Militello Rosario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Militello Rosario, sono nato nel 1925 a Piazza Armerina, provincia di Enna. Di famiglia molto povera e molto numerosa.

All’età di 5 anni andavo a lavorare, andavo a raccogliere le nocciole, essendo Piazza Armerina un produttore di nocciole e mandorle, sicché si finiva di andare a scuola e si andava a cogliere le nocciole poi le mandorle e poi quando finiva la stagione si ritornava a scuola.

Comunque andiamo un po’ avanti per stringere. All’età di 14 anni lavoravo nelle miniere di zolfo di Grottacalda, a 14 anni. Lì avevo sempre paura perché continuamente scoppiava il grisou e faceva molte vittime.

Mio padre era un calzolaio che faceva le scarpe nuove, era proprio calzolaio artigiano, però non poteva avere un posto di lavoro perché non pagava la tessera fascista. Eravamo sette figli, man mano che si andava avanti eravamo in tre che andavamo a scuola. Gli altri erano ancora piccolini perché dovevano raggiungere l’età per andare a scuola.

Noi che eravamo in tre si pagava la pagella, la pagella costava una lira. Poi si pagava la tessera, la tessera costava cinque lire. Sicché cinque e tre facevano otto, e per guadagnare otto lire a uno toccava lavorare, se aveva la fortuna di poterle guadagnare. Sicché non poteva, non si pagava la tessera perché ogni volta che si parlava a mio padre di tessere… Tanto più che mio padre era una ex guardia regia. Allora si entrava nella guardia regia anche con la terza elementare. La guardia regia fu sciolta proprio da Mussolini.

Mio padre e suo zio, che erano tutti e due della guardia regia, al momento dell’occupazione di Roma da parte dei fascisti a Piazza del Popolo riuscirono a fuggire e se ne andarono in Francia, emigrarono in Francia.

Però mio padre era purtroppo troppo mammolino perché era figlio unico: è stato in Francia per qualche anno, dopo è ritornato a Piazza Armerina. Avevamo il podestà che era un fascista. Il podestà allora era il sindaco di oggi ed aveva tutto il potere nelle mani, del paese.

Questo sapeva che mio padre era qui e non pagava la tessera, non aveva diritto; per farci vivere si arrangiava anche a riparare le scarpe invece di farle nuove.

Così se lui non riusciva noi non potevamo avere niente. Pensate che davano la refezione scolastica a quelli che erano un pochettino in condizioni disagiate. A noi non davano la refezione scolastica, eravamo io e mio fratello, quello più grande di me, perché? Perché non pagavamo la tessera.

Fortunatamente nella cucina ci stavano due donnette di buon cuore: invece di darci la minestra insieme agli altri ragazzi ce la davano di nascosto, e riuscivamo ad avere… Perché noi avevamo fame, a casa non è che avevamo tanto.

Insomma, andammo avanti e lavoravo nelle miniere di zolfo. Avevo tanta paura, tanta paura che un giorno ho deciso: Adesso me ne vado via di casa”. Avevo 14 anni, e me ne vado via, dove? A Torino. Difatti me ne sono andato via, ho preso il treno e me ne sono andato a Torino. A Torino ho trovato lavoro in una fabbrica dove c’era una fonderia, ed ho lavorato nella fonderia. Questo è stato nel ’39. Nel ’40 c’è stata la dichiarazione di guerra. Mio padre dal podestà fu chiamato, non doveva fare il militare perché aveva prima di tutto famiglia numerosa, e poi aveva già una certa età, e lo sbatterono in Africa. Difatti alla prima ritirata di Montgomery fu preso prigioniero, lui e tutta l’armata italiana, portata via.

Io sono andato a Torino, ho lavorato con questa ditta; a Torino c’erano fabbriche piccole che fondevano il metallo e noi si lavorava lì. Lì ho cominciato a respirare, prendevo trentasei lire alla settimana ed erano dei bei soldini.

Comunque, andiamo avanti: c’è la dichiarazione di guerra. Comincia la guerra, mio padre parte. A Torino c’erano dei bandi emessi dal Ministero dell’Aeronautica, dove dicevano che chi voleva andare ad imparare un mestiere poteva andare nell’aeronautica.

Io sono andato in Aeronautica, ho fatto la domanda, tutto, mi hanno preso, e facevo la scuola aeronautica alla Dalmazzo – Birago a San Paolo. Avevo allora, è stato alla fine del ’42, avevo già 16 anni, qualcosa così, ed ho cominciato a studiare.

Purtroppo gli interventi della guerra andavano sempre peggio, bombardamenti da tutte le parti insomma, gli americani erano scesi in guerra per aiutare anche la Francia.

Arrivato l’8 settembre del 1943 io stavo sempre sotto le armi; alla caduta di Mussolini c’è stata una grande manifestazione a Torino. Vicino a Piazza Maria Vittoria ci stava la sede del Partito Fascista, lì c’era l’emblema, mi ricordo ancora, e fecero cadere tutto il fascio. Comunque è venuto questo 8 settembre e l’esercito si è sfasciato. Sicché noi non sapevamo dove andare, noi meridionali che eravamo su in alta Italia siamo rimasti imbottigliati, e non sapevamo dove andare. Essendo settembre, il mese della vendemmia, molti di noi furono presi dai contadini, perché i contadini avevano i figli che stavano a fare la guerra, e c’erano soltanto i contadini anziani. Sicché noi li abbiamo aiutati a vendemmiare e tutto.

Quando è arrivato ottobre-novembre del ’43, vicino all’inverno insomma, e si era fatta la semina, si era fatto tutto, si preparava il terreno per il ’44, Mussolini aveva rifatto la Repubblica Sociale. Emisero dei bandi nei quali dicevano che dovevamo andare in servizio o saremmo stati passati per le armi come disertori.

Quello ci aveva messo paura, noi altri non si sapeva come fare, i meridionali, volevamo andare via. Di fatti alla famiglia dove stavo io dicevo: “Signori io vado via” “Ma no stai qui, stai qui”. “Va bene”, sono stato lì. Con insistenza perché avevano bisogno anche loro del lavoro; aiutavo, anche non sapendo fare il contadino li aiutavo e facevo il contadino.

Ad un certo punto tra marzo ed aprile del ’44 la Repubblica Sociale aveva preso una bella consistenza. Allora che cosa succedeva? Succedeva che loro andavano tramite le spie, giravano, eravamo a Nizza, nel paesetto piccolo di Castel Boglione vicino a Nizza Monferrato. Si erano cominciate a formare delle formazioni partigiane su per le montagne. La Repubblica Sociale già si era così formata bene, aveva le spie a cui tutti andavano a dire quello che facevano. Un giorno nel mese di febbraio o marzo mi sembra, i contadini avevano una sorgente d’acqua circa un chilometro lontano dalla casa dove abitavano, avevano cinque vacche, ed avevano fatto una specie di slitta con una botte grossa con cui si andava a prendere l’acqua e poi si dava alle mucche, si faceva la pulizia, si pulivano le stalle e tutto.

Un giorno andando a prendere l’acqua, avevamo già riempito la botte, sentiamo sparare. Allora ci siamo messi paura. Con me c’era una nipotina di questo contadino e si è messa paura anche lei. Poi sentivamo strillare, da lontano sentivamo gli strilli perché loro avevano organizzato di andare casa per casa dai contadini dove trovavano quelli come noi, sbandati, che non si erano presentati, li prendevano, li arrestavano. Io non ho avuto la disgrazia di cadere nelle loro mani, non so perché.

Sapevo che tanti di questi qui venivano uccisi, dopo, sia perché scappavano sia perché li avevano arrestati.

Così io non mi sono mosso dalla sorgente ed ho detto alla bambina, si chiamava Luciana: “Luciana, vai a vedere che cosa è successo”. La bambina, io intanto stavo lì ad aspettare con questo bue, un toro era non un bue, va lì e vede che piangevano il nonno con la nonna, gli avevano dato un sacco di botte perché volevano anche me. Non me come personalità o cosa, ma perché sapevano che ero uno sbandato ed allora volevano che facessi… O mi volevano uccidere o volevano che facessi il militare con loro. Non lo so perché. Infatti questi avevano preso delle botte.

Vedendo questo io ho detto: “Senta Signora Assunta” si chiamava Assunta “mi dispiace che voi abbiate preso le botte per colpa mia, vuol dire che adesso me ne vado.” “Ma no, non te ne devi andare via perché devi stare qui…” “Però vede, se mi prendono questi mi ammazzano”. Avevo saputo che a circa dieci, dodici chilometri c’era una formazione partigiana che si era formata, ho detto: “Io me ne vado con i partigiani, vado a vedere”.

Così sono andato. Poi ce n’erano anche altri, calabresi, ci siamo riuniti in tanti e siamo andati con questa formazione.

Siamo andati su, ci siamo presentati al comandante che era un comunista. Allora ho detto: “A noi è successo così e così”, dice “Bene, bene, così infoltiamo”, però non avevamo armi. Le armi ce le avevano fatte buttare via dopo l’8 settembre, non è che abbiamo trovato un comandante che dice “Mettiamoci le armi da parte per un domani che non sappiamo”.

Così è cominciata la guerra partigiana. Abbiamo cominciato la guerra partigiana, si facevano delle sortite, e si moriva l’uno e l’altro, sia i fascisti sia noi. Lì c’era la Brigata Nera Ather Capelli, erano dei fascisti, quelli criminali. Non facevano prigionieri fra i partigiani, li ammazzavano subito sul posto.

Alla fine di settembre del ’44 cominciarono a fare i rastrellamenti in grande stile, perché noi altri eravamo sempre in minoranza, non avevamo tante armi, invece loro ci seguivano con una cicogna che veniva a bassa quota e vedeva tutti i nostri spostamenti.

Per nostra sfortuna siamo capitati sotto questi fascisti. Comandavano i tedeschi e avevano bisogno di manodopera, anche loro avevano tutta la gioventù che stava a fare la guerra, chi stava in Russia chi in Italia.

Si vede che avevano avuto l’ordine di non doverci uccidere. Ci hanno preso, ci hanno impacchettato bene bene, ci hanno chiusi in certe auto…

D: Scusa Rosario, dove vi hanno arrestato? Dove vi hanno preso?

R: Adesso lo dico. Era tra la provincia di Asti e la provincia di Cuneo, nelle Langhe. Io mi ricordo, ho guardato sempre le montagne sulla carta geografica, comunque mi ricordo ancora che vicino avevamo Santo Stefano Belbo, avevamo Canelli. Mi sembra che la montagna fosse il Monte Rosso, penso sia questo, dovrebbe essere il Monte Rosso. Insomma ci hanno rastrellato e ci hanno preso, ci hanno portato dentro degli autobus e ci hanno portato a Torino. A Torino ci hanno portato alle Carceri Nuove.

D: Questo quando?

R: L’ho detto, verso la fine di settembre del ’44, primi di ottobre, una cosa così.

D: In quanti eravate quando vi hanno preso?

R: Eravamo in tanti, perché erano parecchi gli autobus chiusi ermeticamente; in ogni autobus c’era un tedesco che aveva un cane, un pastore tedesco, che ci guardava bene. Allora ci hanno portato in questo carcere. Ci hanno chiuso in una cameretta, una cameretta di queste carceri, c’era una brandina con delle catene che si teneva sul muro e c’era un ergastolano. Ci hanno messo con quest’ergastolano.

L’ergastolano quando ci ha visto… La cella era tutta sua, poi in un angolino c’era un piccolo… per lavarsi, e poi c’era un rubinetto che buttava continuamente l’acqua a fil di spago. Sotto il lavandino ci stava la tazza per fare i bisogni.

Pareva che avessimo colpa di esserci presi tutta la cella per noi. Invece dormivano per terra perché non c’erano letti e lui dormiva nella branda. Sicché ci dava qualche schiaffone, ci dava dei calci, noi eravamo ragazzi, che dovevamo dire? Se la prendeva con noi.

Comunque in questa cameretta dormivamo, come ho detto prima, in una ventina, tutti per terra, senza pagliericcio, senza niente.

Ci siamo stati parecchio, eravamo in tanti e i tedeschi cercavano il comandante, la personalità, sicché ci facevano inchieste, interrogatori. Però noi meridionali, non si sapeva, conoscevamo le persone ma mica sapevamo, non sapevamo niente. Io sapevo soltanto che il comandante dove stavo io era uno che era stato vent’anni in galera all’isola di Ponza, ce lo diceva sempre. Sicché era molto arrabbiato di quello che aveva passato, ed era molto arrabbiato con i fascisti che ci venivano…

Così siamo stati lì quasi un mesetto, loro hanno fatto le selezioni da dentro, volevano sapere le persone che mansioni avessero, chi comandava. Ma noi altri eravamo all’oscuro di tutte queste cose perché a noi dicevano: “Guarda, domani passa un treno e dobbiamo andare a prendere…” Molte volte ci è andata male, molte volte ci è andata bene.

Una cosa volevo ricordare, forse in Italia nessuno lo dice. Avete sentito la Anselmi una volta? Lei era una staffetta, non so se la conoscete. Nessuno ha scritto del valore delle ragazze che facevano le staffette, facevano chilometri, le corse, ci avvisavano continuamente: “Arrivano i tedeschi, arrivano i fascisti, mettetevi in guardia”, tutte queste cose.

Che sappia io non ho visto niente, mi è dispiaciuto parecchio, potevano fare un bello scritto di queste ragazze perché molte sono morte, sono morte.

Comunque siamo stati lì parecchio. Verso i primi di ottobre ci hanno trasferito a Bolzano. Siamo andati a Bolzano, anche lì c’era un campo molto pieno di prigionieri, però ancora non avevamo la divisa dei prigionieri deportati. Tanto più che noi non sapevamo neanche che cosa fosse.

Era in una baracca di Bolzano dove stavano facendo un tunnel. Avevamo i pagliericci, erano tutti di paglia, invece questi li avevano riempiti tutti di sabbia. Allora sentendo gli altri che stavano prima di noi lì avevamo paura: “Questi ci acchiappano qualche giorno e faremo una brutta fine”.

La fortuna mia e di qualche altro, venti o trenta, è che ci hanno trasferiti da questa baracca ad un’altra. Lì c’è stata un po’ di liberazione. Dopo abbiamo saputo, quando stavamo a Mauthausen, che hanno trovato quelli che avevano organizzato il tunnel, mi pare che li hanno fucilati, pure. Allora ci hanno mandati in un’altra baracca e siamo rimasti lì in questa baracca. Poi c’è stato il trasporto a Mauthausen, dove le date sono un po’…

D: A Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, non ce l’hanno data la matricola.

D: E tu sei rimasto a Bolzano più o meno quanto tempo?

R: Posso dire una mesata, così, perché siamo arrivati a Mauthausen alla fine di novembre, e faceva molto freddo. Sono un po’ in discussione queste date perché è passato molto tempo e non mi ricordo. Comunque un giorno ci hanno preso, ci hanno…

D: Scusa ancora, Rosario, non sei mai uscito dal campo di Bolzano?

R: No, no.

D: Siete rimasti sempre dentro nel campo?

R: Sì, sempre nel campo siamo rimasti.

D: Fino a quando vi hanno chiamati…

R: Ci hanno chiamati, ci hanno messo in fila, ci hanno portati alla stazione di Bolzano, e ci hanno fatto entrare dentro questi vagoni. Non ci hanno dato né pane né acqua, niente. Ci hanno chiusi ermeticamente, e poi questo treno si è avviato. Non sapevamo dove andasse.

Arrivati, io penso fosse Innsbruck ma non sono sicuro, gli americani bombardavano il nodo ferroviario tra l’Austria e Monaco. Allora hanno preso il treno e l’hanno messo su un binario morto e ci hanno lasciato lì tutta la notte. Avevamo fame, non ci avevano dato niente, battevamo su questo vagone, che poi era un treno, non so quanti eravamo, dieci o undici vagoni, in ogni vagone c’erano sessanta persone, perciò pensa un po’… Stavamo stretti l’uno vicino all’altro, piangevamo come bambini. Non sapevamo che fare.

Poi gli americani hanno finito di bombardare. Il giorno dopo verso mezzogiorno o l’una, ma il tempo ormai non potevamo più misurarlo perché eravamo stanchi tutti, qualcuno aveva l’orologio e si guardava l’orario, ma non sapevamo più, eravamo diventati proprio dei …, siamo arrivati a Mauthausen, o verso pomeriggio, sarà stato l’imbrunire, c’era un freddo tremendo. Ci hanno fatto scendere, eravamo tutti sporchi di tutte le nostre scorie. Ci hanno messi in fila con dei cani da una parte e dall’altra, e ci hanno fatto attraversare questo paesetto in ordine, molto pulito, persone molto per bene stavano lì, passavamo noi ma nessuno ci diceva niente.

Dalla stazione ad andare a Mauthausen, al campo, ci sono circa quattro, cinque chilometri, non lo so. Pensate un po’, stanchi come eravamo, stanchi dovevamo salire, ed ancora non sapevamo che cosa ci attendesse.

Saliamo questa collina e da lontano vediamo il primo muro. C’era un bel portone con un’aquila con la svastica che quest’aquila teneva con le zampe. Era fatta così bene.

La parte dentro invece era un luogo di morte. Entriamo e vediamo tutti gli altri prima di noi, tutti smagriti, i morti per terra, le botte che davano e lì abbiamo cominciato a dire: “Signore mio, qui che cosa si fa?”

Allora uno ci ha detto: “State attenti, siete entrati di là ed uscirete da lì” ci disse. Vicino a noi c’era un avvocato, era di Nizza Monferrato, preso prigioniero anche lui. Questo era il più grande di tutti noi perché aveva fatto la prima guerra mondiale ed era stato prigioniero a Mauthausen, poi è morto a Gusen. Pensate poveretto, prigioniero nella prima guerra mondiale, portato a Gusen e poi è morto perché era anziano. Allora ci disse: “Cari ragazzi, da qui non si esce più.”

Ci fecero spogliare nudi, ci levarono tutto. La Kopfstrasse. Ci fecero andare sotto lì dove c’erano le docce, siamo entrati lì, ci buttarono subito l’acqua calda, bollente, sul corpo. Gli strilli che facevamo… Non so, li avete visti? Io e qualche altro, siccome nelle docce buttavano in mezzo l’acqua cercavamo di andare ai lati … invece questi ci spedivano di là.

Poi dopo la calda quella fredda, gelata, e questo si è fatto per quattro o cinque volte. Finito questo usciamo, c’era una porticina e c’era uno con un prigioniero che teneva un secchio, dentro questo secchio ci stava la creolina, e ci disinfettavano sotto le ascelle, qua sotto. Il bruciore che ci dava questa creolina! La creolina bruciava gli insetti, si pulivano le stalle. Poi dopo tutto questo ci diedero la divisa con il numero di matricola, ci dettero tutto.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 115.615.

D: Ascolta, oltre al numero vi hanno dato…

R: Il triangolo rosso, la matricola qui, era con il fil di ferro, e poi c’era un pezzetto di alluminio con impresso il numero. Però questo numero sarà stato di qualche altro, perché era arrugginito, i pantaloni miei erano pieni di sangue sulla sinistra, perché loro non è che bollivano, quando uno moriva gli levavano la divisa. Sa il ribrezzo che ho passato pure io a vedere quell’affare là? Dopo ci hanno mandato al blocco, al blocco n. 20 mi pare, perché dietro ci stavano gli altri che morivano diversamente. Siamo stati lì penso cinque o sei giorni, sette giorni, dieci giorni, adesso non lo so.

Un giorno ci hanno chiamati, eravamo una trentina, ci hanno messi in fila, ci hanno fatto uscire dal campo, e non ci hanno portato lì dalla scala della morte, ci hanno fatto fare un giro in largo.

Siamo arrivati in uno spazio, c’erano trenta o quaranta morti per terra, moribondi, e ce li hanno fatti caricare sulle spalle, ognuno si caricava il suo. Quello che portavo io ancora rantolava, aveva preso una pietra. Però loro che cosa hanno fatto? Dove c’era la scala della morte c’è il piazzale, l’hanno levato da lì e l’hanno portato in quell’altro piazzale di dietro, non l’abbiamo vista la scala della morte. Noi non abbiamo dovuto salire sulla scala ma ci hanno riportato dalla strada attorno attorno che gira con il viottolo e ci hanno fatto risalire su.

Quando siamo ritornati in baracca piangevamo. C’erano pure gli spagnoli: “Avete visto la scala della morte?” Noi abbiamo detto: “Quale scala della morte? Noi non abbiamo… Che cos’è la scala della morte? No, ci hanno portato dall’altra parte.” Non sapevamo neanche di questa scala, io non l’avevo vista, capito?

Comunque abbiamo preso poi questi e li abbiamo portati dietro i crematori. Noi dentro i crematori non si poteva entrare perché c’era quello all’interno; si lasciavano davanti, li prendevano loro e li portavano dove li dovevano portare.

Siamo ritornati in baracca. Siamo stati in baracca. Stringiamo ancora. Passa il tempo e da Mauthausen a piedi ci portano a Gusen. Facciamo la strada, eravamo in parecchi, e si passa da Gusen 1.

A Gusen 1 si sta un’oretta o due, c’erano quelli che dovevano rimanere a Gusen 1, poi dopo hanno preso quelli che erano rimasti e ci portano a Gusen 2. Arrivati a Gusen 2 a me mettono nel blocco n. 5. Di lì comincia la nostra odissea. Morti continuamente. A Gusen 2 non avevamo i crematori perché quelli che dovevano essere cremati si portavano a Gusen 1 dove c’era il crematorio.

Lì comincia la nostra odissea. Alla mattina sveglia alle quattro sulla piazza del campo, ci contavano. Ci chiamavano Stück, dicevano Stück, Stück. Ci contavano, ci preparavano, c’era un trenino che ci portava, era lontano dove si andava a lavorare. A mano a mano che si entrava la mattina, dopo un’ora e mezza con quel freddo, con quella divisa senza nessuna protezione: quello che avevamo addosso non ci proteggeva il corpo, niente.

Il freddo a 24/25° sotto zero. Poi ad uno ad uno quando ci avevano contato ci facevano entrare sul trenino. A mano a mano che si entrava ci davano un pezzetto di pane, una fettina. Si entrava con questo pane, pane nero, non sapevamo neanche di cosa fosse fatto, e si andava via, a lavorare.

Mi misero in un reparto che si chiamava Platz planieren: allungavano le gallerie per mettere altre fabbriche, perché lì facevano gli scheletri del V1 e V2 dei missili. Allora si allargava sempre.

Sicché mano a mano che si facevano le gallerie io facevo organizzare le linee con i vagoni, si metteva la terra dentro e poi si portava fuori e si scaricava. A mano a mano che si allungava si saliva sopra la montagna dove c’era un deposito di rotaie che stavano messe l’una sopra l’altra.

Quando c’era bisogno di venti, trenta di queste eravamo in dieci, dodici, ce le caricavamo sulle spalle e le portavamo giù, si allungava la linea man mano che si andava avanti.

Prendendo le rotaie, c’era la neve alta in mezzo alle rotaie ed aveva creato un vuoto sotto: pensate che c’era la cicoria, certa cicoria alta, tutta la prendevamo! La prendevamo e ce la mangiavamo così, cruda com’era. La mettevamo dentro al petto. La cicoria fa latte, sicché questo latte ci si attaccava addosso, ci faceva bruciore. Comunque mangiavamo la cicoria, ma certo questo non succedeva tutti i giorni. Per ritornare a prendere altre rotaie dovevi aspettare quindici, venti giorni, in modo che si facesse un altro po’ di spazio, e non è che si potesse fare tutti i giorni. Perciò la fame c’era sempre.

Quel giorno per noi era festa perché ce la mettevamo pure sotto i piedi per nasconderla: c’erano i tedeschi e non ci dovevamo far vedere a prendere questa cosa. Così tutti i giorni.

Si andava a lavorare dodici ore al giorno. Alla sera quando si usciva, praticamente lì era un posto di lavoro, ma era guardato dalle guardie, c’erano le torrette, c’era tutto, perciò non si poteva fuggire, ci contavano: doveva essere la stessa somma che era uscita la mattina. Invece quando era sera mancavano sempre cinquanta, sessanta persone, settanta, dipende.

Allora che cosa si faceva? Si entrava di nuovo per andare a cercare questi che mancavano, e si trovavano quelli moribondi e quelli già morti. Perché ormai quando si lavorava non è che ci interessassimo se uno era morto, cadeva e non sapevamo. Noi ormai avevamo perso il lume della personalità, non avevamo più un interesse. Tra noi non c’era più neanche comunicazione perché eravamo ad un tal punto, ridotti come eravamo.

Fatto sta che alla sera toccava andare dentro, si portavano i morti, quelli vivi li avevano contati, si contavano i morti, combaciavano con il numero? Si caricavano sul trenino e si portavano via, di nuovo al campo.

Noi altri vivi ci mettevamo in fila e ci ricontavano quanti eravamo rimasti. C’era un momento in cui non funzionava più il crematorio, c’era una grande baracca dove c’erano i tubi dell’acqua, dove si andava a lavarsi. Tutti questi morti venivano messi attorno ai tubi e si mettevano l’uno sopra l’altro, a cataste. Sicché non avevamo neanche più voglia di entrare là dentro, vedendo tutti questi nostri compagni, questi ragazzi, eravamo tutti giovani, la maggior parte.

Ci faceva orrore, perché questi morti morivano tutti con gli occhi aperti dalla paura, nessuno aveva gli occhi chiusi. La paura era tanta, le botte erano continue, le scudisciate, ventiquattro scudisciate, l’inginocchiatoio dove ci facevano mettere… Non le dico quello che abbiamo passato.

Quando ci facevano queste torture dovevamo essere tutti presenti a vedere ciò che si vedeva. Quello che capitava a quello poteva capitare a noi.

Purtroppo avevamo due Oberkapo, uno era uno spagnolo ed uno era polacco. Il polacco era cattivo.

Questa prigionia è durata quasi sei mesi; all’ultimo sono arrivati gli americani, fortuna mia c’era l’armata del generale Patton dei carristi. C’era un americano figlio di siciliani, si chiamava Caruso Antonio, ancora mi ricordo, sicché quando sono entrati nel campo e hanno visto tutta questa gente, i morti che c’erano ancora, tutto il campo pieno, noi altri che eravamo diventati… Io pesavo ventiquattro chili, pensi un po’.

Allora lui non ha detto: “Chi è italiano?” ma ha detto: “Chi è siciliano qua dentro?” Io ridotto in quelle condizioni gli ho detto: “Sono io”. Mi ha visto in quelle condizioni come ero, mi ha preso in braccio, mi ha messo sulla jeep e mi ha portato a Linz, mi ha portato in una clinica della San Vincenzo.

D: Ti ricordi quando vi hanno liberato?

R: Il 5 maggio del ’45. Così è finita la nostra odissea. Mi hanno portato in clinica, c’erano le suore di San Vincenzo. Suo padre era siciliano, ecco perché, pensi che lui come americano parlava il siciliano. Suo padre era di Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento. Si ricordava della Sicilia. Lui parlava proprio il siciliano.

Mi porta in questa clinica e le suore della San Vincenzo quando mi hanno visto in quel modo dicono: “Che gli facciamo? Noi non abbiamo…” Allora ha detto loro: “Pulite questo ragazzo bene bene, poi lo mettete…” “Sì, va bene, noi lo puliamo, però non abbiamo da mangiare”. Dice: “Non vi preoccupate”. Questo se ne va via. Prima di uscire ha detto: “Scusi sorella, avete una bilancia?” Dice: “Sì”. Così ho saputo quanto pesavo, se non l’avessi saputo non avrei potuto dirlo…

Così sono stato lì. Nel pomeriggio è venuto, faceva parte della sanità americana che curava i feriti al fronte. E’ ritornato nel pomeriggio ed ha portato un dottore, mi ha fatto visitare: avevo un’infiltrazione polmonare, poi avevo l’ulcera. Abbiamo aspettato dopo la Liberazione, sono rimasto per quasi un mese ricoverato, non potevamo dormire con le lenzuola perché ci facevano male le ossa. C’erano solo le ossa, carne non ce n’era.

Dopo ci hanno rimpatriato, sono arrivato a Roma e mi hanno ricoverato all’Ospedale del Celio, sono stato un anno ricoverato là dentro.

D: Ma quando sei rientrato in Italia?

R: Il 25 luglio del ’45. Sono uscito, mi sono presentato al Comando dell’Aeronautica a cui appartenevo, mi hanno dato la divisa, mi hanno dato tutto, e dovevo essere mandato in licenza. Invece mi mandarono alla stazione Ostiense dove si formava un treno che andava in bassa Italia, in Sicilia: volevo andare a vedere i genitori. Mi è incominciata la tosse, non potevo respirare, hanno chiamato la Croce Rossa e mi hanno portato all’ospedale, e lì sono rimasto. Sono entrato il 26/27 di luglio 1945 e sono uscito il 4 marzo del ’47.

D: Rosario, quando dicevi che da Gusen 2 vi portavano a lavorare, vi portavano nelle gallerie di Sant Georgen?

R: Sì, lì vicino a San Giorgio.

D: Lavoravate nelle gallerie?

R: Noi lavoravamo nelle gallerie, però noi San Giorgio lo sentivamo nominare, c’era uno che dirigeva i lavori, sentivo sempre Sant Georgen, sentivo nominare questo paese. Però non mi ero fatto idea.

Dopo, quando l’americano mi ha portato al campo, mi sentivo un po’ meglio, in forze, ho visto che c’era San Giorgio, il paese, poi c’era San Valentino, poi c’era un altro paese, adesso non mi ricordo come si chiamava. Insomma dopo che sono stato ricoverato e poi dimesso sono andato al campo ed ho trovato queste cose.

D: Un’altra cosa Rosario; ti ricordi il nome di qualche ditta? Voi lavoravate per qualche ditta?

R: La Messerschmitt, alla Messerschmitt si lavorava. Io sapevo che si facevano gli scheletri di duro alluminio, ed ho saputo, se è vero o non è vero non lo so, che vicino c’era una miniera di bauxite. La bauxite dicevano che si cola e fa il duro alluminio. Di fatto loro facevano il duro alluminio. Noi altri ogni tanto si prendeva qualche pezzo, si faceva un coltellino, si facevano queste cose così.

Riello Elio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Elio Riello, nato a Ventimiglia il 10 luglio ’22 e sono stato arrestato a Ventimiglia il 21 maggio del 1944.

Ero il segretario del costituendo Comitato di Liberazione, perché qui eravamo proprio in fase iniziale allora, si parlava poco dei partigiani e di altre cose.

Sono stato arrestato dalla Guardia Repubblichina. Sono stato portato ad Imperia dopo un interrogatorio a Ventimiglia.

Ad Imperia siamo stati alcuni giorni e poi siamo stati portati nel carcere di Marassi a Genova. Da Marassi dopo un po’ siamo stati trasferiti a Fossoli.

D: Durante il periodo di carcerazione, Elio, sei mai stato interrogato?

R: A Ventimiglia e ad Imperia. Sono stato interrogato a Ventimiglia e ad Imperia. A Ventimiglia quando hanno fatto la retata e poi ad Imperia quando hanno proseguito nei particolari.

D: Da chi?

R: Diciamo dalla polizia di allora.

D: Italiani erano?

R: Sì, sì, tutti italiani. I tedeschi sono entrati in funzione solo dopo Mauthausen praticamente.

D: Quindi dal carcere di Marassi siete stati poi trasferiti…

R: Tutti a Fossoli.

D: Più o meno quando?

R: A Fossoli saremo stati… Non mi ricordo più… So che siamo partiti da Fossoli mi pare l’8 giugno, ho tutto scritto là, però non ricordo esattamente.

D: Con cosa siete stati portati a Fossoli?

R: Siamo stati portati sempre a Genova in pullman e a Fossoli su un camion. Da Fossoli invece a Mauthausen …

D: Nel campo di Fossoli è stato immatricolato?

R: Non mi ricordo.

D: E neanche il blocco, la baracca?

R: No, assolutamente.

D: E’ stato molto tempo a Fossoli?

R: Non molto.

D: Lavoravate?

R: No, assolutamente. A Fossoli non facevamo niente. A Fossoli praticamente, aspetti un momento, mi pare che l’8 giugno se non sbaglio siamo stati portati a Mauthausen, mi pare, ma non sono sicuro, non mi ricordo più…

D: Si ricorda se a Fossoli ha visto anche dei religiosi tra i deportati?

R: No, non ricordo.

D: Poi quindi all’8 giugno…

R: Mi pare che sia l’8 giugno, trenta.

D: Il 21 giugno circa.

R: Ecco.

D: Dovrebbe essere.

R: Trasferito da Genova a Fossoli.

D: No, da Fossoli partiti per il Lager d’oltralpe.

R: Allora l’8 giugno probabilmente siamo stati trasferiti a Fossoli. C’era un 8 giugno.

D: Durante il trasporto da Fossoli a Mauthausen com’è…?

R: E’ stato un po’ movimentato perché avevamo con noi un prigioniero della guerra del 1915/1918, il quale ci ha presentato Mauthausen come la fine del mondo, poi in realtà rispetto a quello che abbiamo vissuto noi erano rose e fiori quello che diceva lui. Quello del 1915/1918 in fondo era un campo militare, il nostro era un campo di sterminio.

Qualcuno ha tentato la fuga. Di questi tutti meno uno sono stati poi presi e portati a Mauthausen senza alcuna pena particolare. Li hanno riportati nel campo. Uno invece, un certo Airaldi di Ventimiglia è riuscito a scappare e non l’hanno più preso insomma.

D: Elio, come ti ricordi l’arrivo a Mauthausen?

R: L’arrivo a Mauthausen è stata una cosa deprimente diciamo perché è stato togliere tutta la personalità dell’individuo in definitiva, questo è il discorso. Ti hanno spogliato completamente, ti hanno dato degli altri vestiti, ti hanno rasato e tutto il resto. Da quel momento praticamente siamo diventati dei numeri.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: E’ facile ricordarsi: 76543, 76.543.

D: E dopo vi hanno messo nel blocco di quarantena?

R: Il blocco di quarantena.

D: Che era il numero? Te lo ricordi?

R: Era uno dei più famigerati, non mi ricordo se era il 15, credo che fosse il 15, era il più famigerato. So che quando siamo andati a Mauthausen l’ultima volta ho detto un numero, ma mi hanno detto guarda che non ti ricordi è l’altro. C’era un Kapò terribile.

Diciamo che contrariamente a quanto si diceva sono state ancora rose e fiori rispetto a quello che è venuto fuori dopo.

D: Lì nel blocco di quarantena quanto tempo sei rimasto?

R: Siamo rimasti… Io sono rimasto… Credo verso la fine di luglio perché l’attentato a Hitler l’ho sentito ancora a Mauthausen, quindi mi pare che fosse il 20 luglio l’attentato a Hitler, no? Quindi qualche giorno dopo sono stato trasferito a Peggau.

Il periodo di quarantena, a parte che si dormiva come le bestie perché eravamo messi uno contro l’altro in fila indiana, incrociavamo, ci mettevamo a terra con i piedi davanti e dietro la testa. Ognuno s’arrangiava come poteva. Io sono riuscito anche a dormire perché c’era una stufa che serviva per l’inverno naturalmente, ma eravamo d’estate, dormivo tutto attorno alla stufa, curvo, di modo che riuscivo a dormire rispetto agli altri che avevano i piedi davanti e i piedi dietro. Qualche volta ho dormito anch’io con i piedi davanti.

E’ stato poi il momento decisivo dopo, direi che c’è stata anche un po’ di fortuna. In questo senso, che una sera eravamo destinati ad andare credo a Gusen, Gusen era l’infermo. Perché il problema qual era? Evitare Gusen, i campi più grossi, Mauthausen perché c’era la cava e tutto il resto e aver la fortuna di andare in un campo piccolo.

Quella sera che dovevamo essere trasferiti a Gusen non mi sono sentito bene. Qui ho rischiato grosso, perché se andavo a finire all’ospedale ero cotto, non uscivo più. Invece mi hanno tenuto lì, mi sono ripreso.

Dopo due giorni stavo abbastanza bene e invece di andare a finire a Gusen ho avuto la fortuna di andare a finire a Peggau. Fortuna che non mi hanno mandato in infermeria e fortuna che sono andato a finire a Peggau.

A Peggau si lavorava in galleria. Facevamo gallerie, costruivamo fabbriche, dei tunnel che servivano a fabbriche contro i bombardamenti aerei.

Lì ho preso una volta anche una serie di frustate di quelle come si devono perché io mi sono qualificato come studente d’ingegneria, poi mi hanno detto se sapevo fare il muratore, ho avuto la faccia tosta di dire di sì.

Ho provato a fare il muratore. Se ne sono accorti. Per fortuna che il capo che era un civile tedesco me l’ha mezza ancora aggiustata, ma qualche frustata me l’hanno data.

D: Com’era il campo di Peggau?

R: Il campo di Peggau in se stesso era abbastanza piccolino, insomma, tenuto conto della situazione degli altri campi si stava diciamo… Non che si stesse bene, ma era indubbiamente forse migliore degli altri.

Naturalmente lì si andava ad esaurimento, cioè quando uno non ce la faceva più… Lì per fortuna c’era un’infermeria, finché potevano ti facevano riuscire. Questo è stato…

D: Il campo era grande, c’erano molte baracche?

R: Eravamo due gruppi per esempio, eravamo mi pare quattro baracche più i servizi naturalmente.

D: C’erano molti italiani?

R: Eravamo mi pare circa otto/dieci non di più. Poi c’era qualche francese e poi russi “a gogò”.

D: E il campo era molto distante dal luogo?

R: Il campo… Eravamo a circa due chilometri e mezzo a piedi tutti i giorni. Il che era sotto un certo punto di vista una camminata, ma d’inverno era un affare serio perché mentre di giorno ti lasciavano anche dei vestiti di civili, basta con la targa dietro, la famosa striscia dietro, di notte dovevi andare con quei vestiti fatti da loro, erano vestiti praticamente di carta.

Siamo arrivati nell’inverno a circa 30/35 gradi sotto zero. Quando si faceva il turno di notte uscendo la sera verso mi pare le 18.00 o le 20.00 e al mattino rientrando dopo dodici ore, erano turni di dodoci ore, si aveva un freddo da matti, tenuto conto che le calorie che assorbivamo non erano molte.

D: Le gallerie che scavavate erano molte?

R: Perlomeno mi pare tre che però non sono servite a niente perché poi quando siamo andati via non erano ancora finite praticamente.

D: Elio, come avveniva lo scavo della galleria?

R: Con criteri, col martello pneumatico, sistemi moderni per allora. Io che sono abbastanza pratico, avevano le pale meccaniche. I criteri erano abbastanza moderni insomma. I martelli pneumatici e pale meccaniche … dietro. Non c’era niente di particolare. Noi facevamo tutto il lavoro manuale di caricare i carrelli, completare, spingere i carrelli, quell’affare lì ed era faticoso.

Qui ho avuto un altro colpo di fortuna perché… Il colpo di fortuna è stato questo. Una sera avevano rubato qualcosa nel campo e ci hanno messo tutti di fuori, ci hanno fatto spogliare praticamente.

Io avevo avuto da militari italiani che lavoravano lì delle coperte che mi facevano da pezze da piedi come si dice. M’è andata bene perché ho detto qui sono suonato, mi vedono con queste, mi dicono dove le ho rubate.

Invece per fortuna non mi hanno detto niente. Lì è stato un altro di quei colpi perché oltretutto con quelle specie di pezze da piedi andavamo, mi scaldavo i piedi che era una cosa importantissima.

Poi il problema di vivere e di sopravvivere era una questione anche di volontà per conto mio. Io per esempio ero riuscito a farmi un coltellino con della latta. Mi davano del pane alla sera, non lo mangiavo, lo tenevo tutta la notte, poi al mattino lo tagliavo in file sottili che neanche il coltello più affilato attualmente riuscirebbe a tagliare.

Era la questione di dire, beh, ho ancora qualcosa da mangiare. Era una cosa importantissima. Per conto mio, a parte che contava la salute che uno aveva, ma per resistere bisognava anche combattere moralmente.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri italiani che c’erano con te a Peggau?

R: Non mi ricordo. Quello di Genova, come si chiama? Mi sfugge il nome. Ce ne sono diversi, li ho tutti presenti davanti ma ormai la memoria mi ha mollato, non solo per quello, per altre cose anche.

D: Lì a Peggau dopo il lavoro facevate sempre l’appello?

R: Sì, sempre l’appello. Al rientro in campo, al mattino e alla sera. Gli appelli erano due, prima di partire e quando si arrivava.

D: Nelle gallerie avevate contatto con i civili dicevi?

R: Sì, avevamo contatto con alcuni civili, ma militari. I militari italiani che erano stati arrestati come militari. Lavoravano anche loro e noi riuscivamo ad avere quei contatti lì, un po’ di straforo, ma riuscivamo ad averli.

D: E invece altri civili niente?

R: No, altri civili niente. C’era il capo loro, il capo dell’impresa, soprattutto ricordo quello che era il capo, lo ricordo molto bene.

D: Sai per che ditta lavoravate voi?

R: No, questo proprio no. Questo assolutamente.

D: Non c’era nessun segnale, nessuna indicazione?

R: No. Anzi due anni fa un tedesco che si è occupato di quel campo lì, un austriaco è venuto qua e abbiamo avuto una certa corrispondenza, poi ci siamo persi. Lui aveva avuto notizie molto precise su Peggau, aveva fatto un’indagine. A Peggau non c’è più niente, hanno fatto sparire tutto, come del resto hanno fatto sparire a Gusen. A Gusen non c’è più niente. L’unico che si salva è Mauthausen ridotto alla parte centrale e l’altro vicino a Monaco, Dachau anche, ma a Gusen hanno fatto sparire completamente tutto. Poi mi pare che siamo stati a Ebensee. A Ebensee facevano le gallerie tipo noi, uguali, erano le stesse gallerie.

D: Che dovevano servire queste gallerie per delle fabbriche?

R: Per fabbricati, erano come capannoni praticamente, erano destinati a quello. Andavamo ad esaurimento. Man mano che eravamo giù si passava dall’altra parte della barricata. Era tutto lì il discorso.

D: Il campo era vicino, nei pressi del centro abitato oppure no?

R: No. Nel campo io non ricordo praticamente di aver visto, né nel posto delle gallerie. La mia impressione, quella che mi è rimasta è che fosse un paesino allora assai piccolino. Può darsi che poi mi sia sbagliato completamente.

D: Lì nel campo tra i deportati c’erano anche dei ragazzini, dei giovanetti?

R: No, giovanetti no. C’erano dei russi giovani, ma non ragazzini, almeno, non mi risulta che ci fossero dei…

D: E lì a Peggau siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino mi pare all’1 o al 2 aprile, cioè all’indomani di Pasqua del ’45. Lì è stato di nuovo un altro viaggio avventuroso, perché siamo partiti da Peggau a piedi. Ad un certo momento ci hanno bombardato i russi, ci abbiamo lasciato due dei nostri di tutto il gruppo. Poi ci ha preso un acquazzone infernale, abbiamo continuato ad andare a piedi fino ad una certa stazione, non so quale sia.

