Figini Ines

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Figini Ines, sono nata a Como il 15-7-1922, abito a Como.

D: Allora Ines, quando sei stata arrestata e dove?

R: Io sono stata arrestata il 6 marzo 1944, sono stata arrestata a Como, all’interno della mia fabbrica dove lavoravo. Quel mattino quando io entrai, notai subito qualcosa di non normale e, infatti, giravano dei manifestini nei quali si incitava tutti a non lavorare, cioè a scioperare per tanti motivi, fra i quali questi: ribellarsi contro i fascisti, ribellarsi perché avevano tesserato tutto e l’operaio non poteva vivere con quello che la tessera passava, e poi malgrado c’era il Federale di Como che diceva Insomma l’operaio può vivere con un pezzo di pane e una mela”, e queste cose non andavano bene, e poi anche per incominciare a creare dei disordini perché c’erano i tedeschi e naturalmente si cercava in tutti i modi di combattere questa loro presenza in Como.

Così quel mattino naturalmente non so chi ha chiamato la polizia fascista, venne il Questore con dei fascisti armati, girarono tutti i reparti, e poi quando la sirena fischiò, era mezzogiorno, tutti si riversarono nel cortile, ed eravamo in molti. Il Questore tolse dalla tasca una lista con dei nomi, questi nomi erano stati scritti da un capo reparto e dettati da un altro direttore, erano cinque uomini e due donne.

Il Questore, che si chiamava Pozzoli disse che questa era una cosa che non si doveva fare, e che senz’altro sarebbero stati inviati in Germania a lavorare, naturalmente non si sapeva che esistevano questi campi di lavoro. Quando disse: “Aprite i cancelli adesso potete andare”, trattenendo appunto questi uomini e queste due donne, io non so come, mi trovai davanti al Questore e difesi strenuamente questi miei compagni, dicendo loro che se tutti avevano scioperato era logico che il castigo fosse stato per tutti, pensavo una cosa impossibile fermare la produzione e arrestare tutta la gente.

Al che lui mi venne vicino e mi fece dire i motivi perché avevamo scioperato e se sapevo chi aveva organizzato tutto questo. Io non sapevo chi aveva organizzato, perché anche io il mattino quando sono entrata con altri, non si sapeva di tutto questo e così lui mi venne vicino e mi fece notare che nessuno degli altri operai veniva a darmi man forte, cioè la difesa praticamente è stata solo mia. Poi mi disse che se mi impegnavo e il pomeriggio il lavoro veniva ripreso i miei compagni li avrebbe lasciati liberi, non so forse l’incoscienza dei miei giovani anni, promisi che senz’altro avrebbero ripreso il lavoro basta che lasciava liberi i miei compagni, e così fu.

Furono aperti i cancelli, loro uscirono anche loro con tutti, e arrivai a casa. Non dissi niente ai miei genitori per paura che prendessero altri provvedimenti, capendo anche la gravità della situazione, io non ho capito veramente la gravità della situazione. Pomeriggio riprendemmo il lavoro come se niente fosse, però durante la notte vennero questi fascisti, la polizia fascista e arrestò anche me.

Entrò in camera, con i fucili spianati, io meravigliata, dato che per me la cosa era finita, non pensavo più, poi nel sonno pensavo: “Forse hanno rubato, forse io sono testimone”, non so, comunque dissi: “Va bene mi alzo”. Rassicurai mio padre che mi guardava allibito, e dissi “Vado, definisco la cosa e torno subito. Non ti preoccupare papà e mamma, torno subito” e così. Però non so chi mi ispirasse dissi “Scusate avete un mandato, avete un foglio, avete qualcuno che si prende le responsabilità, voi mi portate via così” e loro mi fecero vedere questo foglio firmato dal Prefetto, dover c’era scritto arrestare tutti e mandare al lavoro in Germania. Di questo foglio ho ancora una fotocopia, ma perché dopo tanto tempo fu pubblicato sul giornale e i miei lo tennero.

Così seppi più tardi che una persona molto fascista, che lavorava in Tintoria Comense, più tardi si chiamò TICOSA, ma era Tintoria Comense ed era una delle ditte più grandi non solo di Como ma forse anche d’Europa, perché si lavorava per conto terzi cioè entrava il greggio, veniva purgato, tinto, stampato e usciva la pezza completa, e mi dissero che questa persona andò dal Prefetto, ma più che il Prefetto il Questore, e disse che non era una cosa da lasciare perdere perché se no tutte le altre piccole ditte, Como era molto industriosa, avrebbero preso l’esempio e tutte le volte ci sarebbero stati questi scioperi, quindi la restrizione di prendere queste persone e cercare di portarle via.

Mi portarono in Questura, mi interrogarono, naturalmente non sapevo niente, poi io, Ada Borgomaniero e Celestina Tagliabue, fummo chiuse in una cella e i cinque uomini, poi diventarono quattro, non so l’altro che fine a fatto, comunque lì non c’era, anche loro furono chiusi lì. Poi il mattino dopo ci portarono in una palestra di Como, la palestra Mariani, dove già c’erano altre persone, non so se ricordo se erano tutte politiche o se c’erano anche ebree, insomma ce ne erano diverse, fummo lì per qualche giorno, poi un mattino molto, molto presto ci incamminammo verso la stazione con la polizia e ci portarono a Bergamo.

D: Ines in questo periodo, da quando sei stata arrestata a quando sei partita per Bergamo, hai potuto comunicare con la tua famiglia, dire che eri lì …

R: Sì, perché la palestra Mariani aveva un piccolo spiazzo fuori, una specie di giardino, un cortile e c’era una rete. Sotto questa strada parlai anche con mia sorella e poi venne il direttore generale che passò e disse se avevamo bisogno di qualche cosa, ma però non sapevamo, ignoravamo se da lì ci avrebbero lasciato liberi, oppure ci avrebbero trasportato in qualche altro posto, perché naturalmente si ignorava ogni cosa.

D: Tu avevi addosso quello che avevi quella notte che ti hanno arrestato e basta?

R: Certo, il cappotto, il vestito e le scarpe normali, non avevamo niente, comunque ci portarono a Bergamo in questa caserma militare, che mi pare fosse il 78 Fanteria, e di lì riuscimmo, non so come, a comunicare con la famiglia, per cercare di portarci della roba anche per il cambio, non sapevamo dove andavamo a finire. Però non fecero più in tempo a venire, non vidi più nessuno, solo che lì la Tagliabue Celestina, forse soffriva ai reni non so, aveva le caviglie veramente molto gonfie, venne un dottore italiano, cercò di aiutarci, mandò a chiamare un dottore tedesco e gli spiegò che questa ragazza non poteva farcela ed è stata fortunata, la rimandarono subito a casa.

Noi il giorno dopo incolonnati C’erano altre persone che nel frattempo erano arrivate in maniera da formare un certo convoglio, attraverso la città andammo alla stazione fra due ali di gente, mi ricordo davano del pane, davano dei biscotti, davano delle caramelle, una cosa addirittura questa gente, vedevo, forse avevano già assistito a dei trasporti, ma leggevo sui loro visi della compassione, qualche cosa di triste perché nessuno parlava, e così ci misero in questi vagoni.

Eravamo rimaste solo queste due donne, io e Ada Borgomaniero, e poi ci furono cinque donne, mi sembra di Lecco, che anche loro nel frattempo avevano scioperato, e così eravamo sette donne, siccome eravamo in poche noi viaggiammo con il Comando, però non era ancora la SS, era un Comando militare, quindi parlavano, erano abbastanza, e lì scoprii che un militare, un sergente, parlava molto bene l’italiano disse che era di stanza a Como, e mi fece un nome che io conoscevo benissimo, allora gli chiesi matita e carta se poteva spedirmi una lettera per i miei genitori.

Così scrissi di non preoccuparsi, che stavo bene, che andavamo in Germania a lavorare, che c’era anche Ada Borgomaniero, di avvisare i suoi che tutto procedeva bene, con l’entusiasmo e l’incoscienza della gioventù, non sapendo certamente che fine noi avremmo fatto. Noi credevamo di andare a lavorare in Germania un anno o due, quello che poteva essere la nostra condanna, e poi naturalmente venire a casa. Questa lettera fu realmente spedita da Como, i miei genitori la conservarono, ancora oggi io ce l’ho.

Poi proseguimmo fino al confine, al confine ci fu la SS, ci prese loro e qui finì la pacchia, perché qui viaggiavamo abbastanza serene. Poi arrivammo a Vienna in una prigione, salimmo queste scale, questi lunghi corridoi, ricordo il rumore caratteristico di questi cancelli che si chiudevano, e ci portarono in un enorme stanzone e lì ci diedero della zuppa, una cosa schifosa, e noi ci guardavamo come facciamo dobbiamo dormire, non avevamo niente, così sedute sul nudo pavimento e cercammo di dormire, il giorno dopo vennero dei camion, ci caricarono e ci portarono a Mauthausen.

Mauthausen è un campo prettamente maschile, diciamo così, poi forse ci saranno state delle branchie femminili, però noi ci chiusero tutte e sette in una cella, e di lì probabilmente si aspettava altri convogli che dovevano arrivare, per fare questo lungo treno famoso, che ormai si vede in tutti i film e in tutte le riviste, per arrivare a destinazione, che era Auschwitz. Devi farmi qualche altra domanda?

D: Quindi a Vienna più o meno quanto siete rimaste?

R: Una notte.

D: E a Mauthausen circa?

R: Io penso circa una settimana, cinque o sei giorni, adesso precisamente non è che abbia un ricordo molto forte, posso dire cinque, anziché quattro, anziché sei.

D: Ti ricordi se a Mauthausen sei stata immatricolata?

R: No, no.

D: Hai mantenuto i vestiti?

R: Sì, sì. Quando arrivammo ci spogliarono, ci fecero una doccia, poi ci rivestimmo, e ci portarono in questa cella.

D: E non vi siete mossi dalla cella per cinque o sei giorni?

R: No. Solo uscivamo lì fuori della cella. C’era una specie di lavandino circolare con dei rubinetti per lavarci un po’ così e basta. Poi dopo qualche giorno si aspettò questo convoglio e di lì la nostra meta era Auschwitz, arrivammo ad Auschwitz.

D: Più o meno che periodo potrebbe essere questo del trasporto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Penso verso la fine di marzo, venti, venticinque marzo, penso questo periodo.

D: Sempre del ’44?

R: Sempre del ’44 naturalmente, e quando arrivammo a Mauthausen cominciammo a capire che non era una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Intanto scene apocalittiche, questo campo illuminato a giorno, gli urli e i comandi dei tedeschi, c’erano i dottori tedeschi, c’erano ufficiali tedeschi, c’erano Kapò, c’erano degli uomini con dei carrelli, che spingevano questi carrelli, e capii dopo purtroppo cosa era.

D: Questo è Mauthausen o Birkenau?

R: No, Birkenau, no Mauthausen partimmo e basta, non c’entra l’ho detto.

D: Che cosa ti ricordi del trasporto tra Mauthausen e Auschwitz, come avvenne?

R: Avvenne su questo convoglio, e noi eravamo non ammassati come gli ebrei tutti insieme così, ma c’era questo vagone, come i vecchi treni della terza classe, quasi a piccole cabine, chiuse dentro a chiave, quattro o cinque donne per volta, ed eravamo chiuse, eravamo smarrite, non potevamo neanche fare delle supposizioni “Ma dove finiremo? Ma cosa sarà” insomma domande senza risposte. Quindi un po’ si dormiva, un po’ si aveva paura, il soldato passava ogni tanto, è stata una cosa che non so, che non posso descrivere bene perché eravamo così in attesa di qualche cosa che definisse la nostra situazione, dove ci portavano, cosa sarebbe stato, cosa sarebbe avvenuto, tante domande che non avevano naturalmente nessuna risposta.

D: Vi hanno dato da mangiare in questo tragitto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Io non ricordo, prima di partire forse ci diedero del pane non so, non ricordo questo, non ricordo di aver …

D: Più o meno quanto è durato il viaggio lo ricordi?

R: No, non lo ricordo questo, perché si dormicchiava, non so, forse due giorni, questo non lo posso sinceramente dire, perché eravamo così fuori di noi, un po’ si piangeva, un po’ si dormicchiava, quindi il tempo per noi non era scandito da pensare che ora sarà, eravamo terrorizzate. Guardando fuori, vedendo tutta questa neve, io ricordo tanto questi candelotti di ghiaccio, questi pini, foreste immense, ho questi ricordi così, ma quasi sfumati nella mia memoria.

Non è che sia molto vivo questo viaggio, perché quando tu non sai cosa puoi fare, una ragazza di vent’anni, ventuno, eravamo su per giù quasi tutte giovani, mai viaggiato, mai avuto un’esperienza di viaggio, da sapere se eravamo in Austria, forse noi pensavamo Austria chissà dove era, Cecoslovacchia, un nome che a noi ci sembrava chi sa come, capisci è nebuloso quel periodo lì, sinceramente.

D: Però ti ricordi bene dove siete arrivate?

R: Certo. Naturalmente, io non sapevo ancora che si chiamava Oswiecim Birkenau, non sapevamo, quando vidi questo treno che entrava in questo posto, come dicevo, illuminato a giorno, con questi ordini, dicevamo “Ma dove siamo capitati? Ma chi sa?”

Poi il rumore dei vagoni che si aprivano, questi ordini così forti, tedeschi, duri, di scendere ed, infatti, noi giovani subito dai vagoni scendemmo, ma cera gente handicappata, gente anziana, bambini, gente che non poteva saltare addirittura, e quindi lì, questo l’ho in mente molto bene, salivano i militari, o a pedate o a buttare giù così anche i bambini, e scene che proprio che … “Ma dove siamo capitate? Forse è l’inferno? Ma cosa sarà?”.

Eravamo quasi gelati, non so se nella mente, che non si poteva neanche formulare dei pensieri dal terrore, il freddo intenso, perché puoi immaginare a fine marzo là c’era anche neve, immaginare una cosa così, questa gente che urlava, perché dividevano le famiglie, i bambini che piangevano e chiedevano della mamma, la moglie chiamava il marito, il figlio …, una cosa che forse anche avendo fantasia non si poteva immaginare una cosa così.

E di lì incominciammo a capire che non era naturalmente una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Poi ci incamminarono e lì avvenne la selezione. Noi naturalmente eravamo tutte giovani e forti, meno male che non siamo morte, e ci misero da parte, poi c’erano questi ammalati, handicappati, ecc, ecc, da un’altra parte, questi più giovani, insomma divisero, e penso che divisero anche gli ebrei dai politici.

Poi ci portarono in questa capanna dove c’era non so se era una soldatessa, o un’ausiliaria, o una Kapò, e ci impressero il tatuaggio, il numero, io cercai subito di cancellarlo ma non era possibile. Intanto guardavo la velocità che avevano di scrivere questi numeri, sono tutti in puntini, una velocità tale che quasi non si riusciva neanche a vedere quello che scrivevano. Lì chiesi “Ma io non ho fatto niente, perché numerarmi? Perché?” Vedi, allora si pensava che il tatuaggio, non è come adesso che l’hanno tutti, ma un tempo erano solo gli ergastolani, i marinai, ecco, questo noi intendevamo il tatuaggio su questa gente, quindi quando mi misero il numero capii subito che ero prigioniera, cioè qui allora cambia, questa è la situazione.

Poi ci avviarono verso la sauna …

D: Ci dici il tuo numero prima?

R: Il mio numero è 76150, naturalmente progressivo, e poi ci portarono in questa sauna, chiamata sauna, ma allora non si sapeva, queste docce, ci spogliarono, ci portarono via tutte le cose. Tornando indietro un passo, questi carrelli che erano alla selezione, venivano riempiti tutti dalle valigie degli ebrei, dalle pellicce, perché loro avevano fatto credere agli ebrei che sarebbero andati in un ghetto, quindi di portare tutto quello che occorreva, quindi soldi, non soldi, oro, e hanno portato via tutto, dentro in queste cose, forse gli avranno detto “Poi ci raggiungerete e le cose verranno distribuite”, non so.

D: Tu avevi una valigia, tu e le tue amiche?

R: No, io non avevo niente perché non hanno fatto in tempo i miei a venire a Bergamo a portarmi …, io avevo solo un cappotto, le scarpe pesanti, una cosa normale quando tu vai al lavoro.

Poi lì così ci fecero questa doccia, ci portarono via, anche io avevo una catenina d’oro, un anellino d’oro, e mi ricordo li infilai nel dentifricio, aprii il dentifricio e infilai nel dentifricio, pensai “Mi lasceranno il sapone e il dentifricio” mi girai, lo misi giù sulla panchina, mi girai e non c’era più niente, naturalmente forse loro sapevano che si nascondeva l’oro anche …, e poi a tante facevano anche le visite intime per vedere se si nascondesse l’oro, quindi dalla bocca e da altre parti, è una cosa umiliante, perché addirittura …

Va bene, poi da lì ci diedero questi vestiti, che era un vestito di cotone molto grezzo, a righe grigie e blu, con già impresso il numero, e poi una giacchetta sopra. Per intimo avevamo una maglia mezza rotta, un paio di mutande lunghe fino al ginocchio, sempre di quel cotone lì grosso, ancora come forse nel ‘800, che si allacciavano in vita, dei calzettoni, uno corto uno lungo, questi zoccoli che erano tremendi, perché poi ci arrangiavamo a scambiarli tra di noi perché magari ne avevamo uno grande e uno piccola, un foulard da mettere in testa per il freddo, e basta.

Poi ci portarono in questo capannone che si chiamava, dicevano “Block, Block”. Ogni Block aveva il suo numero, e lì in queste cuccette, chiamiamole cuccette, restammo terrorizzate, si tremava dal freddo, dalla paura, ma proprio una cosa tremenda perché il tremare, tremi per il freddo è un tremito, ma il tremito interno è una cosa tremenda, pareva che il cuore tremasse, ed è vero che la paura prende anche le ginocchia, si sentiva le ginocchia proprio …, sono sensazioni che solo chi le ha provate penso le possa capire.

Poi ci dissero di non parlare, sempre la gran Kapò, ci disse di non parlare e di cercare un posto dove poter dormire. Ti puoi immaginare, non padroni della lingua, non si capiva niente, se parlavamo fra di noi anche queste che dormivano si svegliavano “Rue, silenzio!” una cosa … finalmente trovammo una cuccetta, diciamo così, questa è una descrizione tremenda perché una cuccetta io non so quanto sarà larga, sì e no 2 metri non era larga, c’era della paglia, poi sopra una coperta, ci diedero una coperta per uno e tutte e cinque bisognava dormire lì, quindi ci coricammo e cercammo di dormire.

Al mattino presto col fischio della sirena o col gong dipendeva, la Kapò passava urlando “Alzatevi! Alzatevi!” naturalmente in tedesco. Aveva uno staffile di cuoio in mano e se non si era abbastanza svelte da scendere da questo posto lei picchiava, non c’è niente da fare. Poi da lì noi le prime necessità, dove ci si lavava, dove era il gabinetto, là proprio dalla vita normale, non è fatta solamente …, bisogna pensare anche a tante cose, non sapevamo, nessuno ci dava ascolto, anche le prigioniere medesime, un’indifferenza!

Forse dopo ho capito perché non ti interessava più niente, non c’era nessuno che ti diceva “Guarda a lavarsi si va là, al gabinetto devi uscire e devi andare di là” e quindi come scimmie cercavamo di imitare, se andavano a destra andavamo anche noi a destra, se andavano a sinistra … e scoprimmo dove c’era un po’ di acqua per lavarsi, ma era una cosa inavvicinabile, perché il mattino il Block era molto grande, non so quanto non potesse contenere, ma molte donne, cinque per ogni cuccetta, era a due piani se non a tre, quando arrivavano i nuovi convogli anche dieci al posto di cinque, quindi non ho idea di quante, so che erano tantissime, quindi impossibile avvicinarsi perché a questi rubinetti c’erano addirittura gruppi.

Poi scoprimmo dove erano i gabinetti. I gabinetti erano una cosa addirittura terribile, mi ricordo quando entrai la puzza e quello che vedevo, il vomito, sono uscita disperata perché era una cosa impossibile, allora era un lungo capannone, all’altezza ci circa 60, 70 cm, ogni 60 cm, 70 circa, intercalando a scacchiera c’erano dei buchi enormi e su questi buchi appollaiate c’erano queste donne e potete immaginare che spettacolo, e lì soffrivano già di dissenteria, una cosa atroce, però la necessità è la necessità, e, “O mangiamoci questa minestra o salta la finestra”, cosa devo dire, mi feci coraggio e cominciai ad entrare.

Poi c’era l’appello, fuori da ogni capannone, da ogni Block, schierate a cinque a cinque, c’eravamo noi. Certo il freddo era intenso, fermi su questo posto, cercavamo una con l’altra di essere abbracciate, perché il freddo era freddo, però era il vento che era terribile, il vento penetrava, il vento è una cosa tremenda, perché per quanto tu cerchi di rannicchiarti, poi vestite così ti puoi immaginare. Dopo l’appello, non so se prima o dopo, ci distribuirono questa gavetta, che era una specie di ciotola di forma rotonda con un buco e della corda e bisognava tenerla legata in vita, poi il cucchiaio nelle asole del vestito.

Non possedevamo niente, né fazzoletti, né carta igienica, domandare “Ma come? E se arrivano le mestruazioni come faremo? Non abbiamo niente?” E poi capii, perché mestruazioni non ce ne erano assolutamente, dicevano che nella zuppa mettevano delle sostanze che, infatti subito il primo mese a me, a nessuno di noi vennero le mestruazioni. Però succedeva anche questo che non avendo questo sfogo, tanti si ammalavano negli intestini, nelle ovaie; a me fortunatamente mi venivano una specie di ascessi, di bubboni nelle gambe, dovevo andare al mattino a farmi tagliare, mi tagliavano e poi mi mandavano ancora al lavoro, grazie a Dio non ho mai preso un’infezione.

Comunque finito di fare questo appello, sempre a cinque a cinque, in colonna e ogni quindici ragazze, c’era un soldato, naturalmente armato, con il cane. Quando si usciva dal cancello, sul lato destro c’era un’orchestra di ebrei, che suonavano delle marce per tenere il passo, perché distanziando bene era più facile anche la conta, quando tutto è ordine, quando tutto è così.

C’erano queste vecchie babe russe o polacche, non lo so, insomma gente vecchia che trascinavano i piedi, non potevano avere il passo come lo avevamo noi, e lì il soldato secondo come pensava o come agiva, arrivava e calcio del fucile sulle spalle o sulla testa, gli arrivava via, queste donne andavano avanti a fare il loro passo perché non potevano fare altro, fino a che arrivavamo sul posto di lavoro, so che camminavamo abbastanza, forse era lontano qualche kilometro, ed era una zona paludosa, che noi prigionieri prosciugammo.

Quindi ci diedero pala e piccone, ci fecero vedere dove c’erano questi canali da picconare, da scavare, e questo lavoro era molto duro perché la terra era argillosa, molto dura infatti, e picconare e poi con il badile buttare fuori da una parte, poi più tardi venivano messi dei tubi di questi rossi, adesso mi sfugge la parola, insomma dei tubi dove poi l’acqua veniva incanalata e la palude veniva prosciugata.

Quando poi era tutto coperto questo terreno veniva arato, e c’erano i cavalli, i buoi, non so, però anche noi ragazze con delle corde, in otto, dieci ragazze, si tirava questo enorme aratro, e di lì veniva poi seminato grano e orzo, e cresceva magnificamente bene, primo perché terra vergine e poi veniva ingrassato con la cenere degli ebrei, più di una volta si arrivava e buttava sul terreno, anche perché tanta cenere degli ebrei veniva buttata … come si chiama questo fiume?

D: Vistola.

R: La Vistola e anche quell’altro che c’è …

D: La Sola.

R: La Sola. Quindi pensate voi, i pesci si nutrivano di tante cose, il pesce veniva pescato, guardate il giro che si faceva, e l’uomo lo mangiava. Va bene. Comunque poi si lavorava fino circa alla una, poi arrivavano questi bidoni, chiamati ghible, piene di zuppa. La zuppa era acqua e cavoli bolliti, o acqua e rape; il soldato distribuiva nella nostra gavetta, si mangiava, poi non c’era acqua per risciacquarla, si prendeva l’erba che rigava bene tutto il grasso lì della ciotola, e si riprendeva il lavoro fino alle quattro, quattro e mezza, perché poi non possedevamo niente, non sapevamo mai che ora poteva essere.

