avere nessun contatto con gli uomini, però si vedevano dentro. C’erano anche alcune che conoscevo. Questa Kapeller che ho nominato prima.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini dentro nel campo?

R: No, proprio ragazzini e ragazzine non ne ho visti.

D: In fondo al campo c’era il Blocco Celle.

R: Il Blocco Celle. Noi la chiamavamo la prigione del campo. Lì un episodio che mi ha fatto… La prigione, l’ho qui davanti alla mente come se fosse capitato ieri.

La domenica pomeriggio, la mattina sempre lavorare, ma nel pomeriggio avevamo la libertà di passeggiare nel piazzale, oppure di fare le nostre pulizie personali, nettarci. Ci spogliavamo come i vermi e mettevamo il vestito nella macchina la chiamavamo massapioci ad una gradazione di 100 gradi dicevano.

I pidocchi venivano tutti uccisi. Il vestito sterilizzato, dopo se davi uno strappo così, si metteva. Intanto si stava lì. Una domenica pomeriggio dunque tutti dentro nei blocchi. Cosa c’è? A un certo punto verso le 3.00 una voce da una delle celle: “Dio, mamma”, forte, una voce femminile, avrà avuto venti, venticinque anni, “Dio, mamma, mamma, Dio”. Sarà durato circa dieci minuti. Dopo non si è sentito più niente. S’è visto un carro con le ruote militari, con le ruote lunghe tirato da un asino rognoso, un soldato che tirava si è avvicinato con la retromarcia all’entrata delle prigioni, hanno caricato qualcosa. Io non ho visto proprio con i miei occhi, ma certo il corpo esanime, il cadavere coperto con una tela cerata ed è passato lì sotto proprio alla finestra del mio blocco.

Ho visto che non era la tela cerata liscia così piana, ma era un po’ curvata. Sotto c’era il corpo. Dicevano due ucraini che una cella era riservata proprio per il martirio, si diceva. Acqua, all’entrata uno scalino alto così, botte, ciac, uno, l’altro, dai ancora finché la vittima era morta, cadeva per terra, se non era morto dalle botte, si apriva il rubinetto e moriva annegata.

Io però non l’ho visto. Sono entrato alla fine ma di sbirciata perché non avevo altra voglia che di prendere la mia veste, ero andato a prenderla sopra intanto e l’ho indossata, l’ho baciata e l’ho bagnata di lacrime di consolazione. Siamo ritornati a piedi fino a Cavalese.

D: Prima della Liberazione dentro nel campo quindi tutti voi avevate un lavoro?

R: Sì.

D: Non uscivate dal campo?

R: Sì, si usciva, non sempre, ma si usciva quando in città c’erano dei bombardamenti, allora si usciva come operai per riparare, la stazione in modo particolare, si faceva la parte dell’operaio. Era anche qui una bella consolazione perché c’era gente, sempre scortati dalle SS naturalmente, ma ci davano qualche pezzo di pane, si faceva in modo di ricevere senza essere visti.

D: Don Domenico, tu ti ricordi quando sei stato dentro nel campo di Bolzano se potevate scrivere e ricevere dei pacchi?

R: No, non si poteva avere nessuna comunicazione con l’esterno, nemmeno riceverla. Io non ho mai ricevuto, non ho mai scritto, non era possibile, interdetta qualsiasi comunicazione.

D: Ti ricordi se attorno al campo, cosa c’era, un muro di recinzione?

R: Un muro di recinzione, sì, ma non mi sono mai avvicinato, tra lavoro, dopo c’era il piazzale interno, dopo si era occupati al lavoro, dopo le 6.00 ci chiudevano nei blocchi, non c’era tempo di far passeggiate. Si era controllati.

D: La Liberazione, cosa ti ricordi della Liberazione dal Lager di Bolzano?

R: La Liberazione, gli ultimi giorni avevamo tanta paura perché si era diffusa la voce che i veri partigiani avrebbero assaltato il campo, ci avrebbero liberato. Circolava la voce, per dire è tutto radio scarpa, circolava la voce che i tedeschi non avrebbero dato il campo ai partigiani assolutamente, piuttosto ci avrebbero uccisi tutti quanti. Questo era il pensiero, la paura. Si diceva, “Voi partigiani state dalle vostre parti, fate quello che avete fatto fino adesso. Lasciate”. Difatti è entrato, se ben ricordo, il 27 aprile uno si diceva fosse rappresentante della Croce Rossa Internazionale, uno svizzero e siamo partiti con la carta di legittimazione, eccola qua, Entlassungsschein, il lasciapassare proprio così, Entlassungsschein Girardi Domenico,

geboren 14.8.1910, Bozen entlassen. Con questo anche se ci avessero fermati, anche per venire a casa c’erano posti di blocco, con questo potevamo superare qualsiasi difficoltà.

D: Quindi tu sei stato liberato dentro nel campo di Bolzano e poi a piedi sei uscito dal campo?

R: E arrivato… Fino a Ora col treno, no, con mezzi di fortuna, poi col trenino fino a Cavalese. A Cavalese siamo arrivati alle 2.00 di notte, entrati in un convento, c’era il padre guardiano, una volta era padre guardiano, Padre Giuseppe De Gasperi.

Arrivando alle 2.00 abbiamo messo sottosopra il convento, mangiato finalmente un po’ di pane, di formaggio. Dopo riposato, se così si può dire, la mattina ritornati a casa, io a Valfloriana che dista circa 8/10 km.

Lì una scena commovente, perché preparato quel Don Patis di cui avevo parlato, era compagno di prigionia, tutto organizzato, dovrebbe arrivare Don Domenico. Allora avvisati tutti i parrocchiani, il suono delle campane e mi sono venuti incontro per circa 4 km. fino al centro, tutti. Vedevo anche delle mamme con i bambini piccoli sulle spalle.

Scusate, anche se sono passati cinquantacinque anni, ma mi par di viverla quella roba. Viene commozione. Ritornato. Prima stazione in chiesa, ringrazio il Signore che era lì vicino, “Ringrazio Signore che mi avete fatto ritornare”.

Vicino alla chiesa il cimitero, il papà morto il 14 aprile, seppellito il 16. C’erano ancora i fiori appassiti. Visita al cimitero, qui incontro con la mamma. Qui la fossa, io e qui la mamma. L’abbraccio. Un’emorragia nasale, cola il sangue, bagnati tutti quei fiori. Dicevano un litro di sangue. Una fortuna. Se non avessi avuto quell’emorragia, potrei essere morto in altre maniere. Emorragia cerebrale, una sincope cardiaca o altro così. L’incontro con la mamma.

Ritorno in canonica a pochi passi. C’erano le mie sorelle anche e andavo errando, al momento contento ma andavo errando. Andavo cercando mio padre, inconscio di quello che facevo. Contento, ma mi mancava qualcosa, mi mancava il papà. Ho visto le sorelle e vado a cercare il papà.

Qui un dolore. E’ passata, adesso sono qui, scusate la commozione, ma quando si ha una certa età…