Poi ci hanno caricato sul treno, vagoni scoperti, abbiamo attraversato un valico, nevicava. Io so che ad un certo momento ho detto, sono cotto. Mi hanno stretto in due, mi hanno scaldato, mi hanno dato una manciata di ricotta mentre eravamo su lì e mi sono salvato.

Quello che è stato doloroso è che uno dei due che mi ha salvato dopo che siamo arrivati a Mauthausen, a Mauthausen si va a piedi al campo, durante la camminata per andare al campo è caduto lì. Non si poteva far niente perché ti costringevano ad andare via ed è morto. Questa è una cosa che uno ce l’ha qui. Ma d’altra parte…

D: Quanto è durato questo viaggio di ritorno a Mauthausen?

R: Adesso non ricordo più, ma è durato una giornata mi pare. Ripeto, mi ha salvato una manciata di ricotta e gli altri fra i quali questo qui che mi hanno stretto in mezzo. Poi invece quando arrivavamo a Mauthausen, o camminare, o ti facevano fuori subito.

D: Ritornato a Mauthausen cos’è successo?

R: Ritornato a Mauthausen praticamente non abbiamo fatto più niente. Sono successi degli episodi perché ad un certo momento, un altro episodio di quelli che ti rimangono impressi lì. Arriva un gruppo nel quale c’era uno di Genova, essendo liguri ci siamo messi a parlare, finalmente sono arrivato lì, me ne vengo fuori. Quelli sono andati tutti a finire nel crematorio. Si vede che erano destinati. Lì avevano già fatto delle scelte.

Una volta ci hanno fatto una visita, ero indeciso tra quelli che dovevano stare e non dovevano stare. Fame, si mangiava pochissimo. Se moriva qualcuno ce lo tenevamo lì per pigliare il pane. Finché poi sono arrivati gli americani… No, no, pardon, noi siamo stati liberati il 5 maggio dagli americani di Patton.

Due giorni prima hanno abbandonato il campo, cioè abbiamo preso in mano noi il campo, noi, quelli che erano in grado di farlo. Anche lì tutto il mondo è paese, quelli che stavano a Mauthausen erano in fondo una specie d’imboscati rispetto… Fortunati loro, ma erano riusciti a tenersi in salute come in tutti i casi della vita.

Lì allora abbiamo cominciato… Dopo due giorni sono arrivati gli americani. Io non li ho visti perché con un altro mio collega qui di Ventimiglia stavamo curando due amici di Isolabona, dei quali uno è morto esattamente un anno dopo a Isolabona qui.

Non li ho visti gli americani, abbiamo visto che erano, cioè abbiamo sentito che erano arrivati, ma stavamo curando questo qui che era… Poi niente. Siamo stati lì finché sono arrivati, allora hanno cominciato a darci da mangiare, hanno cominciato a disinfettarci perché eravamo carichi di pidocchi da morire.

Poi lì sono cominciate le dissenterie, la TBC chi l’aveva. Io sono tornato a casa che avevo 39 di febbre. Ho detto questa qui è una bella TBC, invece per fortuna era solo colite. E crescevo di mezzo chilo al giorno a casa. Sono arrivato qua dopo un mese perché da Mauthausen gli americani ci hanno portato sul lago di Costanza. Gli svizzeri non ci hanno fatto passare. Ci hanno rimandato al Brennero.

Poi dal Brennero sono arrivato, ci hanno portato a Milano. No, dal Brennero ci hanno portato direttamente a Milano. E’ arrivata l’Opera Pontificia di Brescia. Poi da Milano sono riuscito ad arrivare a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova ho avuto già notizie dei miei. Ho trovato un amico, mi ha detto: “Stanno tutti bene”.

Poi da Genova a Ventimiglia è stato di nuovo un viaggio mezzo su un camion che si trovava, l’ultimo pezzo un mio vecchio conoscente mi ha portato in bicicletta da San Remo a Bordighera.

La cosa sarà strana, il mio cane se l’è fatta addosso quando sono arrivato.

D: Cioè in totale quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Praticamente io sono stato arrestato a maggio e sono arrivato a casa, beh, facciamo il 5 di maggio, quasi un anno.

D: E con te questo amico che accennavi di Ventimiglia?

R: E’ mancato due anni fa.

D: Ma è stato arrestato anche lui con te?

R: No, era di un altro gruppo. Del mio gruppo eravamo, io ho di là una relazione perché avevo fatto una relazione, eravamo un certo numero, siamo tornati a casa, mi pare, quattro o cinque, adesso di quel gruppo sono rimasto solo io. Invece questo mio amico era di un altro gruppo.

D: Che è sopravvissuto anche lui?

R: Sì, siamo tornati insieme. Lui è stato quello che appena… Siccome lui era a Mauthausen da un po’ prima, era riuscito ad intrufolarsi nelle cucine, faceva il macellaio. Allora mi ha fatto entrare nelle cucine, ecco perché curavamo il nostro amico, perché riuscivamo a prendere patate, qualcosa in cucina per dare a questo.

D: Ecco, di Peggau cosa ti ricordi ancora, di questo sottocampo di Mauthausen?

R: Mi ricordo com’era fatto, diciamo la parte delle gallerie, tutto quell’affare lì. Le linee generali me le ricordo. Poi i dettagli ormai, ripeto, anche per l’età stanno sparendo.

D: Ed eravate solo pochissimi italiani?

R: Eravamo non più di dieci penso.

D: Però oltre a queste baracche che dicevi, le vostre, c’era anche un’infermeria lì a Peggau?

R: Sì, c’era un’infermeria. Era un’infermeria dove però uno entrava, non è che lo facessero fuori, se riusciva a guarire… Meno quando siamo partiti che quelli che erano in infermeria li hanno fatti tutti fuori. Li hanno fucilati tutti.

Samiolo Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Sergio Samiolo, sono nato il 12 dicembre 1923, a Cismon del Grappa ed ora abito a Feltre, da sempre praticamente.

Io il 3 ottobre del 1944 sono stato arrestato dalle SS tedesche nel corso di un rastrellamento che hanno fatto qui in zona, in tutto il paese di Feltre e mi hanno portato sul cortile del Metallurgica Feltrina.

Da lì poi ci hanno spostato al cinema Italia, poi caricati su un camion. Ci hanno portato prima a Grigno di Valsugana.

Lì siamo stati un paio di notti, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno, per spedirci non si sapeva dove.

Io ho la fortuna di avere uno zio che faceva il capostazione a Bolzano; arrivati a Trento ho trovato, fra i militari tedeschi che facevano il servizio lì in stazione, due miei ex compagni di naia, eravamo a fare la naia assieme all’aeroporto di Ghedi.

Quando mi hanno visto si sono meravigliati e mi hanno detto che forse potevano fare qualcosa. Io ho detto loro solamente: “Avvertite il capostazione di Bolzano che sono su questo treno e che stiamo arrivando”.

Difatti il capostazione ci ha fatto arrivare, tre giorni ci ha impiegato da Trento a Bolzano questo treno.

Quando siamo arrivati alla sera lui è venuto lì ma non l’hanno lasciato avvicinare. Ci hanno caricati su dei camion e portati nel campo di concentramento.

La mattina dopo ci hanno passati all’appello, al controllo dei militari che c’erano e ci hanno fatto dare le generalità. Poi ci hanno dato una tuta e ci hanno mandato in campo con l’ordine di adoperare solamente ed esclusivamente la tuta, senza nessun capo civile possibile: praticamente solo con la biancheria intima e la tuta e basta.

Per questo motivo una mattina che avevo più freddo del solito, mi sono messo un maglione sotto, sennonché per andare all’uscita, per andare a lavorar, e ci facevano lavorare sempre, mi hanno fatto aprire la tuta e si sono accorti che avevo un maglione sotto: mi hanno dato con un tubo di ferro di quaranta, cinquanta centimetri sulla testa e qui ne ho la cicatrice. Mi hanno steso come fossi stato un vitello, buttato per terra, per fortuna che come ha detto il mio amico, avevamo il capoblocco che era un dottore e direttore dell’ospedale di Feltre; mi ha fatto portare dentro e mi ha medicato alla meglio.

Vorrei raccontare un altro episodio.

Noi andavamo a lavorare nelle gallerie di Gries, le gallerie antibombardamento di ricovero per i militari, per evitare i bombardamenti. Al ritorno da questa caserma stavamo facendo un paio di chilometri di strada a piedi per rientrare in campo di concentramento ed avevamo i parenti che ci facevano la scorta, da Feltre a Bolzano sono 140 chilometri, devo premettere che mio padre faceva il taxista e aveva la possibilità con i parenti di uno o dell’altro di questi cento e passa miei amici, di venire su spesso e mi veniva a trovare.

Un bel giorno è venuto fuori da una casa, che era in fianco a questa strada, una signora ed ha redarguito piuttosto pesantemente il militare che ci faceva la scorta; non ho capito quello che diceva, perché il tedesco non lo so.

Il fatto che è dopo dieci minuti questo militare, che era un austriaco di Vienna, forse uno dei migliori che ho trovato come temperamento, ci ha raccomandato, ha fatto mandare via i nostri parenti ed ha detto: “Mi dispiace, ma devo agire così, perché altrimenti quella signora mi denuncia e mi manda a Stalingrado a fare la guerra”.

D: Sergio, ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Il mio numero di Bolzano era 5.001 e triangolo rosa, per circa un mese e mezzo, forse due scarsi. Verso la fine di novembre, alla mattina durante l’adunata, hanno domandato se c’era gente che volesse andare a lavorare fuori dal campo.

Io ho approfittato dell’occasione perché avevo sentito che una squadra delle nostre era andata a lavorare verso Merano in una fabbrica di marmellata ed io pensavo: “Tento anch’io”.

C’era tanta gente; c’era gente che diceva che ci avrebbero mandati su per i passi a spalare la neve, per tenere aperte le strade per i militari. Io ho tentato, invece ci hanno mandati a Vipiteno.

A Vipiteno ci hanno sistemati in una caserma; eravamo in due stanze, in una piccola eravamo in otto, su quattro letti a castello, invece i rimanenti, ventiquattro, venticinque che erano, erano in un’altra aula o camerata che dir si voglia. Praticamente lì siamo stati. Noi avevamo che ci facevano la guardia otto militari della SS altoatesini, parlavano benissimo l’italiano, fra i quali c’era anche quello che mi aveva dato il colpo in testa, un certo Baldo mi pare si chiamasse.

Avevamo anche un po’ di paura: avevamo capito che erano cattivi, erano cattivi perché erano in pochi e dovevano sorvegliare parecchie persone.

Invece lì eravamo in meno, tanto è vero che poi eravamo riusciti ad addomesticare questi militari ed alla sera uno di noi, con la scorta di uno di loro, si andava fuori e si faceva un sacco pieno di fiaschi di vino e ce li riportavano dentro.

Infatti una sera un nostro amico è andato fuori ed è ritornato con il mitra sulle spalle, ma senza sentinella, tutti quanti siamo andati fuori in cerca e lui ed il sacco di vino erano in una cunetta coperti dalla neve, ubriaco fradicio.

D: Scusa Sergio, ritornando un attimo a Gries, tu dicevi che andavate a scavare delle gallerie… Ti ricordi più o meno dove?

R: Alle spalle della caserma c’erano le gallerie; noi si andava, si scavava. Facevano saltare le mine e si andava dentro; siccome quello è granito puro, si andava dentro e mi ricordo che per più di un mese ho continuato a sputare saliva che era come malta, perché si respirava quello.

Però anche lì non è che siamo stati proprio… E’ inutile, eravamo prigionieri e bisognava agire da prigionieri, se si voleva stare… Infatti io ed il mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, un certo Felice Bellumat, ci hanno anche premiato perché lavoravamo: ci hanno dato un pacchetto di sigarette a testa, anche se io non fumavo allora, comunque è servito da scambiare.

D: Ricordi anche tu la celebrazione della messa nel campo di Bolzano?

R: Assolutamente non mi ricordo niente della messa. Io mi ricordo che ci si trovava fra di noi, si parlava, specialmente alla sera; bisognava cercare di buttarla un po’ alla carlona, cercare di sopravvivere e reagire. Noialtri alla sera si campava, questo mi ricordo; poi quando mi hanno mandato lassù a Vipiteno ci è andata anche discretamente.

Comunque posso dire questo: che il lavoro era quello che era.

Posso dire questo: a Vipiteno, dove eravamo noi, hanno portato tutte le macchine che facevano le rivoltelle Beretta. Mi ricordo d’aver portato su dei…. e una fatica tremenda a portarli su per le scalinate, portare ai piani superiori queste macchine, che eravamo andati a prendere. Avevamo fatto un trasbordo da un camion ad un altro, uno si era rotto e siamo andati giù noi a trasbordarlo su un camion buono; poi le abbiamo portate su ed abbiamo cominciato a mettere a posto tutto quanto.

D: Dove avete portato a Vipiteno queste macchine?

R: Nella caserma dove eravamo alloggiati noi avevamo il nostro alloggio, queste due stanze, una più piccola ed una più grande, poi c’era una caserma piuttosto grande e c’erano altre stanze. In tutte queste stanze venivano messe dentro queste macchine per fare le Beretta.

D: Come deposito o per la produzione?

R: No, per la produzione. Quando ci hanno portato su quella valle che c’è alle spalle della Caserma di Gries, la Val Sarentino, c’erano due strade, una era bassa e mi ricordo che era vecchia, e un’altra sopra. Era praticamente come la Gardesana, tutte gallerie. Loro pensavano di adoperare le gallerie per metterci dentro le macchine per la produzione di armi; avevano domandato chi sapesse guidare le macchine, allora io, siccome avevo la patente, ho alzato la mano, e ci hanno mandati sulla strada di sotto a prepararla, con pale, badili e rastrelli per inghiaiare la strada, in maniera da sistemare la strada, in maniera da lasciar libere le gallerie per adoperarle come officine meccaniche dove mettere dentro macchinari. Non so se poi questo è avvenuto, perché sono stato su due volte e basta.

D: Poi sei rimasto sempre a Vipiteno?

R: Quando mi hanno trasferito a Vipiteno sono stato là fin quasi alla fine; ad un certo punto c’è stato un rilassamento della sorveglianza ed ho approfittato dell’occasione, ho preso il treno, sono scappato e sono andato a Bolzano, dove avevo, come ho detto, mio zio che era capostazione; aveva fra l’altro due figli, miei cugini, che erano tutti e due militari ed avevano vestiti da darmi.

Insomma mi sono vestito con i vestiti dei miei cugini, sono stato tre, quattro o cinque giorni, finché sono arrivati gli americani e poi sono venuto a casa così, con i mezzi americani.

D: Quindi tu non sei rimasto fino al 3 maggio?

R: No.

D: Quando sei venuto via?

R: Adesso non ricordo, ma verso la fine di aprile o qualcosa del genere, mancavano pochi giorni ormai, c’era uno sbandamento generale, si vedeva che non c’era più una disciplina che teneva ferma la gente.

D: Sei scappato?

R: Sì, sono andato, eravamo davanti alla stazione, sono montato su un treno e mi hanno portato a Bolzano. A Bolzano sono sceso e sono andato dal capostazione che era mio cugino e basta.

Sembra facile. E’ così insomma.

D: Durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: No, non scrivevo perché avevo, come ho detto prima, mio padre che andava e veniva, quindi quello di cui avevo bisogno e quello che volevano sapere loro era in comunicazione diretta; in linea di massima veniva su e stava su, perché portava su i parenti dei miei amici che c’erano lì e andavano a dormire in albergo davanti alla stazione.

D: A Vipiteno tu eri addetto a cosa?

R: Noi eravamo addetti a caricare, scaricare, portare su il materiale che serviva per le pistole e i mitra che facevamo e basta; perlomeno io facevo quel lavoro, portare su e giù il materiale.

D: Rapporti con i civili e con la gente del luogo?

R: Noi avevamo rapporto con un casellante della ferrovia, che era dei nostri paesi qui vicino, un certo Sori; per mezzo suo abbiamo potuto in qualche maniera mangiare un po’ più discretamente, in quanto attraverso lui riuscivamo ad acquistare carne, pane e qualcosa.

Certo che non c’era da mangiare per tutti, quel poco che c’era, perché anche questo signore ad un certo punto doveva cercare e non era facile trovare della roba.

Mi ricordo d’aver mangiato tanto caprone.

D: Perché tanto caprone?

R: Perché era l’unica cosa che si poteva mangiare allora, ne ammazzavano continuamente e si mangiava caprone, sempre in brodo però. Si faceva il brodo.

Un’altra cosa, quando ci hanno mandato a Vipiteno ci hanno mandato con i viveri razionati per dieci giorni per tutti e trentatre.

Eravamo tutta gente di venti, venticinque, trent’anni anni al massimo, alla fine del secondo giorno avevamo fame tutti e per otto giorni cosa si faceva? Siamo stati quattro o cinque giorni a mangiare miglio ed acqua, con il miglio si faceva il minestrone, ed un po’ di margarina. Poi, quando è arrivato, siamo riusciti a conoscere questo Sori, che ci portava la carne di capra e mettevamo dentro questo e facevamo un minestrone e così si mangiava un po’ tutti.

Corazza Osvaldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono Osvaldo Corazza, sono nato il 9 gennaio 1927 e risiedo a Bologna.

Il mio arresto avverrà ad Anzola dell’Emilia, anzi più precisamente a San Giacomo del Martinone, sempre considerando che noi eravamo usciti, eravamo sfollati da Bologna a San Giacomo del Martinone ed eravamo ospiti di uno zio.

Poi, per effetto dei bombardamenti, le operazioni aeree di Pippo, dato che la casa di mio zio era al lato del ponte Samoggia, allora decidemmo di cambiare il luogo ed andammo in una casa colonica, a casa di un contadino lì vicino, era della famiglia Guermandi e in questa casa, in questo luogo era sinonimo che lì c’era un’operazione resistenziale ed era una base partigiana, era un punto di incontro, di arrivo e di partenza delle varie formazioni che erano in movimento, le staffette che arrivavano portavano comunicazioni, quindi era un’operosità di quel genere.

Noi vivevamo in quella casa e non è che avessimo delle grandi funzioni in quest’operazione resistenziale, però operavamo insieme ai figli del contadino, nel conservare il materiale, armi ed altre cose, che le varie squadre, partigiani di passaggio, dopo le operazioni che svolgevano, quello che recuperavano lo portavano lì.

Noi raccoglievamo le armi, le tenevamo pulite, ed era un modo per dare continuità a questo movimento.

Diciamo così che noi ormai lo ritenevamo una cosa abbastanza normale perché spiritualmente, idealmente, la mia famiglia è sempre stata antifascista.

Mio padre era stato nel 1916 – 1918 consigliere comunale socialista di Anzola dell’Emilia, era stato anche bastonato ecc.

Quando, a Bologna avvenivano delle manifestazioni fasciste, lui veniva preso e poi portato dentro al gruppo rionale di Santa Viola, per esempio quando passava Mussolini in treno che da Roma andava a Milano, veniva preso e lo tenevano là, un giorno, una notte, due, a secondo.

Quindi, c’era da parte nostra già una predisposizione a questo movimento, quindi vivevamo nella paura, tenevamo sempre conto di questo perché chi ha vissuto quei momenti si rende conto di quale era la malvagità delle forze di occupazione, le SS, i luoghi fascisti e quindi si consideravano queste cose, però le operazioni venivano svolte.

Lì, come dicevo, la nostra collaborazione consisteva in questo: noi avevamo rapporti anche con altri contadini, altre basi, e noi dicevamo ai contadini che avevamo intorno, considerando che allora era tutto razionato: carne, fagioli, patate, latte, i contadini quando nascevano un vitello, due vitelli, tre vitelli, li dovevano denunciare al Comune.

Allora noi dicevamo: “Non denunciateli tutti quando arrivano due vitelli”. Così noi, dopo un certo periodo, andavamo a prendere questi animali, facevamo la macellazione, suddividevamo i pezzi, li mettevamo dentro dei sacchi di tela juta perché fosse una cosa grezza e quelli poi li portavamo alle altre basi che svolgevano questo tipo di operazioni, perché in questi luoghi non è che c’era una casa abbandonata. Voi pensate che c’era mezzo paese in quella casa, e anzi dirò che siamo stati fino a quarantatré residenti in quella casa e quindi c’era un movimento abbastanza aperto.

Quando facevamo queste operazioni di rifornimento alle altre basi, io o altri, andavano dal contadino sopra, nei luoghi in cui bisognava andare, con le armi, lì radunavamo e quando c’era un certo numero di armi, le mettevamo dentro ai carretti in mezzo a fascine ecc. e poi li portavamo in su, due o tre o quattro contadini, poi là abbandonavamo la cosa e lui pensava a fare la stessa cosa per riuscire al rifornimento delle armi alle formazioni partigiane di montagna, che erano tante in montagna, però l’unico difetto era proprio questo: la mancanza delle armi, perché nelle zone intorno, dove noi operavamo, qui operava la sessantatreesima brigata Bolerno, non è che sono avvenuti dei lanci di armi, rifornimento.

Questo è avvenuto, più che altro, nelle cime, ma soprattutto in Romagna. In Romagna sono avvenuti questi lanci, ma qui nell’Appennino nostro poco, nel Modenese, Monte Fiorino ed altro.

Diciamo che era una base che aveva questo carattere: era abbastanza operativa.

Direi anzi che la sera stessa che noi siamo stati arrestati all’interno della stalla, c’era una squadra di otto, dieci, dodici partigiani, non ricordo bene, che al momento in cui siamo stati circondati, loro riuscirono attraverso il portone dietro della stalla, a rifugiarsi dentro a un rifugio che noi avevamo preparato precedentemente in mezzo alle balle di paglia, avevamo lasciato un vuoto che sarà stato tre metri, due metri per due metri e mezzo circa e si tirava fuori una di quelle balle, entravano e poi si ritiravano dentro le balle.

Avevano spazio per respirare, perché filtrava aria.

E si rifugiarono lì perché subito dopo l’operazione di accerchiamento della casa e della stalla non avrebbero più fatto in tempo.

Il nostro arresto avviene a causa di una soffiata, diciamo così, ed è avvenuto un rastrellamento un po’ di giorni prima di questo rastrellamento, a San Giovanni in Persiceto, hanno arrestato moltissime persone, tra i quali c’erano anche alcuni partigiani che vedremo poi che sulla deportazione, noi troveremo i Comuni di San Giovanni in Persiceto e Anzola dell’Emilia, i due Comuni che hanno più deportati per effetto di questi arresti generalizzati e poi selezionati attraverso questi soggetti che erano i delatori.

Infatti ad Anzola dell’Emilia c’era un ex partigiano che era diventato il delatore.

Molti confronti sono stati fatti in carcere con noi e lui diceva: “Questo sì, questo no”, questo vestito con delle maglie, che le formazioni partigiane avevano distribuito e allora dicevano: “Questo è vestito…”, e tutte le volte che tu uscivi da questi confronti erano botte, ti dicevano: “Dove hai preso quella maglia?”

E io che ero un ragazzetto con una fisionomia abbastanza infantile, io dicevo: “Non so, me l’ha dato mia mamma, non so dove l’ha preso” e poi sberle, sganassoni, pugni.

Insomma lo svolgimento era questo.

Per tornare al periodo dell’accerchiamento, questi partigiani verso la mattina romperanno l’accerchiamento.

Premetto che nel mese di ottobre, questo avviene il 2 dicembre del 1944, nel mese di ottobre, per effetto della rottura degli argini del Samoggia, si era prodotto un grande allagamento e anche lì da noi nel cortile c’era così tanto di malta nella campagna, ancora di più.

Loro, alla mattina presto, aprirono il buco, aprirono il varco e fuggirono e riuscirono a fuggire tutti fuori che uno si sentì sparare.

Questo non riuscì a scappare e si andò a rifugiare nell’orto, e lì venne visto, trovato e portato in casa.

In quella mattina, mattina molto presto, venimmo arrestati, gli uomini che erano in quella casa. Il figlio del contadino Gaetano e un altro, un certo Bruno Baiesi che erano anche loro nelle formazioni, erano in casa a dormire e quando hanno sentito tutta questa cosa, sono fuggiti per una porticina e si sono nascosti sotto un sottoscala dove la donna di casa teneva le fascine di biancospino, le fascine adatte per cuocere il pane nel forno. E si andarono a nascondere là.

E sono stati nascosti lì per due giorni.

Infine, in un momento di calma, di tranquillità, che le SS avevano allentato la vigilanza, uscirono dalla porticina dietro e si andarono a rifugiare dentro un altro rifugio che avevamo scavato in un argine del Samoggia, con una botola, che quando era chiusa non si vedeva niente, e stettero là fino a un giorno o due prima che i tedeschi abbandonassero perché dovettero decidere, perché era pericolosissimo perché il portare loro da mangiare… Una notte uscirono dalla botola, entrarono dentro il letto del fiume ed uscirono nel sotto argine, la barlaida, la chiamavano e sono fuggiti verso Anzola e si sono nascosti in altri luoghi fuori dall’accerchiamento.

Questo che avevano trovato l’hanno portato in casa e hanno cominciato a interrogarlo con botte, calci, pugni, faceva sangue dappertutto e volevano sapere chi era il comandante e tutte queste.

Poi infine ci legarono con un cappio da contadino per il collo e in fila ci portarono fuori.

D: Chi è che hanno legato Dado? Te…

R: Tutti. Ci legarono..

D: Anche il tuo babbo?

R: Eravamo in otto, come ho detto, ci legarono con questo canapo e poi in fila ci portarono fuori, ci caricarono su un camion e ci portarono fuori.

Usciti dalla cavedania di questo contadino c’era già la strada della Persicetana, lì a fianco c’è il cimitero. Lì c’erano due o tre camion, siamo arrivati con il nostro camion e cominciarono: alt…, parlavano, discutevano e siamo stati lì un bel po’ e questo ci faceva pensare, c’erano le grandi paure, perché si pensava che poi ti avrebbero fucilato al cimitero.

Dopo un pezzo, invece decidono e ci portano a San Giovanni in Persiceto.

A San Giovanni in Persiceto avemmo prima un interrogatorio, alla casa del fascio, dove c’era….

D: Ma questo sempre le SS.?

R: Lì vorrei precisare che hanno fatto il nostro arresto le SS.

Dietro alla delazione di ogni soldato tedesco che era fuggito dalla formazione militare ed era entro entrato nelle formazioni partigiane.

Ora, tutto fa pensare che fosse stata una mossa politica per fare spionaggio.

Io non lo so, per il tipo, il soggetto che era, un ragazzo abbastanza mite, non credo che fosse stato .., comunque a parte questo…

Fatta questa operazione ci portarono via, arrivammo in San Giovanni in Persiceto e subito ci portarono al Comando dei fascisti, delle brigate nere che fecero un primo sommario, interrogatorio.

Poi ci portarono dentro alla Caserma dei Carabinieri, c’erano delle cellette e lì stettimo due giorni.

C’erano le cassapanche, c’era la paglia, si dormiva lì e ogni tanto dallo spioncino del portone passava un tedesco e diceva: “Domani tutti kaputt”, e questo non è che…

Questo incoraggiava sempre di più il pensiero che saremmo stati fucilati, impiccati perché già sapevamo di questa operazione dei tedeschi, quindi vivevamo in una grande paura. Quando sono arrivati i tedeschi in casa, nell’arresto, io ero timoroso, pauroso, anzi direi che a malapena riuscivo ad allacciarmi le scarpe dalla paura, perché bisogna immaginare l’atteggiamento di queste persone quando arrivavano, con i calci del fucile, ad ogni mossa, e questo soprattutto per dei ginetti come eravamo noi, non incoraggiava un granché.

Di fatto stiamo due giorni a San Giovanni in Persiceto, poi una sera, verso le nove, le dieci ci ricaricano in camion e partiamo.

Quando si arriva a Bologna, noi vedevamo dalle fessure, si fermarono sulla via Emilia davanti all’entrata della via Gucchi che in fondo alla via Gucchi c’era il tira a segno dove normalmente facevano le operazioni di fucilazione, ci sono oltre duecento fucilati nel tiro a segno.

Anche lì ci fermarono, discutevano, parlavano, solo che noi non capivamo niente di tutto questo.

Vivevamo solo nella paura.

Dopo un lungo periodo ripartirono e ci portarono su.

A noi è parso di aver fiancheggiato i portici per andare a San Luca.

Però questo è un po’ incerto.

Solo che a un certo momento, avanti un pezzo su per la collina ci fermano davanti a una grande villa, con dei cancelli grandissimi, che in fondo a questa villa c’erano delle piante rampicanti, lo ricordo bene perché c’era Carlo Nepoti che poi morirà a Mauthausen e diceva: “Qui ci fermano, qui c’impiccano, andiamo sulle corde”.

Erano piante rampicanti che io vedrò poi, dopo la guerra, andando a percorrere per vedere quei luoghi e ci portarono infine su nella casa di Sabbiuno.

Lì c’era una camera, una grande pagliata, e ci chiusero dentro.

Alla notte ci diedero anche da mangiare, una brocca, di quelle alte, piena di brodaglia, pezzi di carne e dovevamo mangiare con un cucchiaio solo e facevamo un po’ per uno a mangiare.

Ricordo che l’unico indizio che mi fa pensare, e non lo dico con l’assoluto però, perché di notte mi venne il bisogno di andare al gabinetto, e allora a forza di insistere, viene uno con me, un militare, e mi porta là dietro in un posto vicino alla siepe, intanto mi curava, io facevo le mie cose, infine ritorno dentro…

Quindi noi eravamo lì in attesa, senza sapere qual era la destinazione.

D: Scusa, Dado, invece di portarvi a Bologna vi hanno portato a Sabbiuno.

Sabbiuno è una località in un paese….

R: No, è una zona di collina sopra a Casaglia, sopra a Monte Donato, diciamo e, passata la notte, ci ricaricano sul camion e ci riportano a Bologna, al Comando della Gestapo, vicino alla strada …

D: Il Comando della Gestapo era qui ai giardini?

R: Era lì ai giardini, si chiama via Santa Chiara, a lato dei giardini Margherita.

Dalla botola della cantina dove noi eravamo, noi vedevamo, dietro agli alberi dei giardini, il monumento di Carlo Alberto che una volta era nella piazza maggiore, venne tolto durante la guerra.

Come arrivammo giù, lì ci misero dentro in due cantine e incominciarono gli interrogatori.

Mi presero subito e mi portarono su a pulire tutti i gabinetti del Comando e tutta la mattinata rimasi a fare quelle cose.

Poi il pomeriggio iniziarono gli interrogatori.

Ti chiamavano su e ti mettevano a sedere, di fronte a un ufficiale delle SS, su una sedia e incominciavano a dirti: “Tu sei della GAP e della SAP, e io dicevo: “Io non so neanche cos’è la SAP e la GAP”, io non ero niente, ero sfollato là. E cominciarono: “Chi era il Comandante della formazione del GAP?” Noi…, però resistevamo. Alla fine si scoccia, si alza su e si avvicina e ricomincia: “Tu eri della GAP o della SAP?”

Io dissi: “Non lo so”. Così mi diede dei grandi sberlone, dei pugni e allora si infiammò tutto nel parlare.

Dopo un po’ arriva dentro un ufficiale della brigata nera che disse: “Cosa c’è?” E io dissi: “Mi chiede se sono della GAP o della SAP, vuole sapere delle cose che io non so”.

Andammo avanti ancora, lui cercava bonariamente di dire: “E’ meglio che dici, perché è l’unico modo perché tu puoi salvaguardarti” ecc. e così.

Io non dissi niente.

Dicevo sempre la stessa cosa, come un disco.

Finalmente finì.

Io, da questi interrogatori, me la caverò con pugni e schiaffi, però gli altri venivano malmenati molto forte.

D: Scusa, Dado, ritorniamo a Sabbiuno, è una località dove non ci sono abitazioni?

R: No. Dove c’è ora il monumento, il monumento è un arco di cemento con le bocchette dove stavano quelli che fucilavano.

Lì c’era una casa da contadino, una casetta, poi c’erano delle altre, in collina.

La frazione come tale era prima e noi non sapevamo…

D: Perché vi hanno portato lì? Cos’era quel luogo?

R: Te lo stavo dicendo.

A Sabbiuno, poi si scoprirà dopo la guerra, che in quel luogo erano stati fucilati cento partigiani.

Sono stati ritrovati nel giugno del 1945, quindi un mese e mezzo dopo la fine della guerra, giù per questi calanchi che sono calanchi di terra maltosa, erano tutti seppelliti nella malta, per quello ci hanno impiegato tanto a trovarli. Di questi martiri ce ne sono quarantasette riconosciuti e cinquantatre sconosciuti.

Sappiamo che erano in quel gruppo ma non si sono potuti individuare.

Quando portarono su questi gruppi di partigiani arrivava il camion al carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, lo mettevano davanti, veniva fatto l’appello all’interno, li portavano fuori e li legavano, gli toglievano tutto, quel pane che avevano, quel pane che avevano racimolato e gli legavano le mani dietro alla schiena. Li cacciavano sul camion e partivano.

Ricordo molto bene queste cose perché io vidi partire mio cugino Bruno che sarà uno di questi fucilati. Poi conoscevo bene il muretto, una medaglia d’oro, perché eravamo Dante e Dusiani, dove eravamo stati a scuola elementare insieme, non sapevo che erano partigiani quelli, però li vedevo, perché io ero nella cella di transito, proprio di fronte all’entrata o all’uscita di San Giovanni in Monte.

D: Scusa, queste fucilazioni condotte lì a Sabbiuno, sono state eseguite da chi?

R: Dalle SS, potrebbero esserci anche delle brigate nere, ma quando uno andava nelle mani della Gestapo, quelli rimanevano in mano alla Gestapo.

Finiti gli interrogatori alla Gestapo, lì c’era la selezione o chi era fucilato o chi era eventualmente deportato, se non alcuni, come dirò, di noi otto che eravamo, tre di questi saranno rilasciati dopo gli interrogatori perché erano vecchi, due erano vecchissimi, poi c’era il garzone del contadino che era un montanarino che allora usava così, andavano a prendere i poveri ragazzi, però forti per lavorare, era un po’ semplicione, e anche quello viene rilasciato, Toni si chiamava.

Io lo ricordo molto bene perché molte volte lo schernivamo anche perché era un po’ semplicione.

Degli altri cinque, due saranno fucilati in Sabbiuno, quel famoso Baiesi che trovarono quando ci hanno arrestato e l’anziano contadino, era un omone, un vecchietto, era un uomo forte come forza, pieno di arroganza.

Quando durante il periodo dell’occupazione, le brigate nere venivano nel cortile dei contadini, venivano lì e cominciavano a sparare alle galline, derubavano, e lui veniva fuori dalla stalla con il forcale: se torni a tirare un colpo di fucile te lo pianto… Diceva così. Non aveva paura.

Dicevo che due sono stati fucilati lì, altri due, io e Nepoti Carlo saremo invece mandati a Mauthausen.

Mio padre, che era in carcere con me, quando sono venuti a chiamare all’interno della cella, cominciarono a chiamare Corazza Osvaldo e quando arrivarono alla fine Corazza Gaetano non l’avevano chiamato, però dentro all’ufficio matricola, dove c’era il salone in cui ci avevano radunato per deportarci in Bolzano, chiamarono anche Corazza Gaetano.

Non c’era, si vede che nel chiamare, lui avrà letto: “Corazza l’ho già chiamato ed è passato giù, immagino io”.

Lì, all’ufficio matricola chiamano “Corazza Gaetano, Corazza Gaetano”, non c’era. Ne avevo altri due di Corazza insieme a noi, che erano due cugini miei, che uno poi morirà a Gusen, l’altro invece verrà a casa e lì dice che ci fanno partire.

Mio padre rimane in carcere, che dopo una ventina di giorni, partiti noi, lo mandarono ai confini della Svizzera, a badare a dei cavalli, dopo alcuni giorni che era là abbandonò i cavalli e arrivò a casa, arrivò a casa prima della Liberazione.

A noi invece ci caricarono il 22 dicembre, se ricordo bene, arrivammo all’antivigilia di Natale a Bolzano, però facemmo una notte fermi in una scuola a Pecognaga, perché ci portarono via, si partì si vede tardino, verso la mattina eravamo nei dintorni e ci portarono a Pecognaga.

Lì ci portarono dentro quella scuola e stemmo lì tutto il giorno, sempre guardati dalla SS.

Si vedeva la piazza di Pecognaga.

Alla sera ci ricaricarono sui camion e via. Si parte, si passa il Po su questi ponti fatti di barche e giungemmo a Bolzano in mattinata.

D: In quanti eravate più o meno, Dado?

R: Eravamo novantun uomini e nove donne. Erano due o tre camion.

Mi ricordo che sul camion avevo l’avvocato Costa vicino che aveva una gamba diritta e mi diceva che gli stavo addosso alla gamba. Ci avevano pigiati lì dentro così e così si doveva andare.

Arrivati a Bolzano, lì comincerà l’operazione di tosatura e anche l’immatricolazione.

Io avevo il numero 7.973, detto così me lo ricordo un po’ meglio. Poi pensate che ci sono degli amici miei che non si ricordano che li avevano numerati perché poi i ricordi sfuggono dopo tanto tempo.

Lì fu la prima volta che ci dissero: “Da oggi in avanti voi avrete questo numero, non avrete più nome e cognome”, la prima volta.

Poi di nuovo, ci rinnovarono questa espressione quando arrivammo a Mauthausen.

Dal 22 di mattina stemmo fino al 6 di gennaio in Bolzano.

Lì non facevamo niente, non si faceva niente e al mio arrivo, racconto questo episodio perché simpatico, incontrerò il mio amico Balboni, che era amico mio perché eravamo vicini di casa, eravamo nel bar insieme.

Quando eravamo lì in fila, diritti così, arrivò un gruppo che veniva da fuori, allora si avvicinò a Balboni e disse: “Siete di Bologna?” E noi rispondemmo: “Sì, siamo di Bologna”. “Non c’è nessuno di Santaviola?”

C’ero io, Balboni… “Ma com’è che sei qui?” Allora parlarono in fretta, perché lì menavano… Poi ci portarono dentro al posto.

Ricordo che di tanto in tanto, lui che veniva di fuori riusciva a recuperare qualche po’ di miele o cose del genere e ogni tanto ce lo portava.

Insomma lì passammo questi giorni in Bolzano, sembrava che si fosse aperta la prospettiva di poter andare a lavorare dietro il campo, che stavano allargandolo, sembrava ci fosse un ufficiale americano, un pilota e dicevano che era il capo che conduceva i lavori di carpenteria e allora noi chiedemmo se si poteva andare a lavorare lì. E non ci dissero neanche di no e si arrivò che ci spedirono via e non riuscimmo a combinare niente.

Da Bolzano ci caricarono il 6 di gennaio…

D: Dado, ti ricordi, scusa, nella tua brevissima permanenza a Bolzano, se hai trovato anche dei religiosi?

R: Io dirò questo: dei ricordi di Bolzano, di espressioni spirituali no…, poi neanche nel resto.

Ricordo bene che facevamo arrabbiare un nostro amico, che era deportato lui, era molto religioso.

Ogni tanto qualcuno si metteva una gabbana nera e diceva: “Pietro, vieni qui che ti voglio confessare”.

Stiamo facendo un monumento dedicato a lui e a un altro.

Si chiamava Pietro…

D: Ma di sacerdoti non ne ricordi?

R: Ne troveremo due quando arriveremo a Mauthausen.

Comunque lì, una delle cose impressionanti che vidi, alla mattina veniva fuori dalla baracca, dalla baracchetta per andare a fare il bagno, in mezzo, in fondo al piazzale di Bolzano c’erano le celle.

C’erano le celle e dentro a queste celle, ricordo, quando passavamo, c’erano dei mongoli che erano quelli che dalle truppe russe erano passati alla collaborazione. E li avevano arrestati perché chissà cosa avevano fatto. Comunque facevano degli urli che sembravano dei selvaggi.

Un giorno, mi capitò una mattina, che passando di lì, uno di questi venne di lì dall’inferriata e portò un deportato e gli fece vedere che aveva del pane. Quando si avvicinò lo prese per il collo e se lo tenne lì, io vidi che cadde in terra. Non so se era morto o quasi morto perché io tagliai la corda.

Secondo me era morto, ma non ho la certezza.

Così imparai che quella era gente così.

Una delle cose più grosse erano quelle lì.

Del resto lì abbiamo vissuto una vita da niente.

Il 6 gennaio venimmo ricaricati e portati in stazione. Lì ci stringeranno dentro i vagoni, non lo so quanti eravamo, sessanta o sessantacinque, so che non c’era posto per tutti, solo in metà vagone ci si poteva sedere e bisognava fare i turni, arrivammo a Mauthausen l’11 gennaio, alla mattina presto.

D: Scusa, Dado, siete partiti da Bolzano da dove?

R: Dalla stazione ferroviaria di Bolzano, con il camion, da dentro il campo ci portarono alla stazione e da lì ci ricaricarono dentro i vagoni bestiame.

Il viaggio fu molto lungo, perché voi pensate che da Bolzano ad arrivare a Mauthausen ci sono 400 km, per treno penso ci saranno 350 km e stemmo nove, dieci giorni in viaggio.

E ci hanno dato da mangiare una volta, a metà del viaggio che fu il 9 gennaio che io compivo diciotto anni quel giorno.

Fu un viaggio molto penoso e non ci furono dei morti nel mio vagone, ma in altri vagoni sì.

Mi ricordo bene che una delle cose penose era la sete, c’era il fiato pesante.

Allora, per rinfrescarci la bocca leccavamo i bulloni che fissavano le piastre che tenevano ferme le aste del vagone e facevano una brina, e le cavavo quelle o con le dita…

Da mangiare ci diedero un bussolotto di carne tritata, una specie di Simmenthal, e una pagnotta di pane, ogni due.

Dopo, con quei bussolotti, con le cinture, dal mezzo del finestrino che c’erano i fili, aprivamo i fili reticolati, mettevamo giù i bussolotti per raccogliere un po’ di neve, a volte ci andava bene e delle volte ci andava male.

A volte si raccoglieva un po’ di neve, a volte dei sassi, a volte anche dello sterco che dietro alle ferrovie non mancava.

Durante questi giorni e notti ci lasciavano fermi delle ore.

Non era freddo, neanche se era gennaio, all’interno del vagone, e poi eravamo anche abbastanza vestiti perché in carcere, durante il periodo della permanenza in carcere, un giorno alla settimana potevano venire dei familiari a portarci qualcosa da mangiare, vestiti, quindi eravamo abbastanza vestiti. Non era neanche freddo, almeno non ricordo che era freddo.

Arrivammo a Mauthausen, ci scaricarono a Mauthausen e finita l’operazione di scarico, ci avviarono. Passammo dentro alla cittadina di Mauthausen che non è come era adesso.

Adesso c’è il viale di circonvallazione. Allora non c’era.

Il viale di circonvallazione che costeggia il Danubio non c’era. C’era solo la strada che passava al centro.