Poi si ritornava al campo, un’altra ora di appello, poi ci distribuivano un pane in cinque, questo pane tipo pan carré scuro, una fetta per ciascuno e un quadratino di margarina, so che tante volte credo che all’ultimo boccone io dormivo di già.

E poi via la solita vita. Il mattino alzarsi, quindi diventava una routine, un robot, tutti i giorni che si andava avanti dentro di noi si perdeva qualche cosa, la nostra personalità, il nostro modo di vedere, il nostro modo di pensare, basta non esisteva, questa vita così e pensavo “Ma un giorno finirà questa vita! Un giorno arriverà qualcuno a liberarci!” e anche qualche parola che si faceva tra di noi pensavamo “Ma nessuno saprà che siamo qui? Ma nessuno si interessa di venire a vedere?” Insomma era una cosa … e a poco a poco si diventava anche indifferenti, perché dovete pensare che si perdevano tante cose, vivevamo come in trance, non lo so, in aspettativa che potesse sempre capitare qualche cosa.

Naturalmente la speranza non era mai morta, e tanti pensavano “Io non ce la faccio tutti i giorni! Io non ce la faccio!” e quante volte qualcuno andava a toccare i fili e rimaneva morto, invece per me l’idea fissa era “Un giorno voglio camminare su questo campo libero, un giorno voglio venire qua” cioè dentro di me sebbene quasi morta come idee e come pensieri, però sentivo che io tornavo, che ritornavo alla mia casa e alla mia Patria, non c’è niente da fare, viene come una fissazione, capisci.

E dopo di lì cosa vuoi, si sentiva che la guerra era ormai vicina, i russi erano vicini, perché ogni tanto si sentiva parlare, e poi i tedeschi diventavano sempre più cattivi, forse quando perdevano qualche cosa si vedeva che erano nervosi, fino a che arrivò, forse era novembre, dicembre, non mi ricordo bene perché sono passati tanti anni, mi mandarono a Ravensbrück, mentre la Ada Borgomaniero che era sempre dentro questo ospedale, non so se era stata operata di appendicite o di qualche altra cosa, rimase al Revier.

Così arrivai a Ravensbrück. A Ravensbrück ci mandarono a lavorare negli stabilimenti della Siemens, e qui lavoravamo per cose belliche, facevamo una settimana dodici ore di notte, e una settimana dodici ore di giorno, rotolavamo su dei rulli, su dei piccoli rulli, del filo di rame, che serviva naturalmente a loro.

Poi man mano che i russi si avvicinavano, quindi a gennaio, febbraio, hanno incominciato a mandarci in diversi altri campi vicino, camminavamo e ci portavano lì, poi man mano che si avvicinavano, io non so neanche i nomi perché come si faceva a sapere i nomi dei campi di concentramento, Auschwitz perché dopo là si parlava e sono stata tanto tempo, Ravensbrück idem con patate …

D: Posso chiederti una cosa?

R: Dimmi.

D: Il trasporto da Birkenau a Ravensbrück, hai un ricordo non so, vi hanno chiamato per un appello, vi hanno messo in un …, eravate in tante?

R: Sì, eravamo in tanti, ci fecero partire su dei vagoni, con il treno partimmo, però adesso io …

D: Ti ricordi se siete partiti da Birkenau o se vi hanno portato fuori?

R: Sì, sì, da Birkenau, però non ti so dire quanto tempo ho messo, perché come dico sai il tempo per noi era zero.

D: Eravate in tante?

R: Sì, sì eravamo in diverse.

D: Di varie nazionalità?

R: Io penso, sì.

D: Scusa un attimo Ines, nel periodo che tu sei rimasta a Birkenau, mentre invece la Ada era stata ricoverata al Revier, tu riuscivi sfidando la sorte …

R: Certo ad andarla a trovare naturalmente.

D: E a portarle anche delle cose?

R: E sì, perché gli ebrei lavoravano al Canadà, questo posto chiamato Canadà dove avveniva la cernita dei vestiti, e loro naturalmente qualche cosa contrabbandavano, e allora naturalmente da buon ebreo rivendevano con il pane. Quindi se io prendevo una camicia da notte per la Ada, perché là all’ospedale non passavano queste cose, dovevo magari per due sere non mangiare la mia porzione di pane, loro non lo dicono ma questo è anche vero.

Quindi io quel giorno lì io dovevo stare senza la zuppa del mezzogiorno perché arrivavo a trovare la Ada, la Ada era sempre stata fortunata che era sola nella cuccetta, perché la Ada è sempre stata fortunata, mi spogliavo andavo sotto con lei perché se magari qualcuno passava, ma poi quando arrivava la zuppa dovevo andare a nascondermi, prima quando arrivavano i dottori o c’era il giro di ispezione, io scappavo e andavo ai gabinetti, andavo a nascondermi, poi dovevo stare attenta quando rientrava la mia squadra per l’appello, perché se mancavo all’appello addirittura suonava l’allarme, quindi bisognava essere anche svelta.

Ma dopo quando vivi in queste comunità impari tante cose, impari a nasconderti, impari a capire questo, solo anche dalle espressioni dei militari e delle Kapò, eravamo abituate anche se non eravamo padroni di una lingua a carpire quello che volevano. Io li guardavo sempre in faccia, non avevo paura; li guardavo sempre in faccia per capire dalla loro espressione con una parola cosa volevano dire, tanto erano sempre quei comandi, “Lavora”, “Fai questo”, “Fai quello”, non è che dovevo fare conversazione. Quindi la Ada rimase sempre lì, lei è stata liberata il 27 gennaio, c’è la documentazione che lei è stata liberata. Dimmi?

D: Se tu ricordi il blocco del Reviere dove stava la Ada non era vicino al tuo blocco?

R: No, non era vicino, però non dirmi la strada che facevo perché guarda volavo, guardando sempre in giro a destra e a sinistra, e poi arrivando là, il terrore perché chi moriva durante la notte, nudi li buttavano fuori, quindi guarda non so quanto tempo sono stata, forse anche adesso, non sono più andata a vedere un morto nella mia vita, perché nudi, voi avete visto le fotografie, stare attenta a dove mettevi i piedi per infilarti dentro nella cosa, adesso mi dispiace che Ada sia morta, ma Ada può testimoniare tutto questo che facevo.

D: Quindi tu rischiavi dopo il tuo appello per andare a trovare la Ada…

R: Rischiavo le punizioni, e le punizioni erano tremende.

D: Tu una volta sei stata punita?

R: No, no, mi hanno dato uno schiaffo appena, perché non capivo bene a muovere il timone di un carro, però non mi hanno mai picchiato per esempio con il calcio del fucile o così.

Anzi una volta che mi sono ribellata perché non padrona della lingua e, le russe e le polacche erano tremende, al ritorno ci facevano sempre portare, al nostro gruppo sparuto italiano, queste ghible che pesavano, perché dovete sapere che c’era la roba calda dentro, e quindi per mantenere il calore erano molto …

Pesavano e dovevamo fare qualche kilometro, sempre una maniglia di qua e una maniglia di là, arrivavamo dopo aver lavorato, perché in coscienza lavoravo, dopo aver lavorato portare queste cose, un giorno ho detto appunto a queste ragazze italiane, il nostro gruppetto, “Adesso vado e glielo dico al soldato che non è giusto perché io lavoro come tutte e allora deve cominciare a …” “Ma Ines non farlo, non farlo, vedrai …” “Ma io vado” e sono andata.

Forse era anche ubriaco, era appoggiato ad un bastone, ricordo sempre i due occhi azzurri così cattivi, un naso aquilino, magro, ce l’ho in mente come chi sa che cosa, non so se era tedesco o polacco, questo non lo so, e sono andata e come potevo, nella lingua che potevo, un po’ polacco, un po’ tedesco “Che io lavoravo uguale, tutti uguali”, e che “non è giusto sempre ghible sempre italiane, questo non è giusto” lui mi guardò non so per quanto tempo, poi mi prese un braccio e mi fece fare un giro e mi dice “Tu menc italiana” “Sì sono italiana” ma intanto mi venivano giù le lacrime, mi sono girata e dice “Adesso vai tu” e lì parolacce, perché le più belle parole tedesche hanno un linguaggio così sporco ad insultare che non ti dico, le prime cose che imparavi, “Vai a prenderle te adesso, te e le tue amiche”, e gli ho detto “Ma vai all’inferno” e sono andata.

Al mattino quando veniva a distribuire il lavoro girava avanti e indietro “Oddio… mi cerca, Oddio adesso chi sa?” arrivava di lì e giravo di là, arrivava di là e giravo di qui, ma finalmente mi ha pescato, quando mi ha pescato l’ho guardato in faccia per capire l’espressione e ho visto che gli occhi non erano cattivi e ho detto “Ma chi sa cosa ha” e lui ha mormorato qualche cosa che non ho capito però ho detto alla mia amica che parlava tedesco “Cosa ha detto?” “Ha detto chi sa cosa penserai che ti prende il numero” perché mi tira indietro e mi prende il numero.

“Cosa vuoi che pensi, stasera dopo l’appello mi chiameranno al comando e avrò la punizione”, e infatti quando è finito l’appello mi chiamano e “Oh mamma mia”, mi accompagnano al comando, “Adesso chi sa”, sono andata che forse il cuore l’avevo in bocca, e invece sai cosa mi hanno dato? Un pane intero e un carnusco così di marmellata, quasi svengo, ho preso e via di corsa “Ragazze! Ragazze!” tutte a fare fettine e a mangiare marmellata.

Poi quando c’era questo che vedeva che io lavoravo, mi faceva il buono per andare a ritirare il pane e la marmellata. Sì, ma perché, perché ha capito che siccome là c’erano queste straniere, generalmente erano russe e polacche, facevano finta di lavorare, anche per ribellarsi, ma non lavoravano, e loro non erano scemi, capivano quando …

Invece io dicevo ad ogni picconata “Crepa!”, ma picconavo e cosavo, non mi sono mai … perché mi sono detta, è stupido, perché se io faccio finta di lavorare, loro non sono stupidi, e se vengono e mi picchiano anche solo con il calcio del fucile sulla testa, non so … io ero una delle poche che avevo ancora i capelli, non so cosa mi può capitare, mi può venire anche una commozione cerebrale con quei colpi lì, quindi ho detto è meglio che lavori bella tranquilla piuttosto che farmi così.

D: Scusa Ines, oltre al comando lì di scavo, tu accennavi ad un altro comando che era quello lì del …

R: Appena arrivata. Appena arrivata ci avevano messo a ritirare quello che erano le fosse, come si chiamano …

D: Il pozzo nero.

R: Lo scarico delle latrine, il pozzo nero, e bisognava scaricare questi. Erano gli uomini che buttavano via tutte le porcherie, ed erano quei carri che ogni tanto si vedono ancora in Polonia. Io era la prima volta che vedevo carri così, ed hanno un lungo timone davanti, il carro non è come il nostro che è piano, è piano ma ai lati vengono su delle assi fatte così, e di lì ti puoi immaginare, allora dietro le ragazze spingevano e noi davanti a tirare come i cavalli questo timone.

Siccome il terreno era molto argilloso le ruote potevano affondare, ecco dove mi ha dato questo schiaffo, l’unico che mi ha dato, io non sapevo che muovendo questo tremendo lungo timone le ruote specialmente dietro o davanti non ricordo, svirgolavano un po’ quindi le altre spingevano, ma quelle là facevano finta di spingere e il carro non andava avanti. La tedesca era una soldatessa è venuta “Sprechin in doich” chi la capiva si è messa ad urlare con me e io ho lasciato andare il timone per guardare cosa diceva e lei mi ha dato uno schiaffo, sai proprio sono rimasta a bocca aperta, perché lì sentivo la voglia di ribellarmi, ma come facevo, mi ammazzava quella. L’unica volta che ho preso uno schiaffo lì, lo schiaffo è lo schiaffo, ma prendi il calcio del fucile sulla testa o sulle spalle, ti segnavano. Va bene, questo è un intercalare ancora …

D: A Ravensbrück?

R: A Ravensbrück.

D: E ti hanno immatricolata di nuovo?

R: Sì, però non mi hanno tatuato, mi hanno solo cucito sul vestito, il numero che era, mi pare, 11154. Così andammo a lavorare in questa fabbrica della Siemens, poi si tornava naturalmente stanche, si dormiva, lì ogni tanto suonava l’allarme, ci mandavano fuori tutti, ci mettevano in un’altra capanna non so, ma io una volta e due, ma quando era la notte, io di giorno avevo talmente sonno, dormivo in alto il soldato non si accorgeva neanche. Entrava, vedeva che erano tutti fuori, dicevo “Tanto se è destino crepo là e crepo qui”, dopo da Ravensbrück man mano in questi campi dove si andava un giorno o due, poi si avvicinavano sempre …

L’ultimo Lager ci diedero una coperta, che arrotolavo intorno alla vita, del pane, delle scatole di carne, e sempre a cinque a cinque, sempre con il militare e i cani dietro, ci avviavamo chi sa per dove, chi sa dove, camminavamo, camminavamo, solo che c’era in ultimo il militare che se una non c’e la faceva più e cadeva per terra, le sparava e la piantava lì.

Però da lì incominciavamo a vedere la disfatta dell’esercito, loro che erano così baldanzosi, le giacche slacciate, camminavano uno di qui uno di là, carri armati abbandonati, camion mezzi su mezzi giù, proprio vedevi la disfatta, e noi eravamo contenti e dicevamo “E allora la guerra finisce presto, guarda che roba hanno perso ormai”. Eravamo su di morale.

Poi arrivammo in questo posto, mi pare che si chiamasse Poznam, Oddio adesso, mi pare Poznam, era il 5 maggio e quella notte lì, durante la marcia ci fermavamo nelle fattorie dove c’erano i contadini e gli stessi militari dicevano “Dateci le patate o qualche cosa da mangiare, perché guardate che se arrivano i russi vi portano via tutto”, allora ci davano le patate, le facevamo bollire nei secchi e dormivamo nel bosco con questa coperta, avvolte in questa coperta.

Poi arrivammo in questo posto e la sera tardi mi sono svegliata e non c’era più nessuno, non c’erano più né militari, non c’erano più né cani, non c’era più nessuno, un silenzio di tomba, allora ho svegliato i miei amici, perché era come un fienile ma basso “Ma guarda non c’è più nessuno, Oddio non c’è più nessuno, che gioia sono scappati, allora vuol dire che sono vicini” perché se non c’erano vuol dire che i russi erano vicini, e in tanto sentivamo il rombo del cannone e la mia amica “Andiamo fuori” “Ah no, chi vuole andare fuori, vada fuori, io sto qui, non vado fuori, mi arriva qualche scheggia”, e infatti così abbiamo fatto fino al mattino.

Al mattino verso le 5, mi sono svegliata, io ero una delle più giovani, ma oramai ero diventata la più … non la più svelta, avevo preso più l’acume di …, a furia di stare con queste persone che bisognava capire quello che …, apro gli occhi e vedo in fondo al portone una cosa tremenda, un soldato russo, dunque io non ne avevo mai visti, però ho capito che era russo perché aveva questo pastrano, di quel colore coloniale un po’ imbottito, e veniva avanti a tentoni.

Allora la sera prima, dopo che era successo che eravamo soli e pareva che i russi non si sentivano più, io e le mie amiche siamo uscite in questo posto per guardare intorno cosa c’era, e abbiamo trovato dei militari, così ci hanno detto, dei militari italiani, allora quando ho sentito parlare italiano “Ma voi siete italiani?” “Sì” “Noi dovevamo firmare alla Wermacht per tornare in Italia”, sai che facevano firmare per tornare in Italia “Però non siamo riusciti e siamo qui”.

Quasi piangevano “Ma le nostre donne come sono conciate” quindi puoi immaginare, sporche, dimagrite, conciate in una maniera, poi ci hanno fatto piangere perché uno ha levato dal portafoglio un fazzoletto di seta, come c’era una volta, tricolore “Ecco però la bandiera l’abbiamo sempre qui …” e ci diedero dei viveri, e poi ci diedero un secchio con dentro questa vodka che hanno trovato dai contadini.

Così siamo tornate lì la notte, ero io che controllavo cosa dovevano mangiare, da bere niente perché mi rimbambiscono tutte, la grappa la conoscevo, allora ho preso una bottiglia, ho buttato via quasi tutto, però c’era una bottiglia l’ho riempita, ho detto questa qui quando saremo giù la berremo, invece quando ho visto questo soldato che avanzava, ho preso la bottiglia e gli sono corsa incontro, da sola perché gli altri dormivano tutti, e intanto gridavo “Sono arrivati i russi! Sono arrivati i liberatori!”.

Questo ragazzo ha capito che ero italiana e mi dice “Italijanska” “Sì” E’ venuto con me e si è fermato nel posto dove eravamo noi cinque o sei italiane e ha detto di cantare “Mamma”. Mamma mia che commozione ancora, si cantava ma lui piangeva e noi piangevamo, e dopo questo ragazzo io gli ho dato da bere e lui dice “Bevi prima tu”, vedi avevano sempre un po’ di paura e difatti ho bevuto e dopo è andato a trovare le russe che erano diverse perché era tutta la colonna.

Poi ci diede tutte le notizie, era il 5 maggio, che la guerra era finita, che Mussolini era kaput, che c’erano in ballo queste bombe tremende, non era forse ancora la bomba atomica ma che anche con il Giappone doveva essere finita, tante cose e poi ci disse di andare al Comando che ci avrebbero dato disposizioni per tornare a casa, ti puoi immaginare, filammo subito al Comando e lì c’erano degli ufficiali e ci dissero che bisognava raggiungere una postazione di militari italiani, che era abbastanza lontana, circa 100 km, adesso non ricordo più bene il posto.

Come fare, perché erano quasi tutte maggiori di me, erano due slave del Montenegro, no non Montenegro, una delle parti di Magenta, ma non era questa piccola, era questa Ernestina, poi …, insomma quattro o cinque. “Come si fa? Non si può fare a piedi 100 km e poi la direzione!” Era tutto sporco, tutto fuori, tutto bombardato, allora eravamo riunite in questo campo di prigioniere, ma libere naturalmente e dice “Vai Ines in cerca di qualche cosa” e mi sono messa un po’ a girare il paese.

Ho visto che arrivava un carro tirato da due cavalli grossi così, sembravano quelli del Far West, coperto da un enorme tappeto, forse rubato da qualche chiesa, e c’erano dei francesi, loro erano arrivati e io gli ho detto se potevo prendere il carro, e loro mi hanno detto “Prendilo che noi siamo arrivati” e ci può servire. Mai visto un carro così tiro a due, ne ho preso uno per la cavezza, povere bestie mi venivano dietro come non so cosa e li ho portati all’accampamento.

“Oh mio Dio Ines Hai trovato” “Sì ma chi li guida perché non è mica facile guidare, adesso vado a cercare qualche militare”, a tutti quei militari che trovavo dicevo “Tu sei contadino? Conosci i cavalli?” uno sì, uno no, fino a che ne ho trovato due, bisognava organizzare non è facile guidare un carro con due cavalli, e poi il foraggio, bisognava sapere …, non so chi mi dava queste cose che non ho mai saputo …

Allora ho trovato questi due ragazzi e ho detto “Va bene”, andiamo al Comando ci facciamo dare quello che è la provvista per mangiare anche noi e poi bisogna andare a cercare per il foraggio per i cavalli. E infatti lo hanno trovato, lo hanno caricato e noi con il secchio, che erano le nostre pentole da far bollire, loro ci hanno dato del pane, delle cose così, dove arrivavamo … guarda come ho assaporato la libertà in quei momenti lì, il mio sogno che amavo i cavalli, amavo le bestie, dentro in queste foreste, ogni tanto trovavi qualche casupola, erano scappati, trovavi anche qualche cosa da mangiare, fermarsi fare il fuoco, in questo secchio magari facevi bollire qualche cosa, e dicevi, Oddio mio, i miei saranno magari a casa a pensare che fine ho fatto e io sono qui felice che assaporo finalmente la libertà.

Bene a farla corta siamo arrivate a questo accampamento militare e gli ufficiali dicono “Bene questo è il posto che dovevate raggiungere, scegliete un posto dove dormire”, allora c’era come una tettoia e c’era sotto un carro degli zingari, allora non sapevo neanche cosa era la roulotte, ma adesso penso che era come la nostra roulotte, abbiamo preso della paglia l’abbiamo messa giù, poi il tappeto del carro lo abbiamo messo sopra, le coperte ce le hanno date, e lì era la nostra casa e stavamo benone.

Poi con questi cavalli, i soldati uno lo hanno ammazzato subito e abbiamo fatto bollire tutta la carne e abbiamo mangiato in non so quanti, e quell’altro mi dispiaceva, lo tenevo, allora c’era un ufficiale che diceva “Per andare a cavallo, “Sì, mi piace”. Aveva delle cosce così, senza sella, quando camminava andavo giù di qui andavo giù di là, ma insomma ero così felice che non ti dico.

Poi un ufficiale ha detto “Ines ci sono qui vicino i cosacchi, hanno dei cavalli bellissimi, magari se gli diamo questi cavalli che anche loro hanno fame, facciamo il cambio” “Andiamo”, ci siamo tirati dietro questo cavallo e andiamo a contrattare con questi ufficiali. Loro l’hanno preso perché la carne di cavallo era bella grossa ed era buona, e ci hanno dato un cavallo che io credo che l’hanno scaricato perché era alto così, nero, terribile.

Allora senza sella, c’erano gli ufficiali che erano bravi a cavalcare e volevo andare a cavallo anche io. Quando andava giù, non andava mai, ma quando doveva tornare dovevi vedere, una volta una pianta mi ha dato un colpo che mi sono ribaltata indietro, un’altra volta c’era un rigagnolo un po’ grande, mi dicono perché dietro c’era sempre qualcuno “Stringi le ginocchia Ines, alza il sedere, buttati in avanti” ma il cavallo è arrivato lì si è impuntato e sono finita in acqua, non mi sono mai fatta niente. Ero così contenta perché assaporavo veramente il senso fisico della libertà, fisico è un’altra cosa.

Poi lì alla sera chi aveva trovato il piano, chi aveva trovato la tromba, chi aveva trovato la chitarra, c’era sempre musica e baldoria. Purtroppo però è scoppiato il tifo, tifo perché i russi prendevano tutti gli armenti, le bestie, le pecore, le mucche per portarle verso di loro naturalmente, ma la mucca se non hai una mungitura regolare diventa cattiva, avevano le mammelle così grosse e allora avevano detto “Se volete mungetele”, ma prendi una mucca quando è così, è terribile.

Io non so che coraggio avevo, prima mi attaccavo alla coda, e non sapevo che saltassero le mucche, le staccionate così e come corrono, prima per fermarle mi attaccavo alla coda e niente da fare, dopo alle corna, prendevo le corna ma si fregava sul terreno, un giorno una mi ha dato un colpo e sono andata a finire su un’altra che era sdraiata, a gambe all’aria, va bene lasciamo …, se racconto ero così contenta.

Poi un contadino mi ha detto “Ines per fermarla devi mettere le dita nelle sue froge e stringi” allora io correvo e cercavo di fermarla e la mia amica dietro con il secchio, e sono riuscita a fermarla mettendole le dita sotto al naso, l’ho fermata e quella si è messa a mungere, quando è stato ben pieno la mucca ha alzato il piede e si è infilato dentro nel secchio e io le ho detto “Io lo bevo ugualmente”. Insomma ti dico non lo so, è stato destino, è stato che lì il tifo si è propagato, io ho preso un tifo bestiale.

Chiamo un dottore italiano e mi dice “È una forma intestinale, ti faccio una puntura”, mamma mia la febbre altissima; tre giorni dopo arriva una delegazione russa di dottori e cominciano a girare il campo, vengono vicino a me e dicono “Tu cosa hai?” “Niente” ho nascosto la cartella “No, non ho niente, tutto bene” “No, no” dice il dottore “Fammi vedere la lingua”, perché la lingua ti viene gonfia, insomma mi è toccato e loro hanno capito, solo la febbre che avevo, figurati.