Al lato destro c’è una rupe, una grande collina dove sopra ci sarà il campo e a destra tutte le residenze.

Ricordo che quando passavamo dalla città, si vedevano i bambini che guardavano e curiosavano e le donne, quando vedevano che passavamo, chiudevano gli scuri, si tiravano dentro, insomma. Non avevamo delle scherni, altri amici miei mi hanno detto che invece trovavano dei bambini che tiravano loro i sassi, sputavano, ma io questo non l’ho verificato.

Arrivati a Mauthausen ci fecero percorrere la strada all’interno, come dicevo, di quella gente che era lì in giro e cercava di allontanarsi più che di curiosare o tanto meno di solidarizzare, che non sarebbe stata cosa facile, è vero, tanto per chi fosse stato nazista o antinazista, venire a solidarizzare era una cosa pericolosa.

Passato il paese c’è una mulattiera che va su dal paese, non è più la strada normale che si fa ora, su per questa mulattiera finalmente arriviamo sopra, come arriviamo sopra nella strada, a sinistra c’era una casa del contadino che c’è ancora e subito a destra tu vedi la facciata del campo, c’era la neve.

Le mura che sono belle grigie adesso, ma nel confronto con la neve erano mura scure.

Sopra al campo c’erano dei nugoli di corvi che urlavano perché lì intorno c’erano le famose fosse comuni, di cui noi sapremo dopo, e di cui io non ho mai saputo.

Arrivammo dentro al campo e come arrivati al campo, un episodio simpatico, appena dentro il portone, fermano tutta la fila e io rimango lì tra il dentro e il fuori del portone.

Lì di fianco c’era un marocchino, un francese, era un mulatto che spazzava. “Italiani…, good maccheroni…”, diceva e continuava a spazzare.

Poi ci portarono dietro alla prima baracca di destra e lì ci fermarono e incominciarono l’operazione della spoliazione, la rasatura e infatti in venticinque o in trenta andavamo giù, ci fecero fare la spoliazione e dissero: “Mettete lì la roba che poi quando uscite dalle docce…”. Intanto ci facciamo avanti, di qua e di là c’erano due barbieri che ci tosarono da capo a piedi.

Noi eravamo già rasati da Bolzano e lì ci fecero la prima riga, la Strasse.

Così, spogliati, nudi, comincia quest’operazione.

Io ho assistito alla prima operazione di punizione di due preti, che erano due preti di Milano, uno di qua e uno di là e non volevano farsi tosare sotto e hanno preso tante di quelle botte da fare paura, perché lì ti tosavano la parte sopra, io non avevo niente da tosare, non avevo la barba, nel petto non avevo il pelo, ci fecero salire su un mensolino alto come una sedia, e poi ti tosavano sotto. Poi ti davano la creolina, questo dopo che venivi fuori dalle docce.

Fatta la rasatura, si andava dentro. Quando eravamo tutti dentro, ti facevano fare la doccia, e fuori di là quando uscivi la tua roba non c’era più.

Lì c’era un bancone, ti davano un paio di mutande, una maglia, un paio di scarpacce e fuori.

C’era la neve fuori, ci portarono fuori e lì aspettavamo perché finché non si era raggiunto un certo numero non si andava in baracca.

Finita l’operazione di questo, allora ci portarono in baracca, dentro il campo di quarantena.

Come arrivammo là ci diedero da mangiare, una sbobba dolcina, una cosa proprio che non si poteva mangiare e sopra, perché erano tutti castelli, file di castelli e qui c’era la… che ti dava questa roba e noi facevamo gli schizzinosi perché nonostante tutto, venivano dal carcere, da Bolzano e qualcosa mangiucchiavamo.

Così c’era un deportato spagnolo, lì sopra a sedere, al terzo piano del castello che diceva: “Mangiatela perché non la mangerete mai più. C’era dentro del semolino, della roba…”

D: Dado, il blocco di quarantena, ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No, il numero non lo ricordo.

Ricordo che appena entrati dal cancello eravamo nel primo blocco. Non so venti, ventuno, ventidue, erano tre, credo, i blocchi di quarantena, però alla quarantena stemmo solo pochi giorni.

Nei blocchi di quarantena c’erano i castelli a tre piani, quelli dove l’ultimo batteva la testa sopra.

Ricordo bene che c’era anche uno di questi spagnoli, un certo Eolo, ci cantava “Limon Limonero”, una canzone spagnola, bella…, voi siete giovani, non la sapete.

E lì fu la prima esperienza della baracca. Arrivò poi il giorno dopo che ci diedero la numerazione.

Come vi dicevo, ci misero a sedere contro il muro della baracca, lì ci misero a sedere e poi una piastrina con il numero: 115.453.

E ci fecero la foto, perché questo rimaneva il documento del campo, cosa che non troveremo mai.

Non credo nessuno abbia trovato le foto di Mauthausen, quindi credo siano state distrutte, a meno che non saltino fuori tra altri cinquanta anni.

Solo che non possiamo vedere se siamo venuti bene!

Ora, lì fatta quest’operazione, noi rimaniamo in attesa…

Dirò, ritornando indietro, che dei cento che siamo arrivati a Bolzano, le donne rimarranno a Bolzano e partono solo gli uomini e alla fine della Liberazione torneremo a casa dodici, tredici, quattordici, il numero preciso non lo so, non lo ricordo.

Fatta quell’operazione, noi al campo non saremo adoperati per andare alla scala, alla scala della morte, anzi io dirò che della cava ne avevo sentito parlare perché vedevamo, alla mattina, quando sull’Appel Place ci facevano la conta, vedevamo che arrivavano verso le 6, i deportati del blocco di eliminazione, laddove c’erano quei russi, che poi avverrà il tentativo di fuga e arrivavano su moribondi, stramazzavano in terra insieme ai sassi, si accatastavano in terra.

Allora mi dissero che quelli andavano nella cava per prendere questi sassi, ma io non l’ho mai vista, anche quando sono stato liberato.

Sono stato liberato a Gusen, ma non l’ho mai vista la cava. L’ho vista solo dopo la guerra. Quindi lì non facevamo niente.

L’unico impegno per cui io sono stato utilizzato all’interno del campo è quando è avvenuto il tentativo di fuga.

Noi usciremo dopo tre o quattro giorni dal blocco di quarantena, entriamo lì, credo nella seconda baracca, fuori dal campo di quarantena, credo fosse il blocco dodici, tredici, era il secondo dietro.

E lì, invece noi non avevamo più i castelli, ma avevamo i pagliericci in terra.

Alla sera, entriamo in questa baracca, era tutta vuota, solo lì in fondo c’era una pila, una catasta di questi materassini che poi, alla sera, i Kapò ci dicevano: “Via, stendere…”, ci facevano stendere i materassini e loro ci mettevano a letto.

In fila, così, testa e piedi, tutto il piano coperto di deportati, solo il sentiero in mezzo, che poi loro per divertimento, quando giravano ci giravano sopra.

Quando le notti sono rumorose, alla mattina, alle quattro ci svegliavano e ci mettevano in fila sull’attenti fuori, accanto alla baracca e a me è capitato una volta di essere fuori. Ti lasciavano lì, alle cinque, alle sei, alle sette, tre, quattro ore, finché volevano e stavamo lì sull’attenti.

Quando qualcuno non resisteva e cadeva mettevano là il mucchio di neve, se rinveniva tornava in fila, altrimenti lo portavano via.

A me è capitato una volta, in quel periodo che eravamo lì, avvenne il famoso tentativo di fuga, là dal blocco di eliminazione, in quella baracca che era definita di eliminazione perché là ai deportati che c’erano il mangiare lo portavano solo quando rimaneva, quando rimaneva del mangiare dalla quarantena, allora passavano dietro, perché questo era dietro alla quarantena, e gli davano da mangiare. Altrimenti andavano alla sera a caricare i cadaveri e via.

Nei primi giorni del febbraio del 1945, sarà il 4, il 5, o il 3 febbraio, avvenne questo tentativo di fuga.

Nel pieno della notte cominciammo a sentire sparare, sembrava il terremoto, le mitragliatici, i fucili.

Noi eravamo rinchiusi nelle baracche.

Durò un paio d’ore tutta quest’operazione. Verso mattina, appena giorno incominciarono a prendere degli uomini e con i carri, i carriacci che erano là, sempre trainati, andarono fuori dal campo a caricare i cadaveri.

Io vedevo, quando tornavano che erano insanguinati, dei pezzi di carne ecc., ma noi eravamo ancora lì in baracca.

Arrivarono lì, verso le nove, le dieci, a mattina fatta insomma, anzi forse anche un po’ più tardi, perché prima sgombrarono tutti i cadaveri che poi li portavano nelle botole, che li davano ai forni crematori e ci vennero a prendere a me e a un altro. Ci diedero una specie di barella fatta a cassa e con uno delle SS dietro ci porta fuori dal carro e andammo là fuori a raccogliere gli zoccoli, gli stracci, voi immaginate il pandemonio.

Se da questo tentativo di fuga, la storia dice che ci saranno circa seicento morti, i superstiti sono una decina, poco più o poco meno.

E’ vero, c’era un pandemonio.

Noi andammo fuori, caricammo questa cassa e poi tornammo dentro.

Ci fecero andare giù dalla scala dei forni crematori, passammo dentro, davanti ai crematori e poi ci portarono là in fondo che c’era un magazzino di carbone a vuotare la roba là dentro e poi tornammo fuori.

Fu l’unica occasione in cui vidi i forni crematori, poco lontano c’era anche la camera a gas, però questa è una storia che credo siano pochi che la possano raccontare perché chi ha lavorato nei forni, chi ha lavorato nelle camere a gas veniva eliminato. Quindi era difficile trovare qualcuno che potesse testimoniare di queste cose.

Forse sarà qualcuno di sopravvissuto probabilmente, un tedesco.

Insomma, una storia molto sconosciuta.

Quindi torniamo in baracca.

Io assistetti all’arrivo prima di questo tentativo di fuga, all’arrivo dei deportati che arrivavano da Auschwitz tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, L’1, 2 o 3 febbraio, non ricordo bene. Ricordo bene però che Teo Ducci mi disse che arrivò il primo di febbraio. Noi vedemmo arrivare questi deportati e li portarono là dietro, dove portarono noi.

Tieni conto, quando arrivammo noi, che ci misero lì, c’erano dei deportati che erano già dentro. Arrivavano là dietro, di nascosto, e dicevano: “Avete degli orologi, degli anelli, dateci tutto, perché ci tolgono tutto…” ma chi ci credeva? Noi pensavamo che questi facevano i furbi per poi dopo trafugarci e questo non potevano farlo con quelli di Auschwitz perché quelli avevano meno di quello che avremmo avuto noi.

Insomma lì arrivarono alla sera, e il pomeriggio verso sera erano tanti, tantissimi, non so quanti.

Però lì morirono tre, quattro, cinquecento deportati morirono assiderati nella notte, là fuori, aspettando di fare quest’operazione di tosatura, disinfezione, uno potrebbe dire: che tosavano se venivano dai campi? Però avevano scrupolo di ripulire e poi ci disinfettavano con quella creolina, una roba puzzolente, che bruciava.

Facevano quest’operazione, per dirvi che io non ho mai avuto i pidocchi, neanche a Gusen.

Avevo una scabbia spaventosa, forse era per quello che non si rigiravano.

Però non ho mai avuto gli insetti.

Verso il 5 o il 6 febbraio ci incolonnarono e ci portarono giù a Gusen.

Ai primi di febbraio, ci incolonnano a piedi, scenderemo da Mauthausen e per strada arriviamo a Gusen.

Ci fanno entrare tutti a Gusen 1, poi lì a Gusen fanno la selezione di quelli che rimangono a Gusen 1, noi usciamo di nuovo e andiamo a Gusen 2.

A Gusen 2 ci suddividono nelle varie baracche.

Quando io arrivo nella mia baracca, di cui non ricordo il numero, ma penso il 10, non ne sono certo, perché ero un cinazzo e me ne fregavo di quello che avveniva intorno e cercavo solo la strada per non essere picchiato e trovare il mangiare.

Infatti mi portarono dentro a questa baracca ed era vuota, si vede che erano già partiti per Saint George, per il lavoro. Andai dentro questa baracca, guardavo, e ad un certo momento sentii dire, guardavo, andai a vedere, là in fondo, al piano di sotto del castello, c’era un deportato, mi avvicinai e parlava in francese, e io ho detto: “Sono italiano”. E mi ha chiesto: “Italiano?” Lui era un professore francese di italiano. Mi ha detto: “Com’è che sei qui?” Allora io tergiversavo e dicevo: “Non so, sono stato preso, mi hanno portato…”

Così lui mi parlava un po’ da padre dicendo: “Questo è un posto in cui è difficile sopravvivere, quindi tu stai attento, cerca di capire subito le cose che ti dicono, perché altrimenti sarai bastonato continuamente, quindi cerca di intendere tutto quello che ti dicono”.

La sera che arrivarono a casa, mi diedero il pasto e dove dormire, dormivo con un forestiero, non era uno dei nostri.

Passò la notte e alla mattina già ero in squadra per andare a lavorare. Quando sono tornato, alla sera dal lavoro, non c’era più. Non so se l’hanno portato all’ospedale o se l’hanno portato invece al Revier perché a Gusen 2 c’era la parte davanti con tutta una fila di baracche, undici, dodici, credo che l’infermeria era il dodici o il tredici. Dietro all’infermeria, fuori dal recinto c’era il blocco di eliminazione, con una grande piazza e c’erano i binari del trenino che ci portavano a Saint George dove c’era la galleria con la fabbrica della…., ogni mattina, ogni sera, a secondo del turno che si faceva, arrivavamo nella piazza, e ci mettevano davanti ai vagoni tutti preparati, aprivano il vagone e a bastonate ti facevano salire sul vagone. Non ci stavano mai tutti.

Allora, chiudevano, facevano andare su tutti, poi quando avevano finito l’operazione ce ne erano ancora sette, otto, dieci, riaprivano il vagone, risalivano la scaletta, incominciavano a bastonare dentro, si faceva il vuoto, due legnate a quelli che erano giù per andare su.

Erano legnate tutte le volte lì.

Una mia esperienza all’interno di questi carichi, per Saint George fu questa, qui c’era l’entrata del vagone, nell’angolo a destra, io ero proprio là nell’angolo.

In uno di questi momenti che ricaricavano quelli sotto…, gli altri si allargano e venivo schiacciato, quasi stavo per soffocare perché mi spingevano in questo angolo. Finalmente si allentò un po’ la cosa e mi ripresi, per dire come poteva essere l’operazione di carico.

Il percorso di questo trenino, con un soldato della SS di qua, e di là, e seguivano a passo d’uomo il trenino. Di notte, avevano i cani, avevano dei fari a pila per vedere. Poi, avevano la macchina che non trainava, ma spingeva, andava indietro con la raspa che raspava sui binari per evitare eventuali fughe ecc.

Quella era l’operazione di carico quando si arrivava dentro al piazzale della fabbrica e si scendeva incolonnati, ci portavamo davanti al primo stallen, la prima galleria, e lì c’erano quelli che contavano alla sera, alla mattina.

La conta è sinonimo di una delle pene a carattere psicologico perché ti tenevano alla conta anche delle ore, delle volte e ti tenevano lì e ricontavano, così facevano perché tanti entravano nell’officina e tanti dovevano uscire. A volte si rimaneva lì delle mezze ore, ancora più, che ne mancavano uno, due o tre, che li andavano a cercare e li trovavano già morti, dietro delle lamiere, degli angoli bui. Li trovavano là, erano andati per riposare e poi morivano. Quando c’erano tutti, allora si ritornava.

Io, in fabbrica, ero a banco e facevamo gli sbavatori.

Le lamiere che venivano tranciate, facevano la bava e noi, nella morsa, mettevamo queste lamiere e poi con la lima limavamo queste.

Eravamo in quattro, c’ero io qui a destra, c’era un triestino che non ho mai più rivisto, non ricordo, non so se è vivo o morto ma non l’ho mai più trovato.

Di fronte a noi c’erano due rossi che erano due rossi che erano in carcere con noi nel carcere di San Giovanni in Monte, che erano nelle formazioni della Stella Rossa, erano di Sesia Bologna perché dovevano venire alla liberazione di Bologna, poi sono stati arrestati, trovati e poi hanno fatto il percorso della deportazione. Erano lì, lavoravano con noi.

Si lavorava, sbavava ecc.

Una delle pene era andare al gabinetto perché quando andavi al gabinetto c’era sempre la fila, c’era la fila perché c’era un mucchio di deportati che aveva la diarrea.

Ricordo che una volta avevo davanti a me uno di quei bimbetti che erano poi gli amanti dei Kapò e girando gli presi nel tacco della scarpa e gli si sfilò la scarpa, si girò indietro e mi diede due sganassoni. Allora, io mi tirai indietro, perché se tu toccavi uno di quelli lì eri spacciato. Anche se arrivavano che litigavano, lì loro menavano tutti, lì per andare al gabinetto…, per dire com’erano le varie peripezie.

Un altro episodio all’interno dello stallen, del reparto di lavoro fu quando veniva l’allarme e toglievano la corrente dall’interno. Noi potevamo riposarci, stare lì, ma non potevamo muoverci dal banco e un giorno venne l’allarme, tolsero le luci, ci misero lì a riposare.

Era un bisogno estremo per noi sederci in terra. Dopo un’ora, un’ora e mezza venne la luce, cominciammo a lavorare, da lì arrivava il responsabile della SS del reparto perché in ogni reparto c’era una SS più il Kapò. Di civili c’era uno solo che era il capo reparto tecnico, bell’omone, moro.

Arrivò la SS da lì sotto, da me veniva fuori un rivolo di acqua e allora lui disse: “Chi ha fatto pipì?” Io no, lui no, nessuno, manda a prendere il Gummi, comincia a bastonare il primo rosso di qui, dopo otto, dieci botte, si alzò su e gli picchiarono nella testa, cadde in terra, lo massacrarono di calci la SS e il Kapò, poi portarono via quello lì massacrato e sotto l’altro che fece la stessa fine.

Delle volte, i ragazzi mi chiedono: “Quali sono stati i momenti in cui lei ha avuto paura?”

Io paura l’ho avuta sempre dal momento che mi hanno arrestato, sempre.

Lascio immaginare a voi, in questo momento che tu eri in attesa di quest’operazione. Anche questo rosso che non vedremo mai più.

Dopo andò sotto il triestino, gli cacciarono dieci colpi di Gummi e lo mandarono al posto a lavorare. Poi andai sotto io, sei colpi di Gummi, un calcio nel culo e a posto e cominciammo a lavorare e vi dirò che con soli sei colpi di Gummi, per quindici giorni non potevo sedermi, perché picchiavano forte.

C’erano i Kapò che picchiavano forte perché erano malvagi, perché lo sanno tutti, ma anche il più bonario doveva picchiare, altrimenti la SS diceva: “Te le do a te”.

E questo fu uno degli episodi più drammatici all’interno della galleria di Saint George.

D: Dado, scusa un attimo, queste gallerie dove erano allestite le officine, erano molto grandi?

R: Vi dirò, le gallerie di questa officina io non le conosco perché arrivavamo dentro dopo che ci avevano contati, arrivavamo dentro e ognuno si smistava per i suoi reparti. Gli stallen erano i vari reparti. Passando per andare là in fondo dove lavoravo, vedevo che qui a destra e a sinistra c’erano altre gallerie. Io non ho mai visto. Ho visto, due anni fa, a Gusen che c’è un plastico adesso. Sono rimasto strabiliato, non meravigliato, perché è una fabbrica di una grandezza immane, con tutti questi reparti, queste gallerie, era bucata quella montagna e d’altra parte il nostro treno era un treno bello lungo, che ci portava dentro, ci scaricava nel cortile. Voglio dire che c’erano molti deportati, quindi doveva essere grande, però il problema della deportazione si può anche dire poco perché quando tu vivevi nel campo non è che tu potevi andare a girare, curiosare, che c’era il pericolo dei Kapò e delle SS.

Quando eri in fabbrica ancora peggio, non potevi andare a girare perché lì c’erano i Kapò che sorvegliavano…

D: Dado, voi lavorate dentro nelle gallerie, nelle officine installate nelle gallerie per quante ore?

R: Dodici ore facevamo dalle sei del mattino alle sei di sera.

D: C’era umidità? Il clima com’era? Si respirava? Era caldo?

R: Dove ero io si stava abbastanza bene, perché era proprio di fronte all’entrata, era molto lungo ma comunque era arieggiato abbastanza bene, umidità non ce n’era. La vita era quella.

Una vola assistetti, non era del nostro reparto, ma di un altro reparto, un operaio veniva punito non so cosa aveva fatto e lo misero su un banchetto alto così e poi lo misero in piedi e gli diedero un altro banchetto e gli facevano fare le flessione.

Voi lo vedrete non nelle foto del museo di Mauthausen, ma nei disegni, quei disegni li hanno fatti dei deportati, altrimenti non si possono fare delle cose così espressive alla realtà e lo misero lì e una flessione, una, due, dopo tre o quattro flessioni cadde giù e lì venne massacrato come hanno fatto con quel rosso.

Dico queste cose non tanto per impressionare, ma per dare dimostrazione dell’ambiente com’era, il lavoro non era né difficile, né massacrante.

Però, il problema era questo: tu eri costretto a questo tipo di ambiente, quindi non era tanto la fatica, quanto invece la condizione di sopravvivenza Anzi, io dirò che penso che il motivo della mia sopravvivenza, come di altri, sia dato dal fatto che noi abbiamo lavorato in galleria ed eravamo coperti dalle intemperie, da tutte le fatiche, perché chi lavorava nelle cave, chi lavorava a fare le gallerie, quella era roba da schiavi.

E io penso che uno dei due o tre elementi fondamentali per cui siamo sopravvissuti è questo dell’avere lavorato in galleria, questo sia uno dei punti fondamentali. Perché dovere lavorare fuori, mezzo svestito, sotto l’acqua gelida, al ghiaccio è difficile sopravvivere.

E questo avviene fino a pochi giorni dalla Liberazione.

D: Dado chi era Carlo Manzi?

R: Carlo Manzi era un amico nostro, che era in carcere con noi. Era di Decima di Persiceto. Carlo Manzi…

E la sua fine è stata una fine brutta.

Anche se lui muore inconsapevole perché ormai era ridotto in coma, era sfinito, perché lì tu morivi di sfinimento.

Quando noi parliamo di musulmani, Manzi sarebbe stato un musulmano. Solo che ci sono dei musulmani che prima di arrivare al coma totale riescono anche a girare, però quando tu incontravi uno di questi, gli parlavi, come io parlo a te, ti guardavano con degli occhi così ma non capivano niente di quello che tu gli dicevi.

Manzi era ormai ridotto in quel modo e l’occasione in cui l’ho visto finire è stato quando, una sera, tornando dal lavoro, venne il Kapò come responsabile della SS, il Manzi non era venuto al lavoro perché ormai era…, l’avevano tirato giù perché dormiva al primo piano basso, hanno preso via un assetto da sotto, gliel’hanno messo sul collo e poi il Kapò gli ha messo il piede sopra intanto che loro due parlavano, intanto che lui era spirato.

Poi lo portarono via e non lo vedemmo più.

Carlo Manzi…, ho avuto un problema, quando sono tornato a casa, le sue sorelle sono venute a trovarmi in ospedale, però si sono raccomandate che non andassi a casa sua perché la mamma soffriva di cuore. Io ho detto che era morto, ma non ho detto così perché non aveva importanza dire queste cose. Può avere importanza a livello testimoniale per dare esempio, ma sul piano sentimentale non serve a niente.

D: Dado, tu con altri, avete mai pensato alla fuga?

R: Sì, questa è una cosa…

Direi che è quasi ridicolo pensare nell’ambiente in cui vivevamo…

Avanti un pezzo, in fabbrica, Stanghellini che era un anziano che là c’è morto suo figlio, lui ha assistito alla morte di suo figlio, Stanghellini Adelio che verrà a casa, anzi sarà quello che mi porta a casa, era stato nel blocco di eliminazione, al Riviere perché suo figlio era andato all’infermeria, all’ospedale e dopo un pezzo non arrivava più in baracca e allora si sapeva che dopo due o tre giorni che erano all’infermeria, o tornavano al lavoro o venivano inviati al Riviere. Allora Stanghellini che parlava un bel po’ il tedesco perché nel 1939, lui era immigrato a lavorare in Germania, 1938 – 1939, poi venne a casa, quindi lui parlava un po’ il tedesco.

Una volta si avvicinò al capo tecnico, il civile e gli disse: “Guarda che noi siamo italiani, ecc. siamo qui…, non siamo dei delinquenti”, lui stava lì e disse: “Guarda, noi abbiamo due persone che hanno un mucchio di oro”. Glielo raccontavano, abbiamo due amici milanesi che sono pieni di oro, insomma siamo una squadretta di sette, otto.

“Se tu ci porti fuori a lavorare alle macerie, dietro alla ferrovie… “Allora lui disse: “Ma…”, non si scandalizzò.

Il fatto che non si impaurì.., però lasciò una porta aperta nel senso che non si arrabbiò ed affrontò il discorso.

Una settimana dopo ritornò alla carica dicendo: “Allora, cosa dici?”

“Noi abbiamo quest’oro e te lo diamo tutto”.

Gli disse intanto che non poteva perché non aveva queste funzioni di portare fuori la gente, ma disse: “Anzi, se potessimo fare una cosa del genere, io vorrei venire con voi”. E così il discorso rimase lì.

E passò il tempo, la cosa non andava.

Finalmente lui disse, una volta: “Tu decidi, altrimenti noi tentiamo una fuga disperata”.

Avevamo preparato già un paio di cesoie che avevamo fasciato con degli stracci perché c’era un gabinetto che era fuori dal campo, si andava sopra alla collinetta, c’era anche la collinetta, tanto morire dovevi, eravamo già all’estremo. Non saremmo fuggiti, perché non ce la facevamo neanche a correre, però la disperazione ti fa fare di tutto.

Allora lui ci disse: “Non fate delle sciocchezze, delle stupidaggini perché fra cinque, sei giorni ci sarà la Liberazione”. E la Liberazione avvenne davvero.

E’ stato onesto.

Stanghellini che poi mi porterà a casa ha assistito all’uccisione di suo figlio in questo modo, quando era anche lui al Riviere una sera, vanno dentro due Kapò, chiamano Atos, suo figlio e lo portano fuori.

Com’era fuori dalla porticina, gli cacciarono una legnata nel collo e li ammazzavano così e li portavano nel piazzale là fuori, che quando noi prendevamo il treno, ogni mattina, vedevamo delle centinaia là fuori.

Atos venne portato fuori verso la mattina, però di nascosto ritornò in baracca. Aveva il collo che era più grosso della testa. Era impossibile che potesse sopravvivere. Però arrivò e tornò a letto alla sera. Ripercorsero la stessa cosa, andarono a riprenderlo e così lo uccideranno.

Il padre uscirà dal Riviere perché in quei giorni doveva venire la visita della Croce Rossa Internazionale, che noi non sappiamo, io non ho mai visto niente, noi eravamo gli ultimi e allora per effetto di questa eventuale visita, vuotarono il blocco di eliminazione in Riviere, lo vuotarono e lui tornò in baracca.

Arrivai una sera io da casa da lavorare perché lui dormiva con me, e c’era un altro nel mio piano, andai lì, gli diedi una… , come vedeva che lo scuotevo, mi guardava, quasi cadavere dicendo: “Corazzino…”, era disfatto…, non l’avevo conosciuto. Era a letto che tremava, aveva un paio di mutandine corte e una camiciola e basta.

Io mi ero organizzato un paio di mutande felpate e gli diedi queste mutande, poi andai a letto …, insomma nel giro di due o tre giorni si riprese. Lui si riprendeva e invece io calavo sempre…

D: Scusa, un attimo, Dado, queste punizioni che tu accennavi, tipo Atos e tipo gli altri che andavano a prenderli, che venivano puniti. Le ragioni quali erano?

R: Nel Riviere non erano punizioni, erano uccisioni. Venivano eliminati, invece di dare un colpo alla nuca, gli davano una legnata, così non facevano sangue, così non si sentivano i rumori. Così risolvevano le loro cose.

Questa è la conoscenza che ho del Riviere, perché quando Stanghellini tornerà, lui mi racconterà questa cosa e un bel po’ della mia sopravvivenza è anche dato da questo perché lui mi prenderà come sostituto di Atos, guai se qualcuno mi avesse fatto un dispetto, altrimenti imbestialiva.

E mi ha praticamente portato a casa, perché io non riuscivo a girare tanto e dove mi trovavo, dopo due minuti già dormivo e dovevano prendermi e andare.

D: La Liberazione. Tu dov’eri al momento della Liberazione?

R: Dalla Liberazione a venire avanti c’è un po’ di storia tragicomica.

Io ero a Gusen 2, alla baracca dove mi misero all’arrivo ed erano già due giorni che non andavamo a lavorare e si sentiva dire da Radio Scarpa che era morto il Furher. Ma il fatto che non lavoravamo, non ci davano neanche da mangiare.

Così, ad un certo momento, dopo due giorni ci accorgemmo, una mattina, che fuori dai reticolati c’era lo steccato dei reticolati, al di fuori due o tre metri, c’era lo steccato di legno fitto, che non si vedeva. Noi sentimmo i contadini che passavano con il carico, ma non li vedevamo perché era molto alto e il campo rimaneva in basso. E’ ancora così adesso.

Vedemmo che da là sopra c’è una torretta con un autoblindo con una stella bianca, noi dicevamo: è la stella russa, invece quella era rossa, quella era bianca e incominciò a sparare verso la campagna, fuori dal campo. Allora lì si aprì il cancello, proprio nella vicinanza, a metà c’era un cancello nel reticolato, venne aperto perché corrente non c’era più e abbattuto l’altro steccato di legno, io andai fuori e c’erano tutti i soldati della SS in fila per tre o quattro e c’era un carro davanti con il cavallo e tutti gli zaini sopra e la camionetta sparava fuori dove c’erano i camminamenti antiaerei che ci hanno portato una volta o due, perché questi non fuggissero.

Come sono arrivati fuori i deportati, hanno cominciato a togliere gli assi dello steccato. Li hanno massacrati tutti, io ho assistito a quella scena, ho assistito a quella scena un attimo e poi sono venuto via, perché andavo a cercare da mangiare.

D: Questo ti ricordi quando è avvenuta la Liberazione?

R: Il 5 di maggio.

Intanto che venni giù da questa scena, lì a fianco c’erano due deportati che litigavano per una scatoletta aperta, che uno tirava di qui e uno di lì e si tagliavano le dita, ma nessuno la lasciava andare.

Andai in cucina e dentro la cucina c’erano i deportati, uno, due, con i piedi dentro alle marmitte si tiravano su quella brodaglia che era rimasta sotto, in fondo e andai avanti nella sussistenza nel magazzino. C’era uno scompiglio di gente che faceva paura, si tiravano addosso le scansie. C’erano delle scansie, con dei pani di verdura secca, dei cubi rettangolari grandi così di verze secche, pressate.

Andare là dentro era un pericolo.

Mi avvicino lì, stavano vuotando un sacco di zucchero in dieci o dodici.

Sopra a questo sacco, uno o due ci hanno lasciato le penne senz’altro.

Io ho fatto un tentativo o due, e ho preso un pugno… però sono tornato indietro e me lo sono mangiato. Poi mi sono messo fuori da questo posto e aspettavo che venissero quei cubi, mi mettevo lì, e come ne arrivava uno, gli davo una manata e gliene portavo via un pezzo e me la mangiavo, che era poi quella che loro cuocevano nelle brodaglie.

Infine uscimmo, ci trovammo in sei o sette perché ci fecero uscire per andare a Gusen 1.

Noi arrivammo a Gusen 1, e c’ero io, Gasiani, Franchini, questi di Anzola, ci trovammo in sei o sette e cosa abbiamo fatto? Invece di andare dentro al campo, girammo intorno alla camionetta e poi fuggimmo, andammo via di nascosto. Noi da Gusen a Linz l’abbiamo fatto a piedi. Partito da lì, a me scoppia una diarrea che ogni duecento metri dovevo fermarmi.

Comunque andammo. Cercavamo da mangiare, dovunque ma non si trovava un granché perché la gente si nascondeva. Allora visto che arrivavamo vicino alla sera, ci siamo messi a raccogliere vicino al Danubio, abbiamo trovato un bidone di lumache, poi andammo avanti e a un certo punto cominciammo a sentire dei colpi di fucile, e ci nascondemmo dietro a un argine, ci alzammo, guardammo e di là c’era una casa di contadini. Vedemmo che dei soldati italiani venivano fuori dalla stalla, uno aveva una gallina sotto il braccio, il secchio con il latte.

Allora anche noi dentro a questa casa, eravamo in cento lì dentro, c’era la gente dentro il pollaio, il maiale che urlava, Stanghellini andò dentro il pollaio e riuscì a beccare una gallina.

Io arrivai al piano sopra e come arrivai sopra, c’erano due donne che piangevano, erano disperate. Ho dato una guardata così e poi ho cominciato ad aprire i cassetti dei comò e degli armadi. C’erano dei cassetti dove c’erano anche dei soldi, dei marchi.

Non ce ne fregava dei soldi. Finalmente arrivai in uno sgabuzzino grande così, alto così con dei cassetti, aprii un cassetto e c’era della roba color nocciola, color cammello e pensai: questa è farina. Allora ho cavato il cassetto… però avevo già trovato prima, in un altro cassetto, dei vasetti con della carne, sotto grasso.

E allora me ne ero messo dentro alla giubba e presi questa cassetta di farina e mi avviai giù. Intanto, mentre andavo giù mi assalirono.

Della farina mi è rimasto solo quello che c’era negli angoli, un po’ era rimasta. I bussolotti me li tolsero tutti, me ne era rimasto uno solo. E così andammo.

Appena fatta questa razzia ci avviammo. Dopo un pezzo attraversammo il Danubio sopra un vecchio ponte ferroviario, attivo, c’erano i bombardamenti in corso, ma quello funzionava.

Siamo passati di là, subito di là, voi avete presente dove ci sono le grandi fabbriche siderurgiche lì dentro, andammo dentro una baracchetta lì, da una parte c’erano i fabbri e dall’altra c’erano i falegnami.

Di là c’erano già due o tre russi, in quella dei falegnami, di qua in quella dei fabbri andammo noi.

Poi cominciammo a parlare, loro erano là che provavano a cuocersi qualcosa.

Allora loro ci hanno dato un po’ di pastina, di robina e noi abbiamo dato loro un po’ di farina. Con la gallina abbiamo fatto il brodo e con il grasso del vaso abbiamo fritto le lumache, quando le bollivamo facevano…, hai mai visto cuocere le lumache? Sono buone, allora erano buonissime. Io le mangio ancora adesso.

Comunque, quelle prese e mangiate avevano un saporaccio.

Abbiamo mangiato un bel po’. Quando erano le dieci, le undici della notte abbiamo cominciato a stare male, sembrava di crepare e io capisco quelli che sono morti il giorno della Liberazione, erano centinaia.

Sembrava che lo stomaco si aprisse come una camicia, con dei dolori spaventosi.

Finalmente siamo riusciti a rimettere e ce la siamo cavata e abbiamo passato la notte. Il giorno dopo siamo andati in città e abbiamo trovato rifugio in una casa abbandonata, lì andavamo a frugare dappertutto, rubacchiavamo dove arrivavamo e trovammo una cantina, in una casa bombardata, andammo giù dalle scale, e c’erano delle reti, dei materassi, si vede che ci vivevano i cittadini prima del bombardamenti e ci siamo collocati là.

Poi andavamo fuori tre o quattro alla volta, a fare delle operazioni nelle cantine e rubacchiavamo dove trovavamo.

Una cosa bella, mi ricordo un giorno che giravamo sul marciapiede a Linz, incontrammo due vecchiettini di settanta, ottanta anni, ci parlavano in tedesco e non capivamo cosa dicessero perché non c’era Stanghellini con me, insomma abbiamo capito che ci dicevano: “Eravate prigionieri”. Insomma ci chiamarono dentro una porta, ci portarono in casa e ci misero a tavola. Ci hanno dato un pezzo di pane e un tegame con una specie di ragù dentro. Abbiamo mangiato, li abbiamo ringraziati e siamo venuti via.

Voglio dire che ce ne sono stati di atti di solidarietà e così iniziò la nostra peripezia del ritorno.

Staremo due o tre giorni a Linz, abbandonammo Gasiani perché una mattina eravamo lì, in giro alla ricerca sempre di mangiare, appoggiati contro una muraglia. Ad un certo momento Gasiani cominciò a cambiare colore: verde, giallo, stava male, poi cominciò ad avere una diarrea spaventosa, finalmente passò un soldato americano e abbiamo detto: “Lui male…” Lo prese e disse: “Vieni con me, anche voi venite con me”.

Allora ci avviammo dentro, avanti un pezzo, lui andò avanti e noi scappammo, eravamo lì in giro. Anzi, non scappiamo lì, lui venne con noi. Lo portammo nella cantina, volevamo offrirgli da bere perché avevamo rubacchiato in una cantina delle bottiglie di quel vino fatto di mele. Volevamo offrirgli da bere, quando ha visto… mi era parso che avesse un po’ paura.

Disse: “Andiamo all’ospedale, venite anche voi”.

E noi abbiamo detto: “Arriviamo”. Noi abbiamo preso la nostra roba e siamo andati.

Uscimmo da Linz e dopo un pezzo sulla strada per venire a casa, ci arrivò dietro un cavallo a galoppo e dopo un pezzo si fermò giù in un campo di fieno e allora ho detto: “Tenete che prendiamo il cavallo”.

Ho dato i fagotti che avevo io agli altri e mi sono avviato.

Io avevo abbastanza confidenza con i cavalli perché mio papà era stato anche birocciaio, avevamo tre cavalli noi. Mi avvicinai a lui…

D: Ti avvicini al cavallo…

R: Mi avvicinai al cavallo, lo presi per l’orecchio e poi con la corda che avevo di traverso gliela misi al collo e pian piano lo portai sulla strada.

Come arrivai sulla strada…, e di là urlavano, c’era il contadino che arrivava che veniva a cercare il cavallo, così io gli ho dato due colpi nelle costole e lui ha mollato.

Allora, finché ho potuto tenerci dietro, ci tenevo dietro, dopo rimanevo attaccato, mi dava delle ginocchiate intanto che andava.

Andavo finché potevo andare, avrò fatto più o meno mezzo chilometro, poi sono andato fuori strada, c’era una casona e andai a nascondermi là con il cavallo.

Dopo un pezzo sono arrivati questi miei amici e ho detto: “Allora com’è andata?… quando ha visto che scappavi, lui è tornato indietro”.

Allora lì ci siamo fermati un po’ a riposare e ci siamo avviati. Intanto mettemmo tutti i nostri fagotti sulla schiena del cavallo e poi gira, gira, dovremmo trovare pure una roccia per poter starci sopra, metterci qualcosa.

Dopo un paio di giorni che girammo così, andammo fuori strada e lì c’era una casa, ci girammo intorno, andammo di dietro e c’erano due fiacre, sai i fiacre cosa sono? Le carrozzelle della stazione di Roma, ce n’era uno grande, si vede che era da cerimonia, e uno normale.

Allora noi andammo lì, c’erano delle donne abbastanza giovani, trenta, trentacinquenni. Ci tiriamo fuori il biroccio e non trovavamo i finimenti, perché loro non avevano neanche i cavalli, altrimenti prendevamo uno dei loro e incominciamo con dei fili, degli stracci, dei sacchi a fare i finimenti, la briglia con degli stracci di sacco, il collare e le tirelle.

Insomma riusciamo a farla.

Tieni conto che quel fiacre aveva una stanga solo in mezzo, non è che come i birocci nostri.

Quando stiamo per partire, arrivò una jeep della Militar …, ci fece togliere tutto e così noi ci sdraiammo in terra, piangevamo lì come dei disperati. Finalmente uno di quelli lì che parlava un po’ d’italiano, un mezzo italiano, o i genitori erano italiani, convinse gli altri a raccogliere tutti i soldi che avevano per darli a queste donne.

Così li diedero a queste donne, ma non li vollero, loro non vollero dare…, allora si consultano e dissero: “Attaccate…” però noi non ci siamo visti.

Attaccammo questo cavallo, tutti sopra, ma quando stavamo per partire, incominciò ad alzarsi con le zampe davanti, non tirava, era un cavallo da sella, non era un cavallo da tiro. Allora fummo costretti a fare scendere giù uno e andare avanti, tenerlo per la briglia, andammo in strada e ci avviammo.

Per tutti i giorni facemmo così con uno davanti.

Una volta arrivammo in una salita, sopra, e ci toccò saltare giù perché non riusciva a tirarci sopra.

Comunque saltammo giù e arrivammo sopra su una discesa lunga.

Montammo tutti e Stanghellini guidava e io ero al freno, solo che era un freno che non frenava dolcemente, quando attaccava bloccava.

Allora ci avviammo, questo cavallo pian piano si avvia sempre un po’ più forte, arrivava un momento che lui non teneva più e allora disse: “Corazza, frena!” e io: “Se freno, si rompe la stanga”.

A un certo momento, il cavallo girò la strada, saltò il fosso e noi con le routine davanti rimanemmo impantanati dentro al fosso.

Uno di quelli che era a sedere là sopra, saltò contro il cavallo, Franceschini piangeva e sembrava si fosse rotto la spalla. Invece era solo la botta.

Ma guarda qui cosa facciamo? Cosa facciamo? Tiriamo su tutto, prendiamo il carro, andiamo dentro, tiriamo su il cavallo e andiamo dentro perché la stanga si era spaccata.

Andammo dentro da un contadino, prendemmo un palo, e cominciammo a legare questa stanga e ci avviammo.

Però il giorno dopo arrivammo in una salita, sopra c’era un valico, un passo, gli americani erano là e fermavano tutti i prigionieri perché volevano raccoglierli.

Poi per la strada tutti dicevano: “State attenti che ci sono le SS nascoste nei boschi che sparano sulla strada”. Allora, visto che non potevamo passare, andammo da un contadino a dire: “Ti diamo il cavallo e il biroccio, se tu ci dai del pane”.

“Ma non ho del pane”.

Insomma ci diede una tessera per dieci chili di pane, c’era la tessera come da noi e poi ci diede dei marchi, ma cosa ce ne facevamo?

Comunque prendemmo questa roba.

Cavalcammo fuori dalla strada, cavalcammo la montagna e andammo giù dall’altra parte, quando arrivammo di là c’era un campo di concentramento di militari italiani e andammo là dentro.

Allora dissero: com’è, come non è…. Quando si arrivò, c’era confusione… E dissi: “Noi abbiamo un papiro che si può viaggiare, solo che non abbiamo il mezzo che è rimasto di là”.

Saltarono fuori due di Ravenna dicendo: noi abbiamo i cavalli, il biroccio. Avevano il biroccio carico di sacchi di zucchero. E noi abbiamo il papiro.

Ci mettemmo d’accordo, loro vennero con noi, là rimasero due o tre dei nostri, credo Castellani e due di Imola. Li lasciammo lì al campo perché non ce la facevano più, ma il papiro era già scaduto perché aveva solo sei o sette giorni di validità e ci avviammo. Noi, con quel biroccio arrivammo al Brennero.

Al Brennero gli americani ci fermarono e ci tolsero tutto: cavalli, biroccio. Ci arrestarono. Non avevamo documenti, niente.

Ci hanno preso, ci hanno riportato al campo di raccolta di Innsbruck, e ci restammo cinque o sei giorni e lì ci siamo caricati di cimici, quelle erano grandi come le mosche.

Stemmo lì sei giorni ed infine un’auto colonna ci portò all’ospedale di Bolzano, di lì noi fuggimmo, venimmo via io e Stanghellini, ci portarono a Verona, con i due di Ravenna, con dei mezzi di fortuna a Ravenna.

Quando calammo dal camion a Verona ci portarono dentro una caserma, i due di Ravenna andarono dentro e io e Stanghellini fuggimmo e venimmo via. Trovammo un carbonaio, chiedemmo se ci portava verso Bologna, ma lui rispose: “Io vado a Isola della Scala”. Era già qualcosa.

Stanghellini andò dentro e io sopra, in mezzo al carbone a dormire e arrivammo a Isola della Scala.

Lì ci ospitarono le suore.

Ci dissero: “Volete da mangiare?” E ci ospitarono le suore.

Andammo là, e ci diedero da mangiare un bel po’ di pane, della minestra, ci hanno dato da mangiare.

Tornammo lì nel parco che c’è ad Isola della Scala, c’era un’autocolonna americana che stava venendo a Modena, andammo lì ad informarci, allora dicemmo: “Se ci prendono su questi qui, andiamo bene…” Cominciammo a pregare l’uno, l’altro, ma non ci volevano…

Finalmente Stanghellini trovò uno che lo caricò, e allora dissero: “Come facciamo?”

Allora Stanghellini e l’autista di Stanghellini l’hanno pregato dicendo: “Vai a dire a lui, che carichi lui quello di dietro…”, era un negro. E venne lì…, mi caricarono. Era uno di quei Chevrolet, e la cisterna era vuota. Montammo su, lui che andava, ogni tanto con la bottiglia del cognac, o non so che cosa, sentivo che puzzava e che beveva, con i piedi sul cruscotto, il camion faceva così, perché dietro quando è vuoto, se vai forte sbanda.

E pensavo: “Questo qui mi vuole ammazzare prima di arrivare a casa, che sono già qui”, pieno di paura anche lì.

Con tutte quelle strade con i canali di bonifiche di qua e di là faceva paura.

Arrivammo a Modena, come arrivati, appena mi scaricò saltai una siepe, andai di là e ne feci tanta, tutta quella che avevo.

Poi andammo via, e li ringraziammo.

Fuori di Modena, andammo dentro da un contadino, dicevamo qualcosa, ma nessuno diceva niente, allora andammo nella stalla, era aperta, ci mettemmo a dormire nel fienile, dove raccolgono il fieno, ci mettemmo a dormire, alla mattina, appena giorno, e sentimmo gridare, era il contadino che veniva a governare le bestie e ci trovò là, e gli spiegammo che eravamo prigionieri, che eravamo arrivati…

D: Come eravate vestiti voi?

R: Io ero vestito con della robaccia che avevo procurato nella fabbrica. E’ stata la prima cosa che ho fatto quando arrivammo all’officina, andammo su negli uffici a vedere, curiosare e trovai dei vestiti, mi cavai tutto quello che avevo io e mi misi della roba. Tu pensa, mio papà era un omone, era grande a mio padre e quando la metteva a casa, mi toccava tirargliela su delle volte.

Allora lui ci disse: “Noi non abbiamo da darvi da mangiare, fate una cosa: andate di là da quella strada, c’è quel contadino, vedrete che lui vi darà qualcosa”.

Andammo da quel contadino e gli dicemmo: “Guardate, siamo di ritorno dalla prigionia”. E così ci misero a tavola una bella caraffa di latte con del pane bianco, una zuppa… che abbiamo fatto una mangiata!

Abbiamo mangiato e siamo tornati lì. Lì abbiamo trovato un altro negro di quelli dalle scope sul camion, gli abbiamo detto che noi volevamo andare a Bologna, ci ha preso nel cassone e ci ha portati fino a Santa Viola, e lì ci ha scaricati, lì vicino al mulino, dopo a piedi, io e Stanghellini a braccetto, tutti stracciati, come degli zingari, avevamo il fagottino con i resti, gli avanzi di pane.

Quando ci avvicinammo a casa mia, vidi là davanti mia madre che venne fuori dal cortile dove abitava mia sorella e dissi: “C’è mia mamma con il mio fratellino”. E mi dissero: “Tu ti avvicini a casa e cominci a vedere tua mamma”. Ma come no?

Arrivammo come da lì a te, e dissi: “Mamma, non mi riconosci più?”

Allora cominciò ad urlare, venne tutta la gente.

Andammo in casa, mi spogliano di tutto ecc., cacciano la roba in un cantone, che attaccherò la scabbia a tutta la famiglia. Poi mangiammo e mi portarono al centro di raccolta dei reduci, andai all’infermeria di questo centro di raccolta e quando fui dentro che mi spogliai, la dottoressa mi cacciò fuori perché disse: “Tu mi vieni ad impestare tutto il gabinetto medico”.

Mi mise fuori, mi diede del cotone, dell’olio che bruciava, e disse: “Non posso tenerti.”

Allora mio padre cosa fece? Mi prese, saltammo in tram e andammo all’ospedale Sant’Orsola, ma anche là non mi volevano. Solo che da là non venivamo via.

Andò a parlare con le suore, intanto io dopo due minuti che ero là mi addormentavo, non disturbavo nessuno.

Finalmente lì mi tennero, ci misero in una camera in mezzo, in un letto provvisorio e così dopo aver fatto quarantadue giorni di ospedale, poi tornerò a casa.

Gasiani Armando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Gasiani Armando, nato a Castel di Serravalle provincia di Bologna il 23.1.1927. Eravamo una famiglia di contadini, dopo dieci anni abbiamo traslocato, da Castel di Serravalle siamo venuti ad Anzola Emilia e siamo rimasti fino a dopo che sono arrivato Bologna, però il rastrellamento è avvenuto in questa zona. Prima del rastrellamento io e mio fratello, senza che i miei genitori sapessero, eravamo collaboratori della Resistenza, nella nostra campagna c’era una base partigiana. Ad un certo momento la Resistenza ha avuto un periodo molto grave, ha avuto un po’ di relax e ci hanno consigliati di andare a lavorare perché noi eravamo già una famiglia molto grossa, avevamo altri fratelli, eravamo in ventidue in famiglia, una famiglia molto grande, allora hanno consigliato a noi due di andare perché ci dicevano: “Voi da là potete ancora continuare la vostra attività, dicendo magari qualcosa che a noi può interessare”.

Durante questo è venuto proprio il giorno del rastrellamento del 5 dicembre del 1994. Questo rastrellamento io direi che è stato un rastrellamento politico guidato, pilotato da una spia, questa spia era un partigiano, è andato in mezzo alle SS e lui l’ha pilotato, praticamente lui sapeva tutta Anzola com’era messa, tutte le famiglie, le basi partigiane. Chi erano i partigiani e lui piano piano questo rastrellamento l’ha guidato, l’ha pilotato e l’ha accompagnato per tre, quattro giorni, chi non era dentro il rastrellamento è andato a prenderlo a casa. Noi eravamo tra quelli che hanno preso, perché il mattino si andava a lavorare. Sono arrivati all’improvviso.

Noi si sentiva qualcosa di diverso, sentivamo qualche abbaio di cani, ma era una mattina un po’ nebbiosa, un po’ piovosa, non era una bella mattina, però a quel momento devo dire siamo arrivati… siccome con questo documento che ci avevano dato in mano, secondo loro noi potevamo girare tutta l’Italia che eravamo in regola con questo documento firmato da Kesserling, noi forse non abbiamo badato a questo rastrellamento. Può darsi che fossimo anche fuggiti, però eravamo già messi in maniera che ormai di fuggire non era più tempo. Ci hanno presi su e ci hanno portati ad Anzola Emilia, dentro nelle scuole. Dentro nelle scuole hanno fatto questa retata di cittadini giovani, non più giovani, partigiani, non partigiani e li hanno portati in questa scuola che eravamo circa duecento. Alla sera verso le nove in questa scuola c’era una lampadina.

C’erano due tedeschi di dietro, c’era questa spia che ci mandava destra o a sinistra in modo che da una parte andavano a casa e dall’altra parte li tenevano. In quel momento noi siamo rimasti lì in sessantasette di Anzola e dopo un’oretta ci hanno caricati su due o tre camion, non ricordo, siamo partiti verso Bologna e siamo andati in Villa Chiara che lì c’era il comando della Gestapo e dopo tre o quattro giorni, hanno cominciato a fare questo processo. É per quello che dico, questo rastrellamento diventa politico per me perché era pilotato. Io, per esempio, sono stato preso un’altra volta prima del 10 settembre, però quello non era un rastrellamento, sono andato a finire a casa di un contadino e da lì sono riuscito a scappare. La differenza da quello a questo per me, infatti lo dice anche nelle condanne che loro hanno…

D: Scusa, lì in Villa Chiara vi hanno interrogato e processato?

R: Sì. Abbiamo avuto tutte le nostre condanne. Più o meno, loro hanno dato le condanne, però non si sapeva che condanne, perché abbiamo avuto anche delle persecuzioni, hanno dato dei calci. Hanno usato anche della violenza contro di noi, volevano sapere chi era qui, delle basi partigiane e tutte queste cose, ma in quel momento nessuno ha fiatato, magari cercava di tenere possibilmente il suo riserbo per non fare danno alle famiglie che erano rimaste fuori da questo rastrellamento.

D: Durante il rastrellamento hanno preso solo uomini o anche donne?

R: Anche donne. Quelle che avevano preso lì sono andate a prenderle a casa. Allora volevo tornare su Villa Chiara. Lì abbiamo avuto veramente il processo. Eravamo mica solo noi, eravamo più di duecento dentro, perché è molto grande. Questo processo è durato sette o otto giorni. C’era uno, interrogava però di dietro c’erano i picchiatori che magari pensavano loro di darci… magari per poter avere più informazioni di queste basi partigiane che ad Anzola c’erano state. Nonostante che avevano questa spia, però non erano convinti abbastanza e volevano anche sapere da noi magari quali erano le informazioni anche più sicure perché noi eravamo in zona, abitavamo lì. Dopo sette o otto giorni, finito questo processo verso l’11, 12 di dicembre, siamo partiti. Siamo andati in San Giovanni in Monte. Hanno portati tutti dentro a San Giovanni in Monte con dei catenacci avanti e indietro. Però si vedeva un po’ tutti, anche gli altri ragazzi, a un bel momento sono spariti una gran parte di questi ragazzi che erano stati processati con noi. Il 13 o il 14, non si sa la data precisa, sono partiti, sono quelli che hanno fucilato ….

La loro condanna è stata quella. Invece la nostra condanna era di venire, abbiamo capito poi dopo perché non è che a quel momento si sapesse dove si andava a finire, perché eravamo in mano sua, però nel momento che noi abbiamo avuto questa spia abbiamo dubitato qualcosa anche di grave, infatti, la condanna nostra era quella di venire in Germania. Però sempre questo viaggio ignoto, da Bologna noi siamo partiti il 23 dicembre e siamo andati a Verona, Verona, Bolzano.

D: Siete partiti con cosa?

R: Tre camion. Eravamo novantuno uomini e nove donne, cento persone.

D: Tutte di Bologna più o meno?

R: Sì, Bologna o provincia.

D: Quindi Vi siete fermati a Verona…

R: A Verona perché era giorno, viaggiavano di notte, loro viaggiavano solo di notte. Comunque tanti hanno avuto la fortuna che qualche partigiano, magari i partigiani li andavano a liberare, invece noi non abbiamo avuto nessuna… niente di questo. Siamo arrivati a Bolzano il 24, il 25 e lì siamo arrivati in questi campi. Però in quel momento non ci trovavamo in un campo di concentramento personalmente perché si vedevano i civili, si vedeva il comportamento non violento, si vedeva che chi aveva dei soldi magari poteva anche andare a comprare qualcosa. Con i civili qualcosa si poteva anche avere, però noi non avevamo nemmeno la valigia perché noi eravamo rimasti, ci avevano presi andando a lavorare, eravamo solo coi vestiti e questo continua, 7, 8, 10 giorni però non si sapeva da che parte…

D: Scusa Armando, quando siete entrati nel campo di Bolzano vi hanno dato un numero?

R: Per me agli uomini no, alle donne sì. Perché secondo l’altro, lui dice: “A me lo hanno dato”, allora ieri ci guardavamo e invece non c’è il numero degli uomini, l’hanno dato solo alle donne, si vede che loro avevano già un programma che loro rimanevano, invece noi dovevamo andar via da lì. Infatti siamo partiti dopo il 6 gennaio. Non so quanti eravamo, cinquecento o settecento non so di preciso quanti eravamo, ci hanno presi tutti e ci hanno portato alla stazione. Lì c’era un carro merci pronto per caricare il vagone. Avevo un fratello con me, come Le ho detto anche prima, io e mio fratello eravamo sempre assieme e allora in quel momento ci hanno messi su questi vagoni, sessanta ogni carro. Poco mangiare, niente da bere, poco di niente. Io in quel momento ho preso anche la febbre, non sono stato bene, forse era la commozione, non so come, debbo dire, perché allora avevo diciassette anni, non è che poi fossi tanto anziano, allora pensavo ai miei genitori o forse non sono stato bene durante due o tre giorni, però con mio fratello ci siamo rinfrancati. Lui aveva già un’esperienza di guerra, aveva fatto il soldato. Era già andato al fronte, aveva già un’esperienza e lui aveva sempre detto, è per quello che abbiamo aderito alla Resistenza, perché diceva: “Io alla guerra non ci voglio più andare. Se difendo, difendo i miei interessi, non quelli degli altri, la libertà mia, non quella degli altri”. Questo l’ha sempre detto ed è per quello che noi abbiamo fatto forse un atto contro i nostri genitori, diverso da quello che loro pensavano, invece noi pensavamo poi alla libertà di tutti.

Su questo mio fratello mi è sempre stato vicino e siamo partiti, durante il viaggio c’era con noi, mi ricordo che si chiamava… adesso non mi viene il nome, comunque diceva che se andiamo a Mauthausen a casa non ci andiamo più nessuno. Diceva cosa, Costa, mi è venuto, e diceva questo. Noi si domandava: “Cosa sai te di queste cose?” E invece lui diceva sempre: “Se andiamo a Mauthausen…” senza dire dove l’aveva imparato o no. E arriviamo proprio alla stazione di Mauthausen, eravamo in vagone assieme, perché nel vagone ce n’era più di uno. Dice: “Se non viene la Liberazione, noi qui in Italia… e non sapranno nemmeno da che parte saremo”. Io mi sono messo a piangere. E poi dopo siamo saltati giù.

L’aspetto del paese di Mauthausen. C’era la gente, quando hanno visto noi, scappavano tutti via. Ho detto a mio fratello: “Guarda che aspetto noi diamo a questa gente, cosa siamo noi nei loro confronti. Cosa vuol dire questo fuggi, fuggi, guardavano qualcosa, cosa siamo nei loro confronti! O siamo delinquenti o qualcosa del genere”. Infatti loro ci hanno sempre considerati nella politica del razzismo che noi eravamo avversari, non abbiamo aderito alle truppe alleate quando sono venute là, che prima eravamo alleati, però noi siamo stati degli avversari anche politicamente. Ma allora non è che si sapesse cos’era il comunismo o il socialismo, più che altro abbiamo avuto tante riunioni che venivano… però parlavano sempre di questa libertà perché la Resistenza non è stata fondata solo dai comunisti e dai socialisti, c’era tutto il popolo, era il corpo di Liberazione che era tutto il popolo che diceva cosa si doveva fare per essere liberati da questo. Questo è un esempio dell’impatto quando siamo arrivati in questo paese.

Pian piano andiamo su per la mulattiera, tutti pieni di fango, era il 12 o il 13 gennaio con un freddo, poi eravamo vestiti senza paltò, senza niente. Allora mio fratello mi diceva: “Vedrai…”, anzi direi che molti di noi lo pensavamo, perché quando presero l’8 Settembre i militari, li portavano in Germania, però si sapeva che andavano a lavorare. Invece anche loro hanno fatto… comunque noi si sperava di andare ad un lavoro. Allora andiamo su con queste SS con i cani, che se si sbagliava… eravamo già stanchi, perché quattro o cinque giorni con poco da mangiare avanti e indietro, però l’esperienza mi dà anche questo, che loro, secondo me, facevano questa cosa perché, saltando giù dal treno, eravamo deboli, non c’era una reazione di una fuga, di qualcosa perché eravamo tutti deboli, in maniera che nessuno aveva il coraggio magari di fare una … le hanno studiate tutte queste cose per riuscire bene nel loro programma, andiamo e arriviamo. Quando si apre il portone, ecco, io e mio fratello ci siamo abbracciati e abbiamo detto: “Ma qui è la fine del mondo”.

Vedere questo spettacolo, tutti questi prigionieri, tutti così magri, poi c’era qualche morto qua e là. Chi chiamava aiuto. Mi ricordo che sotto a Mauthausen c’è un muro dove ci sono delle catene e c’erano due o tre che chiamavano aiuto, legati alle catene. Aveva ragione Costa quando diceva: “Se andiamo lì forse non riusciremo più nemmeno a ritornare” e ci siamo abbracciati tutti e due e poi ci hanno messi in fila e pian piano abbiamo fatto tutto il giro. Il primo ti toglieva i vestiti, il secondo ti depilava e poi al terzo stadio ti segnavano un numero e poi ti facevano una fotografia a mezzo busto.

Questi erano i tre stadi, il quarto è quello di andare a fare la doccia. Là tutti assieme e poi si veniva fuori con due zoccoli. Anche lì bastonate, due zoccoli con un panno in spalla, non il vestito, un panno in spalla. E in mezzo alla piazza c’era un freddo! Allora io mi ricordo che con mio fratello pensavamo: “Cosa abbiamo fatto per venire qui, cosa abbiamo fatto di male?” Si diceva. Comunque l’abbiamo purgata abbastanza bene. Dopo due o tre ore arrivano. Ecco il numero. Ci danno il numero con il vestito, perché loro dovevano cucire, attaccato alla giacca e poi i pantaloni. E siamo partiti, lì siamo stati fermi un’oretta, neanche, e siamo andati per un’altra scala e ci hanno portato alla quarantena.

D: Armando, il tuo numero te lo ricordi?

R: 115523.

D: Ascolta, assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No, il triangolo è quello lì, attaccato al numero, il triangolo è rosso, solo che era un po’ sbiadito, l’ho lavato, l’ho messo a posto, però man mano che si consuma, era da tanti anni…

D: E lì ti hanno mandato poi alla quarantena.

R: Alla quarantena eravamo tutti … l’impatto è stato questo, che era pieno in una maniera! Ci siamo messi in mezzo ad un baracca larga come da qui a lì, a dei materassi, sei per ogni materasso. Era lunga 100 metri, eravamo cinquecento, seicento, settecento noi, tutti in fila come le sardine. Qualche volta si divertivano: il Kapò da una parte e uno correva sopra di noi. Correre un Kapò e in due si correva e se uno si lamentava, chiamava aiuto, davano delle grandi legnate. Chi prendevano, prendevano. Questo è durato … perché lì a Mauthausen è un campo che prende la manodopera e la dà fuori e la manda in questi altri quarantotto sottocampi, non è che vadano là, muoiono lì. Man mano che le fabbriche volevano della manodopera e Mauthausen dava questa manodopera, di carne umana che eravamo noi, le cavie. Lì siamo stati fermi un venti giorni, però durante questo periodo non è che si lavorasse… si lavorava saltuariamente, però più che altro ci facevano tribolare. Alzarsi alla notte, se uno faceva dei rumori in mezzo alla piazza anche se pioveva, nevicava, bagnava, non bagnava, era uguale Loro si divertivano anche a fare questo. Per loro era un divertimento, ma per noi era un grande sacrificio, anche psicologicamente era una cosa che quando sto pensando delle volte, dico: “Io non saprei come ho fatto a venir fuori da questo coso”. Comunque siamo riusciti e abbiamo fatto questi venti giorni, più o meno e da lì mi pare che una mattina siamo partiti un bel gruppo e lì eravamo assieme io e mio fratello.

Torno indietro un passo. Io ho compiuto gli anni a Mauthausen il 23 gennaio, sono arrivato il 15. Mio fratello in quel momento non era lì. Dopo un pezzo arriva, “Oh”, dice, Armandin compi gli anni oggi?” “Sì”. “Guarda mo’ qui”, eravamo in mezzo alla piazza, “Guarda mo’ qui in che condizioni compi gli anni”. Ci sono stati tanti morti e poi chi chiamava aiuto, chi bastonava, era un delirio. Gli dico: “Io li compio oggi, tu li compi il 20 luglio. Tu non so in che modo li compirai e che terra pesteremo in quel momento”. Ci siamo andati ad abbracciare e poi abbiamo fatto un gran pianto, perché pensavamo ai nostri genitori, che loro non sapevano questo viaggio che si faceva, in che condizioni eravamo, voglio dire questo. Da lì, verso il 2 o il 3 di febbraio fanno questo gruppo perché …. a 5 chilometri e noi siamo partiti a piedi, siamo andati a … so che sono due campi e in mezzo c’è la divisione. In quel momento mi hanno diviso da mio fratello. Questo per me è stata la cosa che non posso dimenticare questa cosa perché eravamo più che fratelli, poi anche dal lato umano. Delle volte uno aveva qualcosa, magari aveva preso delle botte e aveva bisogno di sfogarsi, non avevi nessuno al quale potevi riferire queste cose, questo malumore.

In quel momento mi sono stato …. e andiamo in baracca e cominciamo a… nel frattempo che sono fuori, senti anche questo è un atto di fortuna, dice: “Non dire che sei un contadino, digli che sei un meccanico”. Di corsa, un italiano che è passato lì, perché quando ha visto che eravamo italiani, ha detto: “Non dite che siete contadini, siete dei meccanici”. Allora andiamo dentro, arriva un tedesco, non capivo niente, che avevo già il sangue che mi andava in fondo ai piedi. Dice: “Italiani… meccanico”. Al mattino dopo partiamo in treno perché … rimane sotto … e … te sai che si andava in treno coi vagoni merci. Si parte, si va a questa stazione che era distante, 500, 600 metri, a piedi sempre a piedi. Mettevano un centinaio di prigionieri ogni vagone e poi dopo uno fischiava. Chi andava su rimaneva… lì non c’era niente. Mi ricordo una volta che ho cercato di dare una mano a uno per venir su, mi è arrivata una legnata qui sopra e mi ha spaccato il labbro qui, che ho pianto. Non si poteva aiutare. In quel momento diventa difficile anche per noi il lato umano, non si era più … però se avevi un italiano vicino, un fratello vicino, quando riuscivi magari a collegare il discorso, qualche cosa poteva aiutarti per il morale e tutte queste cose. Andiamo in questa fabbrica, tu sai quanti chilometri di galleria aveva e poi, prima di arrivare lì anche questa strada, perché si saltava giù 500 metri prima.

Questa strada tutta piena di fango, sempre continuamente si doveva girare, non potevi andar sui margini perché arrivavano coi cani, con le botte. Sempre fango, era un delirio. Arriviamo in questa fabbrica. Dopo sei un numero, l’avevo imparato un po’ abbastanza nei venti giorni che siamo stati su a Mauthausen, avevi imparato il numero.

Il tedesco non lo so nemmeno ancora, però un po’ lo capivo. Mi chiamano, mi mettono vicino … dico: “Meno male che almeno siamo coperti dal fango, dalla pioggia, dal freddo”; era abbastanza caldino. Mi fa partire una macchina elettrica, io dico: “L’ho vista”, era una sega, so che tagliava i tubi. Metto giù la mano, trovo l’interruttore, proprio l’ho preso al volo. Non ho mai più avuto problemi con loro perché lì dentro magari il lavoro non era faticoso, era noioso, però non era faticoso. Primo non avevi i Kapò ai calcagni, ce n’era uno ogni cento metri, però nelle baracche invece ne avevi tre, erano continuamente in giro, invece lì non avevi … e poi avevi la protezione dall’acqua, dal freddo…

D: Quando tu dici sono stato lì in fabbrica, ma queste fabbriche erano quelle dentro le gallerie?

R: Sì.

D: Lavoravi nelle gallerie?

R: Lì si lavorava intorno e si facevano degli aeroplani. Nel nostro banco si saldavano dei tubi, le misure, si sbavavano e poi c’erano i saldatori che, man mano che noi si provava, li mettevano e poi saldavano, non so cosa facessero. Questi saldatori sapete quant’acqua hanno … per noi a rischio, perché l’acqua era avvelenata. Non si poteva bere e non davano l’acqua loro. Era avvelenata, veniva il tifo. Allora bisognava stare attenti anche a questo. Durante questo lavoro, col tegamino a rischio, si dava ai saldatori con la fiamma ossidrica la scaldavano e tutti sentivano questa bollente, ti sentivi bene. Il lavoro non era molto pesante, era … anzi tutte le mattine passava in ingegnere austriaco. Veniva da fuori perché la fabbrica era gestita da civili. Allora questo ingegnere veniva da fuori e passava, non ha mai detto che ho sbagliato qualcosa. Guardava, ogni tanto diceva: “Italiano gut”. Andava bene perché il lavoro non era poi così difficile. Le misure con tutti i suoi stampi, ho sempre incontrato … questo voglio dirlo forte e piano, questo tedesco per me era anti hitleriano. Era una brava persona, perché si confidava. Noi avevamo giorno per giorno la cosa della guerra e lui veniva dentro, era amico con uno, non so se era un tedesco, non so cosa fosse e lui gli dava le notizie del fronte della guerra. Questo era per me uno degli uomini, posso dire anche sul lavoro non ha mai detto niente a nessuno di noi, veniva dentro… poi andava via. Si vede che … l’unico che potrei dire che è stato un tedesco buono.

Vado avanti con la fabbrica. In un giorno si doveva fare un aereo, perché 12 o 14 chilometri di gallerie tutte attrezzate, alla fine veniva fuori un aereo. Fuori c’era il collaudo. Man mano che andavano su, nove su dieci venivano mitragliati dagli americani e venivano messi giù un’altra volta. Ma loro andavano avanti lo stesso. Comunque lì si stava, forse anche la gioventù, ma lì forse mi ha salvato la vita. Mi ricordo uno che era con noi, loro adoperavano tutte le cattiverie per demoralizzarti, per andare in bagno dovevi domandare al Kapò, delle volte ti facevano andare sopra una scalinata che era un freddo da cani anche se pioveva, nel frattempo che vado sopra di lì trovo un nostro amico di Bologna, si chiamava Bruna. Mi fa: “Gasiani, come sei magro”. Gli dico: “Ma tu ti sei guardato? Sei l’ombra”. Sono andato per un bel po’ di tempo, dopo pochi giorni non l’ho più visto, si vede, lavorando fuori alle gallerie, alla pioggia, ma scherzi? Era un lavoro… Era il mangiare che non c’era, non era tanto il lavoro, la fatica, ma era il vitto che era poco, le sostanze che erano poche che non potevi tirare avanti.

Un fisico ha bisogno delle sue sostanze per sopravvivere, sennò … e poi man mano che si andava avanti, calava sempre il menù del mangiare. Perché? Perché a Mauthausen arrivavano quelli dei campi che sgomberavano da Dachau, Auschwitz. A Mauthausen non saprei quante migliaia c’erano e il mangiare era quello che era e calavano sempre. Invece di dartene un litro, te ne davano tre quarti, poi il pane, invece di dartene un etto e mezzo, te ne davano un etto, la margarina mai più. Calavano anche e il lavoro, uno che lavorava fuori era molto pesante, allora ci volevano delle sostanze molto buone. Il lavoro non era… però il Kapò era cattivo, era cattivissimo. Tutte le sere che noi si veniva fuori, si dovevano caricare i morti che morivano dentro o che facevano morire. Perché bisogna dire anche questo, o che li mettevano in un forno, o che li impiccavano o che li ammazzavano di botte, tutte le sere ogni tanto toccava anche a te. Chiamava il numero, non dovevi mica rifiutare. Quando chiamava il numero non sapevi mai cosa dovevi fare, andare incontro a questi Kapò o alle SS dovevi ascoltare quello che dicevano, se indovinavi a capire bene, sennò erano dei guai. Alla sera si caricavano tutti questi morti che venivano durante le dodici ore di lavoro e si portavano al treno per portarli nel campo Gusen che lì c’era il forno crematorio che magari li cremavano. Direi di fare un appunto, questa è una cosa molto … il Kapò era molto cattivo.

Lo spiego questo perché una cosa che è capitata e sono andato vicino alla morte in questo caso. Lui aveva la corda, il banco delle bastonate, lo sgabello. Una mattina era un giorno che avevamo dormito poco perché siccome lì si facevano dei turni di dodici ore e si cambiava turno, allora quando si lavorava di giorno, si andava in baracca di notte e qualcosa riuscivi magari a riposare, ma quando di notte andavi suonava sempre l’allarme. Non è che se tu dovevi riposarti, ti lasciavano riposare, ti mandavano fuori sotto a quella montagna dove c’era il , c’era una galleria, ti mandavano su. Da noi, andare da Gusen 1 a Gusen 2, ci saranno stati 500, 600 metri e ci mandavano. Quando c’era l’allarme tu dovevi stare fuori. Un giorno non abbiamo chiuso occhio. Allora quel giorno … adesso abbiamo interrotto. L’allarme non è finito e siamo andati a lavorare al mattino. Ti puoi immaginare, ci alzavamo alle quattro, quattro e mezza e si andava al lavoro e in quel momento andare dentro in questa galleria un po’ il caldo, un po’ la stanchezza, io mi sono messo lì… così. Il Kapò mi ha visto, è corso di volata lì … me ne ha dette, di qua e di là avevo un russo e un polacco, mi hanno dato un colpo, perché loro si sono immaginati che veniva contro di me perché avevano visto la mossa. Però un colpo da non credere… questi due ragazzi parlavano un po’ il tedesco, chissà loro erano riusciti a capire o che lo sapevano prima perché erano prigionieri anche da prima, si vede che loro avevano capito, io no. Parlavano con questo Kapò e dicevano: “Non è vero” e mi hanno portato fino al suo banco. … Questa era stata la cosa più umana che nella vita abbia avuto da gente che non conoscevo, questi due ragazzi che cercavano di tirarmi indietro e poi piangevano in un modo proprio di compassione, un modo umano. Lì c’era lo sgabello e la corda, ero vicino allo sgabello e la corda era alta così, era in terra lo sgabello e di là c’era lo sgabello da appendere, il bastonato anche portare alla fine della vita perché non aveva remissioni quello lì. Ad un bel momento, continuavo a piangere, loro hanno fatto proprio così… penso che sia venuto solo io indietro, penso che sia solo io venuto indietro da lì. Nessuno ha mai visto tornare indietro. Li hanno sempre finiti.

Questo lato umano si vede che nel momento … e i ragazzi quando vado a scuola me la domandano questa cosa, il perché. Io ho i miei dubbi che lui l’abbia fatto umanamente. Secondo loro dovevano bere quando venivano in officina, avevano un mezzo litro di grappa, loro dovevano avere, perché non si può infierire su una persona che non ti ha fatto niente così terribilmente a bastonate o finirlo. Lui secondo me, il mio giudizio, non aveva bevuto, era sano di mente e si è sentito … il lato umano in questo caso l’ho capito in questo modo, lui non aveva bevuto, perché sennò non si scappa. Quando ti prendevano erano feroci in una maniera che lo deve vedere per credere … che facevano sulle persone, quando le prendevano in che modo le facevano finire. Bisogna vedere queste cose per capire. Questo lato ai ragazzi dico: “Per me è stato un attimo di compassione”. Avrà detto: “Vivrà cinque o sei giorni, poi morirà da solo”, perché eravamo già alla fine di marzo.

Con questo io direi di aver finito qui, andiamo avanti ancora? Questo il campo e poi il ritorno. Il ritorno…

D: No, aspetta. Quindi ritornavi a Gusen 2 e alla Liberazione dov’eri?

R: Viene dopo.

R: Adesso torniamo al ritorno della fabbrica. Come ho detto prima chiamavano delle volte il mio nome per caricare questi morti per portarli nella baracca perché là c’era il forno crematorio per poterli bruciare. Ma quando si entrava dentro questa piazza, non è che facessero subito in modo per andare a riposare, mancava sempre qualcuno. O lo facevano perché mancava, o lo facevano per diminuire le ore di riposo, qualcosa che per noi era molto grave perché eravamo stanchi anche dodici ore e poi al mattino tre ore prima e poi andando avanti le ore cominciavano anche ad essere molte, in piedi e non finiva mai. Poi quando si rientrava c’era la barba, la riga dei capelli si dovevano fare tutte queste cose e dovevi stare in fila che molte volte dormivi… si riposava molto poco. Questo è il rientro, perché loro non riuscivano mai a trovare il conto che volevano, secondo me era una scusa sempre per diminuire, tanto la nostra vita in questo campo doveva durare dai quattro ai cinque mesi al massimo e dare più la possibilità di guadagno, di manodopera e noi come durata era questa. Perché il loro compito era questo qui, noi eravamo dei politici, degli avversari, allora noi dovevamo finire in questo modo, finire in una tragedia molto triste.

Bisogna aver visto queste cose per capire, perché anche spiegando, andremo dopo, cinquant’anni di silenzio che ho passato senza dire queste cose, però queste cose caricano in un modo la persona, che, saltando fuori da lì, non è che poi sia… è una cosa eccezionale, non so come sia che sono riuscito a saltarne fuori. Quando vado con i ragazzi, vedo questo qui, mi domando: “E’ tutto di guadagnato dal ’45 in poi la mia vita è tutto di guadagno”. Nonostante adesso che sto parlando è ancora meglio. Questa è stata la giornata che ho spiegato anche nel mio libro, delle mie esperienze, della mia testimonianza e arriviamo alla Liberazione.

La Liberazione è avvenuta il 5 maggio, però erano quattro giorni o cinque giorni che non si andava più a lavorare. I Kapò non c’erano più. A noi hanno detto che i Kapò li hanno fatti fuori i tedeschi a Gusen 2, li hanno fatti fuori loro, però di sicuro non so. Non c’erano, c’erano tutte le guardie, si erano cambiati i vestiti, dalle SS si erano messi i vestiti del Wermacht, tutti cambiati, si erano cambiati di divisa tutti i militari. Quando il 5 maggio era una giornata abbastanza bella, io mi sono messo da una parte vicino a un muretto perché io ormai ero agli estremi, perché se mi metto in mischia qui rimango schiacciato come tanti dopo. Stavo verso le 11 così, vedo una strada lunga 200 metri, vedo un’autoblindo con questa bandiera che arrivava. Tutti contenti e sono andati tutti perché le SS erano di fuori, da noi, erano nella villa fuori dal campo, erano lì tutti i capi della SS, allora tutti, io no, sono corsi vicino a questa rete, perché eravamo ancora chiusi e loro quando sono arrivati hanno domandato chi erano i responsabili. Uno ha tentato di fuggire, l’hanno fatto fuori, gli hanno sparato e l’hanno fatto fuori. Poi il resto hanno detto: “Questo, questo” e ne hanno presi sei o sette, li hanno caricati sull’autoblindo e poi hanno detto con il microfono che c’era chi spiegava, “Gli ammalati vadano negli ospedali che noi arriveremo poi per curare, perché adesso dobbiamo mettere a posto tutte le cose”.

Dopo mezz’ora capita questo, mi giro verso la cucina, ho visto uno spettacolo mai immaginabile. Tutta questa gente che andava a prendere qualcosa. La fame è brutta, si sono dati tutti ad andare a prendere qualcosa e come una valanga. Chi rimaneva sotto rimaneva schiacciato. Finito questo, dopo due ore non c’era più niente. Io non so quanti morti che ci saranno stati là sotto, chiamavano anche aiuto ancora i viventi. Io non giravo perché ero lì messo in una maniera che non giravo più, però sentivo, eravamo distanti 150 metri, ho visto bene questa scena. Io prima ho riso quando sono arrivati gli americani, ma in quel momento mi sono messo a piangere e ho detto: “Guarda in che modo vanno a morire proprio all’ultimo momento”. Quando sono crepati dal mangiare un po’ in fretta.

Ecco questa è la Liberazione e nel frattempo che ero lì, sono arrivati degli italiani che venivano da Gusen 1 e ho cominciato a fare indagini per mio fratello. Infatti trovo uno e mi dice: “Tuo fratello c’è ancora, è vivente e ti cerca”. Ma c’erano tante migliaia di persone, andare a sapere, poi c’erano due strade, una a destra e una sinistra. Bisogna vedere se uno ha preso quella sopra o quella sotto, l’abbiamo cercato un bel po’, ma non l’abbiamo trovato. Il giorno dopo arrivano cinque o sei bolognesi fra i quali Corazza, e ci siamo uniti a loro e abbiamo deciso di venire a Linz a piedi. Abbiamo girato un paio di giorni, in quel momento mi è venuta una dissenteria che non stavo più in piedi. Allora Corazza è andato in mezzo alla strada, si sentiva una motocicletta arrivare. Infatti arriva, era un inglese. L’ha fermato, cercava di farsi capire, io ero messo in condizioni… diceva: “Sta morendo”. Mi ha caricato e mi ha portato a Linz vicino all’ospedale. A 50 metri dalla porta alle 9 di mattina mi sono accorto che era ancora buio, non mi sono mosso. In quel momento ho detto: “Sarà meglio che provi ad andare a bussare da qualche parte”. Lui mi ha scaricato lì, perché si vede che lui aveva fretta e ha detto: “Adesso poi si arrangerà anche lui”.

Ho visto questa porta dell’ospedale, sono andato ad aprire. Due infermieri mi hanno preso a braccio, mi hanno fatto fare il bagno, mi hanno messo a letto, mi hanno dato qualcosa da mangiare, ma è stata roba da poco. Comunque è stata un’accoglienza buona, però si moriva anche lì. Ti davano da mangiare poco, poco serviti, perché forse avevo bisogno anche di medicine che loro o non avevano, o eravamo già, come ho detto prima, noi italiani eravamo ancora forse sotto il mirino dell’odio, perché eravamo un po’ odiati. Dopo 4 o 5 giorni passa la Croce Rossa. Davano un po’ di zucchero, un po’ di cioccolato e poi ci faceva firmare un librone grosso così. Sfoglio, scrivo, c’era anche un italiano, dice: “Hai un fratello qui?” “Sì”, allora sfoglia, era mio fratello. Ma dov’è, dove non è. Ho domandato, “Se vieni giù te lo insegniamo”. Io vengo giù, non giravo, facevo fatica ad andare in bagno. Allora dopo che ho firmato, mi hanno dato questa roba, mi fanno andare fuori dalla porta dell’ospedale. Saremo stati in linea d’aria a un chilometro e mezzo. “Meno male, come sta?” “Sta meglio di te”. Il morale c’era, dico: “Andiamo bene, ci salviamo tutti e due”. Passo questo, qui si muore lo stesso, qui non si vive. Passano tre o quattro giorni, passa una crocerossina di Trieste, sembrava mia mamma. C’era un professore, hanno detto che era un russo e l’autista. E dice: “Se volete venire con noi, noi abbiamo preparato una gran baracca e vi daremo da mangiare e da curare per potervi mandare ai vostri paesi”. “Se mi date una mano, vengo giù”. Infatti mi danno una mano, andiamo su questo camion, eravamo una trentina e ci portano dentro una baracca, saremo stati in duecento o forse più, ognuno con il suo lettino, il lenzuolo. Sembrava tutto un altro mondo. Poi ha cominciato a darci da mangiare sei volte al giorno e una puntura un giorno sì e un giorno no. Ogni puntura che mi facevano, io mi alzavo che andavo avanti così.

Dopo sette o otto giorni dico: “Adesso vado a trovare mio fratello”. Una mattina dico al professore: “Guardi che io vorrei andare a trovare mio fratello che è qui e lo vorrei prendere, è qui a un chilometro e mezzo”. Mi guarda il professore: “Non è che sei messo male, ma quanto ti ci vuole?” “Io penserei in giornata di farcela”. “Ma vai, vai”. Allora parto, avevo un passo discreto, mi ero messo abbastanza in forza come energia, però come chili no. Parto. A 500, 600 metri c’era il comando americano. Mi chiedono: “Dove vai?” “Niente, voglio andare a trovare mio fratello che è là”. “Qui i prigionieri dei campi di concentramento non possono girare”, c’era una malattia che avevano paura che infettasse magari i cittadini. Prova una volta, prova due, prova tre. Non c’è stato niente da fare.

Una volta c’era un italiano gli dico: “Vallo a prendere tu”. “Non possiamo muovere nessuno se non hanno l’ordine di andare a casa”. Loro dopo si divertivano, quando mi hanno visto, si divertivano a venirmi a prendere, mi davano della cioccolata, allora fumavo qualche sigaretta e mi facevano le fotografie. Mi piacerebbe avere quelle fotografie, ne avranno fatte migliaia. Tre o quattro volte sono venuti a prendermi e poi mi chiamavano “la morte vivente”. “Non abbiamo mai visto uno così brutto vivente, proprio pelle e ossa e basta”. Mi chiamavano “la morte vivente”. Passa questo, non sono stato capace. L’unica cosa che mi è dispiaciuto è questa qui per mio fratello, di non potergli dare una mano, poter riuscire a venire lì. Secondo me se veniva lì può darsi che riusciva anche… ma dopo che sono arrivato a casa è venuto uno di Imola che aveva una lettera scritta da lui che diceva che era impossibile per il momento venire in Italia perché era in condizioni non molto belle. É stato lì a mangiare con noi, eravamo una famiglia di ventidue, poi siamo andati fuori. “Vedi adesso come sono, ero là anch’io, tu mi dici la verità”. Mi ha detto: “Tuo fratello quello che mangia non tiene dentro più niente. Sarà difficile che rientri. Secondo me la tubercolosi lo ha ammazzato completamente”.

Se non c’era una cura subito dopo, allora questa era stata la malattia che l’ha stroncato e questo è finito…

D: Armando, tu invece…

R: Il ritorno.

D: Quando sei rientrato?