Non hanno fatto storie, hanno chiamato due militari russi o due infermieri, adesso non so, le cocche del lenzuolo e mi hanno preso su come un fagotto e mi hanno messo su sul camion, urlavo come una dannata, adesso che dovevo andare a casa questi mi portano via ancora, sai non era tanto piacevole. “Voglio il mio dottore italiano” quello là non si è più fatto vedere perché sapeva che … e mi hanno portato a circa 3 o 4 km penso, perché con il camion sono andata un bel pezzetto in un lazzaretto militare loro.

C’era la guardia fuori, la sentinella perché nessuno poteva entrare perché era proprio un reparto di malattie infettive, mi hanno portato lì, una dottoressa mi ha visitato, un’altra davanti allo specchio mi ha tagliato tutti i capelli a zero, che urlavo “Non tutti, non tutti” ma non c’è stato niente da fare. Poi alla dottoressa dico “In fine dei conti cosa ho dottore?” “Tifus” “Non è vero, non è possibile che abbia il tifo” insomma una scena.

Però mi hanno messo in una camera dove c’erano questi letti con le lenzuola bianche, ragazzi quando sono entrata in questo letto con le lenzuola una sensazione, qualche cosa di stupendo, mi sono addormentata di colpo, non capivo più niente, mai stata in un ospedale, mai stata da un dottore, mai avuto niente, puoi immaginare. Hanno incominciato con le analisi del sangue, le analisi delle urine, non sapevo come si faceva, che disastro.

Insomma quattro mesi sono stata fino ai primi di ottobre e mi curava un maggiore militare russo, di una gentilezza e di una bontà che non so, e c’erano le russe che parlavano di casa, e io capivo qualche cosa, però ero con la febbre alta non penso di avere avuto il delirio, però ero sempre assopita, alle volte al mattino mi svegliavo e dicevo “Forse sono già morta, perché sento odore di morte” proprio le braccia, mi odoravo le mani e dicevo “Forse sono morta”, poi riprendevo e poi tornavo a dormire e venivano le infermiere. Poi avevo gli incubi, questi li ricordo, vedevo la morte, sai la morte classica: il cranio, il mantello, la falce, cose che addirittura…

Quando incominciavo a riprendermi un po’ dissi: “Dottore non è possibile avere qualche italiana vicino” infatti me ne mise una, mi pare fosse di Torino, tutta notte a gridare “Dottore, dottore” e io “Fai la brava!” era sorda, le aveva preso le orecchie e non sentiva e morì. La mattina mi sveglio, “Ma, si vede che c’è qualche mosca” era coperta, e dico all’infermiera “Ma perché hai coperto?” e dice “Ma Ines è morta” “Oh Madonna santa, ho dormito vicino ad una morta”.

Dopo due o tre giorni me ne hanno messo un’altra, lei tutta notte una pena a chiamare la mamma, e muore anche quella lì e dico “Oddio la terza adesso sono io”, sai anche quello un po’ di superstizione ti veniva, veniva il dottore e dicevo “Ahi dottore, non ce la faccio più, ho idea che devo morire!” “No, toio serza dobra, il tuo cuore è buono, fai la brava; riuscirai ad andare in Italia”.

Lì ho chiesto matita e carta e scrivevo alla mamma, non perché non arrivassero, facevo su il pacchetto e dicevo alla russa vicino “Se io muoio, dalle ad un soldato italiano queste lettere”, poi vengono i primi di ottobre e questo mio amico di Lucca, che avevo conosciuto lì quando mi avevano liberato, è riuscito a farmi avere dentro una lettera, ha messo una croce rossa qua sul braccio e la sentinella lo ha lasciato passare, però arrivato sullo scalone gli infermieri hanno capito che era un italiano e lo hanno fermato.

Allora lui, ero l’unica italiana lì, gli ha dato questa lettera da consegnarmi. Lì mi spiegava che era passata una delegazione americana e aveva visto ancora le bandiere italiane, ma come ottobre ’45, fine settembre o principio ottobre ’45 e ci sono ancora gli italiani, bisogna organizzare, mandarli a casa, e pare che in una settimana dovevano organizzare questo viaggio. Ti puoi immaginare quando leggo così che avevo ancora la febbre, la flebite alla gamba.

Allora viene il dottore e glielo dico “Dottore guardi, io devo andare a casa, bisogna che lei mi lasci andare, i miei amici partono, come faccio” lui dice “Non c’è problema, tu stai qua con noi” “No, io non sto qua con voi, voglio andare a casa” “Ma non puoi, bisogna fare quarantena”, sai allora c’erano i quaranta giorni per le malattie infettive e “Poi tu hai una flebite” e mi spiega “Lì c’è un embolo, se ti si sposta e ti va al cuore muori oppure rimani paralizzata” “No io sono sicura che arrivo a casa” forse mi ha visto così disperata, che piangevo e urlavo “Garda che se stai otto giorni senza febbre” forse non ci credeva neanche lui “ti porto io alla stazione”, e lì mi ha quietato.

Non so se qualcuno da lassù ha guardato giù, o se le preghiere sono state accolte, non lo so, il mattino dopo, che di solito avevo 35 e poi la sera arrivavo fino a 41, il cuore era tutto così, altro che averlo buono, e verso sera, prima di darlo all’infermiera guardavo io, non avevo febbre “Oh mamma mia che gioia, sta zitta, sta zitta, forse anche domani” , il giorno dopo ancora senza febbre, il terzo giorno tento di alzarmi, faccio per alzarmi se non sono svelta ad attaccarmi lunga e distesa cado, non stavo in piedi, poi sempre con la gamba così e ho detto “Va bene, tanto sul vagone starò seduta, non ha importanza”.

Arriva il dottore tutte le sere e dicevo “Dottore, non ho febbre” “Bene, brava italiana, giorno italijanska” mi chiamava ancora italiana “Fai la brava”. È arrivato il giorno che dovevo partire. Ma lo sai che mi ha portato lui su un carro di buoi alla stazione? Tante volte dico che mi pareva di essere su una Rolls Royce, perché seduta così vicino a lui, che fremevo di arrivare, perché sapevo che arrivavo a casa, me lo sentivo, quando sono arrivata, sempre questi vagoni a convoglio con quaranta o cinquanta militari, mi caricano su e cosa faccio e mi danno un pane nero e delle scatolette, come faccio, io non posso mangiare questa roba, quindi sono stata un po’ di giorni ad acqua e qualche cosa, ho sbriciolato un po’ il pane.

In cantuccio al buio, perché quando viaggiavi non è che il treno partiva e arrivava, il treno si fermava magari anche un giorno, e li incominciavano anche le tue necessità, dovevi dire “Oh ragazzi tiratemi giù”, prima piangevo un po’ perché dicevo Dio mio quando penso che saltavo giù altro che dei vagoni e adesso devo chiedere l’aiuto, loro mi mettevano a seggiolino così con le braccia, mi portavano in fondo in mezzo al prato e stavo là. Io andavo a fare quello dovevo fare, poi dopo li chiamavo e stavo dentro lì così fino a che dopo ripartivamo. Un giorno siamo arrivati in Austria. In Austria c’erano gli americani e allora hanno incominciato a darmi un po’ di latte, un po’ di pane bianco, disinfezione ancora a tutto, e dopo di lì naturalmente a Bolzano è stato diretto.

Quando siamo arrivati a Bolzano c’era anche il treno ospedaliero, ma ti puoi immaginare arrivare in stazione in Italia in un attimo sul vagone non c’è stato più nessuno, mi hanno tirato giù, ma sai in Italia chi andava forse al bar, non so, so che ho provato un’emozione così grande: mi sono appoggiata al vagone, avevo un turbante in testa perché ero pelata, poi il fagottello sul braccio delle cose che avevo trovato per cambiarmi, e piangevo, ma piangevo, un’emozione perché poi c’era la musica, “Il Piave mormorava”, “Montegrappa”, “Mamma sono tanto felice”, una cosa che credo che il singhiozzo mi partiva dai piedi, una cosa!

Finalmente sono arrivati dei dottori perché se no ero ancora là a piangere, e questi dottori mi dicono “Vieni con noi, hanno detto che tu hai fatto il tifo, ci hanno avvisato i tuoi che hai viaggiato insieme, questi militari, vieni sul treno che ti guardiamo, ti controlliamo”. Quando mi guardano mi dicono “Ma non puoi proseguire il viaggio, i tuoi genitori te li facciamo arrivare “No ho detto che io devo andare a casa, sono in Italia sono a casa mia, non posso stare qui” “Ma guarda figliola che tu rischi, guarda questo, guarda quello …” insomma io non volevo, allora sai loro cosa hanno fatto? Mi hanno caricato su un’auto colonna inglese, e sentivo la gamba gonfia che mi tirava “Che il Signore me la mandi buona” e sono arrivata a Pescantina, vicino a Verona.

Lì c’era l’Opera Pontificia, allora subito anche questo, le sensazioni così belle che ho provato che non trovo le parole per descriverle, la pastina fatta con il brodo, ma quando ho visto il pane bianco ragazzi, toccarlo, mi pareva proprio di sentire il profumo del grano, le sensazioni nel toccarlo, ne ho presi due, li ho nascosti per portarli a casa, forse non ne hanno abbastanza perché era ancora tesserato, tutta notte sotto una tenda in terra ho dormito e poi verso sera su un’auto colonna inglese sono arrivata a Milano.

A Milano c’era il treno e c’erano due di un paese vicino a Como che praticamente facevano quasi la mia strada, insomma sono scesa e tutto il viale Varese, lo sai dove è, dalle piante, erano forse quasi tutte toccate perché non ce la facevo con la gamba così rigida e gonfia, lo sapevo che non era tanto una cosa che dovevo fare, e io abitavo in fondo alla via Tommaso Grossi, che è quella strada che va a Brunate, sai dalla stazione centrale, arrivare su fino in cima dove c’è dopo la Chiesa della Provvidenza.

Arrivata al crocicchio della via Dante loro dovevano andare, insomma tutti avevano fretta di arrivare e quindi sono rimasta lì sola e zoppicando mi sono avviata per questa strada, arrivata a circa 50 m dalla mia casa, dietro di me sentivo una voce che diceva, era un signore parlava da solo “Ma è la Ines? O non è la Ines? Ma forse la Ines è morta. La Ines dicono che le hanno tagliato le gambe. Ma sarà la Ines?” allora mi sono girata ed era il mio vicino di casa, ho detto “Sono proprio io, forse dico più ossa che carne, però sono io” “Oh Ines” è venuto vicino e mi ha abbracciato, dico “Voglio suonare il campanello e farmi trovare davanti a casa” “Non lo faccia, troppa emozione per i suoi genitori, sono anche già un po’ anziani, vado avanti io ad avvisare, e allora ho pensato forse è più saggio fare così, infatti è andato.

Ora che io sono arrivata poi c’era un grande cancello, una piccola discesa, un grande cortile. C’era fuori mia mamma, mio padre, mia sorella, il mio nipotino e tutti i vicini, non so il sesto senso, ai balconi, non erano le famose ringhiere, erano proprio bei balconi, “È arrivata la Ines” sarà stata mezzanotte non so che ora era …

D: Che giorno ti ricordi più o meno?

R: Era credo il 25 ottobre.

D: Dunque era ottobre quando tu sei arrivata a casa?

R: Sì, allora quando sono entrata in casa naturalmente mio padre era tutto felice “Guarda proprio ieri ho fatto la polvere alla tua bicicletta, ho detto domani arriva la Ines” e mia sorella dice “Tutti i giorni fa la polvere alla tua bicicletta e dice domani arriva la Ines”. Io tiro fuori le mie michette bianche e dicono “Cosa vuoi da mangiare?” e dico “Mangerei volentieri la polenta” perché la sognavo, allora polenta e latte, perché il latte era ancora tesserato, papà va a prenderlo da mio nipotino poco lontano, mangio questa polenta, poi tutta felice “Domani mi alzo, devo andare al distretto, devo fare questo, devo fare quello, devo fare su, devo fare giù …” sono stata a letto ancora quattro mesi senza muovermi.

Veniva il dottore mi curava questa flebite, poi sai il gioco del piede si era anchilosato, però dopo tutto è andata a finire bene, dopo quattro mesi mi sono alzata verso febbraio, ho incominciato a camminare, a riprendere il lavoro, poco a poco riprendere sempre la mia vita, ho incominciato ancora le mie montagne, i miei sport, e ora eccomi qua alla mia verde età …

D: Ti ricordi quanto pesavi più o meno quando sei tornata?

R: No, non mi ricordo perché sono sempre stata a letto, quindi non ho avuto …, dunque io normale pesavo dai 67 ai 70, quindi penso che sarò stata sui 55 chili, 60 al massimo ma sai…

D: Hai portato con te dei documenti quando sei tornata da …

R: No, non avevo documenti.

D: Neanche a Pescantina ti hanno rilasciato niente?

R: No, avevo solo queste mie lettere che scrivevo alla mamma che non ho mai mollate, queste sì, ma se no non c’erano.

D: E lì forse su quelle lettere c’era scritto dove eri, in che ospedale ti trovavi?

R: Non mi ricordo questo se c’era, non lo so, perché so che la data la mettevo, però non ricordo se mettevo, mi pare di no bisogna guardare.

D: Non sai se eri in Polonia, o a Poznam vicino a Berlino?

R: Bisogna che controlli, che guardi e poi vi farò sapere.

D: Forse c’è scritto dove è?

R: Non lo so, non lo so, perché vedi non avevi la roba di dire dove sono, cosa faccio, come si chiama, adesso se mi capitasse una cosa così è logico che mi informo, ma allora come il tempo ti passa e basta, va bene.

D: Le necessità erano altre.

R: E sì, la mia storia è finita, io penso …

D: Io volevo chiederti una cosa, adesso tornando in dietro, sei stata praticamente interrogata a Bergamo in Questura e basta?

R: No. A Bergamo …

D: No scusa a Bergamo, a Como in Questura?

R: E basta, no, mai più nessuno si è interessato.

D: Neanche alla palestra Mariani?

R: No, no.

D: Palestra Mariani, vuol dire la palestra di un istituto scolastico che si chiama Mariani?

R: Fa parte in Via Aperti …

D: Esiste ancora?

R: Sì, sì esiste ancora questa palestra, è dove andavo …

D: Via?

R: Oddio, via Aperti angolo via Aperti …, fa parte delle scuole della via Aperti.

Gibillini Venanzio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Gibillini Venanzio. Sono sopravissuto nei campi di Flossenbürg e Dachau. La mia storia comincia dopo l’8 settembre del 1943, quando gli alleati concedono l’Armistizio agli eserciti italiani.

Io ero l’ultima classe chiamata a militare. Ero andato a militare il mese di agosto del ’43 e venuto l’8 settembre, siamo stati due giorni in caserma e poi abbiamo fatto la fuga e dopo di lì ero considerato disertore, renitente, tutti quei proclami che con la nascita della Repubblica Sociale Italiana mi rendevano condannabile per la fucilazione. Perché non presentandosi a tutti quei bandi che nell’autunno del ’43, che la Repubblichetta Sociale Italiana ha tappezzato tutta Milano di quei bandi, allora sono finito per varie cause a lavorare al deposito di Milano Greco. Deposito che fa parte della zona industriale di Sesto San Giovanni di allora, adesso non so se ne fa parte ancora.

E lì naturalmente esisteva la Resistenza.

D: Sei finito a lavorare dove esattamente?

R: Sono finito a lavorare al deposito locomotive di Milano Greco.

D: E tu avevi quanti anni?

R: Avevo 19 anni, perché non ancora diciannovenne fui chiamato a militare.

Lì si sono avvicinati degli uomini, perché io allora ero un ragazzo di 19 anni, che dicevano appunto che lì non si lavorava e che al momento opportuno si sarebbero fatti dei sabotaggi, perché se no tutto quel materiale, tutto il materiale rotabile: locomotrici e altro che venivano riparati nel deposito finivano per i nazisti e poi veniva portato tutto in Germania.

Noi essendo diversi, essendo scappati dopo l’8 settembre, sbandati dopo l’8 settembre, già dimostravamo da che parte pendevamo.

Allora nel mese di giugno o luglio, adesso non mi ricordo più di preciso, comunque gli atti di sabotaggio si sono verificati. Sono saltate due o tre locomotrici e il deposito dell’olio. Allora i tedeschi, i nazisti hanno fatto una retata e hanno portato a San Vittore diversi compagni.

Anch’io finii a San Vittore e fui indagato come sabotatore.

D: San Vittore in che raggio?

R: A San Vittore, periodo bellico, perché era diviso in due parti: c’erano tre raggi per la sezione politica e tre raggi per i reati normali, reati per ladri eccetera.

A San Vittore sono finito anch’io come indagato per sabotaggio nelle Ferrovie dello Stato. Un bel momento, quando un giorno vado all’aria, perché ho fatto subito ventidue giorni in segregazione, la cella 62, al 1° piano del 5° raggio.

Il 5° raggio era un raggio silenziosissimo, al piano terra esistevano tutte le celle con fuori l’etichetta “pericoloso”, “pericoloso”, “pericoloso”. 1° piano idem. E poi ogni tanto arrivavano delle disposizioni, perché esisteva anche lì una certa Resistenza e malgrado tutto la Resistenza funzionava anche a San Vittore che “diffida da questo”, “diffida da quello là”, “spia fascista”, “spia qui”, “spia là”.

C’era un certo Bruno Zanotta che è stato un animatore per quello, perché ha dato compassione proprio per la causa giusta della Resistenza.

Sono all’aria, perché all’aria ci portavano quelle poche volte che ci hanno portati, nello spicchio d’aria da soli e in cima a questa rotonda c’era un secondino che parlava con un altro e diceva: “Chi deve pregare la Madonna adesso sono solo i ferrovieri”. E infatti ho saputo che tre ferrovieri, tre uomini che avevano 40 anni o forse più, li hanno portati indietro, non so se erano i responsabili di tutto quello, li hanno portati indietro e hanno fermato tutti gli operai che lavoravano al deposito e davanti a tutta la maestranza li hanno fucilati.

Invece io ho subito un interrogatorio solo a San Vittore. Un giorno, dopo non so quanto tempo che ero in cella da solo, si apre la porta e viene un secondino che mi dice: “Interrogatorio”. Sono sceso giù nell’ultima cella, infondo al piano rialzato, proprio al piano terra; c’era un ufficio, una cella adibita ad ufficio, c’era un tedesco. Suonavano le 10,00, perché al tempo di guerra alle 10,00 suonavano le sirene per coordinare se tutto funzionava bene e per vedere se funzionavano anche quelle. E c’era un SS che scriveva a macchina e poi c’era un altro vestito in kaki, perché era il mese di luglio, tutto elegante in un altro angolino della cella, in una scrivania. Nessuno parlava. Io ero lì in piedi sull’attenti davanti a loro, nessuno diceva niente. Poi quello in borghese, che ho saputo chi era dopo, si alza con il pacchetto delle Serraglio. C’erano le Serraglio, un pacchetto azzurro, piatto e mi chiede: “Fumi?” e io gli ho detto: “No”. E lui “Fumi!” e io ho capito che era un po’ una imposizione e allora ho accettato la sigaretta. Lui ha preso l’accendino, me l’ha accesa e ho cominciato a fumare. Si è seduto ancora, poi si alza e intanto che stavo fumando mi ha dato una tremenda sventola e mi ha fatto volare la sigaretta. E mi dice: “Vai avanti, raccogli la sigaretta e vai avanti a fumare”. Allora io ho raccolto la sigaretta e sono andato avanti a fumarla e poi incominciavano a fare delle domande un po’ a trabocchetto: se conoscevo il tizio. Io dicevo che non conoscevo nessuno, io ho lavorato qualche mese ma non conoscevo nessuno. Beh in conclusione, dopo non so quanto tempo, mi dice:” Ti manderemo in Germania a lavorare, guadagnerai dei soldi che manderai a casa a tua madre” e mi ha fatto firmare delle carte che io ho firmato senza sapere cosa erano e poi sono tornato ancora in cella.

Invece mi hanno mandato in Germania, a lavorare sì ma non …

D: Scusa due cose: quando ti hanno arrestato, non ti hanno arrestato in fabbrica?

R: No.

D: Ecco, dove ti hanno arrestato?

R: Lì è stato un po’.. Lì hanno ingannato un po’ mia madre, perché si sono presentati due dell’UPI, e si sono presentati dicendo che erano miei compagni di lavoro, che dovevamo scappare insieme perché la cosa diventava…

D: Dicevi che quelli dell’UPI sono venuti, hanno raggirato la mamma…

R: L’hanno raggirata dicendo che erano miei amici, dovevamo scappare insieme e lei ci ha creduto. Gli ha detto dove mi trovavo e in poche parole mi hanno arrestato.

Uno di quei due ha aperto una borsa e mi ha detto di non cercare di fare il furbo perché se no mi avrebbe sparato dietro e mi hanno accompagnato a San Vittore in mezzo a loro due.

D: Eri da solo?

R: Ero da solo.

D: Dicevi che lì a San Vittore, in cella, sei stato per più di venti giorni da solo in isolamento. Poi ti hanno messo in cella con altri?

R: Sì. Dopo mi hanno tolto dall’isolamento, quando ormai tutta la mia sorte futura era destinata e mi hanno messo dal 5° raggio, che era il raggio più terribile, mi hanno messo nel 6° da dove poi siamo partiti.

E lì sono andato a finire in cucina. Ho fatto gli ultimi dieci giorni, un paio di settimane, in cucina a fare da mangiare per i detenuti politici.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno di cella di San Vittore?

R: Ero con Molteni Mario, mio compagno ferroviere che poi lui è ritornato in ferrovia nel dopoguerra ed è deceduto nel ’98-’99. E Dario Borroni che è deceduto a Flossenbürg. Da Flossembürg l’hanno mandato a Mauthausen ed è morto a Mauthausen o Gusen non so di preciso. E poi un certo Bosè Egidio, anche lui ferroviere che è morto a Flossembürg.

Perché di sette tre sono stati fucilati, sette ci hanno deportati in Germania, cinque sono rimasti lassù, Gargano Andrea è morto a casa ma subito pochi giorni dopo e io e Molteni Mario siamo sopravvissuti; che Molteni è deceduto tre o quattro anni fa.

D: Poi c’era anche Esposito?

R: E poi c’era Esposito. Esposito era sullo stesso piano, adesso non mi ricordo più. Il papà di Esposito era nella cella 64 se non sbaglio. Quella notte che nel Piazzale Loreto, quando hanno assassinato i quindici martiri di Loreto, l’hanno tirato fuori e sentivo dire: “Ma dove vado?” “Vai in campo di concentramento a Bergamo” Invece alla mattina all’alba li hanno portati in Piazzale Loreto e li hanno fucilati tutti.

In Piazzale Loreto c’è un particolare: mia mamma si trovava, dove abitavo io da ragazzo, dall’ortolano, non so in un negozio a fare la spesa e ha sentito la novità e ha lasciato lì tutto ed è venuta in Piazzale Loreto per vedere se c’ero anche io. E le hanno detto: “Signora se trova suo figlio niente scene.” E li ha fatti girare. Poi l’ultimo sembrava che era girato e le hanno detto:”Suo figlio è un ingegnere” e lei ha riposto.”No,no” e le hanno detto:”Beh allora l’ultimo era un ingegnere” e non c’entrava niente con me.

E di lì invece, il giorno 17 agosto, fui inviato al campo di concentramento di Bolzano.

D: Con che cosa vi hanno portato a Bolzano?

R: Con dei pullman dell’azienda tranviaria o del municipio. Durante la notte hanno fatto tutto al 6° raggio, tutta la chiama. Il primo di tutta la chiama era sempre il Padre Gianantonio Agosti. E alla mattina, albeggiava già al mese di agosto, era il 17 di agosto, ci hanno portato a Bolzano.

D:Scusami Venanzio, chi c’era a fare la guardia sul vostro pullman?

R: La 24^ Legione. I ragazzi della 24^. Portavano un fez con il fiocchetto sulla spalla. Erano ragazzi più o meno della nostra età, naturalmente fiancheggiati da auto con su i tedeschi.

Ma seduti sul pullman proprio con noi c’era la 24^ Legione fascista.