R: Allora torniamo sul ritorno. Finito questo io sono stato lì un bel po’. Sono partito il 24 giugno che ero in condizioni abbastanza… ho domandato al professore: “Posso andare via?” “Ma sei tanto spiritoso che ce la fai”. Ho fatto una fatica. Partiamo, mi caricano in camion e mi portano alla stazione e là c’era un treno merci. C’erano sei, nove lettini per ogni vagone, si stava da Dio, poi l’assistenza, c’erano i dottori, c’era la Croce Rossa, c’era tutta l’assistenza per poter fare questo viaggio e partiamo. Un treno lunghissimo. Nel primo tempo tutti urlavano, quando il treno è partito ci siamo messi tutti a piangere per la contentezza di sentire il treno, di tornare e siamo arrivati a Bolzano dopo quattro o cinque ore. A Bolzano ci siamo fermati due giorni. Anche lì sono andato all’ospedale, lì c’è poi anche quell’affare che mi hanno dato e poi da lì quando siamo arrivati eravamo in maniera anche già… io sono stato all’ospedale poche ore. Mi hanno detto: “Tu puoi andare, non hai niente, puoi girare, puoi andare a prendere da mangiare e lì c’era tutta roba in bianco, tutta roba di riso”.

Per il microfono dicevano: “Se uno ha fame o qualcosa, venga qui e gli diamo il buono”. Allora non andavo a prendere il buono, dappertutto dove andavo, mi davano qualcosa. Avevo una valigetta grande così piena di pane di riso. Dappertutto me ne davano perché dicevano: “Questo è uno che ha fame veramente”. Lì sono stato benissimo perché ho mangiato abbastanza bene, però non ho sforzato tanto, me l’hanno detto anche loro, non è che deve sforzare perché ancora lo stomaco, era già venti giorni o più che si mangiava un po’ di più, però bisogna stare attenti. Lì c’era tutto pane di riso. Finito questo, c’è una partenza per Modena, non per Bologna, per Modena, ma noi avevamo fretta di arrivare a casa per vedere la famiglia che non sapeva niente. Parte un’autocolonna di venti camion, nel nostro c’era un tedesco a guidare, dopo due chilometri ha cominciato a dire che il camion non andava. Eravamo una trentina su questo camion, nessuno era capace di guidare, perché sennò penso che lui non sarebbe tornato indietro. Perché eravamo tanto imbestialiti, l’odio viene da queste cose perché lui voleva tornare indietro. Arriva un americano con una jeep. E dice: “Gli altri sono già avanti tanti chilometri, com’è che siete qui?” “Non vuol portarci avanti perché ha detto che il camion non va”. Gli punta la pistola dice: “Parti”. Allora è partito e siamo riusciti ad arrivare dietro gli altri. Quando siamo arrivati a Modena, c’era il campo di quarantena e noi eravamo in due e non siamo voluti andare. Abbiamo detto: “Vogliamo andare per la strada, troveremo ben qualcosa da poter…” Erano le 11 di notte, finalmente passa un camion carico di carbone. Uno con l’autista e io sopra il carbone, tutto nero. Arriviamo a Castelfranco. Lui doveva fermarsi, passa un altro, era carico di gesso. L’autista lo conosceva, si chiamava Luppi. Mi ha detto: “Ma sei tu?” Come dire che prima mi conosceva. Dico: “Sì, sono io”. “Salta su”. Anche lì perché ero più leggero mi mettono sul gesso e tra nero e bianco, tra il pelo della barba, perché a diciotto anni si ha la barba, tra la riga, tra lo sporco, avevo un giaccone tutto sporco.

Prima di Anzolo ci mette giù. Poi noi due piano piano siamo partiti. Ad un certo momento ci fermiamo su un argine, c’era una montagnetta e lì abitava una famiglia che erano sfollati a casa nostra. Sente la voce e mi chiama per Serafino. “No, dico, sono Armando”. “Aspetta che ti porto a casa io con la bicicletta”. Viene giù, erano le due e mezza di notte e andiamo a casa mia. Quando sono arrivato a casa, la debolezza, si vede, c’era la casa che sembrava grandissima, le siepi alte, la strada larga. Si vede che la debolezza che avevo addosso, la vista la faceva grande. Suono, dice: “Chi c’è?” “Guarda che ho portato a casa Armando che è arrivato dalla Germania”. Vengono giù, erano in ventuno, il ventiduesimo sono io. Allora non c’era la luce, c’erano le candele o i lumini a petrolio. Cominciano a guardare, ma no, e poi avevo perso la voce che non parlavo, parlavo male perché tra l’aria, il viaggio, avevo perso la voce. Non avevo la voce. Non mi conosceva. Io dicevo: “Sono io”, si vede che ero proprio brutto più del normale, così magro, sporco, avanti e indietro. Ha capito la mamma. “Anche voi”, allora si dava del voi alla mamma, “anche voi non mi conoscete? Sono vostro figlio”. “E Serafino è arrivato?” “No”. Sono rimasti male che non era arrivato, comunque pensavo che fosse arrivato. Mangiamo un po’, mi lavo un po’. Dopo arriva il dottore, arriva dopo un’ora, un’ora e mezza. Era il mio dottore di condotta. Dice: “Dove sei andato? Cosa hai fatto?” “Niente, è capitato un tragitto così, così”. Ho spiegato. Mi ha visitato. Ha detto: “Io non trovo più niente qui. Ti trovo esaurito in una maniera, disfatto”. Lui mi ha cominciato a curare e pian piano ho cominciato a mangiare, in un mese sono cresciuto otto chili. Io penso che fossi sempre dietro a mangiare. Passa questo, vado alla visita del dottore, perché dopo sono stato via altri due anni. A questo campo di concentramento all’arrivo ero malato di polmoni, il dispensario ad un certo momento dice: “Guarda che c’è un viaggio per malati dei campi di concentramento in Svizzera. Se vuoi andare, c’è un posto anche per te”. Allora mio babbo dice: “Sei tu che devi guarire, io penso che tu fai bene ad andare”. Sono andato in Svizzera, sono rimasto là due anni lontano dalla famiglia e questo dottore svizzero faceva per i prigionieri dei campi di concentramento, per curare mille persone. Io sono andato in questo… Da allora non ho mai avuto dei problemi come salute. Veramente sto bene.

Allora per i cinquant’anni… andiamo avanti?

D: Cosa volevi dire dei cinquant’anni?

R: Il silenzio. Forse lo volevo dire prima, va bene anche adesso?

D: Sì.

R: In casa con gli amici di questa tragedia non si poteva parlarne, perché io praticamente non ero io che ero disponibile troppo a dire perché non riuscivo magari a dire. Anche i miei genitori, quando cominciavo a dire, per esempio: “Mi è capitato questo” dicevano “É impossibile”. Allora io emotivo, mi mettevo a piangere e mi chiudevo, fermo lì e soffrivo. Ho sofferto tanto per questa cosa. Anche gli amici, quando con gli amici eravamo ragazzetti insieme e cominciavo a raccontare “La guerra l’abbiamo passata anche noi” dicevano. “Questa non è una guerra, questo è uno sterminio che abbiamo avuto noi, non è una guerra. Io non sono diventato magro così ad andare al fronte, è stato in campo di concentramento, che lì si doveva morire e scomparire completamente”. “É impossibile”. Allora ti dava questo senso di non essere creduto e sono andato avanti per quarantotto, cinquant’anni anni sempre con questo. Io sono venuto a Mauthausen, ma io ho sofferto tanto a venire. Lo facevo anche per accontentare gli altri e poi anche per mio fratello che sapevo già che era morto, anche per andarci, perché se non andavo io, magari, cercavo sempre di mandare i miei fratelli per fargli capire queste cose e per cinquant’anni anni ho avuto questo terribile… io ho passato una gioventù silenziosa, monotona, vivevo da solo, la solitudine. Questa è stata… poi il cervello è rimasto bloccato. Chi mi ha sbloccato è un po’ mia moglie che ha cominciato a dire: “Vedi che per televisione cominciano a dire queste cose, perché non vai anche tu a dirle?” “Se riesco”. “La vita è bella” di Benigni mi ha dato la via d’uscita, “La vita è bella” di Benigni, quella mi ha dato il benestare, perché ho detto: “Finalmente al mondo c’è uno che ha detto la verità senza provocare delle fratture”, anche i ragazzini possono ascoltare e possono fare anche dei calcoli su quello che ha detto e ragionare, senza essere violenti. Da quel momento andare all’associazione, ho cominciato ad andare con Corazza alle scuole e adesso dicono tutti che sono diventato molto più giovane. Si vede che è scattato un meccanismo in me che è stato una cosa e sono contentissimo adesso. Sono l’uomo più contento del mondo.

Komel Maria

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Komel Maria, nata a Loca, Gorizia…

D: Quando Maria?

R: 01.06.1927

D: Prima della deportazione quando sei stata arrestata, perché e da chi sei stata arrestata?

R: Sono stata arrestata dai tedeschi insieme con i fascisti, il 25 giugno 1944

D: Dove ti hanno portata?

R: A Loca, dove sono nata, ma ci hanno portato a Moncorona, un paese vicino a Gorizia, ci hanno portati in una casa, in uno spazio grande, presso una casa e là hanno scelto gente per Germania, gente per torturare, hanno preso anche i partigiani, li hanno torturati … pazzesco!

D: Tu, Maria, perché sei stata arrestata?

R: Sono stata arrestata perché tutto il paese Loca, compresa Moncorona, hanno fatto un rastrellamento, hanno portato via tutta la gioventù, non solo, anche persone anziane che non sono più tornate, sono andate a finire, come noi, in campo di sterminio e non sono più tornate.

D: Un paese di quanti abitanti?

R: Moncorona è abbastanza grande, non saprei dire quanti perché è molto larga, non sono fitte le case, sono sparse di qua e di là, ma il mio paese, proprio dove sono nata, allora erano trentatre case, Moncorona non so dire quante.

D: Lì hanno arrestato tutti?

R: Tutti, anche i genitori, solamente i genitori li hanno mandati a casa ma a me hanno portato in campo di sterminio.

D: A Moncorona ti hanno interrogato?

R: No, ci hanno portato insieme con altri del mio paese, la mamma di un bambino di tre anni, nelle prigioni a Gorizia dove sono stati solo una notte perché si sono accorti che era uno sbaglio, il mio nome corrispondeva con il nome della signora che era con me. Mi hanno trasferito con le altre ragazze nella caserma dei fascisti sloveni, Domobranzi Belagarda, una notte. Il giorno 28 giugno con trasporto siamo andate a finire ad Auschwitz, il 1 luglio siamo arrivate.

D: Tu sei partita da Gorizia.

R: Da Gorizia!

D: In quante eravate sul tuo Transport?

R: Un Transport pieno perché non era solo la gente di Moncorona ma anche di altri posti, era pieno.

D: Vi erano anche uomini?

R: Sì, uomini e ci hanno divisi dopo, in Germania, noi donne siamo andate a finire ad Auschwitz mentre gli uomini in un altro posto, vi era anche un ragazzo della mia età, del mio paese, vicini di casa, non ricordo in che posto ci hanno divisi.

D: Nel vagone con te eravate tutte donne?

R: Sì, tutte ragazze!

D: Vi erano anche ragazze giovani, dei bambini?

R: No, vi era una ragazza incinta e non lo voleva dire perché suo marito era austriaco militare tedesco. Quando ha saputo cosa fanno in Germania è scappato ed è andato con i partigiani e i tedeschi lo sapevano, per quello questa ragazza non voleva dire con chi era sposata ed è andata a finire in campo di sterminio con me, ha partorito il bambino nel mese di gennaio con la neve alta, il bambino aveva dieci giorni ed è morto.

D: Avevate cibo e acqua a mangiare durante il trasporto?

R: Niente! Ci hanno portato solo acqua.

D: Quando dici che sei arrivata ad Auschwitz con il treno, intendi direttamente nel campo?

R: Sì, direttamente in campo, siamo arrivati ad Auschwitz, questo camino grande si pensava fossero fabbriche, ci siamo dette qua ci sarà da mangiare e faranno il pane, invece, proprio questa che era incinta incominciava a piangere, le abbiamo chiesto perché e ha risposto “Ragazze mie non sapete dove siamo arrivate”, infatti, sotto vi erano i militari SS che ci aspettavano per accompagnarci (siamo arrivate di notte), Auschwitz era suddivisa in tanti posti e uno di queste SS sapeva il serbo-croato e ci ha domandato a che religione appartenevamo e abbiamo risposto che appartenevamo alla religione cattolica. Ci ha risposto “Siete fortunate perché vedete quel fuoco? Se foste state ebree questa notte sareste andate dritte lì “.

Ci hanno portate dritte in una baracca, per terra era piena di acqua e ci hanno detto di distenderci per terra. “Come si fa?” .. “O così o resti in piedi”, questa gente che era nella camera che dormiva ci camminava di sopra di notte perché doveva anche andare alla toilette così abbiamo passato la prima notte.

Il giorno dopo ci hanno portato in un’altra baracca e lì ci facevano i numeri ……. Scusate, devo tornare indietro, quando siamo arrivati ci hanno fatti andare in questa baracca, in un grande salone, ci hanno spogliati nudi, tagliati i capelli, ci hanno tagliati dappertutto, ci hanno fatto andare su un lungo corridoio e alla fine ci hanno tagliato i capelli e là si doveva entrare in una vasca ma non si sapeva quanto era profonda per cui si aveva paura di entrare.

Dietro vi era un ufficiale tedesco che ci scortava, era una specie di disinfettante e di lì si passava dentro in un bagno grandioso con le docce e là ho visto delle ragazze senza i capelli, a me li hanno lasciati corti, senza capelli, e abbiamo preso paura perché si pensava che ci avrebbero messo insieme con gli uomini, invece, erano le ragazze con i capelli tagliati a zero e lì ci hanno aperto l’acqua un po’ calda e un po’ fredda e appena insaponate hanno chiuso l’acqua e si doveva passare avanti.

Nello spazio da dove siamo venuti vi era un mucchio di abiti sporchi di sangue e di tutto e ci si doveva vestire, più avanti un mucchio di scarpe, il paio nemmeno a parlarne, ti dovevi scegliere subito, di lì ci hanno portato in questo reparto e ci hanno fermati per dormire di notte.

Il giorno dopo ci hanno messi in fila e ci hanno tatuati i numeri e certe hanno stretto per cancellare ma se cancellavi erano botte perché loro ti chiamavano per numero, il nome non esisteva, tu eri un numero come le bestie per il macello perché là si aspettava la morte.

Ci hanno disinfettato sotto le braccia e sotto, un disinfettante che era una tortura, tanto male e non avevi niente per pulirti e lacrime che venivano giù, era veramente una tortura.

D: Ti hanno tolto tutto?

R: Tutto, tutto, non mi hanno lasciato nemmeno uno spillo, nemmeno un fazzoletto, hanno tolto tutto dicendo di mettere nelle nostre valigie tutte le cose che poi verranno restituite, chi le ha mai viste?

D: Maria, ti ricordi il tuo numero?

R: 82453

D: Ti chiamavano sempre con quel numero?

R: Sì, in appello, dappertutto quel numero, se non lo sapevi potevi anche finire male.

D: Lo chiamavano in tedesco?

R: Sì, in tedesco, anche in polacco perché le polacche erano tremende, erano veramente cattive forse più dei tedeschi.

D: A te che vestito hanno dato?

R: Mi hanno dato una specie di vestaglia tutta sporca ma disinfettata, dietro era una striscia, gli ebrei mettevano la striscia con la croce e a noi la striscia lunga.

Volevo precisare che insieme a noi c’erano anche gli ebrei per cui il trattamento era preciso, la differenza era che loro più facilmente andavano in crematorio.

D: Ti hanno dato anche un numero da mettere sul vestito?

R: Sì, sempre questo, il triangolo rosso “IT” Italia, erano diversi triangoli, triangolo rosso significava politica, triangolo nero criminali, triangolo verde prostitute, se non sbaglio.

D: Poi ti hanno mandato nel blocco?

R: Sì, nel blocco n. 8, nel reparto A vi erano i bambini, nel reparto B eravamo noi ecc., ogni giorno si doveva fare il bagno. Si doveva stare sempre nudi in file fuori e dall’altra parte del reticolato c’erano uomini nudi, ormai ci eravamo abituati altrimenti si prendevano botte, appena davanti al bagno ci facevano spogliare nudi e là si aspettava la fila dove si andava a fare i bagni, acqua calda bollente e non si arriva mai a sciacquarsi, si era sempre insaponati, se si aveva il sapone, altrimenti niente perché distribuivano le saponette ma non si portavano in baracca, si dovevano lasciare lì per gli altri e là vi erano altri vestiti, sempre sporchi ma disinfettati, per quello erano bravi perché se vi era sporco arrivavano le malattie.

D: Come ti ricordi il blocco, era grande, eravate dentro in tante donne?

R: Era grande, con le camere da letto, erano al piano, era uno spazio di pochi metri, 1,5 x 1,5 e si dormiva in dieci come sardelle, quando si alzavano le coperte si doveva mettere a posto perché poi passava il controllo, se una coperta era malmessa si prendevano legnate.

D: Maria, non sei mai stata punita?

R: Non solo io, con il gruppo. Dove si lavorava si andava fuori, un giorno ci distribuivano i coltelli per tagliare gli alberi grossi, era vicino al fiume e si tagliavano questi alberi; un giorno a queste SS mancano le sigarette e non si sapeva chi era stato ma ci hanno fatto inginocchiare su una sabbia fine per due ore, quando ci siamo alzati il sangue veniva fuori dalle ginocchia. Fino a che non è venuto fuori chi ha preso le sigarette, notte e giorno si doveva stare lì o andare tutti a finire in crematorio, è venuto fuori che le sigarette le ha prese una signora che non so se era ebrea o cattolica, quella è andata finire in crematorio. Dove si lavorava distribuivano la mensa …. Quelle pignatte grandiose che ci facevano portare a noi, facendoci ogni tot metri cambiare per non stancarsi troppo, solo che quella persona tutto quel tratto di strada doveva portare la pignatta da sola senza cambiare e non appena siamo arrivati al portone ci hanno fatti andare avanti e l’hanno portata via di là immediatamente in crematorio. Ora non importava se era cattolica, per venire nel campo la banda suonava e ci accompagnava, erano tutte le donne che suonavano…

D: Lasciavate il campo per andare a lavorare, a tagliare questi alberi lungo un fiume ?

R: Vi erano anche altri posti perché ogni tanto ci cambiavano posto, era bruttissimo, erano 27° sotto zero d’inverno senza mutande, senza calze, senza cappotti, come siamo rimasti vivi non lo so!

Il lavoro era di scaricare nella stazione i treni, portavano queste grandiose pietre, si doveva scaricare questi sassi, sono scivolata e mi sono tagliata qua, il tendine, infatti non posso piegare il dito. Lì c’era una baracca dove vi erano anche operai civili, il comandante degli operai mi ha fatto andare in baracca, mi hanno disinfettato e accompagnato e a questo comandante gli sono venute le lacrime agli occhi.

D: Quanto tempo sei rimasta in questo comando di pietre che dicevi a meno 20°?

R: 27° sotto zero, tutto il giorno, per andare a mangiare si andava in un grande spazio, una baracca e là si veniva da tutte le parti, deportati da tutte le parti, uomini e donne e là ci davano da mangiare. Un giorno abbiamo visto da lontano una fila di uomini e uno era messo in parte, non era insieme agli altri. Appena siamo arrivati là ci hanno fermati, non hanno distribuito da mangiare, quel giorno da mangiare è tornato tutto dentro il campo. Questo giovane già era pieno di sangue, come esempio per tutti hanno incominciato a picchiarlo, questo SS era ufficiale, prima ha spaccato le sedie, pezzi di legno, poi schiaffi, calci, è caduto per terra ….. mi viene da piangere …. Faccio uno sforzo per dirvi questo, è caduto per terra tutto insanguinato, non aveva più forza per muoversi ma lui ha spaccato le sedie, i tavoli, era tutto un sangue, poi sono venuti con una barella e l’hanno portato direttamente nella camera del forno e l’hanno finito solo perché ha preso due patate. Quel gruppo ha lavorato Kartofell bunker che era da fare con patate, perché loro mettevano le patate sotto terra e questo poveretto ha preso due patate per mangiarle e questo ufficiale ha detto “Che questo vi sia da esempio a tutti”.

D: Una volta hai preso il Gummi? Perché?

R: Quando non serviva portarci fuori a lavorare si restava dentro in campo e si andava in cerca di qualche cosa da mangiare. Ho visto in un fosso non profondo, ogni tanto vi erano dei fossi per buttare le immondizie, ho visto questo biscotto … avevo una fame! … sono andata dentro e ho preso questo biscotto. Come sono uscita la capa SS del campo di sterminio, aveva un manganello sempre qua legato, era di gomma e con quello bastonava ed è corsa dietro a un’ebrea che non so che cosa ha fatto.

Disgraziatamente sono arrivata davanti ai suoi piedi, mi ha dato uno di questo sulla schiena e sono caduta per terra con un dolore pazzesco, le mie compaesane mi hanno tirata su e mi hanno fatto sedere e mi hanno calmato. E’ stato terribile!

Quando non si andava a lavorare si andava a veder che portavano i morti, era una baracca solo per questo, per portare questi morti e noi curiose siamo andate a vedere dentro, vi era un mucchio di morti e questa ragazza era giovane, una bella ragazza e ha messo giù questo braccio, era ancora viva, loro sono andati via, se non eri morta morivii lì perché ti portavano altri cadaveri di sopra.

Vi dico le torture più impressionanti: quando finivano di distribuire il mangiare che non bastava mai perché era pochissimo, si andava in giro quando mettevano fuori questi bidoni grandi, si andava a cercare di prendere qualche cosa, vi era una mia compaesana anche lei giovanissima come me, si guardava in giro per mangiare, dopo viene fuori il capo del blocco e ci ha cacciato via ed è caduta per terra su una pietra rompendosi un ginocchio e non so quanti punti hanno dato in ambulatorio, punti di ferro. Nel frattempo, otto giorni, che doveva togliersi i punti sono venuti nel campo a scegliere le ragazze più forti ed è stata scelta sua sorella. Dalla disperazione che sua sorella è andata via ha pianto tanto, non voleva nemmeno tirarsi via i punti, l’abbiamo sforzata tutti e ormai andava già in cancrena. Nel frattempo ci hanno trasportati sempre ad Auschwitz ma in un posto dove vi erano gli ebrei che sono rimasti e li hanno messi in crematorio e noi in quel campo. Questa ragazza non è più tornata, lì è morta, l’hanno portata in una specie di ospedale sempre dentro in campo ma abbiamo saputo dopo dalle ragazze che hanno lavorato lì che hanno portato i fiori. In questo campo un’altra tortura, si vedeva ogni giorno passare i camion pieni di cadaveri ma tutti questi cadaveri erano pieni di lividi, grandi, blu, neri, non si sa se li torturavano. Si stava male, veramente male, il mangiare era sempre meno e non si desiderava altro che saziarsi e morire perché loro ti riducevano in una maniera che desideravi la morte, la tua liberazione, la morte che venga prima possibile per morire. Quante volte ho detto “Mamma, perché mi hai fatto, se sapevi quanto soffro!”

D: Maria, parli di mangiare, ma in realtà che cosa vi davano?

R: Con rispetto parlando, io sono contadina ma i maiali a casa mia mangiavano meglio di noi. Le patate con il mestolo, con la sabbia te le buttavano là, non vi erano forchette, cucchiai, magari di notte, con rispetto parlando, certe che non andavano lontano al gabinetto perché era lontano la facevano là, magari tu mangiavi senza acqua, senza niente, l’acqua era come avvelenamento perché se la lasciavi lì un quarto d’ora venivano gocce di ruggine di sopra. Infatti, era proibito bere l’acqua, si mangiava neve in inverno e si calmava anche la sete.

Volevo dirvi questo del campo, ho dimenticato gli appelli, si stava ore e ore dritti su un appello, in estate che era caldo cascava per terra chi era più debole, non vi era via di scampo, si tentava di tenere su la persona ma non appena venivano a contarti vedevano subito, magari si metteva dietro la persona seduta e loro vedevano subito, la tiravano fuori e poi di quella persona non si sapeva più niente.

Un giorno vi era un rastrellamento, quel giorno si andava a lavorare. Un ufficiale con la tavola, quelli più sani li mandava da una parte, gli altri andavano a finire in crematorio. Vi era una mia amica che è di qua, di Trieste, fuori Trieste e prima di venire su era da 15 giorni a Trieste torturata dalla banda Collotti; ora non vogliono dire queste cose ma vogliono nasconderle. Questa donna mandava ogni giorno i vestiti a mamma a casa pieni di sangue. Quando l’hanno trasportata in campo ad Auschwitz, dopo tanto tempo le sono venute vesciche e croste. L’hanno vista e messa da una parte per il crematorio. la capa del blocco ha visto, dopo questi ufficiali consegnava alla Blockowa le liste e ha visto questo numero e l’ha scelta fuori, a rischio suo l’ha presa fuori da quella fila ed era cecoslovacca, non polacca altrimenti andava a finire dentro, oggi vi era solo cenere di lei e così l’ha salvata.

D: Maria, sei rimasta tutto il tempo ad Auschwitz, la Liberazione come te la ricordi?

R: Volevo dire ancora una cosa: negli appelli era una tortura perché venendo dal lavoro si veniva ancora con il chiaro e si restava ore e ore in quell’appello, d’inverno al freddo, ci si stringeva una con l’altra per farsi caldo, nevicava, eravamo già inzuppate dall’acqua, freddo ai piedi, quando i signori comandanti ci venivano a contare se mancava uno si poteva stare anche tutta la notte fino a che non trovavano la persona. Quando siamo arrivati in baracche, la tortura che era dei piedi, prima ghiacciati poi si scaldavano perché erano al riparo, era tutto un piangere dal tanto dolore e quello che era peggio è che il giorno dopo dovevi mettere i vestiti bagnati e stare sugli appelli ore, ore e ore, era una grande tortura, si diceva “Quando finirà questa tortura?”. Vi dico le cose che mi ricordo.

D: Come lavoro a Birkenau sei uscita dal campo per tagliare quegli alberi?

R: Poi scaricare quelle pietre, nei campi si lavorava, lavori brutti, pesanti ma quello era tutto sopportabile, quello che non si arrivava a sopportare, quando passavi vicino a qualcuno che pendeva, l’impiccavano. Ho visto una ragazza mancare, l’hanno trovata i cani, si era nascosta sotto le radici di un albero e i cani l’hanno trovata e sbranata, era tutto un pezzo di carne che pendeva di qua e di là.

D: Maria, la Liberazione?

R: Il 20 gennaio del 1945 ci hanno portati via da Auschwitz, hanno distribuito i viveri, a ognuno hanno dato una pagnotta di pane, poi un salame dolce, non so che cosa era, poi una specie di margarina e basta. Si portava una pignatta del latte per l’acqua per strada e abbiamo camminato tre giorni. Di notte ci fermavano sul posto e per strada ogni tanto alle fontanelle dell’acqua e le signore aspettavano con i mastelli di acqua per darcela. Chi era fortunato ma le SS le mandavano via e le bastonavano anche, erano civili di campagna, per strada ogni tanto vedevi sulla neve del sangue perché chi cascava per terra non si poteva tirarlo su, lo fucilavano sul colpo e lo spingevano fuori dalla strada dove vi erano dei fossati e lì finiva.

Per fortuna di notte ci fermavano, altrimenti, non si poteva perché tra indeboliti di tutto, mancava l’acqua, si arrivava a mangiare un po’ di neve ma non lasciavano fare nemmeno quello. Dopo tanti giorni si arrivava finalmente in una stazione ferroviaria, si aspettava il treno e si prendeva l’acqua che si riempiva per i treni, per i macchinari e lì ci hanno fatto andare sul treno, vagoni aperti dove trasportavano carbone, legna, e veniva giù neve ma si stava insieme, ci si scaldava e ogni vagone aveva il suo comandante, il suo militare che ci faceva la guardia. Da un vagone si è buttata una ragazza, questo ha sparato e finalmente siamo arrivati a Ravensbrück dove siamo stati tre settimane dove ci hanno dato solo tre volte da mangiare, per fortuna avevamo roba ancora da Auschwitz ed eravamo abituati a mangiare pochissimo, lì vi era quella giovane sposa che ha partorito sul treno, era sul vagone insieme a me, incominciava con le doglie e questo militare non sapeva che cosa fare, eravamo fermi alla stazione di Ravensbruk, un campo di sterminio solo di donne. Incominciava a perdere acqua e sangue, l’hanno portata dentro e ha partorito questo bambino, diceva che era un bambino bellissimo ma dopo dieci giorni è morto. La sua preoccupazione era cosa dire a suo marito quando sarebbe tornata a casa, se fosse tornata.

Quando lei è tornata a casa ha saputo che hanno fucilato il fratello, il marito e il papà non è più tornato a casa, ha perso tre persone care, infatti, non è più normale.

Dopo Ravensbrück siamo andati a Neustadt-Glewe

D: Scusa, a Ravensbrück siete rimaste tre settimane?

R: Tre settimane, e ci hanno dato tre volte da mangiare.

D: Ti hanno dato anche un altro numero?

R: Sì, ma non me lo ricordo, 73 o 79 …. Non lo ricordo.

D: Andavate a lavorare a Ravensbrück?

R: No, sempre dentro, baracche chiuse, ci hanno lasciato solo visitare qualche baracca, infatti, ho visto una famiglia che era di un paese vicino al mio, tutta la famiglia, mamma e tre figli, la mamma è morta lì, mi ha chiamata e mi ha detto “Dove siamo venuti?”, piangevamo insieme e non ho più visto questa mamma. Una è tornata erché le altre due sono morte dopo libere, hanno mangiato roba con diarrea, con rispetto parlando, e sono morte.

Non è finita ancora, siamo andate a Neustadt-Glewe che era in un posto più che brutto pericolosissimo perché le nostre baracche erano proprio messe in un posto, dietro di noi vi era l’aeronautica, nel nostro campo vi era un magazzino di armamenti, dall’altra parte vi era un campo aeronautico…

A Neustadt-Glewe la distribuzione del mangiare, quello che ad Auschwitz distribuivano per quattro persone lì per dodici persone, era un quarto di acqua, nemmeno, un bicchiere di acqua sporca e una fettina di quel pane sottilissimo che si poteva vedere oltre, ogni ventiquattro ore, ci mancava tutto.

Ci facevano anche andare a lavorare. All’appello ci si aiutava una con l’altra, pieni di cimici e di pidocchi, una cosa impressionante, non ci si lavava mai perché non vi era acqua, di corpo, con rispetto parlando, non si andava, prima di tutto perché era fuori, era fatto a pali e vi erano questi militari che camminavano di qua e di là, l’intestino non funzionava più.

Per andare all’appello eravamo tutte sedute per terra, queste SS erano donne, capivano che non si poteva stare su e dicevano “Tutte sedute”. Ci facevano alzare, andare nei boschi a lavorare e a scavare le trincee. Quando vi erano le SS facevano lavorare, ma quando vi erano i militari e altri no; dicevano di stare seduti e lui diceva sempre “Come volete che Hitler non vinca la guerra, guardate cosa ci danno da mangiare!”

Quello che ci davano ad Auschwitz davano i militari, le patate buttate per terra ma da mangiare era una cosa, nemmeno ai maiali davano cose così cattive da mangiare, quando ad Auschwitz davano da mangiare una certa cosa bianca, nessuno la mangiava, non so che cosa fosse, con tutta la fame ma veniva da rimettere, non abbiamo mai saputo che cosa fosse.

Finendo con Neustadt-Glewe quando si usciva, si vedevano per strada uomini ma non si arriva a capire se erano nel nostro campo o in altri campi, si vedeva questa gente, civili che portavano pagnotte di pane sotto le ascelle. Figuriamo questi uomini affamati, una volta li hanno assaliti e hanno preso questo pane, erano senza mangiare da non so quanto tempo e hanno preso questo pane, tutti senza mangiare da non so quanto tempo per castigo.

Un giorno di aprile, maggio, hanno fatto uscire tutti dalle baracche e ha parlato il capo del campo perché Neustadt-Glewe era comandata sempre da Ravensbrück ma il nostro comandante aveva l’ordine di mettere tutta la gente nelle baracche, sparpagliare la benzina e dare fuoco sul vivo. Lui ha risposto che non avrebbe mai fatto questo e noi siamo stati contenti di salvarlo perché se voleva poteva anche ammazzarci e ha detto “State tutti in appello e vi distribuiremo tutto il mangiare che abbiamo in magazzino”.

Quando ha detto così chi restava fermo con tutte le nostre forze andava, ma se si cadeva per terra nessuno ci salvava perché ci si calpestava. Siamo arrivati nel magazzino, ho mangiato miele, carne e zucchero, tutto era asciutto dentro e poi ho avuto terribili dolori di pancia, un dolore pazzesco, con rispetto parlando sono andata al gabinetto delle cape che era dentro, sono stata dentro più di due ore e non riuscivo poi finalmente mi ha preso, con rispetto parlando, la diarrea per non so quanto tempo. Tutti questi tre giorni tutti con questa diarrea fortissima e tanti sono morti, tantissimi, dopo liberi, tutte quelle sofferenze durante la guerra per poi morire lì ma volevamo solo saziarci, nemmeno sognarci più di andare a casa, solo saziarci.

A mio marito fa tanta pena quella donna, l’ha conosciuta per parte mia. Fa veramente pena a tutti perché ha sofferto, ho sofferto io, lei ha sofferto il massimo dei massimi perché a lei non bastava perché aveva il latte e non potendo allattare marciva dentro, una cosa pazzesca, quella donna ha sofferto terribilmente.

D: Maria, dopo che sei andata a mangiare il miele in magazzino che cosa è successo?

R: Non eravamo ancora liberi, era verso sera, tutto ad un colpo si vedeva il portone dove sono venuti tanti uomini in aiuto con picconi perché il portone non era ancora aperto e dopo incominciava ad aprirsi ma loro spaccavano i fili elettrici, a parte che non c’era più l’elettricità, per farci uscire più presto possibile. Poi ci hanno trasferiti dall’altra parte nelle baracche degli aviatori, eravamo liberi dai russi perché nemmeno loro avevano da mangiare. il comandante ci ha fatti andare a Neustadt-Glewe città, eravamo cinque persone con un militare russo, ci accompagnava per non lasciarci soli, perché era tutto vuoto, non vi erano persone, si cercava da mangiare. Siamo capitati in un appartamento, vi era un vecchio, una giovane, non so se figlia, con un bambino piccolo in culla, a questo militare è venuto da piangere nel vedere questo bambino piccolo, ha pensato ai suoi a casa, e ha detto “Se avete da mangiare dateglielo”. Si è messo in ginocchio per lasciare in vita questa giovane, non per me ma per loro, ha detto, infatti, abbiamo dato il nostro mangiare.

Ci ha ringraziati tanto, ci ha stretti e baciati, poi siamo andati via, ad un colpo mi sento sola, sono entrata in un appartamento, ho visto l’armadio aperto, ho preso paura perché sono rimasta sola, sono corsa fuori e finalmente ci siamo ritrovati e siamo andati via e siamo tornati in campo e abbiamo dormito, abbiamo cucinato sole, sempre nella baracca, in una stanza dove vi era un militare russo, siamo stati tre giorni poi ci hanno trasferite in un posto sotto gli americani, siamo stati quindici giorni e ci hanno dato bene da mangiare e poi di nuovo sotto gli inglesi a Lubecca, il 3 maggio, giugno, luglio, agosto, siamo stati tre mesi e mezzo, ed eravamo insieme con gli ex militari italiani, era veramente bello perché ci invitavano queste donne a pranzo, abbiamo anche ballato, era veramente, veramente bello, ho bellissimi ricordi dei nostri ex militari …. Veramente bello perché ci guardavano come fossimo sorelle e lì si nascondevano anche degli SS. Ogni tanto veniva il rastrellamento, sotto gli inglesi era tremendo e avevano ragione. Sotto la finestra della nostra camera si fermavano sempre in due perché noi si parlava lo sloveno, questi erano croati istriani, nessuno li lasciava entrare perché era anche ordine degli inglesi di non lasciare nessuno dentro, venivano i nostri ex militari italiani a trovarci ma altri non lasciavano entrare nessuno. Con i nostri ragazzi eravamo come fratelli e sorelle, era tutto un ben volersi, non amori ma una fratellanza bellissima, andavamo veramente d’accordo.

Tutto a un tratto uno degli ufficiali ha detto “Sapete quello che veniva sotto alla vostra finestra cosa era? Un militare ma non sapete che militare era”, poi ha detto “era in camera degli altri compagni di camera, quell’ex ufficiale italiano …” non ricordo i nomi, solo di uno che si chiamava Gianni. Questo ufficiale ha detto “Ecco perché non si spogliava mai la maglietta di sotto, aveva il tatuaggio SS” e così sono andati a finire… perché se erano sotto gli americani potrebbero essere ancora vivi.

Ci sarebbero altre cose ma dopo libere non credo che abbia tanto …..

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Non avevano i mezzi per portarci via, Amburgo era tanto lontano, questa era Lubecca ma doveva portarci fin su, finalmente hanno riparato i binari e si poteva rientrare a casa con il treno.

Sono tornata a casa il 1 settembre del 1945, il viaggio era molto lungo, non ricordo nemmeno quanti giorni ma era un viaggio felicissimo.

D: Ti ricordi che viaggio hai fatto?

R: Siamo venuti nel nord Italia dall’Austria, dal Brennero, ci siamo fermati al confine con l’Austria parecchie ore e mi ricordo che vi era un fiumicello stretto, siamo andate a fare il bagno, non si vedeva il fondo ma almeno per lavarsi un po’. Dopo tanto tempo ci siamo finalmente lavate dopo che siamo state liberate, pensate quanti mesi senza lavarsi, come può una persona stare così sporca, piena di cimici, di pidocchi.

D: Sei poi arrivata a Trieste?

R: No, Trieste, a Gorizia perché sono nativa di là, poi siamo rimasti sotto la Jugoslavia, il mio territorio era sotto la Jugoslavia, poi sono andata a Capo d’Istria dove ho conosciuto mio marito, ci siamo sposati e siamo venuti a Trieste nel 1956 perché si voleva andare in America ma non vi era più spazio, in Australia era troppo lontano ma mi dispiace non essere andata.

Sordo Albino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sordo Albino, nato a Castel Tesino il 24/7/1924.

D: Albino quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 gennaio 1945 a Castel Tesino, in casa, perché era appena arrivata la sera e alla mattina …

D: Tu eri arrivato da dove?

R: Dal Pader perché lavoravo a Pader perché dopo lo sbandamento mi sono ridotto solo a Pader e la sera dell’ultimo dell’anno rientro a casa…

D: Ma chi ti ha arrestato? Erano italiani o tedeschi?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: E ti hanno accusato di che cosa?

R: Di essere partigiano.

D: E tu eri partigiano?

R: Sì.

D: Con quale formazione?

R: Quella…, sono passati tanti anni, l’unica formazione che c’era qua nel tesino che veniva da…

D: Da via Glenda?

R: Sì, che la comandava il comandante Cumo.

D: Il tuo nome di battaglia qual era?

R: Nina.

D: Perché Nina?

R: Perché era la morosa.

D: Quando sono venuti in casa e ti hanno arrestato, dove ti hanno portato?

R: Ho visto che passano i tedeschi e allora ho guardato la porta della casa e ce ne erano due sulla porta della casa e allora ho chiuso la porta della casa e sono andato nella sala, ho aperto la porta della sala e ce ne erano altri due.

Mi hanno arrestato e mi hanno portato in municipio e là mi hanno fatto l’interrogatorio, ho preso anche qualche bella legnata.

Là ho passato la giornata e mi hanno fatto l’interrogatorio come a tutti, eravamo in undici e mi hanno messo su un camion e mi hanno portato a Strigno, là a Strigno ci siamo fermati…e poi siamo andati a Roncegno, in piazza a Roncegno.

Là, il giorno dopo, sono venuti a prenderci due alla volta alla caserma e ci portarono giù.

La c’erano dentro diversi tedeschi tra i quali Egendat e altri.

Uno alla volta mi interrogavano…

Dopo di me andava dentro un altro; hanno passato la giornata a interrogarci tutti e poi tornavano e li portavano su dai carabinieri.

Si pregava, si bestemmiava e non si sapeva la fine che si faceva; dopo un giorno o due, non mi ricordo, mi mettono alla mattina presto sul camion, destinazione ignota e siamo arrivati a Bolzano .

D: Nel campo di Bolzano?

R: Nel campo. Ci hanno scaricati dal camion, c’era un po’ di confusione.

Dopo hanno cominciato a domandare quelli che era capaci di fare i calzolai, falegnami, elettricisti, sarti e allora io e il Marietto siamo andati in calzoleria.

Non si stava neanche proprio male; c’era un capo della calzoleria che era un veronese. Ho fatto un po’ di amicizia con il capo calzolaio e siamo andati avanti a sistemare…… gli zoccoli di legno.

Passava un mese e intanto facevano le partenze, ne hanno fatte due intanto che eravamo là: una è andata a Mauthausen , l’altra invece li hanno portati alla stazione, alla notte c’è stato un bombardamento e li hanno riportati nel campo, dopo quella volta non ne hanno più fatte perché la linea del Brennero era sempre rotta.

Quelli che avevano avuto la fortuna nostra, che orami eravamo alla fine della guerra, abbiamo fatto quattro mesi noi, e di partenze non hanno più potuto farne.

D: Albino ma la tua immatricolazione te la ricordi? Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: 8048, mi pare che era.

D: E ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso.

D: Ti ricordi il nome del tuo capo calzolaio, quello lì di Verona?

R: Era Veronesi di cognome, ma il nome…

D: Veronesi di cognome?

R: Veronesi di cognome, me lo ricordo sempre.

D: Albino, ti ricordi quando tu eri nel campo se c’erano delle donne?

R: Sì c’erano, c’era il blocco delle donne.

D: Ma c’erano anche donne della Valsugana?

R: Sì ce ne erano due della Valsugana, madre e figlia, che erano di Novaredo.

D: E altre donne invece non te le ricordi della Valsugana?

R: No.

D: Tu non te le ricordi Albino?

R: No. Di giorno si era sempre lì in calzoleria che si lavorava e la domenica, che non si lavorava e c’erano libere anche le donne nel cortile, però io ero sempre dentro in branda e non…

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini?

R: No, non ricordo di avere visto dei bambini.

D: Ti ricordi dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, di sacerdoti ce n’era uno di Castel Tesino, che lo avevano portato a Bolzano, però dopo quando eravamo arrivati noi era già partito per la Germania.

D: Come si chiamava?

R: Don Narciso Sordo.

D: E perché era stato arrestato lui?

R: Per la questione che diceva che era dei partigiani, che sovvenzionava i partigiani ma nessuno era sicuro, non si sapeva niente. In agosto del ’44 e in ottobre del ’44 è venuto lo sbandamento, il rastrellamento , hanno portato via diverse persone qua, bruciavano le case perché ….un certo Marietto che era il padre del Renata, che poi è passato comandante dei partigiani, perché prima c’era Cumo poi con il rastrellamento … Cumo è morto e allora ne hanno fatto un altro che era…, adesso non mi ricordo più il nome.

Dopo, verso primavere, è restato un gruppetto di partigiani qua della zona, tra i quali c’era questo Renato Menefreo di Castello.

E’ restato un gruppetto e allora quando c’è stato l’ Armistizio si è formato di nuovo il gruppo e c’era il commissario, uno di …, nome di battaglia Adeo, il comandante era Marietto Celestino che era Renato.

D: Albino, ma tu con don Sordo siete parenti?

R: No.

D: Non siete parenti?

R: C’era un altro don Sordo dopo che era nei partigiani, che il nome di battaglia era Corvo ed era un prete, che dopo io con lui ho fatto una staffetta dalla malga qua dentro di Rabbiosa a Pietena dove c’era il comando a Pietena.

Il comandante che è ancora vivo, abita a Varese, era un capitano degli alpini di Varese.

Dopo è venuto il rastrellamento. Io con questo Corvo siamo partiti da Pietena, siamo arrivati a Rabbiosa, ha detto la messa e poi siamo venuti a Castello che qua si faceva il voto, il famoso voto dell’8 ottobre.

Noi eravamo in diciotto al Castello, il prete è andato su in chiesa ma io non sono andato. E’ arrivato uno e dice: “Io arrivo adesso da Grigno e la strada è tutta di tedeschi che vengono in su”.

Io sono andato ad avvisarlo e anche il Marietto e siamo scappati via dall’altra parte; quella sera sono andato ad avvisare anche ……, che era via con il vice comandante che era Nazzari di nome di battaglia e siamo scappati in Val Busa che c’erano delle gallerie…

D: Albino a proposito di sacerdoti, ti ricordi nel campo, a Pasqua, quando è stata fatta la messa?

R: Sì.

D: Hai partecipato anche tu?

R: Sì, si partecipava.

D: Ma ascolta, è entrato questo frate, questo sacerdote a celebrare la messa e dove l’ha celebrata? Te lo ricordi?

R: Sul piazzale, là sul piazzale in piedi.

D: Hanno distribuito qualche immaginetta sacra quel giorno lì?

R: No, io non mi ricordo di aver preso delle immaginette sacre, no, non le ho viste.

D: Ti ricordi, quando tu eri a Bolzano, se hai visto azioni violente?

R: No, là nel campo no. Però avevo sentito dire che quando non si poteva più portare dal Brennero per andare in Germania, mettevano della gente sul camion e li portavano fuori, però io non li ho mai visti.

D: E nel campo tu non hai mai visto azioni violente?

R: No. C’è stata una sera che hanno fatto un bombardamento gli americani e avevano centrato il magazzino della mensa e là quelli che erano di guardia intorno al campo …sono venuti giù dabbasso, perché se no tentavano di scappare, non facevano scappare nessuno.

D: Ma ci sono stati tentativi di fuga dal campo?

R: Sì, avevano fatto anche un box sotto che passava, però non sono riusciti a scappare, sono stati scoperti prima. Perché non c’era da avere neanche tanta …, perché se avevi paura…, perché se li vedevano le spie li portavano ai tedeschi.

Dopo c’era il comitato dei comunisti, non si capiva più niente.

D: Tu eri nel blocco A?

R: Blocco A.

D: Ti ricordi il tuo capo blocco come si chiamava?

R: Ermanno Trasferini.

D: Gigi Novello, non ti dice niente questo nome: Gigi Novello?

R: Era partito Gigi Novello, prima.

Era il fidanzato della Cicci, ma non era nel blocco A, veniva dal blocco B o C.

Nell’A che comandava era Pasqualini, che se si avevano soldi si poteva comprare della roba.

D: Ma dai, si poteva comprare?

R: Scatolette di sardine, roba di vestiario…

D: Quando tu sei arrivato nel campo a Bolzano, nei giorni dopo hai potuto scrivere a casa?

R: No, no.

D: E neanche ricevere pacchi?

R: Sì, è venuta mia mamma e sua mamma del Marietto e un’altra, Donata, a portare i miei pacchi; dentro mi hanno portato il pacco e me lo hanno consegnato.

D: Come avvenivano le partenze? Te lo ricordi?

R: Li mettevano tutti in fila e poi passavano due, terzo…, tre, quattro, terzo…, avevano quel sistema là.

D: Ma tu ne hai viste di partenze?

R: Io ne ho vista una di partenza e dopo la seconda li hanno portati al blocco perché la linea era saltata.

D: Tu quindi sei sempre stato in calzoleria a lavorare?

R: Sempre in calzoleria. Lavoravo in calzoleria e dopo hanno mandato via il magazziniere e mi hanno passato anche magazziniere della calzoleria. Si andava a prendere della roba su in magazzino, la portavo in calzoleria e si dava a chi lavorava.

D: Dove era il magazzino della calzoleria?

R: Si entrava ancora nel campo e dopo si andava in su, c’era una baracca con due della polizia davanti alla parta e ti stavano dietro, si prendeva la roba, li contava e poi li portavo in calzoleria.

D: Che materiali c’erano nel deposito?

R: C’era tutta roba di cuoio, a quegli zoccoli di legno si metteva su il cuoio e si facevano anche le scarpe per le SS, quelli che erano capaci di farle.

Io dall’inizio alla fine ho sempre avuto quel paio di scarpe che mi hanno consegnato, che erano ancora da finire ancora da principio e le ho portate a termine e le ho portate anche a casa, le avevo nello zaino.

D: Albino quindi, al mattino la sveglia, appello e poi andavate in calzoleria?

R: Sì e poi si andava in calzoleria.

D: E a mangiare a mezzogiorno?

R: Quello che ci davano.

D: Ma in calzoleria o nel campo?

R: No, si andava nel campo a mangiare.

D: Ritornavate nel campo e poi al pomeriggio?

R: Ritornavamo a lavorare.

D: Ancora in calzoleria? Quattro mesi così?

R: Quattro mesi così.

D: Tu fuori dal campo non sei mai andato a lavorare?

R: No, mai.

Quelli con il triangolo rosso non li facevano andare fuori dal campo.

D: Albino come ti ricordi la Liberazione?

R: La liberazione me la ricordo che alla mattina, alla sveglia, quando ci siamo alzati ho guardato fuori dal finestrino e non c’erano più le guardie sulle garritte, le mitragliatrici erano a terra.

Io ho pensato: “Qua Albino è successo qualcosa”!

Dopo è arrivata la voce che c’era la Croce Rossa Internazionale che pochi alla volta hanno mandato via tutti.

Qualcuno è stato fortunato che è andato via di qua il giorno prima, anche due e noi altri cinquanta alla volta; cinquanta li mettevano sul camion e anche se dovevano andare a Trento lo portavano in Val di Non, cinquanta li portavano da una parte, cinquanta fuori a piedi.

Toccava a tutti di andare fuori a piedi dopo.

D: Ma ti hanno dato un lascia passare?

R: Sì e dopo ci siamo trovati fuori a Ora e c’erano tutti i tedeschi che scappavano in su con le biciclette e con i carretti.

Io sono andato giù verso Trento, ho preso la strada che andava in Val di Fiemme e ci ho messo cinque giorni ad arrivare a casa, a piedi.

Volevamo fare il passo del Manghe, siamo arrivato al passo Manghe.

Alla mattina per andare fuori dalla porta c’era tanta neve fresca così.

C’era il biglietto, c’erano dei posti di blocco dove davano qualcosa da mangiare, a quelli che fumavano gli davano un pacchetto di tabacco da tagliarselo in due e piano piano siamo arrivati a Borgo.

Prima di arrivare a Borgo c’erano i contadini… a Borgo c’erano ancora i tedeschi che si stavano ritirando e ….i partigiani a Castello e siamo andati dall’Eugenio e là c’erano questi partigiani che io non avevo mai visto.

C’era uno che era un comandante dei partigiani …che prima era maresciallo delle SS.

D: E non gli hai detto niente tu Albino? Non gli hai detto niente a questo qua?

R:No, è venuto fuori un caso, mi ricordo benissimo.

Gli ho chiesto se era il comandante dei partigiani. Non mi ha neanche risposto.

Il municipio era pieno di armi, ho tirato fuori un fucile e un mitragliatore e ho preso una macchina.

Siamo andati via e siamo arrivati fino a Borgo con questa macchina e dopo da Borgo mi hanno portato fino a Pieve.

A Pieve abbiamo trovato mia mamma, sua mamma e compagnia che erano venuti a cercarmi, Marietto era già arrivato…

Siamo scesi dalla macchina … e a piedi sono arrivato qua.

D: Nel maso?

R: Avevamo le bestie, c’era mio papà con le bestie, mia mamma…, avevo un fratello più giovane, non mi ricordo neanche dov’era e siamo arrivati qua.

Le botte che abbiamo preso e la paura che abbiamo avuto in quei quattro mesi.

Dopo non sai più organizzare niente, dopo.

Quella volta c’era una cartolina da …, la Polizia Trentina o se no ..a nascondersi da qualche parte.

E io non avevo molta voglia di andare nella Polizia Trentina.

Poi avevo vent’anni, a vent’anni si ragiona anche poco.

D: Albino ti ricordi nel ’47, se non mi sbaglio, che qui in un paese vicino era stato ucciso uno che dicevano che era un fascista della decima Mas?

R: Non me lo ricordo.

Qua in Valsugana?

D: Sì.

R: No.

D: Non te lo ricordi? Era stato ucciso da ex partigiani uno.

Che poi avevano fatto un processo. Non te lo ricordi?

R: Mi sa che non è successo a Pieve

Massari Giovanni

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Massari Giovanni.

D: Nato?

R: A Castiraga Vidardo. Provincia di Milano.

D: Quando sei nato?

R: 2 Aprile 1925.

D: Giovanni ci racconti la tua storia da quando sei stato arrestato?

R: Incominciamo dalla montagna. Eravamo in montagna; un grosso rastrellamento, allora ci hanno chiesto di aiutare tutti, di aiutarci a vicenda per far fronte a quelli che arrivavano, tedeschi o… Ve bene. Non volevano che andassi, ad ogni modo ho voluto andare. Vado anche io, vado anche io e siamo andati. Siamo andati su di una montagna dalla parte di Pradleves Val Grana. Sono circa 1000 – 1200 metri circa, lì c’era una casetta, dovevamo fare la guardia a tutto quel costone di montagna. Due ore per ciascuno di notte.

Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finito i nostri compiti Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finiti i nostri compiti siamo scesi, eravamo, del mio distaccamento eravamo in due, poi c’era un altro di un altro distaccamento, poi c’erano altri due di altri distaccamenti e siamo scesi tutti assieme. Diretti alla centrale.

D: Scusa Giovanni, quando avveniva questo, in che periodo, in che mese, in che anno?

R: Nel periodo di novembre principio di dicembre.

D: Di che anno?

R: Del 1944.

D: Ma quando tu parli di distaccamenti, sono distaccamenti militari o erano formazioni partigiane?

R: Partigiani. Formazione partigiana.

D: Quindi tu eri un partigiano?

R: Esatto.

D: Di che formazione eri?

R: Giustizia e Libertà.

D: Quanti anni avevi allora Giovanni?

R: 19 anni.

D: Allora siete scesi dalla montagna.

R: Siamo scesi e siamo andati al comando. Al comando non c’era più nessuno, sono andati via. Cosa è successo? La gente fa “Ma siete ancora qua? Sapete che ci sono in giro i tedeschi?” Va bene, noi andiamo al nostro distaccamento.

Strada facendo, a fianco di solito c’erano quei tronchi di albero che loro mettevano attraverso la strada per qualche incursione tedesca. Non c’erano più. Erano spostati. Se si trovava la gente diceva “Andate su per i sentieri perché ci sono in giro i tedeschi”. Noi su per il sentiero siamo andati su al nostro distaccamento. Quello là è andato al suo distaccamento che era più in alto di noi e noi due siamo andati al nostro posto al nostro distaccamento. Là non c’era più nessuno. La gente del posto ci ha detto “Hanno lasciato un biglietto, se volete raggiungerli sono al tal posto così e così, Città del Fieno”. “Dov’è?”. Il mio amico che era di Cuneo, dice “Io l’ho fatta una volta, andiamo?”. Ma sul biglietto c’era scritto “Partite di notte”. “Ma no, dice, partiamo di giorno perché altrimenti io la strada non la so più”. Come si fa? Già sparavano in giro, sparavano. Porca miseria.

Allora che cosa si fa, su per la montagna, dobbiamo cavalcare la montagna e andare giù dalla parte di là. E su, e su, e su questa montagna, quando siamo arrivati in cima non c’era più vegetazione, non c’era più niente. Non so l’altezza di preciso. Si sentiva sparare da tutte le parti, ma dove sparano. Noi andiamo giù di là, e chi si è visto, si è visto.

Strada facendo per andare giù dal costone della montagna abbiamo sentito dire “Mani in alto. Mani in alto”. Ma io sono rimasto pietrificato. “Cosa state facendo”, dicevo. Credevo erano partigiani, invece erano tutti tedeschi. Una raffica di mitra per aria, avevano quella mitraglietta lì ed abbiamo alzato le mani. Non c’era niente da fare. Sono saltati fuori, saranno stati un centinaio. Nel bosco e nei dintorni lì. Sono venuti là e prima di tutto ci hanno tolto il fucile, la cintura, che cadevano persino i pantaloni. Mi hanno preso per qua e mi hanno detto “Adesso venite con noi”. “Dove sono i partigiani, dove sono i banditi?”, loro non chiamavano partigiani, “Dove sono banditi?” Ed io “Guarda, a dire la verità arriviamo qua adesso”. Ad ogni modo lì sono venuti tutti, tedeschi, fascisti, brigate nere, ce ne erano di tutti i colori…venivano da Milano. Quei fascisti lì erano collegati con i tedeschi e venivano da Milano.

D: Giovanni ti ricordi che giorno era quando ti hanno arrestato?

R: Quando mi hanno arrestato non lo so. Lì ho perso tutte le bussole.

D: Era inverno però?

R: Sì. Era il mese di novembre, la fine di novembre. Perché mi ricordo che il 28 novembre, anzi, ottobre è nevicato e dopo un po’, eravamo in dicembre, adesso non lo so.

D: E dopo da lì dove ti hanno portato?

R: Lì ci siamo incamminati e si andava giù dalla montagna e dicevano “Tutti Kaputt”, via tutto e siamo rimasti là con i pantaloni e la giacca e basta. Porca miseria. E siamo andati giù al comando. Giù al comando c’erano radunati tutti i fascisti e tedeschi, un disastro di militari.

D: Ma dove, in che paese?

R: Era Pradleves, Val Grana. Lì hanno incominciato l’interrogatorio. “Dov’è la benzina, dove sono i banditi, da dove venite…” ed hanno incominciato a picchiare. Lì insieme ai fascisti che c’erano lì e che venivano da Milano ce ne era uno che conoscevo e mi ha detto “Ma io ti conosco, tu sei di San Donato”. Perché io abitavo a San Donato. “Sei di San Donato” e lui era di Noceto, Porto di Mare e dalle parti di Piazzale Corvetto a Milano, Cascina Grande verso Chiaravalle. Abitava lì lui. “Ma io ti conosco, sei venuto là ad aiutare a buttar giù il fieno dalla cascina quando c’erano i bombardamenti ed ha preso fuoco la cascina”. “E sì, ho detto, eravamo sbandati”. “Va bene, fa, hai fame?” “Altroché, gli ho detto” “Hai le sigarette?” “Non ho niente, sono qui così”.

Mi ha dato tre sigarette, e mi fa “Adesso parlo con il comandante, se posso tirarti dentro qua, vieni a Milano, poi te ne vai, più importante è arrivare a Milano”. ” Va bene, prova”. Difatti è andato dal comandante, ed il comandante, sentivo, in quel momento è corso là uno di loro, non tedeschi, fascisti e mi fa “Cosa hai in mano?” ” Mi ha dato tre sigarette quel signore là”, ” Ma sei pazzo, gli ha detto a quello, tu sei matto a dare la roba ai partigiani”, che loro chiamano banditi. “Ma io lo conosco quello lì”, “Non mi interessa”, mi ha preso le sigarette, le ha rovinate e le ha buttate via. Intanto il mio amico parlava con il comandante, io lo chiamo amico perché abitava nelle vicinanze di San Donato.

È andato là e gli fa “Fallo venire qua”, io sono andato là, mi sono presentato, mi fa ” Di dove sei?” “Di San Donato”, mi ha guardato in faccia “Non hai vergogna, siamo tutti di Milano noi, siamo tutti di Porta Romana, non hai vergogna ad essere qui in mezzo a questa gente qua, in mezzo ai banditi?” Cosa potevo rispondere io, io ero al militare e sono scappato dal militare, per forza ho dovuto fare, però non glielo ho detto. “Vattene a posto”, mi ha sputato in faccia e fa “Ringrazia Dio che ti hanno preso i tedeschi, se ti prendevamo noi ti fucilavamo subito.” Io sono andato a posto e lì ha cominciato a prendere anche degli altri ed interrogarli, ogni tanto venivano là: “Vieni qua, dove sono i partigiani, dov’è la benzina, dove sono le munizioni, dove sono andati banditi?” Per il momento non picchiavano.

Viene la sera. Viene la sera tutti fucilati. Difatti eravamo in tredici. Tredici tutti là contro il muro, dietro l’albergo. Perché c’era il comando, era dentro l’albergo il comando di Pradleves in Val Grana, dietro c’era la mura. Volevano fucilare l’albergatore, volevano, c’era la moglie che impazziva, noi eravamo là contro il muro così. Viene là il tedesco, fa “Banditi, sì, banditi”, uno di quelli che avevano i gradi, “Te, fucilare”, arriva uno con il moschetto, con l’elmetto, fuori. L’hanno portato non so dove e si è sentito il colpo, uno è andato.

Poi “Te, dove sono i banditi, dove sono ecc,” “Non lo so”, “Fuori, fucilare”. Fucilare e quello là va fuori e si sente il colpo anche a lui. Poi fa segno a me, “Te fuori, no te, quello di fianco”; io tiro un po’ il fiato e di fatto è uscito quello di fianco a me e stessa fine. Sentito il colpo “bum”. Bene, lì così dopo un po’, dopo che hanno interrogato tutti sono venuti fuori tutti quelli là, “Non vi hanno fucilato?” “Non lo so, ho sentito il colpo, ma vedevo ancora il muro. Ci è andata bene.” Lì allora ci hanno chiusi nella cantina quella sera lì, nella cantina ogni tanto ne buttavano dentro uno. È venuto dentro un francese. Quando sentivi aprire la cantina, ne hanno buttato uno dentro per forza, era un francese. E non si capiva che cosa diceva. Tutto così.

Al mattino altro interrogatorio. Fuori dalla cantina c’era un’osteria lì vicino, eravamo nel gioco delle bocce, tutti là ad aspettare l’interrogatorio ed andava dentro uno per volta nell’osteria e là viene fuori uno con una faccia così. Ne hanno date chissà quante. Poi sotto un altro, poi sono andato io. Dentro.

Dentro erano là in quattro, uno picchiava di qua e mi buttava su quello là, quello là mi picchiava e mi buttava sull’altro. Facevano il giro, ma pugni e pedate. Volevano sapere dove era la benzina e dove erano le armi e dove erano andati banditi. Sempre questo. “Ma io non lo so, non so niente, che ne so io dove sono andati e dove era la benzina”. Noi eravamo su in cima alla montagna, non so cosa succedeva giù qua e giù botte.

Ad ogni modo dopo mezzogiorno ci hanno caricato sul camion, sul camion via, e vai e vai siamo andati a Saluzzo. Ci hanno rinchiusi nel Castello di Saluzzo al primo piano. Si vedeva in un angolo della finestra un po’ di pianura, faceva un freddo. Si vedeva tutta la campagna bianca, tutta la brina che c’era. Lì tutti i giorni interrogatori, però non picchiavano. Siamo andati in una Chiesa, nella Chiesa del Castello. Sembrava proprio Schuster, assomigliava tutto a Schuster nel parlare e diceva “Dove sono banditi? Perché sei qua? Da dove vieni?” Interrogatori così.

D: Sempre tedeschi che ti interrogavano?

R: Eh?

D: Erano sempre i tedeschi che ti interrogavano?

R: Sì, sì. Non si andava fuori dalla stanza del Castello senza la guardia tedesca. Questo sembrava un prete. Mi interrogava e dopo alla fine gli ho detto “Io ho detto tutto, cosa volete da me, non ho niente da dire.” E poi gli ho chiesto “Cosa ci faranno a noi?” “Non si preoccupi”, mi ha detto, “vi impiccano tutti.” “Vabbè, siamo a posto allora.”

Lì niente, siamo stati lì circa una settimana, circa. A mezzogiorno suonava la campana quella grossa del Castello, era mezzogiorno, quelli che c’erano dentro, i miei compagni dicevano “Ecco quando suona il campanone grosso è uno che va”, allora veniva addosso un po’ di paura. È passata circa una settimana, circa.

Un bel giorno di mattina presto presto, era ancora buio “Fuori tutti”, fuori tutti in colonna. In colonna, tedeschi a destra e a sinistra di questa colonna. Siamo andati al trenino, lì c’era un trenino, non so da dove veniva, forse da Cuneo e faceva Cuneo – Val Grana e andava fino a Torino e lì ci hanno caricato su questo trenino e siamo andati a Torino.

Siamo venuti a Torino ed in colonna abbiamo preso il Corso, e siamo arrivati alle Nuove.

D: Scusa un attimo Giovanni, su questo treno qui, i vagoni come erano? Erano vagoni passeggeri o erano carri di bestiame?

R: Era un trenino, un tram non era, era una specie di tram, ma era un trenino, aveva tante carrozze.

D: Ma c’erano anche dei civili o solo voi?

R: No, no, solamente noi. Non c’erano civili lì. I civili avevano paura. “Il primo che tenta di scappare” dicevano, “guardate che ci andate di mezzo tutti. Spariamo anche contro gli altri.” Allora “Non scappare, non scappare. Ti raccomando che noi non c’entriamo niente”. E lì siamo andati a Torino, in colonna.

Mi ricordo che era un Corso, e c’era gente a destra e a sinistra e ci guardavano e a destra e a sinistra c’erano tedeschi armati e ci hanno condotto alle Nuove.

Ci hanno messo dentro in una cella che deve essere stata la cella… non so, era uno solo che stava dentro. C’era una branda di ferro, l’abbiamo alzata perché non ci stavamo tutti dentro, eravamo in tre e non ci stavamo. Il bagno era un buco e basta, un buco così. Poi per tavolo c’era, usciva dal muro un pezzo di asse così e sopra c’era scritta la dama.

Quel legno lì, quell’asse lì che usciva dal muro, si capisce che, tornando indietro c’erano quelli che hanno tirato via dei pezzi di mattoni per fare la dama. C’erano dentro i pidocchi, c’erano dentro le cimici, cimici rosse c’erano. Erano rossi. E lì siamo stati così.

Ho incominciato a sentire le pulci, leva tutto, guarda la camicia, non erano pulci, erano pidocchi, pidocchi neri. O porca miseria. Non erano pidocchi, avevo la scabbia.

Quando venivano a portare il rancio, qualche cosa ci davano, gli dicevo “Guarda che abbiamo la scabbia”, “Arrangiatevi”. Lì da tre siamo diventati cinque. In cinque in una cella, tutti per terra, non c’era niente, né paglia né niente, tutti per terra così con la coperta e basta, ognuno aveva la sua coperta. Quello che andava in bagno, il buco era lì, perché sarà stata due e qualche cosa di lunghezza ed uno e qualche cosa di larghezza. Ci stava la branda perché si faceva su la branda. Si agganciava al muro e c’era quel pezzo lì che era piegevole. Si poteva tirare su ed il sedile lo stesso, ma sbandava tutto perché levavano tutto.

Lì quando uno andava in bagno si sentiva, no, l’odore non era niente. Si sentiva bagnare la faccia perché non era un bagno come i nostri, era un buco e basta, però c’era l’acqua corrente. Si tirava la corda, almeno andava giù. Parlando materialmente.

Lì passa un giorno, passa due, passa tre ogni tanto venivano là le suore e ci davano un tozzo con dentro le castagne lesse. Qualche cosa ci davano da mangiare.

Veniva là il secondino e gli dicevo “Guarda che io ho la scabbia, portatemi in infermeria.” Quasi tutti i giorni ci portavano giù uno per uno a fare ancora l’interrogatorio, allora “Portatemi in infermeria, altrimenti qua ce la prendiamo tutti perché attacca quella malattia.”

Il secondino era un fascista, sarà stato uno e cinquanta, uno e sessanta, sembrava Charlotte quando camminava e gli dicevo “Capo, guarda che noi abbiamo la scabbia” “A me non interessa, tanto vi impiccano tutti”, diceva sempre così. Ed io grattavo, quello là grattava, si può immaginare che cosa c’era dentro. Eravamo tutti infestati da quella malattia lì.

Lì siamo stati lì, non so, un quindici giorni.

D: Giovanni, lì ti hanno dato un numero a Torino, ti hanno immatricolato?

R: No, no, niente, niente.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno cambiato e ci hanno dato la divisa della Decima Mas, leggerissima, molto leggera. Nera. I miei li hanno buttati via, non so che cosa hanno fatto. Ma la scabbia c’era.

D: E dopo quindici giorni delle carceri le Nuove a Torino?

R: Dopo lì quindici giorni, lì perché io l’ho saputo, ci hanno caricati fuori tutti e ci hanno caricati sul camion, alle Nuove, ci hanno caricati sul camion e destinazione chi lo sa. Chi ha avuto fortuna, chi aveva un pezzo di carta in tasca ed una matita scriveva, “Avvisate tot che noi siamo partiti, partiamo e non sappiamo dove andremo”. Insomma. Ma io non avevo niente perché dopo la guerra ho saputo che mio padre e mia sorella hanno fatto di tutto per venire a Torino a trovarmi e sono arrivati lì “Sono partiti tutti” “Per dove?” “Non si sa”. Nessuno sapeva niente.

Lì con i camion, quel giorno, partiti. Preso l’autostrada e chissà, era chiuso tutto con il telone, e c’era giù anche di dietro il telone quasi tutto, non si vedeva niente, si vedeva un pochettino e basta. Si vedeva la strada in basso e basta, ed il camion andava.

Arrivammo a Milano, penso che era Milano, si sono fermati lì, guardo c’erano i fascisti così, c’era uno, come si chiama quello… Amedeo Nazzari sembrava, tutto lui. Un trench, aveva su un trench con la mitraglietta, in mezzo a tutti i fascisti per fare la guardia, se qualcuno scappa, i camion si sono fermati, forse a fare rifornimento.

D: Ecco Giovanni, i camion erano tanti?

R: Chi lo sa. Non si vedeva niente, i teloni erano giù dappertutto.

D: Sul tuo camion eravate solamente uomini?

R: Sì, sì, donne non ce ne erano.

D: Non ce ne erano?

R: No, no. C’eravamo noi, c’erano su due tedeschi con la mitraglietta e basta. Lì si capì che hanno fatto rifornimento al camion, non lo so. Ed ho visto quel tale lì in mezzo ai fascisti e sembrava tutto Amedeo Nazzari. “Ma quello là è Amedeo Nazzari”.

Lì i camion partono ancora a colonna, penso che erano a colonna, perché non si vedeva niente, era tutto chiuso. Parte ancora e si va e si va. “Ma dove si va? Dove andiamo?” Tanti dicevano “Andiamo a Verona, forse, là ci smistano ed andiamo a lavorare.” Speriamo che sia la volta buona. Vai e vai, difatti siamo andati a Verona. Verona nel Castello. Dentro nel Castello tedeschi dappertutto.

Lì siamo scesi dal camion c’era là un pullman ma era una corriera ancora di quelle vecchie, saremmo stati su, tutti pigiati così, saremmo stati su, non lo so, circa un centinaio. Tutti ammassati dentro. Su questo pullman qua, parte. Non siamo andati neanche dentro, non ci hanno dato neanche un caffè, niente da mangiare, niente niente.

Lì su questa corriera, la corriera comincia a partire, ma dove andiamo, chi lo sa, l’altro dice “Non lo so”. L’altro dice “Forse andiamo a Bolzano, là ci distribuiscono ed andiamo a lavorare”, “Speriamo, prima di qua, e poi di là, cominciamo ad andare a Bolzano, poi vedremo”. Lì ancora su questa corriera tutti chiusi dentro. Cominciava a far freddo, andare su tra quelle montagne, fino a Bolzano.

C’erano quelli feriti, c’erano quelli che volevano andare in bagno, tutto su, un odore, insomma una puzza che non si poteva respirare. Tirare giù il finestrino non si poteva perché c’erano su i tedeschi e “Guai a voi se aprite un finestrino”. Era tutto appannato e non si vedeva niente fuori. Fuori faceva freddo, dentro si moriva dal caldo.

Lì siamo andati a Bolzano, era buio oramai, non si vedeva niente, non so se era un campo di concentramento, cosa era non lo so. Era tutto buio. Giù da questa corriera, siamo andati dentro a questo campo di concentramento a Bolzano. Io non sapevo dove era, mai stato e mai sapevo che c’era un campo di concentramento, mai sentito nominare. Dentro lì. Ci hanno chiusi dentro lì. Tutta notte lì, a dormire. C’erano le brande a castello, quella sera lì.

Al mattino, su, ci hanno dato un pochettino di caffè. Ma a cosa serve il caffè. Ho bisogno di mangiare. Prima di tutto gli dico “Guarda che io ho la scabbia”, ” Bene, bene chi ha la scabbia fuori”, da uno solo che ero io, ne sono saltati fuori ancora tre. Allora “Perché non parlate?”

Allora lì dopo che cosa hanno fatto? Dopo il caffè mi hanno messo nudo ed hanno preso il pennello con…

D: Il disinfettante.

R: Come si chiama, lo zolfo. Tutto giallo. Ha cominciato da qua sotto, tutto giallo. Tutte le mattine dovevamo fare quella pennellata lì. Ma la scabbia cominciava a fare puzza, a fare l’acqua. Non era troppo bello.

Lì siamo andati avanti un po’ così. Ad un tratto una mattina c’erano quelli vecchi, perché il capannone era così, se lo ha visto quel campo lì, sembrano quei capannoni mezzo rotondi. A sapere portavo qua il libro che mi hanno mandato.

Lì le mura non andavano fino contro là, era dopo la metà. Quelli che dormivano sopra là, guardavano dall’altra parte, c’erano le donne di là o tenevano qualche cosa da mangiare. Andavo là io e non mi volevano. “Dove vai te, non si può venire qua.” Perché volevano prenderlo loro. Noi sempre lì a fare quella vita lì. Guarda a destra e guarda a sinistra, dove dormivo io, dormivo in basso, in primo piano, piano terra, sempre su un castello, ho visto un buco. Ho visto un buco grosso un dito, grosso così. Ho guardato di là ed ho visto una donna, “Signora, signora” ma lei non rispondeva, provo a chiamare più forte, perché se sentivano guai, se mi pescavano che c’era il buco lì erano guai anche per me, allora “Signora, signora”. Si sono accorti che c’era il buco, l’hanno chiuso e io sono rimasto ancora come prima.

Una bella mattina “Fuori tutti, fuori tutti, fuori tutti”, cosa c’è, cosa non c’è, tutti in colonna, un freddo. Saranno stati sette gradi sotto zero, sei sette gradi sotto zero. Un freddo, si vedeva, ma non c’era neve. Proprio quel freddo secco lì a Bolzano, terribile. Lì cosa c’è, cosa c’è, hanno scoperto che hanno cercato di scappare.

Poco lontano da me c’erano il letto a castello, hanno fatto un buco che doveva andare sotto le fondamenta ed andare fuori di là. Se andavano fuori di là c’erano i vigneti, la campagna. Mancavano ancora due metri, dicevano, e li hanno presi. è stato scoperto un mucchio di terra, tutti i castelli e noi fuori, un freddo. Io avevo su quella divisa lì, si può immaginare, gelavo.

Lì fuori “Chi è stato? I complici?” I complici nessuno voleva parlare. “Guardate che fuciliamo tutti.” I tedeschi “Se non parlate, guardate che fuciliamo tutti.” “Allora mi raccomando chi è complice vada fuori, cercheremo di aiutarvi”, nessuno vuole andare fuori. Siamo stati lì quasi tutta la giornata. Lì era successo alla mattina, subito alla mattina presto, all’appello.

Dopo mezzogiorno eravamo ancora là ed i soldati “Fuori”, ne sono andati fuori due “Siamo stati noi”, allora noi siamo rientrati, quelli là non li abbiamo più visti. Chissà se li hanno fucilati, li hanno messi, non lo so, non si sono più visti. Poi c’erano altri complici, avranno parlato e saranno saltati fuori degli altri. Lì siamo andati avanti così.

D: Scusa Giovanni, lì a Bolzano ti hanno dato il numero di matricola?

R: No. Niente matricola. Non avevamo matricole, avevamo il triangolo. Ci hanno appiccicato un triangolo colorato così sulla giacca, un triangolo rosso.

D: Senza numero.

R: Senza numero. Ed io dicevo, “Ma cosa vuol dire questo triangolo?” “Pericolosi”. Là dicevano che questi triangoli erano così perché eravamo pericolosi, ma io vedevo quelli di là perché c’erano anche degli altri, altri compartimenti, chi lo aveva rosa, chi blu, c’erano diversi colori, “Perché noi rossi?”, “Perché noi siamo pericolosi”.

Lì siamo andati avanti così, siamo andati avanti fino dopo l’ultimo e il primo dell’anno. Lì a Bolzano sono andato circa a metà di dicembre. Lì Natale, boh, è Natale sì, è Natale no, ci hanno dato un pezzettino di pane in più. Ma io non sapevo se era Natale perché abbiamo perso il filo delle date. Poi viene l’ultimo e il primo. Il primo dell’anno, i tedeschi, erano in pochi, erano tutti a far festa, solamente le guardie e basta. Ci hanno dato ancora un pezzo di pane in più, “Come mai?” “Perché è l’ultimo dell’anno”. Allora ho cominciato a dire “E’ già l’ultimo dell’anno”, perché prima non sapevo che giorno era e niente.

Lì dopo le feste circa l’8, mi pare, all’8 gennaio, sul camion ancora e siamo andati alla stazione. “Dove ci portano? Andiamo a lavorare?” “Ma chissà dove andiamo? Chi lo sa?” ed io sempre con quella divisa là morivo dal freddo. E siamo andati alla stazione, eravamo quattrocento, cinquecento persone.

D: Come fai a dire che era la stazione. Tu hai visto una stazione ferroviaria?

R: Era la stazione, non era proprio la stazione dove andavano…

D: I civili.

R: I viaggiatori così. Doveva andare il bestiame. Nei binari morti. Così. Giù dal camion lì sui vagoni. “Dove andiamo? Chissà dove andiamo. Boh”.

Siamo andati sul mio vagone, di bestiame, eravamo su in circa una trentina, lì ci hanno chiusi dentro, basta, chiusi dentro non si poteva più.

Dunque siamo partiti circa l’8 gennaio, ed abbiamo fatto tre giorni e tre notti su lì, si vedeva appena fuori, sa che ci sono quelli sportelli che si aprono, ce ne era uno di qua ed uno di là, quello di là facevamo da… e lì facevano tutto lì. Il freddo che faceva, si alzava sempre di più. Prima la puzza e poi gelava ed era un blocco solo, un disastro, paglia per terra non ce ne era, si dormiva così, senza coperte e niente, niente. Così come si andava su. L’aria quando il treno andava, l’aria veniva dentro e si moriva allora cosa si faceva? Ci si ammucchiava tutti, tanto per tenersi un po’ caldi. Facevamo il turno appoggiati al carro e tutti là a cercare di aiutarsi per il freddo che c’era.

Lì passa un giorno, ne passano due, sentivamo, eravamo già in Germania. Noi non sapevamo se era la Germania, chi lo sa. Dove andiamo nessuno lo sapeva, non si vedeva niente fuori. Appena, appena quando era chiaro si vedeva fuori e si vedeva tutta neve, tutta neve e basta e sentivamo parlare in tedesco. “Ma cosa succede?” e lì bim bum hanno aperto. Hanno aperto, sono saliti due tedeschi con la mitraglietta e uno fa “Noi vi uccidiamo tutti, fuori quelli che hanno tentato di fuggire”. Perché chi parla un po’ il tedesco, perché noi non si capiva che cosa diceva ed allora l’interprete lo diceva “No, noi non tentiamo di scappare”, “Abbiamo visto delle luci dentro”, non si capiva cosa dicevano. Cos’era? Era uno che aveva un pezzettino di candela e l’ha accesa così si scaldava un po’ le mani così. Loro hanno visto il chiaro dentro ed hanno aperto e volevano fucilarlo. Porca miseria.

Allora fuori tutti, guarda nelle tasche di tutti, allora si sono calmati e quando hanno visto che era quel pezzettino di candela lì, sono scesi hanno chiuso di nuovo e via. Il treno parte ancora, ogni tanto si fermava, sempre così. Stava fermo magari un quarto d’ora. Poi andava dieci minuti, poi si fermava, insomma è stato in ballo tre giorni e tre notti.

Siamo arrivati a Mauthausen, non si sapeva dove eravamo. Un bel momento, era mattino, cominciava a venir chiaro, si sentiva aprire il portone. Quello là non si apriva più, perché era tutto gelato, hanno aperto questo di qua, aprendo quello lì “Tutti giù, tutti giù”, “Dove siamo, dove siamo?” C’era una stazioncina come questa di Abbiategrasso e c’era scritto Mauthausen. “Siamo arrivati a Mauthausen. è buona, è buona.” “Perché?” “Perché si sentiva che quelli che ci sono già stati vanno a lavorare e stanno bene.” “Speriamo”, ho detto, “che sia quello.”

Lì tutti in colonna, c’erano quelli feriti, quelli che non potevano camminare. C’era giù la neve pestata, tutta pestata e ghiacciata, ogni tanto c’era qualche macchia rossa, questi sono tutti feriti che sono scesi e non ce la fanno più.

Lì tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa” tutti in colonna seguivamo loro, siamo andati. Strada facendo, non c’era in giro nessuno. Nessuno c’era in giro, c’era una donna vestita di nero, deve essere stata giovane, tirava lo slittino, perché c’era giù la neve ghiacciata, c’era su un ragazzino con uno zainetto a cavalcioni allo slittino o che andava all’asilo o che andava a scuola. Tutto quello che ho visto. Aveva su gli stivali, quelli neri che c’erano una volta, povera gente, insomma.

Lì niente, non si vedeva nessuno, non faceva neanche finta quella signora là. Uno ha tentato di dire “Signora, signora”, niente, orca miseria, no, no, camminando siamo andati su a piedi, dopo tre chilometri, non so, dalla stazione, siamo andati su fino alle carceri.

D: Al campo.

R: Al campo. A piedi, su, su. Lì c’è la strada provinciale, non si sapeva se era asfaltata o no, ma era tutta pestata, perché chissà la gente che è passata di lì, prigionieri senz’altro e siamo andati su. Su siamo andati dentro nel campo, varcato il portone, subito dentro a destra.

Lì seduti sulla neve contro il muro, la neve è tutta ghiacciata e tutta pestata, stavamo là ad aspettare, “Che cosa aspettiamo?” c’erano già dentro delle altre persone, lì c’erano le docce. C’erano le docce, poi c’era il crematorio e poi c’erano le cucine, tutto lì in fila a destra. E noi aspettavamo là. Aspettavamo. Lì chiedevano “Chi ha in tasca qualche cosa, qualche cosa di personale, fuori, ammucchiare, ammucchiare tutto e poi restituire, ammucchiare tutto e poi restituire”. Chi aveva l’orologio “Io darcelo a lui, no, no”, calpestavano per terra, lì c’era il muro, la buttavano di là, di là cosa c’era? Non lo so. Forse i tedeschi c’erano. Chi lo sa cosa c’era di là. Buttavano di là, o schiacciati sotto la neve. Tutto così, non c’era niente di personale.

Svestirsi tutti completamente nudi, e là c’era una porta dentro, e riparati un po’ dall’aria, tutto fuori, svestirsi tutti, e si andava a fare, ecco, facevano tutti i peli, tutti la testa così, tagliati tutti i capelli. I capelli li hanno tagliati però in mezzo ci hanno lasciato una striscia così, partiva dalla fronte ed andava fino di dietro. E passavano con il rasoio. La macchina che tagliava i capelli strappava, il rasoio non tagliava, bruciava tutta la testa, proprio tutto in mezzo qua. Facevamo la doccia, era fredda, era calda, ogni tanto era gelata. Sotto lì non c’è niente da fare. Per asciugarsi c’era un pezzettino di tela, chissà quante persone l’hanno adoperata. Cosa vuoi asciugarti con questa cosa qua, non ti asciughi niente, anzi ti bagni.

Lì ci hanno dato una camicia, un cappello zebrato, una giacca ed un paio di pantaloni. Fortunatamente ci hanno lasciato quelli che avevamo prima, le scarpe. Quelle lì le ho trovate ancora. Ho messo su ancora i miei scarponi di quando ero dei partigiani. Allora ho messo su i miei scarponi, con in mano quella roba lì “Fuori” “Ma dove andiamo fuori?” “Fuori, fuori” buttati fuori, dovevano entrare quegli altri. Fuori un freddo, dovevamo andare alla baracca. Alla baracca c’era circa trecento metri, circa.

Strada facendo c’erano le baracche, a destra c’erano i crematori, c’erano i bagni, ecc. A sinistra c’era una fila di baracche, noi dovevamo passare in mezzo e andare dietro a quelle baracche lì, al blocco 18, alla baracca 18.

Strada facendo nudi, con in mano la camicia, tutto così, i prigionieri che c’erano là ridevano, perché eravamo tutti nudi in mezzo la neve, allora prendevano delle palle di neve e ce le buttavano. E si mettevano a ridere.

Lì si camminava, a distanza si vedeva una specie di scala e della gente che camminava su. “Ma cos’è quello là?” “Boh”, non si sapeva niente. Difatti di lì siamo andati al blocco. Siamo andati alla baracca. Alla baracca non c’era niente. Per terra c’era un pochettino di paglia, quello sì. C’erano quelli che erano feriti, non potevano starci dentro. Allora tutti per terra sulla paglia così con la coperta sopra. Se uno doveva andare in bagno così, dovevano cavalcare uno sopra l’altro. “Ma che disastro che c’è qua” “E’ così”.

Lì cosa succede? Succede che siamo andati avanti un poco e gli ho detto “Guarda che io ho la scabbia”, lì c’era un prete dentro, e mi dice “Fa vedere”, mi ha guardato e fa “Tu hai la scabbia, ma non hai solo la scabbia, tu vai zoppo, sei ferito”, “No, ho una ghiandola in mezzo all’inguine che mi fa male”, un prete, io avevo un po’ soggezione. Va bene, tiro giù i pantaloni, perché abbiamo messo quelli che ci hanno dato. La camicia non aveva i bottoni, aveva un laccio così. I pantaloni erano russi, alla cavallerizza. Si capisce che i russi mettevano gli stivaloni per il freddo. Ciao sono stato fortunato in quella parte lì.