D: E siete arrivati a Bolzano?

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D:Come te lo ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Allora non era come adesso, era periferia lontana. L’impressione un po’ brutta, perché erano capannoni quasi industriali.

Io fui mandato al blocco B e la mia matricola era 3111, a Bolzano. Naturalmente lì abbiamo subito visto delle scene un po’… La scena di padre Gianantonio, perché lì tutti venivano già rasati, davano via un triangolino di Bolzano, perché quella sera lì una coperta, un qualche cosa e una scena un po’ toccante che abbiamo visto è stata la scena di prendere il Cappuccino che era con noi, Padre Gianantonio, preso per la barbetta a pedate nel sedere tagliandogli la barba, tagliandogli i capelli che come religioso, se non hanno rispetto per un religioso che con un saio di Cappuccino, che era della chiesa dei Frati di Via Premuda Porta Monforte. Lui era dentro perché era stato arrestato perché nel confessare gli ebrei in Duomo gli dava documenti falsi e per quello ha pagato. Da Flossenbürg è finito a Dachau nel blocco dei religiosi con diversi religiosi italiani. Invece noi dopo Bolzano siamo finiti…

D:Parlami ancora di Bolzano. Ti hanno messo nel blocco B, ti hanno dato un numero.

R: Il numero 3111 con il triangolino rosso politico.

Lì era già dura la vita, naturalmente lì la fame per noi ragazzi del popolo si sentiva più degli altri, perché con noi c’era anche gente che stava bene: generali, professionisti, gente che poteva avere i loro famigliari alla porta che gli portavano i viveri di sussistenza. Invece per noi ragazzi del popolo la fame si sentiva. Io la sentivo già a Bolzano, la sentivo già anche a San Vittore. Però a Bolzano si sentiva di più perché scarseggiava già e poi cominciava già proprio quel timbro di nazismo, di teutonico che cambiava un po’ l’aria che si respirava. Era buona l’aria come clima ma…

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano, oltre questi capannoni?

R: Mi ricordo che come sono entrato i capannoni li trovavo sulla destra. Adesso non mi ricordo, il B doveva essere il penultimo, doveva essere stato un blocco centrale. Poi c’erano le celle in fondo per le punizioni. Di rimpetto a questi capannoni c’era il comando. C’era la cucina, c’era il comando.

E mi ricordo che d’estate, qualche sera, non sempre, ci hanno fatto fare delle docce. La doccia consisteva in un tubo in cui passava dell’acqua forellato in doversi punti, all’aperto.

D: Quindi la doccia la facevate all’aperto?

R: Sì. Quella poche volte non sempre. Lì ci portavano fuori, c’era una cava, e quelli che ci portavano a lavorare, però lì c’erano tanti tipi di trasporto.

Ho trovato dei miei amici che abitavano nella zone dove abitavo io in Milano, che uno mi ha raccontato che un certo Marangoni era appena partito per Mauthausen, ma lui era finito invece a lavorare in una fabbrica in Germania. Perché lì partivano un po’ tutti: i rastrellati, chi non aveva da San Vittore un qualche cosa già prenotato per il viaggio partivano a lavorare. Invece la maggior parte eravamo politici, per esempio Teresio Olivelli, per me una figura molto nobile, portava la coccarda in più di dietro. Una coccarda come fuggitivo perché i settanta trucidati a Fossoli, lui non so dove si è nascosto se in un fienile o dove, è stato lì due o tre giorni e quando è arrivato a Bolzano portava già quella coccarda rossa di dietro. Deve essere stata rossa e bianca o qualche cosa di pericoloso perché era già fuggito e ripreso al momento che avevano evacuato il campo di Fossoli.

D: Tu mi dicevi prima che a Bolzano ti hanno dato il numero e un triangolino. Ma voi avevate i vostri vestiti ancora?

R: Sì, a Bolzano io mi ricordo che avevo un vestito grigio con un gessato o qualche cosa di simile. Avevo una bella camicia, le scarpe con il carro armato che si usava allora, poi in tempo di guerra anche.

D: A lavorare quindi uscivate dal campo?

R: Sì, ci portavano in una cava a lavorare, sempre con quei camioncini lì a riempire, sempre quei lavori di facchinaggio, di sterro.

E anche lì la fame già la sentivamo noi. Perché io ed Eugenio, che adesso non c’è più poverino, noi dormivamo proprio vicino a Padre Gianantonio e Padre Gianantonio per essere un religioso era un po’ coccolato da tutti, specialmente dai professionisti, e allora lui dormiva con una borsa, una sporta, un qualche cosa sulla pancia con dentro le mele e le pere e una volta io ed Eugenio abbiamo provato a vedere se riuscivamo a portare via qualche cosa dalla borsa. Invece lui mi ha fermato la mano e poi ce ne ha date una per uno. Perché lui essendo un uomo già anziano, un uomo di cinquanta anni forse già allora, era un po’ coccolato da tutti gli ufficiali superiori che c’erano con noi, professionisti, letterati. Non so c’erano avvocati, dottori e allora era un po’ ben visto, ecco.

D: Ti ricordi se tu nel periodo che sei rimasto a Bolzano hai ricevuto da casa tua qualche lettera o qualche pacco?

R: No, niente. Ho scritto io una lettera che conservo ancora. Tutta lacerata naturalmente. Scritta con una matita, un foglio di carta con una busta rossiccia, non proprio rossiccia e c’era timbrato ……… che scrivevo censurata e che chiedevo ai miei se potevano mandarmi, allora fumavo, tabacco, cartine, qualche galletta per mangiare, un po’ di marmellata, qualche cosa, perché la fame la sentivo già lì. E invece… Comunque al mio ritorno quella lettera l’ho trovata ancora e adesso l’ho fotografata. E’ un documento che ha cinquantasette anni circa, carta anche del tempo di guerra.

Si capisce poco o niente. Comunque fotografata soprattutto per la busta, l’indirizzo e il mittente.

D: Ti ricordi quando tu eri lì a Bolzano se hai assistito, se hai visto azioni violente?

R: Ecco questo me lo ha chiesto anche Maris, però quel caso lì delle azioni violente io non le ho viste perché sono successe in ottobre novembre, più avanti.

Io ero già partito per la Germania. Perché lì quando il campo si riempiva preparavano il trasporto. Il trasporto prima di noi è andato a Mauthausen, il nostro è andato a Flossembürg e poi ce n’è stato un altro subito che è andato ancora a Dachau.

D: Ecco ti ricordi altre due cose: nel campo hai visto se c’erano delle donne?

R: Sì le donne c’erano e ce n’erano anche tante. Anzi le donne le sentivo anche cantare alla sera, perché a Bolzano la sera cantavano le donne.

Poi c’era un certo Lupo, un ragazzo partigiano, che cantava bene. Cantava quelle canzoni un po’ nostalgiche: “La bella Madunina”, “La mamma”. Quei motivi che al momento della sera che eri nella tua cuccia ti veniva un po’ di malinconia. E dove esistevano le donne si sentiva .., perché le donne sono forse, su certe cose, sono più coraggiose e più resistenti in tante cose rispetto all’uomo.

D: E oltre a Padre Gianantonio hai visto altri religiosi?

R: Religiosi li ho conosciuti dopo. Ma dopo leggendo libri dopo la Liberazione ho trovato che più o meno la mia stessa Via Crucis l’hanno fatta diversi. Per esempio a San Vittore quando c’ero io c’era Don Paolo Liggeri, c’era un Vescovo di Crema Don Manziana che è finito nei blocchi, uno è finito a Mauthausen e dopo verso la fine, l’inverno del ’44, la primavera del ’45 erano finiti tutti nel blocco religioso di Dachau.

D: E sempre lì a Bolzano per caso tu hai visto se c’erano anche dei bambini?

R: Si. C’erano gli ebrei, c’erano famiglie intere. Perché al 5° raggio di San Vittore, al 5° raggio sopra ai camerini, c’erano famiglie intere di ebrei. Che, anzi, sentivo a quanto dicevano che gli facevano fare anche delle cose orribili o li facevano mettere giù davanti alla latrina a camminare. E allora lì li tenevano separati da tutto il resto di noi non ebrei al 5° raggio. Che poi la maggior parte di loro sono passati per Bolzano, ma poi sono partiti e sono andati nei campi dove sono entrati e sono passati per il camino.

D: Quindi tu a Bolzano, nel periodo che sei rimasto, sei uscito per andare a lavorare in questa cava.

R: Sì, una cava dietro lì.

D: E non ti ricordi più o meno dove? Facevate tanta strada, poca strada?

R: Non tanta, perché andando a lavorare alla cava non incontravamo mai nessuno. Perché era già periferia di Bolzano allora. Era una strada lunga verso le montagne e sulla destra c’era questo campo, si usciva e si andava in questa cava …… con i lavori di sterro, non so cosa combinavano con quel lavoro lì.

Tanti giorni ci lasciavano anche in pace a Bolzano, tanti giorni non ci facevano niente. Si aspettava gli eventi, si organizzava da mangiare e basta.

D: E il comandante del campo, comunque delle SS del campo, ti ricordi …?

R: Del comandante del campo mi ricordo di Maltagliati. Maltagliati era il fratello, un parente della famosa Evi o Eva Maltagliati attrice di cinema.

Non so, ecco io allora ero un ragazzo, comunque Maltagliati. Poi a Bolzano, proprio il comandante lo vedevo quando alla sera parlava, faceva discorsi, però non mi ricordo né nome e né niente. Di Maltagliati si.

Poi anche lì hanno fatto i capi blocco, una cosa e l’altra. Fra l’altro il capo blocco del mio blocco lì a Bolzano se non sbaglio era Mazzullo, Luigi Mazzullo, che era tenente dell’aviazione allora, adesso è generale. Anzi adesso è l’ambasciatore italiano dei deportati a Dachau. C’era Castelli che era già un pittore. Ce n’erano diversi, tutta gente che ho incontrato a Bolzano che poi a Bolzano sono arrivati con noi tutti quelli dei Lager di Fossoli. Lì la maggior parte erano gli arrestati degli scioperi del marzo del ’44. Ce n’erano diversi che poi…

C’era un certo Ferrario che è rimasto là e ce n’erano diversi di quei ragazzi lì, adesso la fisionomia… Tanti nomi li ricordo, leggendo dei libri li ricordo perché parlando di questo periodo erano senz’altro con me.

D: Il campo di Bolzano aveva una recinzione?

R: C’era una cinta, una mura. C’era un qualche cosa di così, perché sembrava quasi una falegnameria, un deposito, un hangar, tipo hangar, qualche cosa di simile.

D: E c’erano delle …. delle sentinelle?

R: Le reti delle sentinelle sugli angoli naturalmente e le entrate erano un cancello che si vedevano di fuori.

D: Non c’erano scritte?

R: No, non credo, almeno non mi ricordo di questo.

D: Lì a Bolzano tu sei rimasto quanto tempo?

R: A Bolzano sono rimasto dal 17 di agosto fino al 5 di settembre, alla mattina che ci hanno incolonnati i famosi cinquecento e ci hanno portato allo scalo di Bolzano, sullo scalo merci, per una destinazione che non si sapeva; la destinazione era ignota.

Anzi tanti dicono che dopo o prima di Monaco, non so dopo Innsbruck, è stato fermo, il treno ogni tanto rimaneva fermo, che dovevamo andare a Mauthausen e invece all’ultimo momento siamo andati verso…

D: Ecco scusami sempre, dal campo di Bolzano, in questo posto che vi hanno portato allo scalo tu dici eccetera, vi hanno portato come?

R: Per cinque, incolonnati a piedi. Camminavamo, non so se era l’Isarco o un fiume vicino; quello mi ricordo.

Era mattina presto, si vedevano già gli operai con le biciclette che entravano; perché lì era zona industriale. Entravano in fabbrica. E a noi ci hanno portato in questo scalo, c’erano già pronti tutti i vagoni e dopo un po’ di cerimonia, non so se con una lista o con un numero, adesso non so di preciso quando, io penso sessanta o settanta, ci hanno messo dentro, chiusi i vagoni fuori, anche il finestrello del carro bestiame, era con i reticolati anche quello. Basta, chiusi dentro lì tutti i sogni di evasione erano impossibili, perché tanto adesso si parla ma allora non si poteva. Prima di tutto per gli anziani che c’erano con noi, ufficiali, che se mettevamo in repentaglio la vita di loro, perché se ci mancava qualcuno…

E poi dopo insomma la mattina, dopo tre o quattro colpi che si è mosso il convoglio, era la mattina del 5 di settembre, hanno aperto i vagoni il 7 di settembre con le urla dei cani. Eravamo arrivati a Flossenbürg allora.

D: Quindi il tuo viaggio è durato due giorni e due notti. Avevate sul vagone qualche cosa da mangiare e da bere?

R:No, io non avevo niente, perché anche a Bolzano avevo già sofferto la fame, perché non avevo niente, non aveva niente la mia famiglia in tempo di guerra, non c’era niente. Naturalmente noi siamo partiti con tutto quello che avevamo addosso e chi aveva valigie o borse. Io avevo il mio fagottino e non c’era niente.

Allora c’era gente che aveva avuto i mezzi e sono partiti. Naturalmente di notte mangiavano, perché avevano vergogna a farsi vedere mangiare. Perché questa è la verità, non si può mangiare. Perché sai nel momento che vai verso l’ignoto pensi subito :”Qui soffrirò la fame”, allora se hai una scatoletta cerchi di conservarla per il domani. Invece quando siamo arrivati a Flossenbürg il domani non esisteva più, perché là c’è stato portato via tutto, tutto, tutto. Dai capelli, i peli, la barba; tutto ci è stato portato via. Nudi come ci ha fatto nostra madre. Basta, lì non avevi più niente.

D: I bisogni corporali durante il trasporto?

R: I bisogni corporali erano un po’.., anche lì, perché insomma c’erano persone anziane, persone che avevano bisogno più sovente rispetto ad un giovane.

La resistenza, perché adesso io alla mia età un viaggio di quelli lì mi buttano giù dal treno. Comunque per fare la pipì andavamo dove c’era la porta che scorreva e lì si faceva la pipì sperando che si perdeva tramite le fessure. Ma per fare qualche cosa di più pesante, di più bisognoso dovevamo farlo con un pezzettino di carta e poi buttarlo da quel finestrello lì, perché? Perché si è verificato che dal 5 al 7 di settembre che di giorno c’era un caldo terribile, chissà che puzzo che c’era dentro quel vagone lì perché sessanta, settanta persone chiuse lì con quella finestrella lì. E invece di notte un freddo incredibile perché era l’incontrario, di notte c’era freddo.

Poi anche la notte per trovare di allungare un po’ i piedi, trovare la posizione. Poi in quel pezzettino lì c’era gente anziana, cercava di resistere magari se aveva bisogno proprio dei bisogni fisiologici di farli di notte, perché è un po’ meno vergognoso, un po’ meno deplorevole che farli in faccia a tutti anche se la luce filtrava poco, ma di giorno ci vedevamo in faccia, invece di notte puoi farle scomparire.

Ma tra i corpi, tra gli odori e il resto puoi immaginarti.

D: Il treno si fermava ma le porte non si sono mai aperte?

R: Non si sono mai aperte.

D: E da bere e da mangiare?

R: Per bere e mangiare quando siamo partiti hanno messo una cassa, non so chi l’ha pagata, perché ce l’hanno fatta pagare quella cassa lì. Una cassa di mele sul mio vagone, perché sugli altri non so cosa ci fosse stato. Sul mio carro, no vagone. Sul mio carro bestiame l’hanno messa. E sono venute fuori due mele a testa, una o due mele a testa. Basta, quello lì è stato il nostro vitto e basta fino a Flossenbürg.

D: Una volta arrivati a Flossenbürg, dopo due giorni e due notti di viaggio, allora lì hanno aperto i vagoni.

R: Perché quella ferrovia terminava proprio a Flossenbürg; l’ultima stazioncina tedesca terminava a Flossenbürg. Arrivati a Flossenbürg basta, prima che il treno si fermava definitivamente si sentiva già urlare in tedesco. Ma l’abbaiare dei cani!

Lì albeggiava, era l’alba del 7 di settembre. Poi hanno aperto il vagone e ci hanno fatto saltare giù lì.

Naturalmente ognuno vedeva quell’altro com’era conciato, perché io non potevo specchiarmi. Vedendo i compagni, ognuno vedeva la faccia dell’altro. Lì ci hanno incolonnati per cinque e dopo quando siamo scesi tutti con il nostro bagaglio, io non avevo niente.

La stazioncina di Flossenbürg era proprio all’imbocco del paese, poi c’era una salita che sarà stata lunga 1,5 o 2 km, non so. Tutto il paese su quella strada lì e poi in cima c’era il campo. E sicché andando su, quando ci hanno messo per cinque, camminavamo verso il Lager, la prima cosa che mi ha scioccato, che ci avrà scioccato un po’ tutti, era la vista di questi zebrati.

Io vedevo già quei vestiti da galeotto con la testa rapata, con gli zoccoli silenziosi, magri. Io pensavo: “Ma qui è una colonia penale”, non so come i film che si vedevano quando ero ragazzo e cercavo di non pensare che dovevo finire in quel posto lì.

Siamo entrati e infatti la zebra era tutta sparsa per tutto il campo.

D: Lì avete attraversato il paese?

R: Tutto il paese, fino in cima. Perché adesso anche in cima dove c’è il campo ci sono delle villette. Invece prima c’erano solo le villette degli ufficiali delle SS e Flossenbürg era tutta quella strada lì con a parte quei cascinali, con la chiesetta protestante che c’è. Ci sono due chiesette mi sembra. E basta.

D: Gli abitanti del paese vi hanno visti?

R: Ci hanno visti, ma indifferenti proprio. Anche i bambini, niente, come fossero abituati forse a vedere questi passaggi.

E dopo circa quaranta giorni abbiamo rifatto quella strada ma tutti vestiti elegantemente con la zebra nuova, con gli zoccoli nuovi ai piedi senza più bagagli, senza più niente e l’abbiamo fatta per andare a …

D: L’ingresso del campo di Flossenbürg, quando siete arrivati, come te lo ricordi?

R: All’ingresso del campo di Flossenbürg c’è la Kommandantur che è una cosa impressionante. Adesso è bella pitturata dipinta. Metà è del comune e metà è una associazione di ex deportati.

Allora invece era tipo teutonico con quella specie di torre centrale lunga e vedendo proprio di facciata si entrava verso la nostra destra che c’era come una lingheretta, qualche cosa, come un ballatoio subito lì rialzato e lì c’erano già i cancelli che si aprivano e lì si entrava e ci contavano sempre per 5: 5,10,15, ecc. e intanto ci contavano. Si entrava non dal portone. Abbiamo girato indietro che era la piazza dell’appello, e lì chi aveva i bagagli li aveva depositati. Qui sto già parlando di Flossenbürg. Dopo un po’ è uscito un ufficiale e ha detto che adesso ci avrebbero chiamato per nome e che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo sentito il nostro nome e al momento che avremmo sentito il nostro nome avremmo dovuto rispondere “Qui”

Ecco dovevamo rispondere così. Infatti quando è arrivato il Gibillini Venanzio io risposi “Qui”. E siamo stati lì un po’, perché era mattina e quando siamo arrivati nel blocco che ci hanno assegnato era sera, diventava già buio.

Lì siamo stati circa una, due, tre ore, perché ci hanno abbandonato lì con un indifferenza totale. Però vedevo che dentro erano tutti di corsa, tutti silenziosi. Poi ci hanno portati allo spogliatoio sotto una tendopoli e lì ci hanno spogliati. Lì i nazisti hanno detto che ci dovevamo spogliare e consegnare tutto quello che avevamo: dalla fede alla catenina, una fotografia. Non dovevamo avere niente e tutto ci sarebbe stato restituito al momento opportuno.

Mi hanno fatto una specie di ricevuta con un pezzo di carta e poi me lo hanno stracciato proprio come presa in giro.

Io naturalmente non avevo niente e quando mi hanno tolto il vestito e la camicia che avevo su, io basta non avevo più niente da nascondere.

E lì c’è stata gente che ha cercato di salvare qualche cosa: una fede, una fotografia. Ho visto stracciare dei soldi di carta piuttosto che darli, ma se li pescavano li avrebbero uccisi senz’altro; li avrebbero uccisi a bastonate. E nei tubetti di dentifricio mettevano dentro la fede o la catenina, che poi in quell’ambiente lì non siamo più andati.

Dopo eravamo tutti nudi, un po’ grotteschi, perché noi allora avevamo diciannove, vent’anni anni ed eravamo i giovani. Ma c’era gente di quarantanove, cinquant’anni, c’era gente già con un po’ di pancetta un po’ di qualche cosa che andava un po’ storto insomma. E il nostro processo di spersonalizzazione lì cominciava già in pieno, perché quando un uomo è nudo davanti ad uno vestito con gli stivali e con in mano un frustino è già una nullità quello che è nudo e mantenersi davanti a quello lì.

D: Ma anche Padre Gianantonio era con voi?

R: Si, anche lui tutto nudo.

D: Quindi anche lui ha subito questo?

R: Tutto quel processo lì. E se c’era anche il Sommo Pontefice, tanto per dire, l’avrebbe subito anche lui. Cardinali, Prelati, alti Prelati li hanno subiti tutti.

Dopo averci denudato ci hanno portati al bagno. Il Wäscheraum c’erano due scalinate che scendevano in un seminterrato ed entrato nel primo locale seminterrato tutto piastrellato, tutto fatto bene. Naturalmente sui fianchi del Wäscheraum i primi colpi che ricevevi li ricevevi con il Gummi che era un tubo di gomma con dentro dei fili elettrici, ma esistevano anche a Dachau, esistevano dappertutto. E quello lì ti dava il colpo, ti intontiva senza lasciarti il livido quasi, perché la gomma era piena fuori, sicché era pesante. E qui ti pigiavano e quelli che pigiavano erano vestiti zebrati. I primi colpi non è che li ricevi in un posto talmente terribile, coraggio ragazzi qui dovete…. Qui niente, tutti picchiavano, tutti urlavano e non si capiva più niente.

Allora ci hanno messo dentro quel locale lì, prima c’era una preanticamera abbastanza grande tutta piastrellata e c’erano dei manifesti, dei poster proprio, delle gigantografie con il pidocchio che scritto in tutte le lingue diceva: “Difenditi da questo parassita che sarà la tua morte”.

Poi siamo entrati in profondità più avanti e c’erano dei traversini di legno con su il pavimento, le solite docce.

Prima ancora sono venuti i Friseur, i parrucchieri che erano tutti compiti che svolgevano gente aristocratica del campo. Perché lì il bifolco, il triviale, il duro acquistava valore in un Lager, invece il laureato, quello con gli occhiali con i denti d’oro veniva menato.

Lì ci hanno sbarbati un po’ dappertutto, ci hanno tolto i peli da tutte le parti. I capelli erano già tagliati da Bolzano e lì ce li hanno tagliati ancora. Poi ci hanno fatto la Strasse, con una macchinetta molto fine proprio una strada. La strada di Hitler, che partiva dalla fronte e finiva alla nuca. Poi ci hanno disinfettato con il petrolio, non so che cosa fosse lisoformio non credo, era un qualche cosa che bruciava enormemente perché tagliati i peli e barba dappertutto con quelli che ormai non erano più rasoi ma erano coltelli e tutti mezzi insanguinati e dopo ci hanno cacciati sotto le docce. Quando eravamo sotto le docce hanno aperto l’acqua calda così bollente che ti spelavi e acqua fredda che faceva contrasto. Penso che sia stata una cosa veloce, poi fuori. Arrivavano sempre colpi che si cercava di schivare perché il più impappinato, il più anziano li prendeva invece io avendo diciannove, vent’anni cercavo di schivarli.

E lì ci hanno fatto una visita medica, tutti nudi davanti ad uno che penso sia stato un dottore, un ufficiale medico con i suoi aguzzini intorno, si andava davanti ci guardava davanti, ci giravamo e ci guardava da dietro e poi un incaricato di quelli lì con la vestaglia bianca con una vernice rossa ci faceva una lettera sulla fronte: A, B, C; penso che sia stata una lettera. E lì era già una selezione che facevano per la forza lavoro e la forza non lavoro.

Dopo di quello ci hanno vestito. C’erano un mucchio di stracci della guerra ’15-’18 e non so ad uno capitava magari una cosa spaccata, rotta o scalcinata, ti buttavano lì una giacca e un paio di pantaloni e penso una camicia. Biancheria intima lì non esisteva più.

Naturalmente quando siamo stati vestiti per la sera ci hanno dato già il filo e qualcuno ci ha incaricato che quel filo doveva durare per diversi per attaccare il nostro numero di matricola che lì ero diventato il 21626 triangolo rosso. Politico perché nel Lager si distingueva il politico perché era la maggioranza di quasi tutti i Lager, che era il triangolo rosso. Poi c’era il triangolo verde che erano i signori del Lager, perché la maggior parte erano criminali, la maggior parte tedeschi che sapevano la lingua e più erano feroci e più facevano carriera.

E poi il Lager era formato da tutta una miriade di gente che girava intorno: gli addetti alla … , gli addetti ai bidoni, gli addetti alle latrine, gli scrivani, tutta una miriade di gente che organizzavano e riuscivano anche a mangiare qualche cosa di più di quelle miserrime razioni che davano via.

D: E poi ti hanno mandato in blocco.

R: E poi mi hanno mandato nel blocco. Nel blocco naturalmente dopo due giorni ormai era arrivato sera e cominciava già a diventare buio quando tutta questa cerimonia è durata un giorno, perché pensa che chi arrivava al mese di gennaio con il freddo con i 15-20 gradi, io sono arrivato a settembre, con i 15-20 gradi sotto zero tutta quella processione che abbiamo fatto noi loro la facevano all’aria aperta fuori nudi così delle ore sotto la neve, sotto all’acqua. Che poi lì a Flossenbürg erano 1000 metri, non so, è sempre stato freddo. E dopo mi hanno assegnato il blocco. Naturalmente nel blocco avevamo bisogno del gabinetto. Due giorni e due notti, ormai era al terzo giorno, e allora si doveva andare cinque, dieci persone alla volta alla latrina e poi ritornare indietro. I primi che vanno:”Eh che gabinetto!”. E allora siamo andati tutti anche per la curiosità di vedere questa latrina. E la latrina era un locale, mezzo blocco, un quarto di blocco, con due buche profonde in mezzo con delle tavole di legno per accomodarsi e tutto intorno c’erano dei lavandini sempre in legno con ad ogni vetro un rubinetto con “Vietato bere: acqua non potabile”. E sotto quei lavandini c’erano già i morti. Erano già accatastati sotto i lavandini in attesa perché il crematorio era sotto.

Sotto il blocco 23, il blocco 24, esisteva il crematorio. Che poi per andare giù nel crematorio c’era una scalinata che si andava giù con una trentina di gradini, non so di quanti metri. Però loro non li portavano giù con la barella. Sotto l’ultima garitta c’era un sottopassaggio con un vagoncino, caricavano i corpi decessi e scivolavano giù sul tetto del crematorio. Dal tetto del crematorio li scaraventavano proprio davanti all’ingresso e poi venivano bruciati. E quell’odore lì del crematorio stagnava tutto il giorno quando poi c’era la bassa pressione che pioveva, perché là in quaranta giorni che sono stato a Flossenbürg ho visto il sole non so se una volta e mezzo o due, il resto sempre freddo perché si andava verso ottobre.

D: Il numero del tuo blocco qual era?

R: Il mio blocco era il 23. Vicino al nostro blocco c’era il 24, che non era il Bunker, erano i terminali.

Quando uno non moriva allora via, veniva portato al 24. Al 24 venivano buttati là dentro e basta. Se aveva la forza di uscire a prendere la zuppa usciva, se no moriva lì con gli escrementi. E quando uno se la faceva addosso, tutti i Kapò dicevano: “Ah italiano sporcaccione!” Prendevano l’idrante e ti lavavano con quello per far vedere che noi eravamo degli sporcaccioni. Di conseguenza ti veniva la broncopolmonite e non morivi per la dissenteria ma per la broncopolmonite fulminante.

D: Ci racconti una giornata di Flossenbürg? La sveglia, cosa vi davano da mangiare.

R: A Flossembürg era molto terribile. Prima di tutto perché è stato anche l’impatto della deportazione, la prima settimana c’erano già morti due fratelli. Dopo dieci giorni, anche per il crepacuore, perché capivi che non potevi sopravvivere dentro lì. E’ stato considerato forse uno dei peggiori, per niente ripulito, venticinque legnate, venticinque frustate, un gabellino apposta per metterti lì. E poi se vedeva che ero un italiano amico, chiamava me per picchiare. Io picchiavo adagio andavo giù anche io finché usciva un russo o un polacco per non prender lui picchiavo forte. E quando picchiavano i Kapò te dovevi contare i colpi che ricevevi e loro addirittura si fermavano a riposare e a prendere fiato.

D: E da mangiare?

R: Da mangiare al mattino alle 4,00 d’estate, 4,30 dicono d’inverno, ma noi abbiamo sempre fatto quasi il mese di settembre e ottobre, c’era ………: 5, 10 minuti l’appello. Allora subito, perché l’appello ti uccideva. Fuori pioveva nevicava, tu sempre sugli attenti; quegli appelli lì erano terribili.

L’unico pregio che aveva era che era un po’ calda. Però io non so quante volte l’ho bevuta. Dopo verso le 11 ti davano la zuppa. In quel blocco lì eravamo circa in seiciento e non c’erano le gamelle per tutti; c’erano circa cinquanta, sessanta gamelle. Di conseguenza le gamelle continuavano a girare fino a che avevano servito tutti i deportati, tutto il blocco. Di conseguenza nessuno voleva entrare per primo, perché forse entrando per primo aveva la gamella pulita però pescava l’acqua perché il bidone fresco, 50 litri di roba se c’è qualche cosa di sostanza o pesante resta sul fondo e lui non mescolava, lui pescava l’acqua e ti dava l’acqua. Allora gli addetti a quello spingevano con il tubo di gomma per andare sotto. Poi l’affare girava fino a che arrivava l’ultimo che andava sotto. Ma l’ultimo poteva pescare il pezzo di ratto, un pezzo di carota, qualche cosa di sostanzioso. Questo alle 11,00. Poi si parlava alla sera. Di sera rientrando in blocco, chiamandoti per numero, che se non uscivi al tuo numero giusto le prendevi, perché dicevano che sabotavi e che prendevi la razione di un altro che non ti aspettava, e lì la sera c’era il pane che da sei è diventato in otto poi una fettina di pane tedesco fatta nel Lager, non so di che composizione fosse quel pane lì. E poi c’era o una fetta di margarina o un cucchiaio di marmellata o una fetta di salame.

Ogni tanto davano una fetta di salame, ma un salame gommoso proprio che lo masticavi ma tutto era buono da cacciare nello stomaco che non so di che cosa fosse stato fatto. E quello lì era la razione che ti aspettava al giorno.

Naturalmente durante il giorno quando non ci prendevano, perché lì eravamo in quarantena, perché qualche comando, cinquanta uomini con me, no uomini 50 pezzi, 50 Stück. Dicevano, per portare pietre alla cava ci lasciavano in pace e si parlava solamente: “Se andiamo a casa faccio fare da mia mamma la pastasciutta, lo spezzatino, il pane, il tonno”

D: E il lavoro invece?

R: Lì eravamo in quarantena perché sai i tedeschi organizzati, perché prima di contaminare quelli che erano già moribondi ti facevano fare la quarantena. Allora lì il lavoro consisteva nel portarti alla cava, sempre quei lavori di sterro, sempre con picconi, zappa e martello.

E lì c’erano degli affari da mettere sulla spalla come zaini in legno che avevano come appoggio una tavoletta o diverse tavolette dove tu mettevi la pietra, il masso e lo portavi. Tante volte penso che li facessero portare su e poi riportare giù, non so.

Comunque penso che tante cose le facessero fare proprio per demolire e lì sentivi proprio la mancanza. Io vedevo le nubi nel cielo che si spostavano e vedevo la libertà di un qualche cosa fisicamente che si spostava, il poter viaggiare, il poter spostarsi. E questi erano i lavori. Finita la quarantena a Flossenbürg già si parlava che per sopravvivere lì, perché nessuno rimaneva nel campo madre. Flossenbürg non so quanti campi satelliti aveva intorno. E l’unica sopravvivenza era di finire in un comando diciamo dolce, che faceva paura già a qualcuno anziano che abbiamo trovato dentro.

Il primo trasporto italiano è stato il nostro ma proveniva da altri campi. Ci hanno detto: “Cercate di difendervi dall’inverno, perché se arriva l’inverno che siete a Flossenbürg a portare le pietre non si salva più nessuno”. Allora gli ultimi tempi, ormai era l’ottobre del ’44, i tedeschi capivano che la guerra la perdevano, malgrado tutto, allora avevano bisogno di meccanici. E allora ci è arrivata la voce che dovevano fare un esame per vedere chi era meccanico.

Loro hanno fatto presto a fare l’esame. Nella piazza dell’appello hanno messo un tavolino con non so se era un ingegnere o un civile tedesco e lì siamo andati tutti uno ad uno davanti a questo ingegnere e lui aveva degli strumenti su questo tavolino che erano il calibro, la vite micrometrica, le punte elicoidali. Ha preso in mano un calibro e mi ha chiesto: “Quant’è?” Tanti millimetri tanti decimi. Poi ha preso in mano la vite micrometrica è mi ha detto:” Quanto?”. Poi ha preso due punte elicoidali mi ricordo: una affilata bene e l’altra invece da una parte affilata malamente e dall’altra non poteva più tagliare. E in principio che se uno ha fatto il meccanico… e chi ha indovinato quello lì penso che l’abbiano indovinato quasi tutti. Chi l’ha indovinata ci hanno mandato a Kottern, un sottocampo di Dachau. Però lì abbiamo cambiato matricola, abbiamo cambiato tutto. Perché ho abbandonato Flossenbürg con il 21626 e sono andato a Dachau e sono diventato il 116361. Questo era il mio nome a Dachau. E da Flossenbürg ci hanno mandato addirittura, ecco il viaggio che da Flossenbürg va a Kottern non me lo ricordo più. L’abbiamo fatto sul treno ma penso che non ci hanno neanche chiuso sul vagone, perché c’erano due SS seduti lì. Ci hanno tolto quegli stracci che al momento opportuno ci aveva dato al momento della doccia a Flossenbürg, ci hanno dato una zebra nuova, degli zoccoli nuovi e anche un cappello. E non so se il numero da Dachau ce l’hanno dato direttamente lì o se ce l’hanno dato a Kottern. Adesso questo non me lo ricordo più.

Di conseguenza dicono che il treno non si è fermato più neanche ad una stazione, si è fermato su una scarpata, e di lì ci hanno portato nel Lager. In quel Lager c’erano circa 2000 persone. Era un piccolo Lager rispetto agli altri, però il trattamento era sempre quel trattamento. In più però noi lavoravamo per la Messerschmitt in un capannone. Lavorare per la Messerschmitt era stata la mia fortuna penso, perché io ho schivato quasi tutto l’inverno, via che un quindici, venti giorni che ho fatto a trasportare delle lamiere con la slitta ghiacciata all’aperto, perché quei lavori ti decimavano completamente, invece lì facevo l’aggiustatore.

Dovevo, con delle dime, limare dei pezzi che poi li montavano E lì quando entravi le SS ti portavano alla porta, poi i Kapò ti portavano al posto di lavoro e poi entravano i Meister. I kapò non potevano più far niente al momento che entravano i Meister. I Meister erano dei civili che ci davano il lavoro. Man mano che questi Meister segnalavano che il tale non rendeva più venivano inviati ancora a Dachau e quando andavi a Dachau non so se facevi in tempo a fare un altro trasporto.

Se andavi a Dachau, perché non facendo più produzione perché eri deperito, la maggior parte di tutti noi, insomma dei duecento circa che abbiamo fatto la marcia di eliminazione ormai eravamo poche decine. Tutto il resto era tornato a Dachau.

D: E lì quante ore lavoravate?

R: Dodici ore di lavoro al giorno. Dodici ore per quindici giorni di notte e dodici ore per quindici giorni di giorno. E ogni quindici giorni ci cambiavano il turno e quella domenica lì ci lasciavano in libertà. Quella domenica lì si poteva scambiare qualche parola, andare a cercare qualche amico che poi magari scoprivi che era tornato a Dachau o era andato da qualche altra parte. Perché quando siamo tornati ci siamo detti dove eravamo finiti.

Noi eravamo NN: entrati nella notte e usciti nella nebbia. Si scompariva così. E voglio dirti un particolare. In quella fabbrica lì con me e con i Meister c’erano anche i militari. E c’era un ragazzo tedesco, un aviatore tedesco, che più o meno avrà avuto la mia età e io ho iniziato a lanciargli degli sguardi e lo vedevo bello pulito nella sua divisa che mangiava e che beveva. Lui mi guardava e forse io gli facevo compassione vestito da zebrato, affamato, pieno di pidocchi, e ha cominciato che quando beveva la birra ne avanzava sempre un pochino nella bottiglia e poi mi faceva un cenno come dire di andare lì a prendere la birra. E questa cerimonia è durata per un po’ di tempo, perché ha fatto tanti mesi anche lui lì. Quando facevo il turno di giorno lo incontravo. E un giorno, giudicandolo un buono, un dolce, non come un SS, un giorno ho osato. Vedevo che stava affettando il pane e lo mangiava con la marmellata e gli ho chiesto se me ne dava un pezzettino. Lui mi ha guardato e mi ha detto:”Nein”. Come dire: “Niente. Perché sei prigioniero? Sei un bandito? Sei un partigiano?” E con quello è cessata anche la cerimonia della birra. Perché forse io non dovevo chiedere, perché prima di tutto era pericoloso anche per lui, perché il tedesco, il nazista non considerava quegli atti, quei valori non li considerava. Se uno doveva morire doveva morire. Era una bocca in meno da dare da mangiare, anzi uno che non lavorava era inutile tenerlo in vita, doveva andare al crematorio.

E questa era la mentalità del nazista. E la compassione e quegli atti, perché se vedevi qualche atto che ti centrava, che ti toccava, qualche flash che vedevi perché qualche cosa che era il contrario della malvagità ti restava impresso. Perché io quel ragazzo lì quando vedevo che ha continuato per diversi giorni, forse per settimane a darmi la birra ho pensato che forse a cercargli un pezzetto di pane mi avrebbe dato anche quello. Invece il pane non me lo ha dato. O era poco anche per lui, comunque mi auguro che viva ancora e che sia al mondo e sia un uomo felice.

D: Lì a Kottern quanto tempo sei rimasto?

R: A Kottern sono rimasto tanto, sono rimasto un infinità. A Kottern non ce la facevo più. La Pasqua del ’45 era …… proprio, perché per entrare al Revier dovevi avere almeno 39 di temperatura, 39 di febbre. Se no non entravi al Revier. Mi hanno controllato la temperatura. Il Revier di Kottern era in miniatura, non era una baracca. Dove mi hanno messo era un tavolazzo tutto lungo su tutta la lunghezza della Stube che era in muro e uno vicino all’altro. E lì avevo la febbre. Naturalmente entrando al Revier perdevi tutto. Nudo con un camicione sempre a righe e mi hanno messo lì sul castello. E un infermiere, un deportato anche lui, un polacco, mi ha dato una pillola. Non so che pillola fosse, ma mi ha fatto cessare la febbre e basta mi hanno tolto dal Revier e sono tornato in fabbrica.

Ma gli ultimi giorni la fabbrica ormai bombardata una volta, due, tre è stata bombardata definitivamente. Allora ci adoperavano solamente per fare quei lavori sempre di sterro. Sulle massicciate delle ferrovie dove c’erano i binari divelti, dove c’erano i vagoni, case, macerie, tutti quei lavoracci lì, fino alla fine che al 25 aprile, alla mattina ormai c’era stato un appello in generale e solamente il comandante è rimasto. Lì ci hanno incolonnati, ci hanno permesso di prendere la nostra coperta.

Pioveva come Dio la mandava e con la coperta sulle spalle o sulla testa sottobosco, non nelle vie principali, e anche lì abbiamo camminato due giorni e due notti. Tanti dicono che ci hanno dato dei chicchi di grano; bevevamo l’acqua piovana perché il camminare ci ha provocato una sete terribile. Io non mi ricordo cosa ci hanno dato, questo particolare non me lo ricordo. Però l’hanno detto in due o tre e io ne prendo atto.

E così fino a che siamo arrivati a Fronten. Arrivati a Fronten, questo è quello che ho visto io, ho visto un razzo luminoso alzarsi.

Tornando indietro un passo, intanto che noi camminavamo, ci portavano sempre verso le ultime città tedesche e poi c’era l’Austria. Ci portavano verso l’interno, non so. Noi vedevamo tutta la ritirata dell’esercito tedesco che veniva contro di noi come marcia di direzione. Si vedeva proprio lo sfacimento. Siamo arrivati lì che era sera e ho visto un razzo luminoso alzarsi verso il cielo. In quel momento le SS che ci accompagnavano si sono fermate. Naturalmente la colonna era ormai tutta disordinata, perché man mano che restavi indietro sentivi gli spari e venivano seminati anche per la strada. Poi sono arrivati degli autocarri che si sono fermati e le SS sono andate su e sono filati via. I Kapò hanno cercato ancora di tenerci inquadrati e lì non si capiva più niente perché in quel momento c’era il caos più terribile. Poi i russi e i polacchi con la loro forza da spinta d’urto per cercare da mangiare non ci sono stati più né Kapò né mica Kapò. Lì lì sono andati a cercare tutti e i Kapò sono stati sopraffatti. Però come siamo entrati in paese i contadini asserragliati nelle loro case ci sparavano contro perché vedevano questa marea di zebrati affamati e le loro truppe tedesche che si allontanavano e questi qui che venivano avanti, allora ci sparavano. Allora io, Eugenio e un certo Bruno ci siamo messi sotto una tettoia fuori dalla strada provinciale, perché era un piccolo paese dove c’era solo quella strada lì, ci siamo messi lì e poi però la fame era più forte di noi e siamo andati a cercare da mangiare. E infatti siamo andati in un magazzino dove c’erano dei civili e non civili che si azzuffavano per prendere qualche cosa e abbiamo visto dei barattoli che nessuno li prendeva e allora piuttosto che niente ne abbiamo preso uno e lo abbiamo aperto e dentro c’erano i cetrioli sotto aceto. Ecco la prima cosa che ho mangiato è stata quella e così ha disinfettato tutto. Dopo però abbiamo preso un carrellino che una donna tedesca aveva già riempito di cibarie, scatolette di carne, abbiamo fatto la fuga e siamo andati ancora sotto quel cascinale dove eravamo prima e piovigginava ancora. Era il 27 aprile. E lì tra il cetriolo che abbiamo mangiato, tra una scatoletta di carne, siamo crollati tutti e tre e ci siamo impappinati lì che se tornavano le SS ci facevano fuori tutti. Alla mattina invece c’era un’alba stupenda, c’era un sole che annunciava proprio la libertà. E’ uscito il contadino con tre caraffe di latte appena munto e ce le ha date. In quel momento non avevamo ancora visto le truppe alleate, invece dopo un po’ hanno cominciato a passare i carri armati e i camion che andavano in su più o meno dove andavamo noi a piedi, verso l’Austria e sono passati per tutto il giorno.

Io ho visto che tutti i veicoli portavano la stella bianca e allora ho chiesto al contadino :”Chi sono?” E lui ha detto che non erano russi ma americani. E quindi al mattino abbiamo capito realmente che eravamo liberi.

D: E dopo per tornare in Italia?

R: Gli zebrati alcuni sono ritornati a piedi, alcuni sono ritornati in Dachau, alcuni sono andati verso la Svizzera: Ferruccio Belli, Magenis sono andati verso la Svizzera e in Svizzera li hanno messi ancora nei campi di concentramento per fare la quarantena. Era un campo di concentramento bello ma erano ancora chiusi lì dentro. Invece io, Eugenio Esposito e Bruno Donelli siamo sempre rimasti insieme. Allora siamo andati verso l’Italia e siamo entrati in Austria in una cittadella del Tirolo e la differenza vedevi che le bandiere bianche della resa le vedevi dove eravamo stati liberati e invece come siamo entrati in Austria c’era la sua bandiera nazionale rossa e bianca, purché si definivano anche loro invasi dai nazisti. Però dico una cosa, perché i nazisti negli ultimi giorni ci hanno fatto fare quelle marce lì che hanno seminato tantissime persone. Sono partiti in 14000 e sono arrivati in 1000-1500 persone, seminati tutti per la strada. Quella è stata l’ultima carneficina inutile da fare fino al momento che sono arrivati gli americani, fino a che non hanno visto i carri armati americani hanno continuato a punirci e ad ucciderci.

D: E poi in Italia però da dove sei entrato?

R: In Italia sono entrato da Bolzano.

D: Dal Brennero?

R: Dal Brennero. Io avevo organizzato uno zainetto, avevo tolto la zebra e invece Eugenio l’aveva portata a casa, mi sono pentito perché potevo almeno tenere il triangolo; l’unica cosa che ho portato a casa è il cucchiaio. Perché noi eravamo dei barboni, avevamo il cucchiaio e la gamella con un pezzo di corda attaccato all’altra corda che faceva da cintura. Gli americani con la camionetta in quindici persone con quindici zaini ci hanno portato a Bolzano. Lì siamo andati all’ospedale di Bolzano e ci ha preso in mano la Croce Rossa e dopo con il camion del Comitato di Liberazione di Cernusco sul Naviglio siamo partiti da Bolzano e siamo arrivati a Milano.

D: Quando sei arrivato a Bolzano c’era un comitato di assistenza?

R: Sì c’era qualche cosa, ma non come forse ci doveva essere. A parte che rientravano dalla Germania di tutte le qualità: rientravano i lavoratori liberi, rastrellati. Non tutti erano dei campi di eliminazione. Io ero nei campi di eliminazione ma c’era gente che era là a lavorare. In Austria siamo finiti in un asilo ospite; eravamo occupati dentro in un asilo austriaco in una bellissima cittadella di montagna. E lì ci hanno dato la tessera. Invece quando siamo arrivati a Bolzano ci hanno fatto una visita medica sommaria e a Bolzano abbiamo iniziato a vedere gente con le fotografie che cercavano i loro parenti e che chiedevano da dove venivamo e se avevamo visto i loro parenti. E penso che l’amico Esposito ha saputo della fine di suo padre che è stato fucilato in Piazzale Loreto, malgrado lui l’avesse sospettato, però la conferma l’ha avuta a Bolzano proprio al ritorno di quei quindici fucilati in Piazzale Loreto che poi sono stati tirati su per le gambe dai nazisti.

D: Lì a Bolzano ti hanno fatto un certificato di rientro?

R: No a Bolzano non me lo hanno fatto, però me lo hanno fatto a Milano. Ce l’aveva anche Eugenio, me lo hanno fatto in Porta Vittoria. Era un tesserino rosso dove c’era scritto proveniente da Dachau.

D: Quindi te lo hanno fatto lì a Milano.

R: A Milano all’ex sindacato fascista.

Magenes Enrico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Enrico Magenes, nato a Milano il 15 aprile del 1923.

D: Quando ti hanno catturato, Enrico?

R: Mi hanno catturato ai primi di gennaio del ’44, l’8 gennaio del ’44 qui a Pavia, la Guardia Nazionale Repubblicana. Ha arrestato cinque dei membri del primo CLN di Pavia, il sottoscritto, Ferruccio Belli, Luigi Brusaioli, che poi è morto a Flossenburg, Angelo Balconi, che è morto ad Innsbruck, e Alberti, Lorenzo Alberti, che invece è riuscito a rientrare.

D: Scusa, Enrico. Tu sei entrato a far parte del CLN di Pavia quando?

R: Sono entrato subito, subito dopo l’8 settembre. Dicevo, effettivamente a Pavia, è strano che la provincia di Pavia è completamente ignorata, ma a Pavia nel periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si erano più o meno ricostituiti i vecchi partiti.

In particolare anche il Partito Popolare, c’erano ancora alcuni vecchi rappresentanti e a questi ci siamo uniti noi giovani che venivamo dalla gioventù di Azione Cattolica. Devo dire che avevamo avuto un vescovo e dei sacerdoti molto aperti da questo punto di vista.