Lì siamo andati avanti così e ad un tratto si sente una sparatoria di notte “Cosa succede?” porca miseria. Venivano le pallottole dentro, perché c’era il muro. Io ero alla baracca 18 e dalla 19 e 20 di dietro c’era il muro, le pallottole passavano oltre la mura e venivano dentro sul tetto della baracca. Si sentiva pac, pac dentro. “Ma qua sparano”. Cosa è successo? Abbiamo saputo che hanno tentato la fuga trecento, non erano russi, perché io ero al blocco 18, metà noi che eravamo circa duecentocinquanta, dopo c’era dove c’era il capo, dalla parte di là erano russi, dopo le spiego il perché.

Ad ogni modo lì alla mattina mi dice “Vieni qua a vedere” attraverso la finestra, non si poteva né uscire né entrare. “Guarda là”, attraverso la finestra una montagna di morti, “Che cosa è successo?” “Ma guarda quanti morti che ci sono là”.

Cosa è successo? Era successo che avevano tentato la fuga trecento, penso fossero ebrei. Erano ebrei. Perché ci hanno preso, i tedeschi sono venuti là e quelli un po’ in forza, “Quelli che hanno un po’ di forza addosso vengono con me” e noi siamo andati là. “C’è da andare a prendere il caffè per le baracche”, “Andiamo, non si sa mai che c’è qualche cosa da mangiare”. Allora portavamo il caffè lì, partendo dove c’è la mensa, dove c’era la cucina, quei bidoni lì che saranno stati trenta, quaranta chili, trenta litri, quaranta litri, cinquanta litri, bidoni pieni di caffè. Per noi era caldo, per loro, penso che erano ebrei, per loro c’era sopra tanto così di ghiaccio. Loro se dovevano bere il caffè dovevano rompere il ghiaccio, ma aveva uno spessore di cinque, dieci centimetri, era stato fuori tutta notte. Gelava tutto. Quando si faceva il cambio al mattino dopo, si portava indietro quello avanzato e si portava quello vuoto, era ancora intatto, ancora con il ghiaccio, non lo rompevano, non erano capaci di romperlo, non lo bevevano.

Lo stesso quello che ci davano da mangiare, quella sbobba lì, era acqua, diciamo così, c’erano dentro un po’ di rape, erano barbabietole, quelle che davano ai cavalli. Erano non le bietole quelle rosse o quelle bianche, erano barbabietole, erano amare. Ad ogni modo si andava avanti. Noi prendevano il caffè che era caldo, il loro avevano sopra il ghiaccio. Ecco perché dicevo che quelli erano ebrei.

Perché un giorno, è venuto il tedesco “Venite con me e con le barelle, dobbiamo portare al crematoio quella montagna lì di morti”. Difatti quelli un po’ in gamba uno da una parte uno dall’altra, nudi, erano già nudi perché li svestivano loro, li mettevano sulla branda e li si portava al crematorio.

Al crematorio non si andava giù, c’era lo scivolo dal piano del cortile c’era lo scivolo ed andava giù direttamente dove c’era il forno crematorio e lì si metteva là, “Vrum”, andava giù, arriva l’altro con la barella, giù e poi via tutto il giorno così. Dicono che erano trecento circa. Sono fuggiti in sei che ce l’hanno fatta. In sei, il resto tutti morti.

Dunque lì finiti i morti, finito di portare via tutti i morti, andiamo bene così, andiamo avanti e sempre si dormiva per terra. Lì viene un’altra spedizione nuova. Nuova spedizione, tutti italiani. Noi dove andiamo, fuori tutti noi, fuori di notte al freddo. Quelli del blocco di là, allora, la baracca era metà e metà, noi tutti di qua, di là erano russi perché loro, io avevo su quella camicia lì, vestito malamente, così, loro avevano quei giacconi di trapunta, quelli a quadretti, stavano bene, pantaloni lo stesso, avevano su gli stivali quelli russi che tengono i piedi caldi, almeno sembra. E si camminava, perché “Fuori tutti”, sia di là, sia i russi come noi, perché arrivata la spedizione dovevano andare dentro, loro dentro con la nuova spedizione, e noi fuori tutta notte. Noi non abituati, c’erano quelli che si sono seduti sulla neve e stavano lì così sulla neve. Là c’erano i russi “Fate come facciamo noi”, si facevano capire, “Camminare sempre” tutta notte avanti ed indietro, avanti e indietro, tutta notte, tutta notte. Uno non ne voleva sapere aveva freddo poverino, forse aveva anche la febbre. Lo hanno preso, lo hanno tirato fuori e si divertivano a buttarlo in mezzo alla neve “Se non fai così, se non ti muovi, vai in fumo, muori”. Non lo volevano capire gli italiani, perché non eravamo abituati. Io facevo come facevano loro, allora la prima notte è andata bene, la seconda ancora, finché dopo, ci hanno messo i castelli, hanno messo i castelli, hanno messo a posto un po’, hanno tirato fuori anche i nuovi arrivati, li hanno messi nella baracca 17 e noi siamo stati lì ancora.

Lì abbiamo fatto la matricola, quattro, cinque per volta scortati, scortati dai tedeschi, si usciva, non era dentro dove si andava, si usciva dal campo, sempre pochi alla volta, cinque, sei o sette, adesso non mi ricordo, là c’era il fotografo, ci hanno fotografato, di fronte, di dietro, di fianco e poi ci hanno fatto l’impronta con il dito. Ecco, lì abbiamo fatto la matricola. E dopo che sono arrivati le matricole.

D: E la tua matricola qual era?

R: Ma le volete vedere. Queste sono le matricole che ci hanno dato. Siccome là non avevano niente, allora questo doveva essere appiccicato sui pantaloni, alla destra sulla coscia dei pantaloni e doveva essere visibile bene il triangolo rosso, con in mezzo IT che vuol dire italiano e di fianco c’è la matricola. Questo è il braccialetto. Il braccialetto, questo qua non è neanche ferro, è acciaio, mi pungeva tutto, tutto il braccio così, vedi quei ganci qua, sono ancora quelli, quei ganci qua mi penetravano dentro e guai se non li portavi, volevano vedere, questa è la matricola che avevamo.

D: Il tuo numero qual era?

R: 115.607, è scritto qua. Quando ci hanno dato questo allora hanno cominciato a chiamarci come numero, nome e così non se ne parla più. Tutto il numero.

Bene lì siamo rientrati ancora nella baracca e siamo stati lì, dovevamo fare la quarantena, ma che quaranta, saranno stato venticinque, dico io, venticinque giorni. Tutti in fila un’altra volta, tutti in colonna, un freddo, tutti in colonna a marciare “Dove andiamo? Chi lo sa? Dove si va?” i tedeschi di qua di là, a destra a sinistra, però non avevano cani, cani non li avevano. Erano armati di fucile e mitraglietta e basta. Anzi, tornando indietro un pochettino, abbiamo fatto l’addestramento con su e giù il cappello. Quando si vedeva un graduato tedesco, dovevamo tirare giù il cappello e dopo metterlo su, sempre su e giù, su il cappello, giù il cappello, su il cappello, abbiamo fatto un po’ di addestramento così nella quarantena.

Ecco dove ho visto la scala della morte. A distanza quando portavamo i morti al crematorio si vedeva da lontano, ma quella là è la scala “Cosa fanno?”, non sapevamo cos’era. Siccome là motori non ce ne era, cavalli non ce ne era, tiravano tutti con la forza delle braccia dei prigionieri, era una cava di pietra. Loro dovevano portare su dalla cava su per quella scala lì delle pietre, chi aveva il martino, lo metteva su, era fortunato, sulle spalle, chi non lo aveva. Io ho fatto un giorno solo. Ma non sulla scala, lì nella baracca. Ci hanno messo un pezzo di pietra sulla spalla e mi hanno mandato fino là al crematorio, e poi tornare indietro. Basta. Solo quello, tanto per addestrarci.

Lì in colonna, tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa”. Strada facendo, sempre di notte o mattino presto, siamo andato a Gusen, non so ci saranno tre chilometri, quattro, non lo so. Strada facendo lì, c’era ancora la neve per terra ed il ghiaccio, nessuno voleva aiutare quelli feriti. Dico “Qua bisogna aiutarci qua” perché altrimenti i tedeschi calciavano con il calcio del moschetto. Vado anche io ad aiutarli, “Mettimi le braccia al collo” e sono stato l’ultimo della colonna, stavo dietro. Sono restato indietro un po’, il tedesco di dietro, ha visto che non andavo avanti perché quello era ferito, con il moschetto, con la canna del moschetto me la ha buttata addosso alla schiena, mi ha dato una spinta sulla schiena e mi ha preso proprio la spina dorsale, ho visto le stelle, porca miseria. Sono rimasto a bocca aperta per il dolore, sembrava una scossa elettrica, ho detto “Aiutatemi, aiutatemi”, allora è venuto un paio di altri, ci hanno dato il cambio ma io l’ho sentito per un po’ però quel colpo che mi ha dato con la canna del fucile il tedesco.

Lì siamo arrivati a Gusen, arrivati destinati al blocco 14. Lì di nuovo doccia, di nuovo la doccia e così.

D: Quando tu dici Gusen intendi Gusen 1 o Gusen 2?

R: Gusen 1. Dopo siamo andati a Gusen 2 perché c’è stato un disguido. A Gusen 1 è stato.

Lì alla baracca 14, dunque io ero alla baracca 14, di fronte a noi c’era la baracca 22, e c’era dentro uno di Brescia, un corridore, era un dilettante corridore e ci siamo fatti amici. E c’era dentro padre e due figli di Bologna, un certo Cervellati.

Allora ci siamo conosciuti, italiani. Sotto di me nella baracca 14, sotto c’erano due italiani Perfumo Giuseppe e Perfumo Giovanni, erano sotto di me, a fianco. Proprio sotto di me perché io ero a metà, c’erano due russi, sopra di me c’erano altri due russi, io ero in mezzo, io ed un altro italiano, un certo Marini dalle parti di Alessandria, dopo è morto poverino, dopo le spiego perché.

Lì andiamo avanti così, hanno incominciato a darci il caffè, le prime volte.

Anzi tornando indietro, quando ero a Mauthausen, la storia dell’inguine, che il prete mi ha detto “Fammi vedere”, mi ha detto “Vai all’ospedale, ti curano, altrimenti qua, hai già la scabbia, prendi l’infezione e te lasci qua la pelle, dammi retta” mi ha detto. Allora lo ho ascoltato, sono andato in infermeria, là c’erano due dottori, e uno fa “Domani vieni qua”, ed io sono andato via, e camminavo zoppo. Avevo una ghiandola in mezzo all’inguine e la gamba nel piegarsi, un male bestia.

All’indomani sono andato dietro là. “Buttarsi sul lettino”. “Non andiamo bene, medicare, medicare. Prendi in mano il lettino, stringi forte”, mi hanno spruzzato su non so cosa, una cosa senza puntura ne niente, mi hanno spruzzato qualche cosa e poi ho cominciato a sentire “zim zam” su quei scaffali di vetro, forbici e coltelli, oh Madonna, mi veniva di sentirmi male “Mi raccomando, tieni stretto il letto, stringi i denti” ed ha cominciato a tagliare. Ed io gridavo. “Italien se non ti addormenti ti addormentiamo noi con un pugno”. Allora ho resistito. Nella bacinella è uscita tanta di quella porcheria che non so cosa dire.

Lì bene, ho riposato un pochettino, forse hanno finito, hanno cominciato ancora, prendono un altro coltello ed hanno cominciato ancora a tagliare. “Che ostrega stanno facendo?” Io gridavo, facevano segno con i pugni “Ti addormentiamo noi”, erano russi, parlavano il tedesco, si facevano capire, insomma. Bene, lì finito “Domani venire qua, medicazione”, allora ho cominciato la medicazione, sono andato indietro, hanno tirato fuori la garza dalla ferita, sembrava che aveva tirato fuori un serpente, si sentiva proprio la garza a venire fuori, o mamma mia, però il dolore è cessato.

D: Ma quando ti dicevano di tornare di lì in infermeria. Quell’infermeria dove era? Dentro nel campo?

R: Sì, lì, era poco distante dalla baracca 18, non so quale baracca era. Non era troppo lontano.

D: Ma era una baracca o era in muratura?

R: Non lo so, dire la verità era come una specie di ambulatorio.

D: Ecco.

R: Non so se era in muro o se era, mi pare in muro.

D: E’ quella sulla piazza dell’appello? Era sulla piazza dell’appello?

R: Sì, sì, da quella parte lì, insomma.

D: Dopo lì sei guarito?

R: Ad ogni modo, questo è tornando indietro. Lì la terza volta, medicazione ancora. Visto che stavo bene non sono andato più. Sono guarito. Sono guarito però la scabbia ce l’avevo ancora. Ce l’avevo ancora, allora quel prete glielo ha detto al Kapò. “Guarda che questo ha la scabbia, si infetta tutto”, “Fuori, fuori”, ed io sono andato fuori, qui adesso. Sono andato fuori “Chi ha la scabbia fuori”, non ero solo io, eravamo in sei, perché attaccava tutti. Allora c’erano là gli aiutanti, quelli che aiutavano il Kapò, hanno tirato fuori un boccettino così, come le gazzose di una volta e c’era dentro un liquido marrone, e mi hanno spalmato su un po’ su tutto il corpo nudo, tre giorni. Sa che sono guarito? Sono guarito, ha cominciato a calmare, non grattavo più, non sentivo più niente. “Ma guarda un po’, di là pennellate di qua e pennellate di là e qua un pochino di quella roba lì.

Lì dopo siamo partiti per Gusen.

D: Lì a Gusen 1 che cosa è successo?

R: Come?

D: A Gusen 1 che cosa è successo? Quando sei arrivato a Gusen.

R: Sì, niente ci hanno mandato dentro la baracca 14 e lì hanno incominciato a metterci in fila e si andava alla piazza del raduno, e c’erano quelli che comandavano e ci accompagnavano loro i primi giorni, dalla baracca si andava là, dove c’era la piazza dell’appello.

Là un disastro di gente c’era là e aspettavano il turno. C’era la scalinata di sasso, che andava su per la collina e poi c’erano le baracche che facevano da stabilimento, da fabbrica. Capannoni, ma erano baracche vecchie, grosse, più grosse delle normali.

Ad ogni modo lì ci mettevano cinque per cinque, immaginarsi una fiumana, una marea di prigionieri, cinque per cinque, tante volte è facile anche sbagliare, allora andava avanti, man mano che si passava il cancello, il cancello era di filo spinato. Aprivano quel cancello lì, c’era la scalinata poi ce ne era un’altra e poi si andava dove c’era lo stabilimento.

Lì c’erano i cani di qua e di là e pestavano, legnate. Le prime volte siamo andati là tutti insieme, si andava su, l’appello lì, facevi la scalinata, si andava ancora là davanti alla baracca dove si lavorava, altro appello. A distanza, a poca distanza, c’era un’altra cava di pietre. Quando sparavano le mine, arrivavano i pezzi lì. Bisognava stare attenti perché arrivavano anche sulla testa.

Siamo andati la prima volta su, andiamo su, bastonate a destra e a sinistra fino a che non si andava su, si andava su, ci hanno mandati dentro nello stabilimento, macchine dappertutto. “Ma cosa facciamo qua?” “Te che mestiere fai?” Uno diceva “Io faccio il contadino”, l’altro diceva “Io faccio il cuoco” “Io il pasticcere”. Tutta gente che voleva mangiare. Io dicevo “Io faccio l’operaio”, loro forse cercavano qualcuno che avesse un po’ di testa, invece eravamo tutta povera gente. Tutta gente che lavorava e basta.

D: Lì cosa costruivate? Quella fabbrica lì dove hai lavorato, cosa facevi?

R: Lì, appello, e poi aprivano il portone scorrevole e si andava dentro. Si andava dentro e là c’era il capo reparto. Il capo reparto era un polacco, “Sulla macchina, lì” mi hanno messo su di una rettifica, una specie di tornio. E lì uno che non è pratico, è dura. Ho visto un po’ come si faceva roba di meccanica e dovevo arrangiarmi a molare il ferro, ad affilare il ferro da taglio per il tornio ed io facevo le sicurezze del moschetto.

Arrivavano con la barella, i prigionieri li portavano lì, ci fornivano perché arrivava dalla fonderia, passava quello là e faceva una parte, quello là me la passava ed io dovevo passarlo alle frese.

Bene, quello che doveva passarle a me doveva farne almeno quattrocento o cinquecento al giorno. Tutti lì ne facevano seicento e gli altri li mettevano via per l’indomani, perché un domani che si guastasse il ferro o che non taglia più, tu dovevi fare la consegna la sera, dovevi fare la consegna di quello che hai fatto. Allora c’era da essere abbottonati, se non funzionava qualche cosa erano dolori.

Ed io destinato su questo tornio qua, andavo bene, fortunato, a poca distanza come verso di lei, c’era una stufa che era due volte questo tavolo qua, rossa veniva, si stava bene. Quelli che ci fornivano i materiali, venivano da fuori con le bufere, neve, pioggia, vento, freddo, come entravano mettevano giù la roba, fuori, perché altrimenti se li beccavano andare alla stufa erano botte, ma che botte. Lì andavo bene, non c’è male.

Un bel giorno si capisce che dopo come lavoro tanti morivano di deperimenti, mangiare ci davano un pezzettino di quel pane nero, la metà della metà, un pezzettino, un quarto di quella metà lì. Ma i pani non erano quelli lunghi, erano quelli corti, larghi così, saranno stati 10, o 15 centimetri per 20, così. Quei pani lì, neri, un pezzettino di quelli lì e ci davano un litro o mezzo litro di acqua e c’erano dentro un po’ di barbabietole tritate che col cucchiaio, il cucchiaio doveva farselo lei. La gamella, la davano loro, finito di mangiare la si depositava e poi si arrangiavano loro a lavarle e tutto, c’erano altri prigionieri, ed il cucchiaio dovevi arrangiartelo te, dovevi metterlo qua, altrimenti se lo perdevi o te lo rubavano, saltavi e dovevi mangiare così.

Lì sono andato avanti un po’ così a lavorare in quel modo lì, un bel giorno si capisce che mancavano gli operai perché morivano, viene là il capo reparto e fa “Domani te vai insieme e Joseph”, era un operaio che era sulla fresa. Che la sicurezza del moschetto andava dentro, incastrato dentro e la fresava, doveva essere preciso. Io facevo con il tornio e poi con la fresa lo facevano bene e preciso. “Va bene domani andrò con lui”. Un giovanotto grosso, al mio posto è andato un russo, non ha mai visto un’officina, niente, prendeva di quelle botte. Perché c’era il ferro da affilare e andava sulle mole, la mola ha la coda e doveva aspettare il suo turno, quando andava sotto non era capace, tornava indietro e metteva sul ferro e non tagliava. Allora il capo reparto botte, botte, questo ragazzo “Italien com”, io pianta lì che ero alla fresa e andavo là a fargli vedere, “Fai così, così e così”. Ma lui non capiva niente. “Ma te sei nato nel bosco o sei nato in un qualche paese”. Non capiva niente. Quello che si diceva non capiva, gli spiegavo il lavoro come doveva farlo, non lo capiva, non lo so, “Te sei nato in un bosco”.

Allora lì tutte le volte che andava ad affilare il ferro, il capo reparto prima mandava lui, e stava via un quarto d’ora perché non era capace, tornava indietro, non tagliava, doveva tornare indietro, non faceva la produzione. Botte, erano botte da orbi allora mi chiamava me, io stavo via venti minuti, lo tagliavo, mettevo a posto il ferro bene, che tagliava, stavo via venti minuti e non mi diceva niente, il capo reparto. Andava via lui dieci minuti “No, non taglia” dietro ancora e botte, sempre così.

Io ero assieme a quell’operaio, erano due frese, a poca distanza come da qua e lei c’era quella stufona lì mi diceva “Italien di dove sei?” “Milan”, “Oh, good”, diceva, “Good”, “Siete bravi a lavorare” “Milan, good”, questo giovanotto così. Sotto lì allora metteva a posto la fresa e cominciava, non ero capace “Italien tu devi imparare, altrimenti vedi questo, ti pesto, io ti tiro blu, ti cambio colore”, diceva. Poco alla volta, poco alla volta ho imparato. Erano due macchine, un po’ lui ed un po’ me alla stufa, e si andava là con su la giacchetta che non c’era e si andava contro, veniva rossa la stufa, ti tiravano indietro, ma il calore non lo sentivi, perché non avevi più grasso addosso, non hai più niente. Allora facevamo un po’ per uno.

Tornando indietro, ho avuto la fortuna di andare a svestire i feriti ed i moribondi lì dove facevano le docce. Cosa è successo? Portando via la roba per portarle alla disinfezione ho trovato un paletò che ho messo su subito, era un soprabito, però era lungo. Era lungo e dopo a Gusen l’olio chimico, l’acqua chimica mi asciugavo le mani perché non c’erano stracci e non c’era niente, però le mani erano sempre belle perché non screpolavano, sempre unte. Però il paletò pesava venti chili, perché era unto e straunto.

Lì si va avanti così. è venuto un bel giorno che, sono incominciati i bombardamenti, mandavano i manifestini ed allora quelli che prendevano il manifestino erano botte, li ammazzavano a botte. Quando suonava l’allarme bisognava andare al rifugio. Il rifugio che cos’era? Erano delle gallerie sotto la collina, lì dovevano mettere l’officina, lo stabilimento. Doveva andare sotto lì, tutto lì. Allora si andava lì, come le bestie.

Dentro picchiavano per far presto ad andare dentro, quando si usciva erano botte perché non si usciva svelti, erano sempre botte. Quando si faceva la scala per andare a lavorare, botte, c’erano due tedeschi di qua e due di là, chi aveva il Gummi, se era polacco metteva il filo di piombo, una volta c’erano i fili elettrici coperti di piombo, mettevano dentro quello lì e si facevano uno più bello dell’altro e pestavano con quelli lì. Altrimenti se era un graduato aveva il frustino, quello lì tagliava, bisognava stare attenti alla faccia perché segnava, era come una frusta.

D: Giovanni, come ti ricordi la Liberazione?

R: Adesso viene. Lì siamo andati avanti così, tagliamo un po’ corto e siamo andati fino quasi alla Liberazione.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo che un mattino “Arrivano gli americani” si sentivano i cannoni sparare, sono loro, si vedeva l’apparecchio che girava per perlustrazione, quegli apparecchi piccoli con un motore solo. “Arrivano gli americani” “Americani o russi?” “Arrivano prima gli americani, i russi vanno da un’altra parte”. “Se sono americani meglio”, noi ci tenevamo più con gli americani, infatti, tagliando corto.

Quel mattino “Fuori, fuori” si rubava a destra e a sinistra, era un macello, e sono andato fuori anche io, sono andato fuori, mi sono messo dietro la strada e vedo che arrivano gli americani. Chi piangeva, chi rideva, chi bestemmiava, non so cosa dire. E morti, perché? Perché i tedeschi sono scappati tutti, allora morivano tutti dietro la strada. Perché quello che trovavano portavano via e mangiavano. E allora portavano dentro con i carri e con i camion, portavano dentro prima che arrivavano gli americani. I tedeschi sono scappati tutti, sono restati i galeotti tedeschi, ma avanzi di avanzi di galera. Quelli graduati sono scappati tutti.

Lì arrivano gli americani e di fatto è arrivata una jeep con davanti la Croce Rossa, avevano una bandiera bianca ed una bandiera della Croce Rossa, due camionette, due jeep e dietro c’erano dei camion, ma non camion con su la truppa, non so cosa c’era, non so se c’erano i rifornimenti forse.

Poi sono incominciati i primi carri armati, e dopo la truppa. I camion con tutta la truppa su, negri, bianchi, non si capiva. Ad ogni modo come sono arrivati hanno cominciato a buttare giù caramelle, sigarette, cioccolato, e buttavano giù biscotti, festa. Tutti addosso, ci ammassavamo tutti per accogliere quella roba lì. Sono entrati in Gusen 1.

La storia del Gusen 2, quando si faceva l’appello per andare sulla scala, per andare a lavorare, si passava per il cancello cinque per cinque. Si camminava marciando. Allora loro facevano cinque, dieci quindici, e via via, il tedesco li segnava tutti, per i ranci. Lì ho sbagliato fila, che ne so io, era una fiumana di gente, bisognava guardare bene con chi eri, perché se sbagli fila vai in un altro posto e difatti è stato così per me. Mi sono messo in un’altra fila, non mi sono accorto, e via passa. Invece di andare a lavorare dove andavo prima, andavo dritto “Dove vado adesso?”, mi hanno mandato a Gusen 2. Là facevano le carlinghe degli apparecchi e mi hanno messo insieme agli operai a inchiodare le lamiere delle carlinghe, a fare le carlinghe, un baccano dentro lì. Là non ero segnato, mangiare non ce n’era. Fortunatamente quegli operai un pochettino per ciascuno, c’era già poco, un poco per ciascuno mi hanno dato qualche cosa da mangiare. Alla sera sono tornato indietro, non faccio più quella stupidata, prima di passare quel cancello guardo bene. Infatti sono andato avanti così fino alla Liberazione.

D: L’ultima cosa Giovanni, quando sei rientrato in Italia?

R: Siamo stati liberati il 5 maggio, lì dopo ho fatto la congestione, mangia te, mangia te, mi sono sentito male, sono andato all’ospedale, in infermeria e sono stato lì, quanto non lo so perché non ho capito più niente perché sono stato senza sensi. Mi sono buttato su una cuccetta della SS che c’era prima e basta, mi sono sentito male, e non ho capito più niente. Chi lo sa chi mi ha portato all’ospedale. Non lo so. So che mi sono svegliato, apro gli occhi, avevo davanti due dottori e un’infermiera. Non ero capace di muovere un braccio, ero sfinito. Hanno parlato tra di loro, allora l’infermiera, mi ha detto “Italien, io avere in consegna”, lì era già finita la guerra.

Sono arrivati gli americani e via, poi ho fatto la congestione, mi sono trovato all’ospedale, lì nudo mi portava in bagno, mi teneva su, allora il bagno là era diverso, ci si sedeva, mi teneva su perché cadevo da tutte le parti. Mi portava a letto, mi accompagnava a letto e mi dava una medicina verde, sembrava menta. Questo fa venir voglia di mangiare, perché la voglia di mangiare non c’era, veniva su tutto. Infatti mi dava un cucchiaio di quelli lì, due al giorno, ed io gli dicevo “Dammene tre”, “No, no”, diceva che i dottori non volevano. Allora ogni tanto me ne dava tre. Allora ho cominciato a riprendermi un po’, ho cominciato a mangiare. Mangiavo e veniva su tutto. Lo stomaco non teneva più.

Ci davano i piselli ma non in brodo, asciutti e io “Non digerisco questa roba qua”, “Mangia, mangiare” diceva l’infermiera, caccia giù e su, caccia giù e su “Mangia sempre, fa niente se viene su, quel pochettino che rimane giù quello è il tuo buono. Ti fa bene”. E difatti mangia e butta su, mangia e butta su, fino a che sono rimasto lì un mese ed ho cominciato a riprendere, però non ero capace di camminare. Ero ancora sfinito. è venuto il momento di dire “Quelli che se la sentono li mandiamo in Italia, mandiamo a casa, ci sono le spedizioni che vanno in Italia.” Io a sentire così, malato, non malato, io vado a casa. E difatti così sono uscito dall’ospedale, sono guarito, non ho più niente, barcollando sono andato in baracca, ho preso in mano la baracca, c’erano tre gradini ad andare su, ho fatto una fatica, ma ce l’ho fatta. Lì allora ho cominciato a riprendere, ci davano i pacchi americani e c’era tutto in scatola, minestrone, pasta asciutta, risotto, riso, carne, carne con dentro la cioccolata, carne con mescolata la cioccolata “Ma chi mangia questa roba?” non andava giù “Mangia, mangia, mangia” e caccia giù, mi sono ripreso un po’ e sono riuscito a prendere. “Perché chi ha la febbre e chi non si sente lo mandiamo un’altra spedizione, non va a casa”. “No, no, io mi sento bene” invece non era troppo bene, barcollavo ancora. Però ce l’ho fatta, sul camion e via a prendere il treno con il camion, gli americani ci hanno portato con il camion e siamo venuti in Italia e ci abbiamo messo altri due giorni.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Prima abbiamo fatto la linea Linz – Salisburgo, mi pare, siamo venuti a Innsbruck e siamo stati lì una notte, abbiamo dormito lì nelle case matte di un vecchio aeroporto. Poi abbiamo preso ancora il treno e siamo venuti in Italia a Bolzano, siamo scesi a Bolzano. Lì c’erano già tutte le infermiere pronte a riceverci. Io avevo inciampato nei sassi attraversando i binari, si mettono a ridere, mi veniva voglia di prendere una pietra e scagliargliela addosso. “Voi ridete, ma io non rido. Non sono capace di camminare”.

Allora lì chi si sente dopo mezzogiorno, il giorno dopo, c’è il camion che va a Milano, chi non si sente parte dopo domani alla mattina. Ho detto ” A me non conviene”, perché partendo dopo mezzogiorno arrivi alla sera ed io dove vado a Milano alla sera? Allora aspetto l’altro giorno e parto al mattino. Gli altri sono partiti e aspetto il mattino. Aspetto il mattino e non c’è il camion. Parte subito dopo mezzogiorno, è arrivato circa alle quattro o alle cinque, va bene, l’importante è che vado a Milano. E siamo partiti sul camion, verso le quattro e le cinque, non ce l’abbiamo fatta ad arrivare a Milano, abbiamo dormito a metà lago di Garda in un oratorio, c’erano le suore e siamo andati sul cascinale, c’erano le fascine di legna, abbiamo dormito su lì, mangiare niente, non avevano niente neanche loro.

D: E poi sei arrivato a casa?

R: Allora siamo partiti al mattino presto, alle cinque sveglia, si va a Milano. Alle cinque, io non ho dormito tutta notte. Alle cinque sul camion e via, quelli che scendevano a Brescia, chi scendeva a Bergamo ed io sono sceso a Milano, eravamo in quattro o cinque.

Navasa Milo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Buongiorno. Mi chiamo Milo Navasa, sono nato a Venezia il 27 maggio 1925. Figlio unico e abitavamo a Verona da parecchi anni. Mio papà lavorava alla Telve e io ero studente, scuole normali, liceo ecc.

Il 13 dicembre 1944 di notte abbiamo sentito un fracasso infernale giù alla porta d’ingresso della casa, hanno mezzo sfondato una porta ed era una pattuglia di SS. Sono venuti dentro, hanno beccato mio papà subito e stavano per portarlo via, quando girando per l’appartamento, sono capitati anche in camera mia che stavo dormendo, mi ero svegliato un po’ di soprassalto. Hanno chiesto a mio padre, il quale parlava tedesco tra l’altro e capiva, gli hanno chiesto chi ero e lui ha detto: “E’ mio figlio”. Hanno detto: “Komm” e mi hanno preso, anch’io.

Avevo diciannove anni, dunque non c’entravo un accidente, però mi hanno portato via. Ci hanno portato al sotterraneo delle SS qui in Corso Porta Nuova. Lì è cominciata la storiella. Mio padre è stato interrogato subito, io anche, però il mio interrogatorio si è risolto in una buffonata, perché allora io cascavo talmente dalle nuvole che evidentemente anche l’ufficiale che mi ha interrogato se n’è reso conto che non capivo niente, che non c’entravo un tubero. Siamo stati lì una quindicina di giorni mi pare, adesso ovviamente la memoria al giorno non ce l’ho più, ben inteso. Però un paio di settimane.

Dopodiché tutti e due ci hanno portato al Forte di San Leonardo, qua sopra Verona. Lì siamo stati due o tre settimane anche lì. Eravamo lì in carcere, avevamo un po’ di rancio, non avevamo uscite fuori, eravamo sempre dentro nella cella. Poi ci hanno trasferito al Forte di San Mattia, che è un altro forte qui di Verona, quello più alto. Anche lì tran/tran quotidiano, mio padre era fuori dalla grazia di Dio, io che non capivo cosa cavolo mi stesse succedendo. Un bel giorno ci tirano fuori tutti, ci imbarcano su un autocarro e ci portano su a Bolzano.

Mi sono ritrovato anch’io lì. Ci hanno messo nel blocco B, non sapevo niente praticamente, un po’ spaventato, un po’ tutto. Dopo due o tre giorni, adesso il giorno preciso non lo ricordo così, hanno fatto un appello e hanno chiamato assieme a tutti gli altri mio padre, non me.

Anzi, anche lì a Bolzano mi hanno fatto un altro interrogatorio così, che si è risolto in niente, una buffonata. Credo si siano accorti che non avevo le mani in pasta né con la Resistenza né con questo né con quell’altro, com’era vero infatti. Non ci pensavo. Hanno fatto l’appello, avranno chiamato due o trecento persone, fra le quali mio padre. Di fatti noi eravamo in piedi lì così e loro chiamati dovevano mettersi dall’altra parte del cortile allineati. Quello è stato l’ultimo giorno che ho visto mio padre, non ho più saputo niente là naturalmente.

Al primo maggio hanno aperto il campo, a gruppi di una trentina di persone ci hanno caricato su un autocarro che ci portava in giù. Lo sbarco, diciamo così, avveniva, l’ho saputo dopo, a paesi diversi. Hanno avuto probabilmente paura che mollando il campo di colpo ci fosse una reazione da parte nostra, perché penso saremo stati un migliaio, era affollatissimo. Allora probabilmente l’hanno fatto per questo scopo.

Allora a me hanno scaricato a Bronzolo, mi ricordo ancora. C’era tutta la retrovia tedesca che stava andando in su in ritirata, elmetti fin qua, mitra imbracciati, un inferno, qualche autoblinda ecc. Una strizza dell’accidente, però dico: “Devo andare a casa, è inutile che mi metta qua”.

Allora mi sono strappato via il distintivo, che avevamo il triangolo rosso. Tolto via quello ho cercato di apparire uno qualsiasi e ho cominciato a camminare. A camminare ci ho messo otto giorni, sono arrivato a Verona a piedi. Tra l’altro non è che avessi una gran forza, perché là sì, ci davano qualcosa da mangiare senz’altro, però non certo pasti.

Un pagnottino così al giorno. Poi tra l’altro quando ci hanno mollato avevamo già discusso tra noi che saremmo entrati in Bolzano a pescare il panettiere, perché queste pagnottelle, una al giorno, grandi così, si faceva così con le mani e strizzava fuori acqua. Pesava di più, perciò ci faceva pagare di più. Avevamo giurato di andare là e disfargli il forno. Invece, niente. Ci hanno mollato apposta, penso, per evitare rappresaglie probabilmente.

Mi ricordo ancora un episodio. Quando sono arrivato lì a Rovereto, c’era molta gente. Ad un certo momento mi vedo arrivare un carro armato in mezzo alla strada. “Porca boia”, dico, “ancora, madonna santa”. Un bestione che non finiva più. Allora va beh, mi sono messo ai margini della strada. Passerà anche questo. Ad un certo momento ha spalancato il portello di sopra, è uscito a mezzo busto un negrone, un bestione della madonna con due mani messe così. “Paisà” ha detto.

E giù sigarette in mezzo alla gente. Ho ringraziato il padreterno, “Dio ti ringrazio, qui ci sono gli americani, i primi che vengono su”. Dopo mi sono accorto che sul carro armato c’era una stella bianca dipinta, ma io non lo sapevo. Allora mi sono rilassato e ho fatto Rovereto Verona con più calma, perché ormai c’erano le truppe americane che venivano avanti e non mi facevano certo paura. Qualcuno aveva predisposto qualche posto di ristoro durante il campo e lì ho mangiato qualche minestra, ho dormito un po’ nei fienili. Sono arrivato a casa e mia madre era lì, ha visto arrivare me e non ha visto poi arrivare il mio vecchio.

Lui so che appunto è andato a Mauthausen e dopo l’hanno ammazzato, il giorno preciso non lo so, perché non sono riuscito a saperlo da nessuno. Sono andato appunto la settimana scorsa, sono andato là in pellegrinaggio perché per tutti questi anni non ho mai avuto il coraggio di andare su, non me la sono sentita. E’ da rimproverarmi, su questo d’accordo, lo capisco, ma non ce la facevo. Stavolta no, mi sono deciso, dico: “Vecchio mio”, perché quando mangio, tra l’altro, ho la fotografia del mio vecchio, ce l’ho davanti. Io sono da solo, ho la fotografia del mio vecchio e della mia vecchia davanti alla tavola della cucina, tutti e due, così che ce li ho lì tutto il giorno.

Allora dico al mio vecchio: “Stavolta vengo, stavolta vengo” e sono contento di essere andato, anche se sono ancora un po’ nei pasticci, non sono ancora uscito. La visita è stata una roba, come se mi avessero segato a pezzetti. Quello che non ho visto dentro… Mi figuro quei disgraziati cosa devono aver subito quando sono stati presi e portati lì dentro.

Ho visto i forni crematori. Hanno messo alcune fotografie che qualcuno ha fatto e ha salvato dalla distruzione, ingrandimenti così. Carri pieni di gente magra così, morti, mezzi morti e li stavano portando verso i forni. Ecco, per dire, roba del genere, sono uscito fuori da lì che ero fuori dalla grazia di Dio. Sono andato a vedere Gusen proprio e ho visto i forni crematori, ho visto le camere a gas, ho visto l’animassa che ti porta. Dopo pochi giorni fa ho visto Hayder seguito da folle osannanti e non vi dico cosa ho pensato, perché non è il caso, il turpiloquio non va bene.

D: Milo, scusa.

R: Dimmi.

D: Perché hanno arrestato il tuo babbo?

R: Adesso ti spiego questa cosa, che fa pensare proprio alla gente come può essere a volte. Mio papà con alcuni dei suoi coetanei, aveva quarantanove anni quando l’hanno preso, si erano buttati dentro, perché mio papà aveva fatto la Grande Guerra completamente dal primo all’ultimo giorno, per cui i tedeschi gli stavano qua e si era buttato nel Comitato di Liberazione.

Erano sette od otto che avevano fatto questo gruppetto, in casa non sapevamo niente e compagnia bella. Se non che si è infilato dentro uno italiano, il quale ha finto di essere dentro così e poi li ha denunciati tutti. Allora un giorno che ancora eravamo qui alle SS in Corso Porta Nuova ci hanno portato fuori a dare una mano, perché c’era il bombardamento, tirare via un po’ di macerie. Stavamo tutti e due andando insieme con gli altri, mio papà mi ha detto: “Ehi, Milo, attento. Guarda quello lì col cane. Guarda bene”. Io lo guardo bene, fissato, fotografato. “Quello è quello che ci ha fatto la cavalletta a tutti”. Quando sono tornato a casa l’ho cercato per un anno. Non so se avete visto quel film con Sordi, quando gli ammazzano il ragazzino, che poi va fino a che becca quello che…ecc… e’ “Un borghese piccolo piccolo”, mi pare che fosse. Faceva la stessa fine. Per un anno per tutte le strade ero lì che mi guardavo intorno, ma o era andato via o… Non l’ho più visto, non ho più saputo niente. Questa è la vecchia storia.

D: Quindi il tuo babbo faceva parte del gruppo…

R: Il Comitato di Liberazione di Verona.

D: Tu invece non sapevi nulla?

R: No, non sapevo niente. Ero un tataro qualsiasi, mio padre se n’è guardato bene dal parlarne a casa, perché altrimenti mia madre gli avrebbe fatto l’inferno. Allora in casa non sapevamo niente. Li hanno beccati tutti e sono crepati tutti, li conoscevo anch’io. Per fortuna hanno fatto un interrogatorio anche stringente, ma non potevo confessare, perché non avevo né fatto né pensato né niente. Ero un ragazzotto, uno stupidotto, non è che avessi delle mire a dire… Se ne sono probabilmente accorti e ne hanno tenuto conto forse, non so, perché non mi hanno cacciato in quel pasticcio, mi hanno lasciato lì fino alla fine della guerra.

D: Milo, cosa c’era su al Forte San Leonardo?

R: Niente, c’era un gruppo di SS e basta. Noi eravamo in una cella, qualche volta ci facevano prendere un po’ d’aria in alcuni passaggi che hanno lì dentro liberi. Nel forte non c’era niente, comandi, compagnia bella. Nemmeno in San Mattia. Prigioni erano, così. Ci hanno tolto dalla città e ci hanno messo là.

D: Quando vi hanno prelevato per partire per Bolzano, dove vi hanno caricato?

R: Eravamo al San Mattia, l’autocarro è venuto lì, ci ha fatto montare e poi è partito, siamo andati fin là.

D: Siete arrivati al campo di Bolzano?

R: Sì. Siamo arrivati direttamente al campo.

D: Eravate in tanti?

R: Parecchi. Non so dirti quanti, ma credo così adesso, la stima mia può essere…ma penso che dovessimo essere intorno al migliaio. Almeno credo. Io ero il numero 8.718, mio papà 8.717.

D: Durante il trasporto su a Bolzano il camion non si è mai fermato? Era un camion solo?

R: Un camion solo e basta, c’erano un paio di motociclisti, elmetto fin qua e basta. E’ andato via così.

D: Siete arrivati di sera su a Bolzano?

R: No, c’era ancora chiaro. Pomeriggio senz’altro, però c’era ancora chiaro. Ci hanno assegnato ai vari blocchi, io ero al blocco B, c’erano due grandi capannoni, erano separati per lettere, A, B, C, D, E, F era quello delle donne. Io sono stato al blocco B fino al momento che hanno aperto il campo.

D: L’immatricolazione lì a Bolzano ve l’hanno fatta subito?

R: Il giorno dopo credo, sì, sì, immediata. Col numero, triangolo rosso e il numero in bianco, 8.718.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: No, mi hanno lasciato quegli stracci che avevo. In casa non mi hanno lasciato neanche vestire praticamente, ho infilato un paio di pantaloni e qualcosa addosso, basta. Non avevamo niente, così proprio… “Weg, weg, komm, komm” e basta. Insomma, fatti cosa, a dire: “Un momento”, no, no. Come adesso, fai conto.

D: Ascolta, dentro nel campo cosa ti ricordi? Altre persone, altri amici? Parlavi delle donne.

R: Sì, il blocco delle donne era appunto il blocco F. Alla mattina per esempio avevi il momento che potevi stare sul cortile, potevi stare anche fuori dai capannoni, nessuno ti rompeva le scatole. C’è stato un solo episodio di un ragazzo di Milano, che avevano mandato fuori una squadra per pulire un po’ di macerie ed era andato fuori anche lui. Dopo al ritorno non l’avevamo visto e abbiamo sentito, c’era una specie di fabbricato in fondo vicino ai blocchi nostri, e abbiamo sentito per un paio di giorni delle urla mica male. Deve avere preso una pestata. Di fatti poi è uscito, aveva segni dappertutto. Ma è stato l’unico episodio però che ho visto.

Lì a Bolzano non è successo niente, porco cane. Non è successo assolutamente niente angherie, violenza. Niente. Alla mattina sveglia presto, tutti fuori in cortile, cappelli giù, via, cappelli giù e il momento di salutare la guardia. Poi ti davano un po’ di sbobba, mezzogiorno ancora un po’ di sbobba, questo pagnocchino infernale e la sera qualcosa d’altro. Insomma, onestamente fosse stato solo Bolzano avrei detto: “Va beh, una vacanza andata male”. Non di più, sul serio.