Uno di questi è ancora vivo, è monsignor Bordoni, che è l’assistente dell’associazione partigiani cristiani, monsignor Carlo Bordoni. E’ Bordoni, no?

Ci hanno arrestato, dopodiché denunciati al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Ai primi di luglio le SS hanno fatto una razzia nelle carceri della provincia pavese, della provincia di Pavia. Sono passati da Vigevano, da Voghera, da Pavia e hanno raccolto i detenuti politici per deportarli, cosa che facevano, come sapete, d’abitudine.

D: Scusa, Enrico. Quando vi hanno arrestato, vi hanno portato nelle carceri di Pavia?

R: Di Pavia, sì.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ci hanno interrogato, ma ci ha interrogato il tribunale di Pavia, il giudice di Pavia. Alle carceri di Pavia eravamo alle carceri, rispetto a quello che ci è venuto dopo ricordiamo sempre le carceri di Pavia come una specie di…

Dopo già il passaggio a San Vittore è stato più difficile, più preoccupante.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Ci hanno accusato proprio perché hanno saputo che si era costituito il primo CLN. Anzi, ritenevano che noi avessimo chissà che organizzazione partigiana dietro le spalle, ma allora sapete anche voi che partigiani, anche nell’Oltrepo’ pavese, ce n’erano assai pochi.

C’erano stati i resistenti, quelli dell’8 settembre, quelli che adesso si stanno recuperando, tipo Cefalonia. Anche da queste parti c’erano dei gruppi di militari che hanno cercato di resistere. Probabilmente saprete di gruppi che hanno cercato di resistere nella Val D’Ossola, nell’alto Verbano.

Però poi sono scomparsi quasi subito, perché i tedeschi… Anche qui a Pavia…

D: Quindi a luglio svuotano le carceri pavesi, di Voghera, ecc. e vi portano?

R: A San Vittore.

D: In che raggio?

R: Nel quinto e nel sesto raggio, è chiaro.

D: Dove c’era Franz?

R: Dove c’era Franz, infatti. Lo ricordo, come ricordo anche il suo cane lupo. Io ho sempre avuto una certa quale idiosincrasia per i cani lupo, perché un cane lupo mi aveva spaventato quando avevo cinque anni. Basta, poi mi era rimasto nella testa che i cani lupo fossero cani…

D: San Vittore, cella d’isolamento oppure eravate tutti insieme?

R: No, cella d’isolamento. Eravamo ciascuno in una cella. Non c’era nessuno in camerata a San Vittore nel quinto e nel sesto raggio.

D: Siete stati di nuovo interrogati?

R: A San Vittore ci hanno semplicemente interrogati i tedeschi, quando siamo arrivati per prendere nota, nome e cognome, professione, da dove venivamo. Io figuravo come studente.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo vent’anni, vent’anni e qualche mese, vent’anni e mezzo.

D: Lì a San Vittore siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino al 17 d’Agosto. Eravamo lì quando hanno fatto l’eccidio di Piazzale Loreto, dopodiché ci hanno deportato. Siamo arrivati a Bolzano in un gruppo di qualche centinaio di persone, adesso non ricordo più bene.

Ricordo che siamo partiti poi da Bolzano, ma prendendo anche qualcuno che era arrivato a Bolzano da Forfoli per esempio, tipo Olivelli, tipo qualcun altro del gruppo di Olivelli.

Da Bolzano siamo partiti il 5 di settembre.

D: Del Lager di Bolzano cosa ti ricordi?

R: Non granché, perché si capiva che era un posto allora di smistamento a differenza di quanto invece poi è successo a Bolzano, dove sono rimasti lì, li hanno fatti lavorare, hanno cercato di farli lavorare.

A quel punto noi passavamo la giornata dentro nelle baracche, potevamo anche andare fuori. Non era una cosa…

D: Vi hanno immatricolati a Bolzano?

R: Ci hanno immatricolato, però non mi ricordo manco più il numero di matricola. Le matricole vere e proprie sono quelle che abbiamo avuto a Flossenburg e poi a Dachau.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi lì a Bolzano?

R: Sì, per esempio ho incontrato lì padre Giacomo Antonio. Anzi con padre Giacomo Antonio e con Olivelli anche abbiamo avuto qualche incontro di commento del Vangelo, lì a Bolzano.

D: Nel campo?

R: Nel campo, sì, nella baracca dove si stava dentro. Non c’era niente di… Ci facevano l’appello, non mi ricordo più, una volta o due al giorno. Olivelli era già stato segnato, aveva il cerchio rosso perché aveva tentato la fuga a Fossoli.

D: A queste riunioni oltre a te, oltre a Teresio Olivelli e a padre Giacomo Antonio partecipavano altri deportati?

R: Sì, qualcuno, quelli più o meno che si potevano conoscere. Però non mi dire riunioni.

D: Incontri.

R: Un paio di volte, un incontro, tanto per dire. Eravamo lì e si poteva pensare a qualche cosa che non fosse solo la questione della sopravvivenza, del mangiare, così come è successo invece a Flossenburg.

D: In tutto questo periodo dalle carceri di Pavia, San Vittore e Bolzano tu hai potuto metterti in contatto con la tua famiglia, i tuoi familiari, scrivere?

R: Sì, certo. Da Bolzano no, abbiamo scritto, ma non credo sia arrivato nulla, non mi ricordo più. A San Vittore e in particolare qui a Pavia c’era il comandante delle carceri che ci aveva trattati in modo particolare. Per forza, eravamo cinque persone molto conosciute a Pavia. Senza essere stati dei malfattori.

D: La giornata del 5 a Bolzano, cosa succede quel giorno?

R: Sveglia presto, partenza sui carri bestiame. Siamo partiti.

D: Vi hanno chiamato?

R: Ci hanno chiamato, l’appello. Io sono finito nello stesso carro bestiame con Olivelli per una questione di alfabeto, Magenes e Olivelli eravamo abbastanza vicini.

D: Ti ricordi il Transport da dove è partito da Bolzano?

R: Lì vicino, mi sembra forse da Gries, non lo so. Non vorrei sbagliare, non mi ricordo che ci abbiano fatto fare del tragitto a piedi molto lungo, non mi ricordo.

D: Il viaggio quanto è durato?

R: Siamo partiti alla mattina presto e siamo arrivati la prima notte, eravamo già in Germania. Siamo arrivati a Flossenburg dopo due notti, due giorni.

D: Sempre chiusi dentro?

R: Sì, sempre chiusi dentro. Ci hanno dato qualche cosa, adesso non ricordo più quando, ci hanno dato qualche cosa.

D: Da bere, per mangiare?

R: Da bere, da mangiare mi sembra.

D: Sul tuo Transport in quanti eravate più o meno?

R: Era pieno zeppo, non so cos’eravamo. Trentacinque, quaranta sul vagone.

D: Tu avevi vent’anni. C’erano delle persone più anziane?

R: Certo. Per esempio, a parte padre Giacomo Antonio, anche tra i compagni del CLN di Pavia con i quali ero stato arrestato. C’era per esempio Luigi Brusaioli, che era più anziano di tutti, era un repubblicano ancora dei tempi del ’22.

Infatti poi è stato quello che è morto subito a Flossenburg alla fine di ottobre. Brusaioli credo che fosse… Se io avevo vent’anni lui ne aveva almeno cinquanta o sessanta.

Alberti lo stesso, Lorenzo Alberti era il rappresentante del Partito Socialista. Anche lui era più anziano di noi.

D: Il Transport, il treno arriva a Flossenburg, alla stazione di Flossenburg e dalla stazione vi fanno salire su al campo. A piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Cinque per cinque?

R: Mi fai delle domande che io non ricordo più. Cinque per cinque, sei per cinque, due per due, non lo so. Probabilmente cinque per cinque. La mia memoria non è ferrea.

D: Quando arrivate dentro nel Lager di Flossenburg cosa succede?

R: Anche qui succedono quelle scene che ti dicevo, cioè ci hanno fatto togliere i vestiti, ci hanno denudato.

D: Questo fuori dalla piazza?

R: Dalla piazza, poi da lì siamo stati messi dentro nel lavatoio per farci pulire con docce al solito, dopodiché ci hanno messo nella baracca 22 0 23, 23 se non sbaglio. Erano le due baracche vicine.

D: Nel blocco di quarantena?

R: Nel blocco di quarantena, che era vicino al blocco di Revier cosiddetto, avevamo lo stesso piazzale dove c’erano quelli ormai sfiniti che non lavoravano più e morivano otto o dieci al giorno.

Quello che effettivamente era impressionante anche per noi era che i cadaveri li mettevano in attesa che passassero quelli a portarli via, li mettevano in una casetta di legno, una costruzione in legno in cui c’erano anche i gabinetti. Li mettevano lì attorno ai gabinetti.

Quindi uno andava al gabinetto e si vedeva lì il mucchio. Alcuni dei quali anche non erano proprio del tutto morti. Belli descrive una scena di questo genere su quell’articolo che è stato pubblicato da Il Triangolo Rosso.

Descrive proprio la scena di un prigioniero russo finito che lui ha visto.

D: Le baracche 22 e 23 erano vicine al muro di recinzione con la garitta?

R: Sì, con la garitta.

D: E aldilà della garitta c’era un avvallamento?

R: Sì.

D: C’era il forno crematorio sotto?

R: Sì. Ecco, qui ci sono diverse fotografie. Ecco, gli orrori di Flossenburg. Ecco qui, guarda. Qui si vede, la 22 e la 23 erano qui in fondo.

D: Certo. Lì nel blocco di quarantena quanto tempo siete rimasti?

R: Siamo rimasti lì praticamente un mese, come durava la quarantena.

D: In questo mese vi hanno fatto l’immatricolazione?

R: Ci hanno fatto l’immatricolazione, infatti. 21648 Belli e la mia era 21600… Chi se lo ricorda più, 21650 mi sembra.

D: 42.

R: La mia era 21642, grazie.

D: Vi hanno dato la zebrata lì?

R: Ci hanno dato la zebrata qui, si capisce.

D: Nell’arco di questo mese cosa vi facevano fare?

R: Come sempre nel periodo di quarantena, cioè alle cinque, a volte anche prima, sveglia, fuori per l’appello. Lì aspettare che passassero le SS per l’appello, tutti infreddoliti ma inquadrati.

Dopodiché, fatto l’appello, ci lasciavano fuori e dato che faceva molto freddo ci riunivamo in gruppi lì alle stufe, le stufe umane. Ogni tanto poi quelli che stavano all’esterno scappavano e andavano a fare…

La giornata passava così. Ci si scambiava qualche idea. La razione era la solita zuppa, alla mattina c’era il tè, c’era la zuppa a mezzogiorno con la fetta di pane. Alla sera tè con la margarina o con qualcosa del genere.

Era ancora allora il momento in cui il pezzo di pane era abbastanza consistente, perché era il pane tedesco, diviso in quattro parti. Poi andando avanti col tempo quattro parti, cinque, sei, sette. Le ultime lì a Kottern erano delle fette, lo stesso pane diviso in otto. Si capisce.

D: Dopo un mese circa lì nel blocco di quarantena?

R: Lì hanno fatto la scelta per la selezione, come facevano sempre, per mandare poi nei lavori. Devo dire che lì io sono stato molto fortunato e devo a Olivelli il consiglio, e poi a Ferruccio Belli, l’aiuto e i suggerimenti, perché alla fine della quarantena è venuto un tecnico della Messerschmitt che veniva dal campo di Kotter.

Volevano degli operai che lavorassero a Kottern, Kottern dipendeva da Dachau, però comunque il trasporto… A questo punto, poiché avevamo più o meno tutti capito che in officina era meno faticoso che lavorare a picco e pala.

Poi ce lo dicevano quelli che erano lì nelle gallerie. Quindi credo che un buon duecento e più ci siamo dichiarati operai. Io che ero scritto come studente come faccio? Lì è stato Olivelli insieme a Belli a suggerirmi: “Beh, tu di’ che eri studente operaio, studente lavoratore”. “Lavoravo dove?”. “Alla Necchi”.

La Necchi era conosciuta allora, conosciuta anche in Germania. Era una fabbrica di macchine da cucire, Singer, Necchi, più o meno erano quelle. Quindi a questo punto mi sono presentato a questo esame, c’era una commissione formata dal tecnico della Messerschmitt, poi c’era l’interprete e c’erano le SS che controllavano. Cosa vado a dire?

D: Ti hanno fatto un esamino?

R: Sì, certo. A tutti, per scartarne, per tirarne fuori ottanta dei duecento o trecento che si erano presentati. Devo dire che lì mi è stato utile il suggerimento di Ferruccio Belli, perché gli ho detto: “Ma scusa, Ferruccio, io cosa vado a dire?”. Se mi dicono se faccio il piallatore, faccio il fresatore io non ho mai preso in mano niente. Lui mi ha detto: “Guarda, di’ che hai fatto il tracciatore, l’anglaiser, perché effettivamente l’anglaiser dal punto di vista manuale ha da fare poco”.

E’ quello che col martelletto e col bulino segna sui pezzi, per esempio, non so, i pezzi di acciaio, le linee lungo le quali devono lavorare le frese, le pialle, i torni, tirandole fuori da un disegno di macchine. A quei tempi i matematici studiavano geometria descrittiva con elementi di disegno, adesso non più. Quindi geometria descrittiva con elementi di disegno, effettivamente sapevo leggere un disegno di macchina, che era una cosa abbastanza semplice.

Ho risposto anche con quel poco di tedesco che mi avevano insegnato e che ancora ricordavo, adesso non ricordo più niente. Questo subito era un fatto, perché bypassare l’interprete per i tedeschi era già un modo col quale si dimostravano più attenti.

Non c’era niente di peggio di dire: “Non capisco”, a quel punto lì ti legnavano. A quel punto sono stato fatto abile e sono finito insieme a Belli a lavorare a Kottern, nell’officina. Lavoravamo lì nell’officina vicino, dove anche Esposito…

D: E Eugenio?

R: Certo.

D: Per il viaggio da Flossenburg a Kottern vi hanno caricati sul treno?

R: Ci hanno caricato tutti in treno, mi ricordo che siamo arrivati là… Ci abbiamo messo una notte, una notte e un giorno.

D: A Dachau non vi siete fermati?

R: Si è fermato passando il treno, si è fermato, ma non ci hanno fatto uscire. A quel punto noi eravamo sotto Dachau, infatti a quel punto la mia matricola è diventata 116364, una roba di questo genere, non me lo ricordo più.

Non so se qui c’è. Ma tu come facevi a sapere la mia matricola lì?

D: Di Flossenburg perché è sul…

R: Ah, ho capito.

D: Poi sul libro di Italo Tibaldi.

R: Sì.

D: Compagni di viaggio.

R: Ho capito.

D: Quindi siete arrivati lì nel sottocampo di Dachau.

R: Sì, a Kottern.

D: Vi hanno messo a lavorare in una fabbrica?

R: Il sottocampo conteneva circa, non so, un migliaio di prigionieri di tutti i tipi, prigionieri politici, anche qualche prigioniero comune. Vivevamo in baracche lì nel campo.

Poi ci portavano, c’erano i turni di dodici ore. Ci portavano alla mattina o alla sera a seconda del turno nella fabbrica a Messerschmitt, che era lì vicina. Sarà stata ad un chilometro di distanza. Dove ciascuno di noi faceva il lavoro che gli facevano fare.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì, c’erano anche dei civili. Non solo civili tedeschi, per esempio anche lì siamo stati fortunati io e Ferruccio Belli, perché il civile tedesco che comandava il nostro gruppo di tracciatori, tutto sommato non ci ha mai molestato.

Ci lasciava anche un poco chiacchierare tra di noi. C’era con noi nello stesso gruppo anche l’ingegnere Miorin di Milano, che era il capo dei vigili del fuoco di Milano. Era stato arrestato anche lui, poi è riuscito a sopravvivere e tornare. Ormai adesso è morto.

C’erano anche dei civili, dei lavoratori italiani, quei lavoratori che erano stati obbligati ad andare a lavorare in Germania. Lì però erano liberi, nel senso che avevano lo stipendio e andavano ad abitare per conto loro.

Però li avevano obbligati ad andare a lavorare lì.

D: Quindi voi in base al turno che facevate uscivate dal Lager, facevate questo percorso a piedi di circa un chilometro, arrivavate in fabbrica e finito il turno tornavate al campo?

R: Tornavamo indietro, sì.

D: Il lavoro era sei giorni o sette giorni?

R: Era su sei giorni, la domenica eravamo lì nel campo.

D: Questo fino a quando è durato?

R: Fino alla fine della guerra. Adesso qui per le date bisognerebbe che andassi a vedere quello che mi sono scritto. Mi sembra che il 24 di aprile o il 23 di aprile hanno dato l’ordine di evacuare il campo.

Questo è stato un discorso che più o meno i tedeschi hanno fatto sempre man mano che si avvicinavano, così com’è successo ad esempio ad Auschwitz, Birkenau, la famosa camminata dove è morta un’infinità d’ebrei.

Anche a noi ci hanno obbligati a uscire e ci hanno indirizzati da Kottern, l’indirizzo era andare verso Innsbruck, ritirarsi dietro. Siamo arrivati dopo tre giorni e tre notti, siamo arrivati alla periferia di Fronten, che è una cittadina sotto Kottern nella direzione da Kottern verso la Svizzera.

Siamo arrivati lì alla sera. A un certo momento le SS di scorta sono scomparse. Ci siamo trovati lì. Devo dire che lì sempre per consiglio delle persone più anziane, tipo lo stesso Ferruccio, in un gruppetto tra italiani e francesi abbiamo detto: “Cosa facciamo?”.

“Andiamo come fanno tutti, che si sono precipitati dentro nel paese per cercare di mangiare, o stiamo qui ad aspettare che arrivino gli americani? No, stiamo qui”. Abbiamo passato una notte dentro in un bosco alla periferia di Fronten.

Alla mattina a un certo momento abbiamo sentito che arrivavano dei carri armati lungo la strada, siamo andati fuori. Io mi ricordo ancora, è un fatto che rimane in testa, che il carro armato in testa, noi siamo corsi incontro, si vede che avevano già avuto notizie, perché venivano da sopra, dell’esistenza di prigionieri politici.

Noi a salutare festosamente, il militare che era sulla torretta si è tolto l’elmetto in segno di saluto. Questo me lo ricordo. Dopodiché ci hanno portato a Fronten.

D: Il vostro gruppetto è rimasto lì?

R: Sì, poi siamo andati dentro anche noi.

D: Ma dico la notte, Eugenio e Gibillini?

R: E’ andato invece.

D: Sono andati, hanno tentato la fuga, sono scappati, no?

R: Sì, Eugenio…

D: Con Gibillini, con Venanzio.

R: Non lì, non in quell’occasione. Lì non è scappato nessuno.

D: Sono rimasti anche loro con voi? Non ti ricordi?

R: Non vorrei giurare, però non mi sembra. Nessun ha tentato di scappare, che ricordi io.

D: Tutta la marcia da lì l’avete fatta a piedi naturalmente?

R: Sì. Ci facevano viaggiare di notte, di giorno ci mettevano alla periferia accanto alle strade a dormire lì nei boschi.

D: Il ritorno com’è stato?

R: Il ritorno è stato avventuroso, perché siamo stati fessi noi che abbiamo cercato da lì di dire: “Visto che siamo vicini alla Svizzera, andiamo in Svizzera che ci accolgono”.

Siamo arrivati in Svizzera, dopo quindici giorni ci hanno fatto entrare. In Svizzera ci hanno trattati bene, chiaro. Siamo stati nei campi di concentramento che avevano lì per i prigionieri italiani.

Però siamo entrati in Svizzera per ultimi, siamo usciti per ultimi. Siamo usciti dalla Svizzera il 25 di Luglio. Sono quelle cose che…

D: Siete usciti da dove dalla Svizzera?

R: Noi eravamo finiti in Svizzera da Bregenz St. Margrethen, lago di Costanza in sostanza. Da lì dopo qualche tempo ci hanno portato a Ginevra e ci hanno tenuto a Ginevra, in una scuola che avevano adibita a campo per i profughi italiani.

Siamo stati lì praticamente fino al periodo che ho detto, siamo arrivati lì. Lì in un primo momento non riuscivamo a comunicare con le famiglie, perché c’era la frontiera chiusa.

Dopo un mese e più siamo riusciti a comunicare, almeno sono venuti a sapere che eravamo vivi.

D: Lì c’era la Croce Rossa che vi dava assistenza?

R: Dove, in Svizzera? Sì, mi sembra che erano gli svizzeri, però probabilmente era la Croce Rossa.

D: Poi sei arrivato a Milano?

R: Poi siamo arrivati a Milano passando attraverso Domodossola. L’abituale tragitto.

D: Sei arrivato a casa quando?

R: Sono arrivato a casa la sera di quel giorno, cos’era? Il 25, il giorno in cui sono arrivato. Il 25.

D: Luglio?

R: Sì. Sono venuti a prenderci a Milano.

D: Chi eravate, tu, Belli?

R : Io e Belli di Pavesi.

D: Gli altri?

R: Brusaioli è morto subito a Flossenburg, come vi dicevo, che era quello che era meno… Alberti invece non è venuto con noi a Flossenburg da Bolzano, è stato a Buchenwald e lì è riuscito a resistere, nonostante avesse già una certa età.

Era una persona serena, una persona molto forte, robusta dal punto di vista fisico. E’ riuscito a rientrare. Invece Balconi è morto a Hersbruck, dove è andato.

D: Dopo lì con Teresio Olivelli ti hanno diviso?

R: Sì, alla fine della quarantena proprio. Anzi, devo dire che io stesso avevo detto ad Olivelli: “Scusami, perché non ti spacci un po’ anche tu?”. Perché Olivelli sapeva benissimo il tedesco, faceva da interprete, quindi se avesse voluto seguire il reparto meno pericoloso, che era il nostro, probabilmente lo avrebbero in qualche modo preso.

Invece ha voluto lui proprio scegliere di stare insieme al grosso degli italiani. Del gruppo nostro di ottanta siamo tornati il 70% credo, siamo tornati quasi tutti relativamente. Mentre dell’altro gruppo sono tornati pochissimi.

E’ tornato Cognasso, l’avete mai sentito nominare? No? Sono tornati pochissimi. Olivelli, che aveva un fisico veramente atletico, di ferro, è morto nel gennaio del ’45.

D: Di quel gruppo è tornato Vittore Bocchetta…

R: Sì, che è venuto qua a Pavia proprio a ricordare. Infatti ci siamo incontrati, però naturalmente né io mi ricordavo di lui né lui si ricordava di me, perché eravamo lì in mezzo a…

Anche lui è stato uno dei pochi che sono tornati. Bocchetta l’avete incontrato anche voi? E’ venuto qua quando c’è stata quella giornata dedicata ad Olivelli. Adesso basta perché non sono più due minuti.

D: L’ultimo nanosecondo, la dislocazione qui a Pavia delle truppe germaniche, delle SS dov’era?

R: Qui a Pavia città?

D: Sì, non c’era?

R: Sì, certo che c’era. T’avevo detto, credo, che l’8 settembre un gruppetto di giovani sia dell’Azione Cattolica, sia laici ci eravamo trovati la sera dell’8 settembre in Piazza Re di Sole e avevamo coraggiosamente, ma proprio stupidamente stillato un manifesto in cui invitavamo gli universitari, gli studenti pavesi a resistere ai tedeschi, come in sostanza aveva detto il comunicato di Badoglio.

Siamo andati ad appiccicarlo proprio fuori dall’università, dopodiché a questo punto la fortuna ha voluto che il bidello dell’università, il famoso bidello che era anche amico di Freccaro, che ci conosceva bene, ha pensato bene nottetempo di tirarlo via.

La mattina dopo siamo andati in un gruppo alla caserma che c’è in fondo a Porta Garibaldi, la caserma che c’era lì a sinistra, Distretto Militare Romero. Siamo andati lì in un gruppo di ragazzi dicendo: “Siamo qui disposti se volete”. Il colonnello ci ha detto: “Non vi preoccupate, abbiamo tutto sotto controllo noi”.

Dopo un paio di ore è arrivato non so se un plotone o una compagnia, saranno stati in tutto cinquanta tedeschi, hanno occupato la città, chi s’è visto s’è visto. Naturalmente i militari se ne sono scappati, avevano tutti i motivi per scappare.

D: Questi tedeschi dove si sono insediati?

R: Qui?

D: Sì.

R: Si sono insediati un po’ dappertutto nelle caserme. Mi ricordo lì al Distretto Militare.

Militello Rosario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Militello Rosario, sono nato nel 1925 a Piazza Armerina, provincia di Enna. Di famiglia molto povera e molto numerosa.

All’età di 5 anni andavo a lavorare, andavo a raccogliere le nocciole, essendo Piazza Armerina un produttore di nocciole e mandorle, sicché si finiva di andare a scuola e si andava a cogliere le nocciole poi le mandorle e poi quando finiva la stagione si ritornava a scuola.

Comunque andiamo un po’ avanti per stringere. All’età di 14 anni lavoravo nelle miniere di zolfo di Grottacalda, a 14 anni. Lì avevo sempre paura perché continuamente scoppiava il grisou e faceva molte vittime.

Mio padre era un calzolaio che faceva le scarpe nuove, era proprio calzolaio artigiano, però non poteva avere un posto di lavoro perché non pagava la tessera fascista. Eravamo sette figli, man mano che si andava avanti eravamo in tre che andavamo a scuola. Gli altri erano ancora piccolini perché dovevano raggiungere l’età per andare a scuola.

Noi che eravamo in tre si pagava la pagella, la pagella costava una lira. Poi si pagava la tessera, la tessera costava cinque lire. Sicché cinque e tre facevano otto, e per guadagnare otto lire a uno toccava lavorare, se aveva la fortuna di poterle guadagnare. Sicché non poteva, non si pagava la tessera perché ogni volta che si parlava a mio padre di tessere… Tanto più che mio padre era una ex guardia regia. Allora si entrava nella guardia regia anche con la terza elementare. La guardia regia fu sciolta proprio da Mussolini.

Mio padre e suo zio, che erano tutti e due della guardia regia, al momento dell’occupazione di Roma da parte dei fascisti a Piazza del Popolo riuscirono a fuggire e se ne andarono in Francia, emigrarono in Francia.

Però mio padre era purtroppo troppo mammolino perché era figlio unico: è stato in Francia per qualche anno, dopo è ritornato a Piazza Armerina. Avevamo il podestà che era un fascista. Il podestà allora era il sindaco di oggi ed aveva tutto il potere nelle mani, del paese.

Questo sapeva che mio padre era qui e non pagava la tessera, non aveva diritto; per farci vivere si arrangiava anche a riparare le scarpe invece di farle nuove.

Così se lui non riusciva noi non potevamo avere niente. Pensate che davano la refezione scolastica a quelli che erano un pochettino in condizioni disagiate. A noi non davano la refezione scolastica, eravamo io e mio fratello, quello più grande di me, perché? Perché non pagavamo la tessera.

Fortunatamente nella cucina ci stavano due donnette di buon cuore: invece di darci la minestra insieme agli altri ragazzi ce la davano di nascosto, e riuscivamo ad avere… Perché noi avevamo fame, a casa non è che avevamo tanto.

Insomma, andammo avanti e lavoravo nelle miniere di zolfo. Avevo tanta paura, tanta paura che un giorno ho deciso: Adesso me ne vado via di casa”. Avevo 14 anni, e me ne vado via, dove? A Torino. Difatti me ne sono andato via, ho preso il treno e me ne sono andato a Torino. A Torino ho trovato lavoro in una fabbrica dove c’era una fonderia, ed ho lavorato nella fonderia. Questo è stato nel ’39. Nel ’40 c’è stata la dichiarazione di guerra. Mio padre dal podestà fu chiamato, non doveva fare il militare perché aveva prima di tutto famiglia numerosa, e poi aveva già una certa età, e lo sbatterono in Africa. Difatti alla prima ritirata di Montgomery fu preso prigioniero, lui e tutta l’armata italiana, portata via.

Io sono andato a Torino, ho lavorato con questa ditta; a Torino c’erano fabbriche piccole che fondevano il metallo e noi si lavorava lì. Lì ho cominciato a respirare, prendevo trentasei lire alla settimana ed erano dei bei soldini.

Comunque, andiamo avanti: c’è la dichiarazione di guerra. Comincia la guerra, mio padre parte. A Torino c’erano dei bandi emessi dal Ministero dell’Aeronautica, dove dicevano che chi voleva andare ad imparare un mestiere poteva andare nell’aeronautica.

Io sono andato in Aeronautica, ho fatto la domanda, tutto, mi hanno preso, e facevo la scuola aeronautica alla Dalmazzo – Birago a San Paolo. Avevo allora, è stato alla fine del ’42, avevo già 16 anni, qualcosa così, ed ho cominciato a studiare.

Purtroppo gli interventi della guerra andavano sempre peggio, bombardamenti da tutte le parti insomma, gli americani erano scesi in guerra per aiutare anche la Francia.

Arrivato l’8 settembre del 1943 io stavo sempre sotto le armi; alla caduta di Mussolini c’è stata una grande manifestazione a Torino. Vicino a Piazza Maria Vittoria ci stava la sede del Partito Fascista, lì c’era l’emblema, mi ricordo ancora, e fecero cadere tutto il fascio. Comunque è venuto questo 8 settembre e l’esercito si è sfasciato. Sicché noi non sapevamo dove andare, noi meridionali che eravamo su in alta Italia siamo rimasti imbottigliati, e non sapevamo dove andare. Essendo settembre, il mese della vendemmia, molti di noi furono presi dai contadini, perché i contadini avevano i figli che stavano a fare la guerra, e c’erano soltanto i contadini anziani. Sicché noi li abbiamo aiutati a vendemmiare e tutto.

Quando è arrivato ottobre-novembre del ’43, vicino all’inverno insomma, e si era fatta la semina, si era fatto tutto, si preparava il terreno per il ’44, Mussolini aveva rifatto la Repubblica Sociale. Emisero dei bandi nei quali dicevano che dovevamo andare in servizio o saremmo stati passati per le armi come disertori.

Quello ci aveva messo paura, noi altri non si sapeva come fare, i meridionali, volevamo andare via. Di fatti alla famiglia dove stavo io dicevo: “Signori io vado via” “Ma no stai qui, stai qui”. “Va bene”, sono stato lì. Con insistenza perché avevano bisogno anche loro del lavoro; aiutavo, anche non sapendo fare il contadino li aiutavo e facevo il contadino.

Ad un certo punto tra marzo ed aprile del ’44 la Repubblica Sociale aveva preso una bella consistenza. Allora che cosa succedeva? Succedeva che loro andavano tramite le spie, giravano, eravamo a Nizza, nel paesetto piccolo di Castel Boglione vicino a Nizza Monferrato. Si erano cominciate a formare delle formazioni partigiane su per le montagne. La Repubblica Sociale già si era così formata bene, aveva le spie a cui tutti andavano a dire quello che facevano. Un giorno nel mese di febbraio o marzo mi sembra, i contadini avevano una sorgente d’acqua circa un chilometro lontano dalla casa dove abitavano, avevano cinque vacche, ed avevano fatto una specie di slitta con una botte grossa con cui si andava a prendere l’acqua e poi si dava alle mucche, si faceva la pulizia, si pulivano le stalle e tutto.

Un giorno andando a prendere l’acqua, avevamo già riempito la botte, sentiamo sparare. Allora ci siamo messi paura. Con me c’era una nipotina di questo contadino e si è messa paura anche lei. Poi sentivamo strillare, da lontano sentivamo gli strilli perché loro avevano organizzato di andare casa per casa dai contadini dove trovavano quelli come noi, sbandati, che non si erano presentati, li prendevano, li arrestavano. Io non ho avuto la disgrazia di cadere nelle loro mani, non so perché.

Sapevo che tanti di questi qui venivano uccisi, dopo, sia perché scappavano sia perché li avevano arrestati.

Così io non mi sono mosso dalla sorgente ed ho detto alla bambina, si chiamava Luciana: “Luciana, vai a vedere che cosa è successo”. La bambina, io intanto stavo lì ad aspettare con questo bue, un toro era non un bue, va lì e vede che piangevano il nonno con la nonna, gli avevano dato un sacco di botte perché volevano anche me. Non me come personalità o cosa, ma perché sapevano che ero uno sbandato ed allora volevano che facessi… O mi volevano uccidere o volevano che facessi il militare con loro. Non lo so perché. Infatti questi avevano preso delle botte.

Vedendo questo io ho detto: “Senta Signora Assunta” si chiamava Assunta “mi dispiace che voi abbiate preso le botte per colpa mia, vuol dire che adesso me ne vado.” “Ma no, non te ne devi andare via perché devi stare qui…” “Però vede, se mi prendono questi mi ammazzano”. Avevo saputo che a circa dieci, dodici chilometri c’era una formazione partigiana che si era formata, ho detto: “Io me ne vado con i partigiani, vado a vedere”.

Così sono andato. Poi ce n’erano anche altri, calabresi, ci siamo riuniti in tanti e siamo andati con questa formazione.

Siamo andati su, ci siamo presentati al comandante che era un comunista. Allora ho detto: “A noi è successo così e così”, dice “Bene, bene, così infoltiamo”, però non avevamo armi. Le armi ce le avevano fatte buttare via dopo l’8 settembre, non è che abbiamo trovato un comandante che dice “Mettiamoci le armi da parte per un domani che non sappiamo”.

Così è cominciata la guerra partigiana. Abbiamo cominciato la guerra partigiana, si facevano delle sortite, e si moriva l’uno e l’altro, sia i fascisti sia noi. Lì c’era la Brigata Nera Ather Capelli, erano dei fascisti, quelli criminali. Non facevano prigionieri fra i partigiani, li ammazzavano subito sul posto.

Alla fine di settembre del ’44 cominciarono a fare i rastrellamenti in grande stile, perché noi altri eravamo sempre in minoranza, non avevamo tante armi, invece loro ci seguivano con una cicogna che veniva a bassa quota e vedeva tutti i nostri spostamenti.

Per nostra sfortuna siamo capitati sotto questi fascisti. Comandavano i tedeschi e avevano bisogno di manodopera, anche loro avevano tutta la gioventù che stava a fare la guerra, chi stava in Russia chi in Italia.

Si vede che avevano avuto l’ordine di non doverci uccidere. Ci hanno preso, ci hanno impacchettato bene bene, ci hanno chiusi in certe auto…

D: Scusa Rosario, dove vi hanno arrestato? Dove vi hanno preso?

R: Adesso lo dico. Era tra la provincia di Asti e la provincia di Cuneo, nelle Langhe. Io mi ricordo, ho guardato sempre le montagne sulla carta geografica, comunque mi ricordo ancora che vicino avevamo Santo Stefano Belbo, avevamo Canelli. Mi sembra che la montagna fosse il Monte Rosso, penso sia questo, dovrebbe essere il Monte Rosso. Insomma ci hanno rastrellato e ci hanno preso, ci hanno portato dentro degli autobus e ci hanno portato a Torino. A Torino ci hanno portato alle Carceri Nuove.

D: Questo quando?

R: L’ho detto, verso la fine di settembre del ’44, primi di ottobre, una cosa così.

D: In quanti eravate quando vi hanno preso?

R: Eravamo in tanti, perché erano parecchi gli autobus chiusi ermeticamente; in ogni autobus c’era un tedesco che aveva un cane, un pastore tedesco, che ci guardava bene. Allora ci hanno portato in questo carcere. Ci hanno chiuso in una cameretta, una cameretta di queste carceri, c’era una brandina con delle catene che si teneva sul muro e c’era un ergastolano. Ci hanno messo con quest’ergastolano.

L’ergastolano quando ci ha visto… La cella era tutta sua, poi in un angolino c’era un piccolo… per lavarsi, e poi c’era un rubinetto che buttava continuamente l’acqua a fil di spago. Sotto il lavandino ci stava la tazza per fare i bisogni.

Pareva che avessimo colpa di esserci presi tutta la cella per noi. Invece dormivano per terra perché non c’erano letti e lui dormiva nella branda. Sicché ci dava qualche schiaffone, ci dava dei calci, noi eravamo ragazzi, che dovevamo dire? Se la prendeva con noi.

Comunque in questa cameretta dormivamo, come ho detto prima, in una ventina, tutti per terra, senza pagliericcio, senza niente.

Ci siamo stati parecchio, eravamo in tanti e i tedeschi cercavano il comandante, la personalità, sicché ci facevano inchieste, interrogatori. Però noi meridionali, non si sapeva, conoscevamo le persone ma mica sapevamo, non sapevamo niente. Io sapevo soltanto che il comandante dove stavo io era uno che era stato vent’anni in galera all’isola di Ponza, ce lo diceva sempre. Sicché era molto arrabbiato di quello che aveva passato, ed era molto arrabbiato con i fascisti che ci venivano…

Così siamo stati lì quasi un mesetto, loro hanno fatto le selezioni da dentro, volevano sapere le persone che mansioni avessero, chi comandava. Ma noi altri eravamo all’oscuro di tutte queste cose perché a noi dicevano: “Guarda, domani passa un treno e dobbiamo andare a prendere…” Molte volte ci è andata male, molte volte ci è andata bene.

Una cosa volevo ricordare, forse in Italia nessuno lo dice. Avete sentito la Anselmi una volta? Lei era una staffetta, non so se la conoscete. Nessuno ha scritto del valore delle ragazze che facevano le staffette, facevano chilometri, le corse, ci avvisavano continuamente: “Arrivano i tedeschi, arrivano i fascisti, mettetevi in guardia”, tutte queste cose.

Che sappia io non ho visto niente, mi è dispiaciuto parecchio, potevano fare un bello scritto di queste ragazze perché molte sono morte, sono morte.

Comunque siamo stati lì parecchio. Verso i primi di ottobre ci hanno trasferito a Bolzano. Siamo andati a Bolzano, anche lì c’era un campo molto pieno di prigionieri, però ancora non avevamo la divisa dei prigionieri deportati. Tanto più che noi non sapevamo neanche che cosa fosse.

Era in una baracca di Bolzano dove stavano facendo un tunnel. Avevamo i pagliericci, erano tutti di paglia, invece questi li avevano riempiti tutti di sabbia. Allora sentendo gli altri che stavano prima di noi lì avevamo paura: “Questi ci acchiappano qualche giorno e faremo una brutta fine”.

La fortuna mia e di qualche altro, venti o trenta, è che ci hanno trasferiti da questa baracca ad un’altra. Lì c’è stata un po’ di liberazione. Dopo abbiamo saputo, quando stavamo a Mauthausen, che hanno trovato quelli che avevano organizzato il tunnel, mi pare che li hanno fucilati, pure. Allora ci hanno mandati in un’altra baracca e siamo rimasti lì in questa baracca. Poi c’è stato il trasporto a Mauthausen, dove le date sono un po’…

D: A Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, non ce l’hanno data la matricola.

D: E tu sei rimasto a Bolzano più o meno quanto tempo?

R: Posso dire una mesata, così, perché siamo arrivati a Mauthausen alla fine di novembre, e faceva molto freddo. Sono un po’ in discussione queste date perché è passato molto tempo e non mi ricordo. Comunque un giorno ci hanno preso, ci hanno…

D: Scusa ancora, Rosario, non sei mai uscito dal campo di Bolzano?

R: No, no.

D: Siete rimasti sempre dentro nel campo?

R: Sì, sempre nel campo siamo rimasti.

D: Fino a quando vi hanno chiamati…

R: Ci hanno chiamati, ci hanno messo in fila, ci hanno portati alla stazione di Bolzano, e ci hanno fatto entrare dentro questi vagoni. Non ci hanno dato né pane né acqua, niente. Ci hanno chiusi ermeticamente, e poi questo treno si è avviato. Non sapevamo dove andasse.

Arrivati, io penso fosse Innsbruck ma non sono sicuro, gli americani bombardavano il nodo ferroviario tra l’Austria e Monaco. Allora hanno preso il treno e l’hanno messo su un binario morto e ci hanno lasciato lì tutta la notte. Avevamo fame, non ci avevano dato niente, battevamo su questo vagone, che poi era un treno, non so quanti eravamo, dieci o undici vagoni, in ogni vagone c’erano sessanta persone, perciò pensa un po’… Stavamo stretti l’uno vicino all’altro, piangevamo come bambini. Non sapevamo che fare.

Poi gli americani hanno finito di bombardare. Il giorno dopo verso mezzogiorno o l’una, ma il tempo ormai non potevamo più misurarlo perché eravamo stanchi tutti, qualcuno aveva l’orologio e si guardava l’orario, ma non sapevamo più, eravamo diventati proprio dei …, siamo arrivati a Mauthausen, o verso pomeriggio, sarà stato l’imbrunire, c’era un freddo tremendo. Ci hanno fatto scendere, eravamo tutti sporchi di tutte le nostre scorie. Ci hanno messi in fila con dei cani da una parte e dall’altra, e ci hanno fatto attraversare questo paesetto in ordine, molto pulito, persone molto per bene stavano lì, passavamo noi ma nessuno ci diceva niente.

Dalla stazione ad andare a Mauthausen, al campo, ci sono circa quattro, cinque chilometri, non lo so. Pensate un po’, stanchi come eravamo, stanchi dovevamo salire, ed ancora non sapevamo che cosa ci attendesse.

Saliamo questa collina e da lontano vediamo il primo muro. C’era un bel portone con un’aquila con la svastica che quest’aquila teneva con le zampe. Era fatta così bene.

La parte dentro invece era un luogo di morte. Entriamo e vediamo tutti gli altri prima di noi, tutti smagriti, i morti per terra, le botte che davano e lì abbiamo cominciato a dire: “Signore mio, qui che cosa si fa?”

Allora uno ci ha detto: “State attenti, siete entrati di là ed uscirete da lì” ci disse. Vicino a noi c’era un avvocato, era di Nizza Monferrato, preso prigioniero anche lui. Questo era il più grande di tutti noi perché aveva fatto la prima guerra mondiale ed era stato prigioniero a Mauthausen, poi è morto a Gusen. Pensate poveretto, prigioniero nella prima guerra mondiale, portato a Gusen e poi è morto perché era anziano. Allora ci disse: “Cari ragazzi, da qui non si esce più.”

Ci fecero spogliare nudi, ci levarono tutto. La Kopfstrasse. Ci fecero andare sotto lì dove c’erano le docce, siamo entrati lì, ci buttarono subito l’acqua calda, bollente, sul corpo. Gli strilli che facevamo… Non so, li avete visti? Io e qualche altro, siccome nelle docce buttavano in mezzo l’acqua cercavamo di andare ai lati … invece questi ci spedivano di là.

Poi dopo la calda quella fredda, gelata, e questo si è fatto per quattro o cinque volte. Finito questo usciamo, c’era una porticina e c’era uno con un prigioniero che teneva un secchio, dentro questo secchio ci stava la creolina, e ci disinfettavano sotto le ascelle, qua sotto. Il bruciore che ci dava questa creolina! La creolina bruciava gli insetti, si pulivano le stalle. Poi dopo tutto questo ci diedero la divisa con il numero di matricola, ci dettero tutto.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 115.615.

D: Ascolta, oltre al numero vi hanno dato…

R: Il triangolo rosso, la matricola qui, era con il fil di ferro, e poi c’era un pezzetto di alluminio con impresso il numero. Però questo numero sarà stato di qualche altro, perché era arrugginito, i pantaloni miei erano pieni di sangue sulla sinistra, perché loro non è che bollivano, quando uno moriva gli levavano la divisa. Sa il ribrezzo che ho passato pure io a vedere quell’affare là? Dopo ci hanno mandato al blocco, al blocco n. 20 mi pare, perché dietro ci stavano gli altri che morivano diversamente. Siamo stati lì penso cinque o sei giorni, sette giorni, dieci giorni, adesso non lo so.

Un giorno ci hanno chiamati, eravamo una trentina, ci hanno messi in fila, ci hanno fatto uscire dal campo, e non ci hanno portato lì dalla scala della morte, ci hanno fatto fare un giro in largo.

Siamo arrivati in uno spazio, c’erano trenta o quaranta morti per terra, moribondi, e ce li hanno fatti caricare sulle spalle, ognuno si caricava il suo. Quello che portavo io ancora rantolava, aveva preso una pietra. Però loro che cosa hanno fatto? Dove c’era la scala della morte c’è il piazzale, l’hanno levato da lì e l’hanno portato in quell’altro piazzale di dietro, non l’abbiamo vista la scala della morte. Noi non abbiamo dovuto salire sulla scala ma ci hanno riportato dalla strada attorno attorno che gira con il viottolo e ci hanno fatto risalire su.

Quando siamo ritornati in baracca piangevamo. C’erano pure gli spagnoli: “Avete visto la scala della morte?” Noi abbiamo detto: “Quale scala della morte? Noi non abbiamo… Che cos’è la scala della morte? No, ci hanno portato dall’altra parte.” Non sapevamo neanche di questa scala, io non l’avevo vista, capito?

Comunque abbiamo preso poi questi e li abbiamo portati dietro i crematori. Noi dentro i crematori non si poteva entrare perché c’era quello all’interno; si lasciavano davanti, li prendevano loro e li portavano dove li dovevano portare.

Siamo ritornati in baracca. Siamo stati in baracca. Stringiamo ancora. Passa il tempo e da Mauthausen a piedi ci portano a Gusen. Facciamo la strada, eravamo in parecchi, e si passa da Gusen 1.

A Gusen 1 si sta un’oretta o due, c’erano quelli che dovevano rimanere a Gusen 1, poi dopo hanno preso quelli che erano rimasti e ci portano a Gusen 2. Arrivati a Gusen 2 a me mettono nel blocco n. 5. Di lì comincia la nostra odissea. Morti continuamente. A Gusen 2 non avevamo i crematori perché quelli che dovevano essere cremati si portavano a Gusen 1 dove c’era il crematorio.

Lì comincia la nostra odissea. Alla mattina sveglia alle quattro sulla piazza del campo, ci contavano. Ci chiamavano Stück, dicevano Stück, Stück. Ci contavano, ci preparavano, c’era un trenino che ci portava, era lontano dove si andava a lavorare. A mano a mano che si entrava la mattina, dopo un’ora e mezza con quel freddo, con quella divisa senza nessuna protezione: quello che avevamo addosso non ci proteggeva il corpo, niente.

Il freddo a 24/25° sotto zero. Poi ad uno ad uno quando ci avevano contato ci facevano entrare sul trenino. A mano a mano che si entrava ci davano un pezzetto di pane, una fettina. Si entrava con questo pane, pane nero, non sapevamo neanche di cosa fosse fatto, e si andava via, a lavorare.

Mi misero in un reparto che si chiamava Platz planieren: allungavano le gallerie per mettere altre fabbriche, perché lì facevano gli scheletri del V1 e V2 dei missili. Allora si allargava sempre.

Sicché mano a mano che si facevano le gallerie io facevo organizzare le linee con i vagoni, si metteva la terra dentro e poi si portava fuori e si scaricava. A mano a mano che si allungava si saliva sopra la montagna dove c’era un deposito di rotaie che stavano messe l’una sopra l’altra.

Quando c’era bisogno di venti, trenta di queste eravamo in dieci, dodici, ce le caricavamo sulle spalle e le portavamo giù, si allungava la linea man mano che si andava avanti.

Prendendo le rotaie, c’era la neve alta in mezzo alle rotaie ed aveva creato un vuoto sotto: pensate che c’era la cicoria, certa cicoria alta, tutta la prendevamo! La prendevamo e ce la mangiavamo così, cruda com’era. La mettevamo dentro al petto. La cicoria fa latte, sicché questo latte ci si attaccava addosso, ci faceva bruciore. Comunque mangiavamo la cicoria, ma certo questo non succedeva tutti i giorni. Per ritornare a prendere altre rotaie dovevi aspettare quindici, venti giorni, in modo che si facesse un altro po’ di spazio, e non è che si potesse fare tutti i giorni. Perciò la fame c’era sempre.

Quel giorno per noi era festa perché ce la mettevamo pure sotto i piedi per nasconderla: c’erano i tedeschi e non ci dovevamo far vedere a prendere questa cosa. Così tutti i giorni.