Non immaginavo allora che i campi di là fossero tutt’altra cosa, capisci? Dopo l’ho saputo, caspita, quando sono tornato a casa, quando cominciava a tornare della gente, ho cominciato a leggere e ho cominciato a sentire. Dio Cristoforo, dico, ma com’è possibile? A Bolzano non è successo niente. Non hanno ammazzato nessuno, non hanno pestato nessuno e non hanno messo in croce nessuno. Guarda che ci ho fatto dentro un paio di mesi.

D: Ti ricordi se assieme a te nel campo di Bolzano c’erano anche dei religiosi?

R: Erano quelli più codardi di tutti noi messi assieme. Mi ricordo che c’erano un paio di frati, era uno, un frate di Via Barana. Quello era sempre a chiedere conforto, anche a me. Lui sarà stato più anziano di me, avrà avuto a quei tempi quarant’anni. Ero un ragazzetto così. “Oddio, Milo, cosa dici, che qua, che là…”. Ma dico, padre, a un certo momento, santo cielo, doveva essere lui che consola, porca di una miseria. “Ma qui, ma là, hai visto qua, hai visto là”. Tutti i giorni una balla di questo genere. Dopo lo schivavo come la peste perché non è possibile, Sant’iddio.

Uno qualsiasi può avere le sue idee, ma non un religioso. Doveva essere lui a confortare noi o dovevo essere io a diciannove anni che consolavo lui? Porca miseria, no scusa. Di fatti lo schivavo come la peste dopo. Tagliavo corto, gli dicevo: “Si, va bene”. Bon, andavo via.

D: Ti ricordi come si chiamava questo padre?

R: No, purtroppo… Ho cercato di ricordarlo ancora, ma non sono più stato capace di ricordare.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano, hai visto anche dei bambini, dei ragazzetti molto più giovani di te?

R: No. Io no. Direi che fossimo tutti adulti, penso.

D: Ti ricordi del blocco celle?

R: Al blocco celle non sono mai andato. Sì, c’era, è un fabbricato in fondo. Ci sono i due capannoni lunghi messi così con A, B, C, D ecc. e poi in fondo c’era un fabbricato laterale così, quello era solo per i tedeschi. Lì so che c’erano le celle, perché quel milanese lì l’hanno suonato lì dentro. Ma lì non hanno portato nessuno, è l’unico che hanno portato dentro nel periodo che sono stato lì io. Anche non potevi fare ribellioni di nessun genere, cosa volevi fare?

D: Ma parliamo dei due ucraini. Te li ricordi?

R: Sì. C’è stato recentemente qualcuno a Verona che mi ha chiamato per vedere, perché avevano recuperato sembrava una foto di questi ucraini. Dico, a cinquant’anni di distanza non ce la faccio mica. Però erano quelli addetti al pestaggio e anche nelle piccole cose, perché per esempio la mattina in adunata, chiamiamola così, se c’era da dar qualcosa sempre grintosi con le mani.

Poi se c’era da darti un calcione, quello te lo davano volentieri, perché magari un centimetro là non è che ti dice: “Weg, weg”. No, ti dava un calcione. Quella era proprio l’abitudine. Tutti e due giovani, questi figli di buona donna, erano quelli proprio addetti. Per fortuna la politica del campo non era quella, perché se appena appena avessero avuto un po’ di libertà con quei due lì venivano fuori giostre da mettersi le mani nei capelli. Appunto due o tre mesi fa mi hanno chiamato perché mi hanno fatto vedere. “Caspita”, dico, “strano che abbiate recuperato le fotografie adesso, è passato troppo tempo, non potrei”, dico. “Non posso, mi spiace”.

Dice: “Sa, abbiamo saputo che…”. “Sì, lo so, c’ero”. Proprio sarebbero stati i due addetti che se il comandante del campo fosse stato una carogna o avesse avuto ordini diversi, gli addetti erano loro due. Proprio ce l’avevano nel sangue, li vedevi da come si muovevano, da come facevano. Comunque non è successo, lì da noi non è successo niente.

D: Milo, ti ricordi che c’era una donna soprannominata “la Tigre”?

R: No. No perché lì al blocco F qualche volta ci avvicinavamo per chiacchierare un po’ con prudenza, perché non volevano mica. Sai, scrivevamo così e non so dirti come fosse o se c’era qualcuna in particolare. Erano là tutte ammucchiate in questo baraccone.

D: Milo, attorno al campo c’era un reticolato e c’erano delle sentinelle su delle garitte?

R: Sì, sì. Agli angoli del campo sì.

D: Ascolta, tu sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano per diversi mesi?

R: Per lo meno guarda, fatti i conti adesso così, dei giorni ovviamente non riesco a fare il conto totale, ma penso di avere fatto un due mesi, due mesi e mezzo lì dentro. Fino al primo maggio.

D: Cosa facevate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Niente. Non ci facevano lavorare. Eravamo lì, eravamo dentro nel nostro blocco a ciondolare, non ci hanno fatto lavorare. Qualche volta hanno preso qualcheduno a caso, lo portavano fuori, ma quando c’era qualche bombardamento magari che c’erano macerie da portare via. Così sporadico però, ma a noi come prassi del campo non ci facevano fare niente. Eravamo lì.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno del blocco B, oltre al tuo babbo?

R: Sì, c’era Zanini che conoscevo ancora prima. Dopo, aspetta, chi c’era ancora… Accidenti, adesso dovrei fare un po’ mente locale, abbastanza difficile sai, perché di tempo ne è passato un fracco. Ricordo Zanini perché era il cosiddetto capo blocco nostro, era uno che teoricamente dava ordini a noi, va beh. Era un insegnante anche lui tra l’altro.

Dopo, un altro di Parma, un ragazzetto, Pietra, me lo ricordo ancora, un cognome stranissimo, Pietra. Ha detto: “Qui voglio scappare”. “Stai attento”, dico, “perché hai visto cos’è successo a quell’altro”. “Sì, ma io qua dentro non ci sto mica”. Avevamo fatto un po’ amicizia perché eravamo vicini di branda. Dopo, qualche altro, ma sai, è passato mezzo secolo.

D: Mentre voi del blocco B non siete mai usciti dal campo, altri uscivano dal campo per lavorare?

R: Sì, ti ho detto, qualche volta ma sporadicamente, molto poco. In generale era dopo i bombardamenti. Basta, ma non era che appunto fossero fuori per lavorare e tornare dentro alla sera, no. Episodi proprio, e basta, capisci? Magari volava una bomba, raccoglievano trenta o quaranta persone e le portavano fuori, davano una mano a pulire la strada, tirare via macerie e poi tornavano lì. Nessuno lavorava fuori dal campo di Bolzano, nessuno.

D: Ti ricordi se al campo, tu parlavi prima che avevate il triangolo rosso, c’erano altri triangoli di altri colori?

R: Triangolo giallo, che doveva essere quello degli ebrei se ben ricordo. Mi pare che fossero solo quei due colori lì. Mi pare però. Il rosso era teoricamente per loro per i politici, perciò era il nostro. Gli ebrei invece avevano il triangolo giallo, perché difatti hanno fatto un’infornata.

E pensa che dopo che hanno fatto la tradotta di mio padre, dopo dieci giorni circa hanno fatto una tradotta di ebrei, soli ebrei. Li abbiamo visti, eravamo in cortile, chiamati tutti, altre duecento persone o più. Li hanno portati, erano partiti, il giorno dopo sono tornati lì perché avevano già bombardato la linea gli americani. Da quel giorno lì hanno continuato a bombardare a Bolzano Brennero, non è più andato via nessuno. Se mio papà tardava un pelo, sarebbe ancora qui. Proprio l’ultima tradotta, porcaccia di una miseria, l’ultima. I disegni della Provvidenza sono quelli che sono, porco cane.

D: Milo, il gruppo di tuo padre ha lasciato il campo come?

R: Questo non lo so più, perché sono cose che sono avvenute dopo, io non lo so. A un certo momento li vedevi partire, tra l’altro sono morti dopo, dunque non so. Li chiamavano… Non so dirtelo questo proprio.

D: Non li hanno caricati su dei camion dal campo di Bolzano?

R: No, perché, vedi, l’ultima infornata è stata quella di mio padre e ho visto lui andare via così e basta. Non so con cosa l’abbiano portato là. Dopo non ho più visto niente, capisci? Hanno tentato qualcosa, ma non sono più riusciti a far niente, perché non potevano più. Le strade ormai erano impercorribili, perché gli americani avevano cominciato a fare sul serio, capisci? Sicché non so se li avevano portati con camion, boh. Sì, probabilmente con camion, senz’altro. Perché la distanza non è molta tra l’altro. Eri dentro, non sapevi niente.

D: Milo, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano tu, il babbo e gli altri compagni avevate avuto l’occasione di poter scrivere o di ricevere pacchi o posta?

R: Qualche tentativo c’è stato, ma arrivava il pacco, la carta e qualche pezzetto dentro, il resto tutto… Ti davano un cartoccetto così. Scrivere neanche a parlarne, c’è stato proprio silenzio fin quando sono tornato a casa.

D: Un’altra cosa, tu sapevi che dentro all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di deportati che lavoravano per la Resistenza interna nel campo?

R: No, non te lo so dire. Anche perché io penso che sarebbe stato estremamente difficile, perché lì armi non ce n’erano ovviamente, avevi la casacchina indosso e basta. La branda era un cuccio messo lì col pagliericcio e basta, non avevi armadietti, non avevi un accidente, per cui non penso che potessero far qualcosa. Avere l’intenzione di fare senz’altro, però al lato pratico, praticamente non era possibile. Sarebbe stato come in un campo di nudisti, che vanno a scassinare casseforti. Con cosa? Con le unghie?

Per cui anche se c’era l’animo senz’altro, mi pare che c’era l’animo, ma non potevi attuare. Ogni tanto ti capitavano dentro al blocco, davano un’occhiata in giro qua e là, per cui sapevi benissimo che se ti beccavano con un pezzetto di ferro così la passavi brutta. Allora nessuno poi faceva niente. Intanto non sapevi chi te le poteva portare, perché i contatti con l’esterno… Da fuori cosa vuoi, che entrasse uno col pacchettino di roba nascosto nella tasca? No di sicuro. Per cui non c’era niente lì, eravamo così come sono io adesso.

D: Quando hai saputo della morte del tuo babbo?

R: Ce l’hanno comunicato…intanto, visto che non tornava, ho immaginato subito. Qualche mese dopo ci hanno dato la conferma ufficiale, morto a Gusen e basta. Si fermavano lì all’Adige, non mi ricordo più adesso il posto, un attimo… San Giorgio, che avevano messo fuori le fotografie di tutti quanti.

Avevano messo fuori la fotografia di mio papà, lì arrivavano dei deportati e allora si chiedeva, c’era tutta una specie di bacheca fatta così. Sono andato giù per dei mesi, fin quando si è diradato completamente il ritorno di gente, nessuno sapeva un tubo. Per cui quelli che erano con lui sono crepati con lui. La notizia precisa non l’ho avuta da nessuno, data presunta della morte e basta, niente di più.

D: Scusa, questo San Giorgio dov’è?

R: San Giorgio è in riva all’Adige. Qua a Verona, quando vieni, che so io, da Ponte Navi, tu costeggi l’Adige, ad un certo momento vieni verso borgo Trento, quella zona lì si chiama San Giorgio. Dove si aprono le strade per borgo Trento.

Lì arrivavano a volte camion di gente che era deportata là, lavoratori e compagnia bella arrivavano giù. Avevano messo…c’era un muro e avevano messo fotografie, dopo andavano là per sentire se qualcuno veniva dai campi di là. Ho fatto settimane lì, poi mi sono stufato perché capivo che non riuscivo a combinare niente, allora basta. Sono andato a sentire qualche notizia e le ho avute dopo dall’associazione.

E’ stato lì, è morto a Gusen, la data precisa non si sa ancora, perché lì facevano l’infornata, non è che tenessero conto. Probabilmente tenevano conto del numero giusto per fare un bilancio matematico, ma non di più. Adesso hanno pescato fuori sulla Gazzetta Ufficiale, la morte di mio papà col giorno, sarà vero, non sarà vero… Non lo so. Mi hanno dato un giorno, poco tempo dopo che l’avevano portato via, il giorno è risultato neanche due settimane dopo che era andato via da me.

Probabilmente sarà anche giusta, probabilmente qualche dato l’avranno trovato magari in mezzo alla fureria di questi campi, forse. Tanto lo spazio era ristretto, che fosse quella settimana o quella dopo non cambia niente, non è un anno di differenza. Purtroppo sono stati quei due mesi lì, quel mese e mezzo lì. Bastava un poco di niente e sarebbe tornato a casa anche lui, porca vacca. Scusate il termine.

D: Milo, quindi lì a San Giorgio non c’era un ufficio però?

R: No, era lo scalo di quelli che venivano giù da là. A Verona, magari portavano giù anche quelli che erano andati a lavorare, tante belle storie. Scaricavano giù lì a San Giorgio poi ognuno andava per i fatti suoi, non era una zona prestabilita. Era soltanto per abitudine, si andava lì, allora c’era sempre gente, si chiedeva, si faceva vedere la fotografia. “Per caso, eri là, hai visto qua?”. Sono andato avanti un sacco di tempo, dopo ho visto che non serviva a niente, ho smesso e si era rarefatto anche il movimento di gente che veniva in giù, ormai si era già scaricato il fiume grosso.

D: La tua Liberazione, come siete stati avvisati voi?

R: Niente, una mattina ci hanno chiamati fuori all’appello. Uno ha tradotto: “Adesso si esce dal campo, si esce a gruppi, ci sono gli autocarri che portano via”. Basta. Bene. Allora sono montato su uno degli autocarri e lì uno scaricava qua, uno di là, uno in là, uno in qua in modo da evitare l’afflusso, perché se la sono vista brutta in quel momento lì. Se la sono vista brutta veramente. Noi appena scaricati, chi si mette lì a raccogliere gente per tornare indietro? Figurati. Avevamo solo voglia di menare le tolle. Abbiamo incominciato a camminare in giù, c’era una fiumana di gente continua che andava in giù.

D: Era maggio dicevi, no?

R: primo maggio.

D: Tu sei ritornato da solo?

R: Sì.

D: A piedi?

R: Ho schivato completamente la compagnia per un semplice motivo, che quando eravamo sul mio camion, eravamo sull’autocarro scoperto, avevamo già incominciato a incrociare le prime retroguardie tedesche che venivano giù, c’è stato uno sciocco. C’è la signorina, non volevo dire la parola. “Adesso è finita, eh!”. Dio Cristoforo, come gli sono saltato addosso.

“Se muovi ancora un dito ti strangolo, cretino d’un cretino. Ma ti accorgi che sono ancora armati, hanno le armi impugnate in mano ancora, perdincibacco! Un gesto così ci sparano addosso, adesso che è finita, cretino”. “Non credevo, non credevo”. Si è messo lì in un angolo, non ha più sbuffato. Stavo strangolandolo, porca vacca. Va bene. Allora la discesa me la sono fatta per conto mio, dove c’era il gruppo o mi fermavo o andavo avanti o mi spostavo o mi sedevo da una parte della strada.

Niente, l’ho fatta tutta da solo. Almeno io vado via a testa bassa, basta. Quegli altri difatti non mi hanno mai rotto le scatole, sono andati su incavolati, perché in piena ritirata, figurati. Però perlomeno io non li ho stuzzicati. Quell’altro così gli ha fatto, madonna mia, mi aspettavo una raffica di mitra secca. Dico, crepare proprio adesso a guerra finita no ragazzi. Allora solo soletto, altri mi dicevano: “Vai giù anche tu?”. “No, no, mi fermo”. “Di dove sei tu?”. “Sono arrivato, sono qui”.

Tutto così, piano piano. Ho fatto tutta la Val d’Adige, conosco abbastanza bene la Val d’Adige. Sono centocinquanta chilometri, non è che fossi molto allenato, un po’ per la fame, un po’ per tutto, non è che fossi proprio in condizioni splendide. Però sono arrivato da mia madre, poveraccia. Era ridotta uno straccio. Mi ha visto arrivare dalla strada, perché era seduta sul poggiolo. Mi hanno detto che stava sul poggiolo delle ore tutti i giorni. Ad un certo momento: “Oddio, Miletto, oddio sei tu?”. “Sono io, sono io”. Allora un abbraccio di tre quarti d’ora.

D: Milo, ci sono degli altri particolari che adesso ti sono venuti in mente sia dell’arresto, della carcerazione o della tua deportazione nel campo di Bolzano?

R: Più o meno a grandi linee ti ho detto tutto. No, direi di no. La mia è stata… Si fosse risolta così anche quella del mio vecchio, sarebbe stato niente. Nel mio caso a parte il morale, quello che ti sentivi dentro, la bomba dentro, però fisicamente io non ho sofferto.

Fame, un po’ di fame, va beh, diavolo, capirai bene cos’è. Botte non ne ho prese, la fame vera non l’ho fatta, una cuccia per dormire ce l’avevo, non mi spaccavano l’anima per lavorare perché non mi hanno fatto lavorare. Per cui a conti fatti avevo il coso dentro, d’accordo, però sofferenze fisiologiche io obiettivamente non ne ho avute. L’ho sempre detto questo. Non è che debba vantare adesso, chi è venuto giù da Bolzano raccontando sono balle, balle sacrosante. Chi s’è fatto grande con un po’ di sofferenze, qualcuno lo conosco anch’io. “Perché noi, sapessi, ci facevano..”. Non ci facevano una madonna, non ci hanno fatto niente. E’ stata una segregazione e basta, non di più.

Geloni Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Italo Geloni. Sono nato a Seravezza in provincia di Lucca il 23 novembre 1924.

Ho fatto il militare nella Marina. Sono stato imbarcato su un cacciatorpediniere poi, per motivi particolari, siamo stati destinati a terra. A terra era La Spezia S. Bartolomeo. Ero in contatto costantemente con gli antifascisti perché era appena passato il 25 luglio; con gli antifascisti della località Pitelli, sempre nella provincia di La Spezia, nel comune Lerici.

Quando è arrivato l’8 settembre arrivarono nella zona di S. Bartolomeo anche i nazisti. Riuscimmo a scappare, ci volevano prendere tutti ma noi riuscimmo a scappare e andammo nelle formazioni partigiane della zona. Poi scesi giù in città ad operare.

Il 2 luglio 1944 in via XX Settembre numero 50 ci fu un’irruzione nella casa da parte delle SS e dei fascisti. Fummo arrestati, uomini e donne, e portati alla Casa del Fascio, chiusi in un gabinetto di decenza. La sera al buio fummo portati nel carcere di Villa Andreini a La Spezia.

D: Italo, dove ti hanno arrestato? In che località?

R: A La Spezia in Via XX Settembre 50, l’avevo già detto.

D: Cosa c’era in villa Andreini a La Spezia?

R: C’era il carcere; era un carcere molto brutto.

D: Stavi dicendo che era un carcere molto duro?

R: Era un carcere più che duro. Tanto è vero che, perché non avessimo noi arrestati contatti fra di noi, si veniva messi soli nelle celle al sicuro, distanti l’una dall’altra almeno di due celle in modo da non aver la possibilità di parlare. Solo uno mi chiamò e mi disse: “Italo, mi raccomando” anzi, mi disse: “Olati”, che è il mio nome anagrammato da partigiano, “Olati, mi raccomando anche se ci ammazzano stiamo zitti”. Io risposi: “Stai tranquillo che io sto zitto e non parlo”. E di fatto così fu, io non ho parlato e lui parlò. Parlò dopo e fece arrestare una seconda parte di partigiani e di antifascisti. Si è ammazzato nel ’46, si buttò sotto il treno perché la mamma e la sorella finirono nel campo di sterminio di Ravensbrück. Dopo quattro giorni che eravamo in carcere si fu interrogati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che era stato ricostituito dopo l’8 settembre, e ci dissero che noi uomini saremmo stati condannati a morte e le donne a trenta anni di galera.

D: Poi cosa è successo?

R: Poi è successo che non ci hanno ammazzato per nulla anche in virtù di quello che aveva parlato.

Avevano preso questo impegno siccome c’era anche la mamma e la sorella. Ora la mamma è morta, da poco, aveva quasi 100 anni, poverina.

D: Ti ricordi come si chiamavano?

R: Grosso modo, ma certi nomi non posso farli, è l’impegno preso. Proprio per quello che aveva fatto il figliolo e fratello.

D: Italino, lì siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti venti giorni.

D: E poi?

R: Poi un bel giorno ci hanno radunato tutti insieme in una cella grande e la mattina alle 5 siamo partiti per Genova, a Marassi. Entrati a Marassi eravamo scortati con camionette, motocarro e motocarrozzette armate di mitragliatrici avanti e indietro perché avevano paura che quando si passava nella zona partigiana si fosse attaccati per liberarci. Invece non ci vide nessuno, ci si fermò soltanto ad un ponte, ci permisero con i soldi che avevamo di comperare frutta e verdura, per mangiare e per far colazione.

Poi arrivammo a Marassi. Marassi era tutta piena, era domenica pomeriggio.

Era tutto pieno di soldati repubblichini armati fino ai denti, sui tetti c’erano le mitragliatrici e giù c’erano anche i mortai. Arrivammo e ci diedero il numero di matricola; a me diedero il 1.121 e l’ultimo aveva il 1.133, 1.134. Nel frattempo arrivarono delle SS, degli ufficiali: dicevano di aver bisogno di due da fucilare e, dato che eravamo stati condannati a morte e poi salvati, dissero: “Ci date due di questi”. Anziché prendere i primi due presero gli ultimi due, il 1.133 e il 1.134. Li portarono alla fucilazione insieme ad altri cinquantotto di cui avevano bisogno secondo le esigenze di poterli fucilare. Non mi ricordo come si chiamavano. Poi, lì, conobbi altri compagni.

D: Nelle carceri di Marassi di Genova quanto tempo sei rimasto, Italo?

R: Una quindicina, venti giorni; non di più, ora la date non me le ricordo.

D: E dopo?

R: Dopo siamo stati portati a S. Vittore a Milano, primo raggio, che funzionava per i deportati politici, prigionieri politici. Eravamo al terzo piano, cella numero 2, eravamo in dieci.

Un bel giorno si arrivò al 15 agosto, anzi vorrei ricordarlo perché è giusto. C’era un personaggio, che anche oggi è un personaggio, che si chiamava Mike Bongiorno il quale faceva lo scopino in carcere anziché stare nella cella addetta all’infermeria, cella di cui, come cittadino straniero, avrebbe avuto diritto e nella quale si stava molto meglio. Io avevo bisogno di determinate cure per dolori che avevo nelle gambe e nelle braccia, avevo bisogno di iniezioni. Quest’uomo convinse il medico del carcere, che era sottoposto ai nazisti, a venire a farmi tutti i giorni per una settimana le punture e me le fece. E mi sono sentito bene, anche dopo quando sono arrivato al campo di sterminio.

Poi conobbi anche Indro Montanelli il quale non è che si fosse comportato un granché bene. Ci avvertiva quando le cose andavano male, questo sì, era vero; però si seppe che lui la fine che si è fatta noi non l’ha fatta. Fu liberato perché la mamma, che era la responsabile nazionale delle donne fasciste, fece liberare il figliolo dal carcere. Non è che lui abbia fatto qualche cosa per noi.

C’è stato poi quando siamo partiti da Milano. La notte c’era stato un bombardamento e noi si urlava “Arrivano gli inglesi arrivano gli inglesi”, si sentiva all’interno del carcere un trambusto. Venivano radunati tutti quelli del primo raggio, portati fuori, caricati su dei mezzi, su autopullman e su un camion 26 con rimorchio. Le ultime celle, nell’ordine di quaranta, quarantacinque persone, andammo sul camion e davanti a noi c’erano i fascisti con un fucile mitragliatore piazzato verso di noi; partimmo per Bolzano.

Arrivati a Bolzano fummo assegnati ad un capannone insieme ad altri che c’erano già, i quali erano tutti comandanti partigiani, partigiani antifascisti che erano stati in carcere. Avevano chiuso, anche davanti, col filo spinato; era il blocco B mi pare.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Sì, 2.852.

D: Italo, quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Dal 16 agosto al 4 settembre, il giorno che siamo partiti.

D: Ti ricordi se c’erano delle donne?

R: Sì, diavolo. Ce n’era una che addirittura mi obbligava a spogliarmi in presenza sua per lavarmi le mutande e la canottiera che avevo addosso. Maria si chiamava, era anziana.

D: Italo, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, padre Giannantonio, prima di tutto, mi ha voluto tanto bene. Dopo lì, l’ho rivisto a Dachau. Il giorno stesso che mi hanno liberato era accanto a me che mi assisteva, lui e don Fortin, parroco di Terranegra di Padova.

D: Lì sei rimasto fino a settembre?

R: 4 di settembre.

D: E poi?

R: Quindi siamo partiti per Flossenbürg.

D: Cioè tu non sapevi dove andavi?

R: No, niente, si andava in Germania.

D: Italo, dal campo di Bolzano per la partenza dov’è che vi hanno portato?

R: Ci hanno portato di fianco alla conceria dei tabacchi, mi pare che fosse questo. Comunque c’era un laboratorio e c’erano delle donne che dalle finestre, con delle pezze di canna o di ramo, ci davano sigarette, fiammiferi, pane, frutta, mele in modo particolare ce n’erano tante. E poi si partiva.

D: Dopo siete andati sui vagoni?

R: Siamo andati sui vagoni e invece queste donne dalle finestre ci davano tutto.

D: Dicevi Italo siete partiti?

R: Sì, siamo partiti.

D: Quanto è durato il viaggio, più o meno, te lo ricordi?

R: Quattro giorni. Per arrivare a Flossenbürg.

D: L’arrivo a Flossenbürg come te lo ricordi?

R: Tremendo. Si arrivò alla stazione di Flossenbürg giù in basso, Flossenbürg campo era su in alto. Ci inquadrarono e ci fecero passare; fu lì che vedemmo per la prima volta le nostre divise e i nostri compagni che lavoravano e che erano deportati all’interno del campo. Si arrivò all’ingresso, erano quasi tutti uguali, abbiamo rivisto poi anche quello di Dachau. Andammo dentro il piazzale, mano a mano che si passava c’era un SS del campo con un gran bastone, lungo lungo, che mano a mano ci picchiava in testa. Io ero fortunato perché bassino; accanto a me c’erano dei compagni che le prendevano anche per me perché io ero basso. Si arrivò nel piazzale.

Ci fecero spogliare nudi. Ci fecero mettere la roba dentro ad un sacchetto e ci fecero scrivere quello che c’era dentro. Ci dicono che poi ce l’avrebbero riconsegnata ma io non ho avuto più nulla, né visto più nulla, nemmeno i soldi che avevo; avevo 130.000 lire dell’epoca che non erano solo mie ma anche degli altri compagni: non ho rivisto più nulla. Poi così, a caso, presero dieci di noi e li impiccarono davanti al campo russo cosiddetto. Poi ci portarono all’interno delle due baracche addette al ricevimento dei deportati che per la prima volta venivano al campo, ci presentarono al capo della zona che era un ex barone tedesco che aveva ammazzato tutta la famiglia e che per punizione avevano messo a fare il guardiano all’interno delle baracche, le due baracche della quarantena.

Giù, un pochino più in basso, c’era il forno crematorio, e noi si sentiva, sempre, costantemente, il latrato come se fossero dei cani e invece erano le cornacchie cra-cra-cra-cra che sentivano l’odore della carne bruciata. Si vedevano passare, lì in fondo, le barelle con i morti che venivano portati al forno crematorio.

D: L’immatricolazione quando te l’hanno fatta a Flossenbürg?

R: Dopo una decina di giorni.

D: Il tuo numero qual è?

R: Questo: 21.569. Me lo ricordo sempre, anche in tedesco. Ogni volta che mi chiamavano mi chiamavano in tedesco e se non rispondevo erano botte. Siccome le botte non le volevo perché ammazzavano con quello a forza di legnate, avevo imparato anche a rispondere in tedesco.

D: Dopo la quarantena cosa è successo?

R: Un bel giorno ci hanno chiamati e ci hanno portati al Wäscheraum: ci hanno fatto fare il bagno. Ci hanno spogliato. Ci hanno levato tutto quello che si aveva addosso che poi era una camicia e un paio di zoccoli olandesi a barca. Ci hanno portato dove c’erano i sarti e hanno dato a tutti la divisa del deportato. Ci venne messo il numero di matricola sul petto, sul berretto e qui sui pantaloni. Il giorno dopo ci hanno fatto andare giù a Flossenbürg.

Ci hanno fatto montare sul treno e ci hanno portato a Hersbruck, a 17 chilometri da Norimberga. Quello è stato il primo vero campo di sterminio. Con me c’era padre Giannantonio, Teresio Olivelli, Becciu Salvatore, Pani Mario e altri, di cui ora magari non ricordo il nome.

D: A Hersbruck eri addetto al lavoro?

R: Sì, tutti. Il giorno dopo ci assegnarono subito un lavoro. A me assegnarono allo Stollenbau in montagna, nelle gallerie; dovevo andare nel pomeriggio. Sennonché altri, alla mattina, come Pani Mario sardo partigiano li avevano assegnati al Kartoffel: Kartoffel sono patate. Chiamavano Pani Mario e lui rispondeva: “Ma io non ci voglio andare perché c’è quel mio amico, siamo paesani, voglio stare con lui, non ci voglio andare in quel commando”. Io gli faccio: “Ma sai che lì ci sono le patate” e lui: “Non mi interessa, voglio andare con lui”. Allora venne Teresio Olivelli e mi dice: “Senti, anche se ti danno due o tre ceffoni, pigliali, ma vai al comando Kartoffel e dì che l’italiano sei tu” e così feci. Quell’italiana invece dei due ceffoni per andare al comando Kartoffel la sera avevo già mangiato sei patate così grosse, cotte, non crude.

D: Italo, per andare dal campo di Hersbruck alle gallerie con cosa vi portavano?

R: A piedi.

D: Erano vicine o distanti?

R: 8 chilometri.

D: Tu cosa facevi dentro nelle gallerie?

R: Lì ci sono andato dopo, prima sono stato al Kartoffel. Spingevo vagoncini, li caricavo e li scaricavo insieme agli altri naturalmente, quei pochi che eravamo addetti.

D: E finito il lavoro?

R: A piedi si ritornava al campo. Si veniva frugati da tutte le parti per vedere se c’erano cose che non si dovevano avere. Poi ci mandavano in baracca. Nella baracca come si entrava bisognava stare attenti a non avere nemmeno un granellino di sabbia perché si sporcava.

C’era il capoblocco con i suoi scugnizzi coi bastoni e prendeva a bastonate tutti. Poi io avevo capito che non dovevo dormire in basso ma era meglio in alto perché per arrivare da me facevo in tempo anche a scappare. Difatti stavo su al quarto piano a dormire. Poi, la mattina, quando ci si svegliava non è che dicevano: “Oh oh svegliatevi che è l’ora”! Venivano coi bastoni e con gli sgabelli e sgabellate e bastonate a tutti. C’erano anche quelli che ci morivano, per i colpi in testa. Quando erano passati tutti scendevo ed ero tranquillo, cercavo di fare il furbo.

D: A Hersbruck quanto tempo sei rimasto?

R: Da settembre fino a marzo, quando poi siamo partiti per Dachau.

D: E’ stato smobilitato tutto il campo?

R: Sì tutto il campo.

D: Stiamo dimenticando un passaggio …

R: Il Kartoffel fu molto importante per me e per i miei compagni. Con un filo di ferro piegato in cima e in fondo infilavo le patate e me le mettevo nella gamba dei pantaloni perché anche se mi avessero toccato frugavano sempre quassù sulle tasche e io le portavo dentro il campo. Poi le distribuivo a quei compagni che più ne avevano bisogno, anche sulle indicazioni di Teresio Olivelli. Era una gran brava persona. Io distribuivo le patate. Però avevo un compagno veronese che si chiamava Luciano che veniva da Torino e stava in Via Vanchiglia n. 47. Ci sono stato dopo la Liberazione e non ci ho trovato nessuno della famiglia e lui invece era morto. Una volta invece gli portai le patate e lui mi disse: “Dalle a qualche altro perché io fra mezz’ora sono morto”. Eravamo stati insieme anche in carcere, nella stessa cella, e poverino non stava bene di salute.

D: Punizioni non ne hai mai subite?

R: Tante. Tanto è vero che una volta mi volevano impiccare perché avevo cercato di fuggire. Avevo già il cappio al collo, montato sullo sgabello, tesa la corda. Il capitano delle SS, il comandante del campo, guarda e vede dal mio numero di matricola che sono un italiano; mi domanda di dove ero e perché volevo scappare e rispondo: “Perché volevo andare a casa, volevo ritornare in famiglia”. E allora mi guardò un po’ e disse a quell’altro: “Mandatelo via” e difatti mi levarono il cappio. Mi fecero scendere e io me lo sento sempre addosso questo cappio.

D: Italino, e la storia della pietra quale è?

R: No, perché mi avevano messo, appunto perché avevo tentato la fuga, un disco rosso in campo bianco così davanti e di dietro. Non ci capisco perché sai tante cose mi sono passate di mente.

Dopo che avevo tentato la fuga per punizione dovevo portare una pietra sulle spalle.

D: Lavorando lo stesso?

R: Lavorando lo stesso. Poi c’era anche un sottoufficiale delle SS che quando poi andai a lavorare allo Stollenbau mi faceva: “Tu italiano” e mi indicava il forno crematorio che era in fondo al palazzo. “Tu crematorio!” e mi faceva proprio così anche con la mano. Io dentro di me gli dicevo: “Vai, vai, aspetta che poi te lo do io”. Passava sempre in cima al cordolo della montagna e sotto c’era un precipizio di 300 metri. Un bel giorno avevo la pala in mano, gli diedi una spinta e se ne andò di sotto. Non se ne accorse nessuno e morì. I compagni miei, deportati, videro tutto però non hanno mai detto una parola. Nemmeno così, di sottinteso, in modo che gli altri non mi avessero fatto del male; anzi passavano, facevano così, mi strizzavano l’occhio come dire è andata bene.

D: E l’evacuazione dal campo di Hersbruck avviene quando?

R: Nel mese di marzo del 1945. Dopo che ero già stato a Mauthausen, però, per punizione. Insieme a Teresio Olivelli, Becciu Salvatore e ad altri avevamo fondato il Comitato di Liberazione Italiano del campo, in modo che ci si seguisse dal punto di vista politico e di aiuto l’un con l’altro. All’interno del campo c’era anche la Gestapo che funzionava in mezzo ai deportati. Scoprirono un certo numero di deportati di tutte le nazionalità e in duecento un bel giorno ci presero e in presenza a tutti ci dissero che saremmo stati mandati a Mauthausen. Difatti c’erano i camion pronti, ci caricarono sui camion e ci portarono a Mauthausen; blocco numero 8.

Poi si andava a trasporto e comando, si scendeva e si montava le scale, la cosiddetta scala della morte centoottantasei gradini, col peso sulle spalle. C’era una specie di gerla che si metteva sulle spalle, mantenendola in questa posizione con la pietra che si portava in cima in cima sotto le mura del campo. Dopo lì venivano i comuni e i civili a pigliarle e le pagavano alle SS; le SS ce ne hanno fatte tante, centinaia di milioni.

D: A Mauthausen ti hanno portato quando? Te lo ricordi?

R: In febbraio. Fine di gennaio e febbraio del 1945.

D: Poi sei ritornato ancora a Hersbruck o a Flossenbürg?

R: Dei duecento, in quindici giorni, eravamo rimasti in cinque, perché c’era la punizione cui eravamo stati destinati. Noi cinque fummo riportati a Hersbruck. Era il mese di marzo. Dopo pochi giorni, mi pare dopo due o tre, fu evacuato il campo e ci portarono verso Dachau.

D: L’evacuazione del campo come è avvenuta? Vi hanno portato giù a Flossenbürg?

R: No no, a Flossenbürg portarono soltanto gli ammalati, quelli della infermeria e poi furono fatti fuori tutti, lo abbiamo saputo dagli altri. E noi lungo la strada si arrivò a Saal an der Donau, città sul Danubio, proprio sul Danubio. Era una cava dove lavoravano i deportati. Dopo due o tre giorni si riprese la strada e ci portarono a Dachau.

Appena passata la città venne una donnetta, mi sembrava la mia nonna santa. Aveva il grembiulino e sotto il grembiulino aveva un recipiente e dentro il recipiente c’erano delle patate cotte. Mi fa: “Tschüß!” e io: “Auf wiedersehen!” Tirò fuori cinque, mi pare, o sei di queste patate e me le diede, io le mangiai con la buccia e tutto, poi mi disse di distribuirle un po’ anche agli altri. Quando un Kapò la vide, fece la spia alla SS di scorta; la SS andò giù e prese la vecchietta tedesca, la mise di fianco, le sparò in testa e la ammazzò perché ci dava le patate da mangiare.

Poi per la strada non ci portarono più nulla da mangiare le SS. C’era uno, un ufficiale dell’aviazione, che ogni giorno portava a quattro o cinque che gli si erano sempre vicino dei pezzettini di carne cruda. Noi si mangiava anche quello perché si pensava ai cavalli, vacche, cani, gatti; tutti si pensava a queste cose ammazzate coi bombardamenti e mitragliamenti. Invece poi l’ultimo giorno ce lo fece vedere. La levava nelle parti molli dei nostri compagni. “Ah” mi disse: “e te cosa dici?”. “E che devo dire, che io anche se muoio non la mangio più”. Ma almeno così loro avranno cercato di portare la pellaccia a casa sapendo quello che era stato fatto nei campi di sterminio.

D: Poi siete arrivati a Dachau?

R: Siamo arrivati a Dachau. Ci hanno portati subito al Wöscehraum. Infilato in un mastello grande, di quelli da 200 litri con l’acqua calda. Chissà, forse l’acqua calda mi fece effetto: io stavo calando sotto, stavo affogando. I miei compagni mi videro e presi piano a bambinare la cosa. Si dice così nel gergo nelle cave là dove si deve muovere una piastra, un pezzo di marmo, si dice “bambina”. Allora mi fecero rovesciare con l’acqua e camminai almeno una decina di metri con questa acqua.

D: Italo, a Dachau sei stato immatricolato ancora?

R: Sì, non era più quello di Flossenbürg, era 154.749.

D: Lì non sei più andato a lavorare? Eri in qualche comando?

R: No, hanno cercato di mandarmici ma io d’accordo coi compagni me la squagliavo sempre. C’era Ettore, un tecnico della Ansaldo di Genova, antifascista, che mi diceva: “Te prima di partire rivolgiti sempre a me e ti dico cosa fare”. Io so che lui era in contatto con il Comitato di Liberazione Internazionale del campo, insieme a Giovanni Melodia, e io così ho fatto. Poi veniva a trovarmi padre Giannantonio e don Fortin e veniva anche monsignor Behran, arcivescovo di Praga, e Carlo Manziana, vescovo di Crema. Io che non sono un credente ho sempre creduto a quello che mi hanno detto, mi sono sempre comportato così come loro hanno voluto.

D: A Dachau te la ricordi la Liberazione?

R: Come no?

D: Dove eri tu?

R: Ero sdraiato in terra, sotto la finestra.

Al fianco da una parte e dall’altra c’erano padre Giannantonio e don Giovanni Fortin. Venne un americano, anzi prima di lui passarono monsignor Behran e monsignor Manziana, vescovo di Crema.

Ci avvertirono: “Siamo in contatto con la Croce Rossa internazionale”, tramite la radio clandestina che c’era nel campo, “non vi muovete per nessun motivo perché loro vogliono ammazzare tutti”, difatti ne ammazzarono diverse migliaia, “restate nella baracca anche se non si mangia perché da un momento all’altro saremo liberati”. E difatti fu così.

Il 29 aprile alle 17.45 arrivarono a liberare il campo. Mi ricordo che venne un militare vestito da americano e invece era un italiano che si era arruolato dopo l’8 settembre con gli americani. Un italiano di Lucca che io conoscevo. Appena entrò disse: “C’è qualcuno di Lucca qui?” “No, uno di Lucca no, ma ce n’è uno di Seravezza”, e glielo disse padre Giannantonio perché sapeva tutto di me. “Oh, come si chiama?” “Così e così.” “Oh, ma io lo conosco questo. Ci siamo conosciuti a Lucca in una certa occasione.” Disse anche in quale e io qui non voglio ripeterla perché si va a finire ragazzi, mi dispiace. In una certa casa ci eravamo conosciuti e si stava ben vestiti per picchiarci per questioni di precedenza. Lui è quello che venne e mi fece portare immediatamente ad un ospedaletto 150 chilometri distante dal campo. Ci sono stato quindici giorni; mi hanno curato bene e poi volli tornare a Dachau per stare con i miei compagni, perché stavo male lì dal punto di vista personale ma non dal punto di vista delle cure. Mi hanno curato bene finché poi mi hanno dimesso e volevo tornare a casa. Giovanni Melodia, che era il presidente del Comitato Italiano di tutti gli italiani rimasti che ora sta a Roma e sta molto male poverino di salute, ma molto molto, non mi voleva mandare a casa. Diceva: “Non sei neanche a posto, la salute è quella che è, bisogna che tu abbia pazienza”. Io dissi: “Voglio fare la prova; novantatre gradini e poi ridiscenderli.” Li montai così impettito che poi cascai dall’altra parte nella discesa perché non mi vedevano e allora partii e venni a casa.

D: Questo quando era?

R: Era il 24 giugno 1945.

D: Italino, ma quando tu sei arrivato a Dachau dopo un pezzo di marcia a piedi non avete preso anche un treno?

R: Sì, per gli ultimi 80 chilometri, dopo Saal an der Donau, dopo l’episodio di quella vecchietta poverina, ci fecero montare su dei vagoni. Mentre si era lì che si aspettava la partenza cominciò a piovere roba dentro il carro: erano patate crude ma noi le mangiammo anche crude pur sapendo che ci avrebbero fatto male. Io cominciai a urlare fuori: “Chi c’è fuori? c’è degli italiani?” Mi risposero di sì ma mi dissero anche: “Stai zitto” e stetti zitto, non parlai più.

Poi si partì. Eravamo cento per ogni vagone, quei vagoni che portavano il carbone, grandi, aperti, tutti così. Ogni tanto qualcuno moriva e per ripararsi dall’acqua ghiacciata che veniva giù io prendevo due morti e me li mettevo sopra così fino a che si arrivò a Dachau. Alla stazione vicina del campo ci fanno scendere. E chi va a Dachau ha delle fotografie della ferrovia con dei vagoni con cui siamo arrivati noi con tutti morti giù lungo tutta la scarpata della ferrovia. Io, di cento che eravamo su questo vagone, ci sono. Gli altri novantanove nella nottata erano morti tutti.

D: A Dachau non sei mai stato al Revier, non ti hanno mai curato?

R: Dopo che sono ritornato dall’ospedaletto americano sì, ci sono stato una quindicina, venti giorni.