Si andava a lavorare dodici ore al giorno. Alla sera quando si usciva, praticamente lì era un posto di lavoro, ma era guardato dalle guardie, c’erano le torrette, c’era tutto, perciò non si poteva fuggire, ci contavano: doveva essere la stessa somma che era uscita la mattina. Invece quando era sera mancavano sempre cinquanta, sessanta persone, settanta, dipende.

Allora che cosa si faceva? Si entrava di nuovo per andare a cercare questi che mancavano, e si trovavano quelli moribondi e quelli già morti. Perché ormai quando si lavorava non è che ci interessassimo se uno era morto, cadeva e non sapevamo. Noi ormai avevamo perso il lume della personalità, non avevamo più un interesse. Tra noi non c’era più neanche comunicazione perché eravamo ad un tal punto, ridotti come eravamo.

Fatto sta che alla sera toccava andare dentro, si portavano i morti, quelli vivi li avevano contati, si contavano i morti, combaciavano con il numero? Si caricavano sul trenino e si portavano via, di nuovo al campo.

Noi altri vivi ci mettevamo in fila e ci ricontavano quanti eravamo rimasti. C’era un momento in cui non funzionava più il crematorio, c’era una grande baracca dove c’erano i tubi dell’acqua, dove si andava a lavarsi. Tutti questi morti venivano messi attorno ai tubi e si mettevano l’uno sopra l’altro, a cataste. Sicché non avevamo neanche più voglia di entrare là dentro, vedendo tutti questi nostri compagni, questi ragazzi, eravamo tutti giovani, la maggior parte.

Ci faceva orrore, perché questi morti morivano tutti con gli occhi aperti dalla paura, nessuno aveva gli occhi chiusi. La paura era tanta, le botte erano continue, le scudisciate, ventiquattro scudisciate, l’inginocchiatoio dove ci facevano mettere… Non le dico quello che abbiamo passato.

Quando ci facevano queste torture dovevamo essere tutti presenti a vedere ciò che si vedeva. Quello che capitava a quello poteva capitare a noi.

Purtroppo avevamo due Oberkapo, uno era uno spagnolo ed uno era polacco. Il polacco era cattivo.

Questa prigionia è durata quasi sei mesi; all’ultimo sono arrivati gli americani, fortuna mia c’era l’armata del generale Patton dei carristi. C’era un americano figlio di siciliani, si chiamava Caruso Antonio, ancora mi ricordo, sicché quando sono entrati nel campo e hanno visto tutta questa gente, i morti che c’erano ancora, tutto il campo pieno, noi altri che eravamo diventati… Io pesavo ventiquattro chili, pensi un po’.

Allora lui non ha detto: “Chi è italiano?” ma ha detto: “Chi è siciliano qua dentro?” Io ridotto in quelle condizioni gli ho detto: “Sono io”. Mi ha visto in quelle condizioni come ero, mi ha preso in braccio, mi ha messo sulla jeep e mi ha portato a Linz, mi ha portato in una clinica della San Vincenzo.

D: Ti ricordi quando vi hanno liberato?

R: Il 5 maggio del ’45. Così è finita la nostra odissea. Mi hanno portato in clinica, c’erano le suore di San Vincenzo. Suo padre era siciliano, ecco perché, pensi che lui come americano parlava il siciliano. Suo padre era di Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento. Si ricordava della Sicilia. Lui parlava proprio il siciliano.

Mi porta in questa clinica e le suore della San Vincenzo quando mi hanno visto in quel modo dicono: “Che gli facciamo? Noi non abbiamo…” Allora ha detto loro: “Pulite questo ragazzo bene bene, poi lo mettete…” “Sì, va bene, noi lo puliamo, però non abbiamo da mangiare”. Dice: “Non vi preoccupate”. Questo se ne va via. Prima di uscire ha detto: “Scusi sorella, avete una bilancia?” Dice: “Sì”. Così ho saputo quanto pesavo, se non l’avessi saputo non avrei potuto dirlo…

Così sono stato lì. Nel pomeriggio è venuto, faceva parte della sanità americana che curava i feriti al fronte. E’ ritornato nel pomeriggio ed ha portato un dottore, mi ha fatto visitare: avevo un’infiltrazione polmonare, poi avevo l’ulcera. Abbiamo aspettato dopo la Liberazione, sono rimasto per quasi un mese ricoverato, non potevamo dormire con le lenzuola perché ci facevano male le ossa. C’erano solo le ossa, carne non ce n’era.

Dopo ci hanno rimpatriato, sono arrivato a Roma e mi hanno ricoverato all’Ospedale del Celio, sono stato un anno ricoverato là dentro.

D: Ma quando sei rientrato in Italia?

R: Il 25 luglio del ’45. Sono uscito, mi sono presentato al Comando dell’Aeronautica a cui appartenevo, mi hanno dato la divisa, mi hanno dato tutto, e dovevo essere mandato in licenza. Invece mi mandarono alla stazione Ostiense dove si formava un treno che andava in bassa Italia, in Sicilia: volevo andare a vedere i genitori. Mi è incominciata la tosse, non potevo respirare, hanno chiamato la Croce Rossa e mi hanno portato all’ospedale, e lì sono rimasto. Sono entrato il 26/27 di luglio 1945 e sono uscito il 4 marzo del ’47.

D: Rosario, quando dicevi che da Gusen 2 vi portavano a lavorare, vi portavano nelle gallerie di Sant Georgen?

R: Sì, lì vicino a San Giorgio.

D: Lavoravate nelle gallerie?

R: Noi lavoravamo nelle gallerie, però noi San Giorgio lo sentivamo nominare, c’era uno che dirigeva i lavori, sentivo sempre Sant Georgen, sentivo nominare questo paese. Però non mi ero fatto idea.

Dopo, quando l’americano mi ha portato al campo, mi sentivo un po’ meglio, in forze, ho visto che c’era San Giorgio, il paese, poi c’era San Valentino, poi c’era un altro paese, adesso non mi ricordo come si chiamava. Insomma dopo che sono stato ricoverato e poi dimesso sono andato al campo ed ho trovato queste cose.

D: Un’altra cosa Rosario; ti ricordi il nome di qualche ditta? Voi lavoravate per qualche ditta?

R: La Messerschmitt, alla Messerschmitt si lavorava. Io sapevo che si facevano gli scheletri di duro alluminio, ed ho saputo, se è vero o non è vero non lo so, che vicino c’era una miniera di bauxite. La bauxite dicevano che si cola e fa il duro alluminio. Di fatto loro facevano il duro alluminio. Noi altri ogni tanto si prendeva qualche pezzo, si faceva un coltellino, si facevano queste cose così.

Casanova Virginio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Casanova Virginio, nato a Santo Stefano di Cadore il 3 aprile 1924.

D: Lei, Signor Casanova, è stato arrestato quando?

R: A Campolongo di Cadore, alla mattina presto, dalla SS.

D: Che giorno era?

R: Giorno 12 di ottobre 1944.

D: Per quale motivo?

R: Un rastrellamento.

D: Cioè, ce lo può spiegare, se si ricorda?

R: Un rastrellamento, ho pensato come partigiano; io collaboravo con i partigiani ma il partigiano non l’ho mai fatto. Mi hanno preso nel letto la mattina alle 5,30, un ufficiale della SS e due militari, mi hanno preso in camera; hanno trovato la divisa di alpino che avevo nell’armadio e mi hanno chiesto: “Perché lei è scappato a casa?”, come sono scappati tutti. Andavano in cerca sotto il letto, sotto il materasso per vedere se avevo qualcosa, poi ha detto: “Venga con me”. Mi hanno fatto venir giù, abitavo al piano sopra, ho visto mia nonna che piangeva a vedermi fra due tedeschi con il fucile spianato e mi hanno portato davanti alla chiesa, davanti a sette, otto amici.

Continuava ad arrivare gente, ci hanno portati alle scuole, al piano superiore, sempre a Campolongo.

D: Questa gente che continuava ad arrivare chi era?

R: Tutti rastrellati, miei paesani.

Ad un certo punto hanno fatto venire altri militari, ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Santo Stefano di Cadore. Lì siamo stati nella sala del cinema un giorno.

So che siamo stati interrogati, perché avevano preso due partigiani dal Friuli e ci hanno chiesto se li conoscevamo. Non li conoscevamo.

Ogni tanto si sentivano delle botte date a questi due ragazzi.

Siamo stati lì fino a domenica, mi ricordo sempre, hanno fatto arrivare due macchine militari e ci hanno tirato fuori tutti.

Anzi, quando ci hanno interrogato in piazza, hanno chiesto se lavoravamo da qualche parte. Io sono scappato dalla Lancia, perché lavorato in Lancia dal ’44, febbraio. Sono stato quattro o cinque mesi poi sono scappato.

D: Alla Lancia di dove?

R: Qui a Bolzano.

D: Chi vi ha interrogato in piazza?

R: No, nella sala del cinema, gli ufficiali tedeschi.

D: Parlavano in tedesco?

R: No, c’era anche l’interprete. Poi hanno portato via tutti, due camion ed abbiamo fatto il passo di Monte Croce.

Si aspettava sempre che arrivasse qualche partigiano a fermare questi camion, perché si passava proprio in mezzo al bosco, ma non ho visto nessuno.

Ci hanno portati a San Candido, alla Caserma del Sesto Alpini, all’ultimo piano, abbiamo riposato un po’ e dopopranzo siamo partiti dalla caserma e siamo andati al treno.

Ci hanno caricato su un vagone normale, c’erano circa una cinquantina di persone e siamo partiti da lì e siamo arrivati qui a Bolzano, sono venuti a prenderci al treno altri due camion.

Ci hanno portato al Corpo d’Armata; lì hanno chiesto un po’ di informazioni e di domande di questo e quell’altro, poi ci hanno caricati sulle macchine e ci hanno portato nel campo di concentramento. Tutto di notte, dopo la mezzanotte.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini.

D: Eravate tutti più o meno della stessa età?

R: Differenza di sei, sette anni.

D: Il motivo per cui vi avevano arrestati era per tutti uguale o c’erano differenze?

R: Tutti uguale, era un rastrellamento, hanno portato via tutti dal paese, tutti di Campolongo. Poi sono arrivati quelli dei paesi vicini, anche.

D: Questo nel cinema?

R: No, nel cinema siamo stati solo noi dei paesi del Comune. Poi siamo andati nel campo di concentramento. Sento l’odore di calcina, meno male che andiamo a lavorare! Ci hanno portato lì, le celle non erano ancora finite, ci hanno messo in due sale, in due stanze, c’erano già dentro prigionieri, abbiamo chiesto informazioni, dove li avevano presi ecc..

Abbiamo fatto la notte; la mattina sveglia presto e siamo andati al campo e ci hanno portato le … due volte mi hanno tagliato i capelli.

Poi ci hanno dato un numero, triangolo rosso ed il numero di matricola.

Io sono andato nel blocco H, con anche altri due o tre miei paesani e gli altri al gruppo G, che era sotto, c’era uno scalone di legno che andava su, come una mansarda.

D: Questa era il blocco?

R: Blocco H, quello dov’ero io.

D: Si ricorda il suo numero di matricola?

R: 5.112. Mi ricordo 5.112 avevo e triangolo rosso, perseguitato politico. I primi giorni sono andato a lavorare per terminare le celle, sono andato ad aiutarli, c’era più manovalanza dalle mie parti. Abbiamo fatto il primo giorno lì, poi alla sera ci hanno lasciato mezzora per andare ai gabinetti, c’erano i gabinetti aperti, immaginate, donne e uomini, tutti insieme.

D: C’erano anche donne nel campo di Bolzano?

R: Tante donne. Lì ne abbiamo trovate tante. Poi hanno cominciato a dividere, a fare squadre, noi ci hanno portato alla galleria che stavano facendo, vicino al comando tedesco.

D: Si ricorda dove?

R: In Via Fago c’era l’ospedale, l’avevano spostato dal centro e l’avevano portato all’Hotel Margherita. Lì ho lavorato per un mese, un mese e mezzo. Poi ci hanno cambiato.

D: Quando andavate alla galleria che lavoro facevate?

R: In galleria a spostare materiale, liberare la galleria, buttar fuori materiale. Per fortuna c’era una ditta, la Faifer, a mezzogiorno ci davano da mangiare e si mangiava da cristiani allora, perché si mangiava quello che mangiavano gli operai.

D: C’era anche il personale della ditta con voi? La ditta Faifer lavorava con voi o no?

R: Sì, si lavorava. Poi quando si è finito in galleria, io ho lavorato al frantoio e ho parlato con uno che era di Merano, era diplomato, ma non ricordo. Lì ho lavorato un mese, un mese e mezzo.

Poi ci hanno portato alla Galleria del Virgolo. Lì facevo lavori di manovalanza sempre, si faceva la pavimentazione della galleria, dove c’era la fabbrica. Lì c’erano le donne, c’erano parecchie donne lì.

Lì ho lavorato fino al 23 marzo.

Poi siamo stati richiesti dalla ditta Forst e ci hanno tirati via, una ventina e più e ci hanno portato alla caserma Mignone.

Nel frattempo, prima di essere libero, alla caserma Mignone abbiamo dormito per un po’, uomini e donne divisi, all’ultimo piano della caserma.

D: Quanti potevate essere più o meno? Decine o centinaia?

R: Un centinaio, perché so che quando si partiva dal campo di concentramento in principio c’erano due camion che portavano via gli operai, donne e uomini, e poi hanno tolto i camion e ci hanno fatto andare a piedi: si passava per la campagna, si passava dal ponte e si entrava in galleria a lavorare.

D: Questo quando eravate alla Galleria del Virgolo.

R: Galleria del Virgolo.

D: Invece quando andavate alla galleria di Via Fago andavate a piedi o…

R: A piedi si faceva tutto l’attraversamento, allora c’erano tutte le casette, quelle piccole ed in mezzo alle casette si passava….

D: Le Semirurali?

R: Si attraversavano le Semirurali, poi si andava verso Gries, poi si passava alla sera, ritornando, dal magazzino dei frutti, preparavano un sacchetto di mele da portar dentro agli amici che erano nel campo di concentramento.

D: Eravate sempre la vostra squadra di cinquanta o c’erano anche altri non bellunesi in questi lavori?

R: No, c’erano altri.

D: Quanti potevate essere nella galleria di Via Fago?

R: Non posso dire quanti… so che eravamo in tanti, perché c’era una fila, quando si passava a piedi era una fila lunga.

D: Com’eravate vestiti?

R: La tuta, con un paio di mutande lunghe.

D: La gente vi vedeva passare?

R: Sì, in Piazza Don Bosco quando si passava di lì c’era la gente che veniva a buttare del pane sulle macchine; avevamo paura per i tedeschi, avevi la scorta, avevi tre o quattro tedeschi.

Poi anche qui … avevo trovato una signora, la moglie di un tenente dell’esercito che abitava in Via Claudia Augusta e ci portava dei dadi per salare quella cosa che si mangiava.

So che questa donna aveva una bambina e veniva lì nei dintorni e cercava di gettare questi dadi.

D: Quando eravate alle caserme Mignone come si strutturava la giornata? Facevate l’appello, era come nel campo, o era diverso?

R: Lì era diverso, perché c’erano due stanzoni, uno a destra ed uno a sinistra, uno era degli uomini e l’altro delle donne. Ci portavano via tutti, ci volevano pochi passi per andare alla Galleria.

D: Eravate tutti triangoli rossi?

R: Tutti triangoli rossi.

D: Non facevano mai l’appello alla Caserma Mignone?

R: Non mi ricordo se facevano l’appello, perché lì sono stato poco. Però ci controllavano, perché la sera c’era la chiamata, poi facevano l’appello fuori dalla Galleria prima di…

D: Si ricorda che turni facevate?

R: Solo di giorno, di notte non c’era nessuno che lavorava.

D: Quante ore lavoravate?

R: So che si andava lì alle 7 e si veniva a casa verso le 7 di sera, perché era ancora chiaro.

D: Si ricorda se c’erano dei comandanti con voi alla Caserma Mignone o eravate solo voi prigionieri.

R: Non mi ricordo di questo, se ci fosse qualche stratega fra loro.

D: Quindi potevate anche parlare tra di voi?

R: Sì, questo sì. Si parlava.

D: Che tipo di lavoro facevate nella Galleria?

R: Io con tre o quattro miei amici ci avevano messi insieme dei polacchi, quelli addetti al controllo, erano operai anche quelli, avevano il fucile, ma erano operai e lì si lavorava per fare la pavimentazione. Donne e uomini erano sulle macchine della IMI e lavoravano.

D: Ma c’era un’unica galleria o ce n’erano due al Virgolo?

R: Una sopra, dove c’era un uomo grande, sempre con la sciarpa rossa, un pezzo di omone e so che faceva il minatore quello.

So che c’erano due o tre che lavoravano nella Galleria e noi tutti sotto, nella galleria bassa, dove c’è la strada adesso.

D: Allora ce n’era un’altra sopra?

R: Sopra c’era una galleria non so di che cosa, ma roba piccola. So che lavorava quest’uomo, lo si vedeva passare, era sempre con la sua bottiglia di vino.

D: I macchinari erano sotto?

R: Sempre nella galleria. So che poi lì è venuto un bombardamento, noi si facevano le vasche fuori davanti alla galleria, delle vasche di rifiuti di cose, è suonato l’allarme e c’era un certo Max che era cattivello, però qualche volta buono, e ci ha mandati tutti in galleria.

Come siamo andati in galleria è venuta giù una bomba davanti alla galleria e a Max è saltata una mano, allora portalo ai ripari! Il pompiere mi aveva insegnato di stare attento ai bombardamenti; mi sono buttato in terra e mi sono trovato una trave sopra la vita, c’era un altro che si lamentava, un mio paesano, ma io stavo bene, era tutto buio ed abbiamo pensato di essere rimasti chiusi dentro, hanno bloccato e chissà chi viene a liberarci, a tirarci fuori.

D: Questo Max dormiva con voi alla Caserma Mignone?

R: Era al concentramento. Questo Max l’ho trovato dopo la guerra, l’ho trovato in Aldo Adige; stava lì da solo e mi sono fatto riconoscere, lui cercava di non conoscermi. Però dico la verità, non era cattivo, era severo, perché aveva sempre il frustino in mano e girava con quello. Poi l’ho trovato, in un bar.

D: Si ricorda qualche altro nome o figura di guardiano o di guardiana?

R: Cologna, lo chiamavo Cologna, era un bell’uomo, grosso, diceva che era dalle parti di Verona. Quello faceva la sveglia la mattina presto. So che le donne quando camminava dicevano sempre: “Che belle scarpe hai”, lo prendevano in giro, scherzavano.

Ma non so dov’è, se è morto, l’ho visto ancora per Bolzano. Quel Cologna era il padrone, aveva un comando, ma le donne dicevano “Stai attento”, era sempre vestito bene. Si vede che poteva lui.

D: Il nome della Forst di cui parlava se lo ricorda per quale motivo?

R: Ci hanno portati a lavorare lungo la ferrovia, a riparare la ferrovia.

D: Quando?

R: Dopo il 23, ho cominciato a lavorare e si andava ad aggiustare la ferrovia, lungo i binari per riparare la ferrovia.

Poi ci hanno messo di fronte alla Caserma Mignone, a quella casermetta rossa che era di fronte alla caserma, so che era una distilleria. Lì si mangiava assieme a quei tedeschi che erano nel concentramento con me e lì ho fatto amicizia con un polacco; lì si mangiava sempre insieme sul tavolo e si mangiava abbastanza bene, davano la margarina, a quelli che lavoravano.

D: Lavoravano al Virgolo?

R: No, per la ferrovia, quand’ero fuori dal campo di concentramento.

Abbiamo detto a questi polacchi: “Buttate via il fucile, andiamo senza fucile a lavorare”; si rideva sempre, anche loro erano sottomessi ai tedeschi.

D: Ma quando andava a lavorare lungo la ferrovia non tornava la sera nel campo?

R: No, di fronte alla Caserma Mignone; si era liberi noi, ci avevano levato il numero e tutto.

D: E questo a partire da quando?

R: Dal 20 o 23, prima della Liberazione.

D: Marzo o aprile?

R: Fine aprile, perché ero lì.

D: Cos’è successo, un giorno sono arrivati e vi hanno detto siete liberi? Com’è successa questa cosa?

R: Sono venuti, hanno scelto quasi tutti dei paesi vicini del Cadore e ci hanno portato all’Ospedale Militare. Ci hanno fatto pulizia, una specie di quarantena e poi siamo andati ad Oltrisarco, in questa casetta.

D: Avete dovuto firmare qualcosa? Avete ricevuto un modulo?

R: Noi no; quelli che erano nel concentramento che sono stati lasciati liberi hanno ricevuto delle carte, invece noi ci hanno liberato e basta.

D: Vi hanno detto “Siete liberi”?

R: Quando ci siamo visti liberi, senza la divisa.

D: L’avete restituita la divisa?

R: Lasciata lì e ritirato le nostre cose che si avevano; avevamo messo in deposito tutto quando eravamo entrati nel concentramento, ci hanno portato via tutto.

D: Ve li hanno portati lì i vostri vestiti o siete tornati voi nel campo a prenderveli?

R: Ci hanno portato in campo, c’erano i vestiti e ci hanno mandato alla Caserma, all’Ospedale Militare per fare la pulizia di tutto quello che si aveva attorno.

D: Cosa avevate attorno?

R: Pidocchi…

D: Lei si ricorda di aver visto o lavorato lì nel campo al Virgolo con dei sacerdoti?

R: Al campo c’era uno che ha detto la messa il giorno di Natale e di Pasqua, ma non mi ricordo più che prete era.

D: Un prete deportato come voi?

R: Sì. Dico la verità, sono sempre andato da una parte o dall’altra a lavorare. Stavo poco nel concentramento, solo la notte, perché ho fatto tanti lavori. Ci avevano portato anche a Castel Firmiano, c’erano due o tre baracche e dentro c’erano tutti i macchinari di meccanica e si andava lì a pulire. So che sono andato un giorno o due lì.

D: A Castel Firmiano dov’erano queste baracche?

R: Dopo il castello c’era un piano, so che c’era un contadino lì, che ho conosciuto dopo, con la famiglia; lavoravano la campagna e so che poi sono entrato in confidenza con i figli. La posizione non ce l’ho più presente, so che era un piano quasi in cima al colle dove erano queste due o tre baracche.

D: Non è più tornato a vedere?

R: No, neanche il concentramento sono andato mai a vedere.

D: Ma Lei era qui a Bolzano o è tornato in provincia di Belluno?

E’ rimasto qui a Bolzano dopo la guerra?

R: Sono andato al paese perché non vedevo l’ora di vedere mia nonna: da quando mi avevano portato via, cinque o sei mesi che sono stato via, non vedevo l’ora di tornare a casa a trovare mia nonna e sono andato giù al paese, sono stato giù neanche un mese. Mio zio mi ha scritto: “Vieni alla Lancia di nuovo”. Sono andato alla Lancia e mi hanno assunto ancora. C’era il Comitato di Liberazione, c’erano già dei miei amici che sapevano che mi avevano portato in concentramento e poi sono stato alla Lancia. Non sono più scappato.

D: Ma la sua famiglia sapeva quando Lei è stato portato via dove era stato portato, sapevano qualcosa di Lei o no?

R: Io avevo uno zio a Bolzano che lavorava alla Lancia e qualche volta di sfuggita si vedeva.

D: Come si vedeva?

R: Si vedeva quando si passava per andare alla Galleria del Virgolo.

D: Lei vedeva suo zio?

R: Vedevo mio zio, ma si aveva tanta paura, perché se succedeva qualcosa portavano via anche mio zio.

D: Ma suo zio le dava qualcosa, del cibo, o la vedeva da lontano?

R: Lo vedevo da lontano. C’era una signora di Santo Stefano che portava il pacco nel campo di concentramento, so che c’era questa donna.

D: Una deportata?

R: No, una… abitava alla banca di Via Orazio a Bolzano. So che questa portava… ma io, le dico la verità, noi si andava fuori e qualche cosa si riusciva a prendere dalla gente.

D: La gente aiutava?

R: Sì, aiutava. Per esempio la signora che adesso è morta, che portava i dadi per salare la minestra, anche con pericolo: si avvicinava quasi a noi, dove si lavorava, e ci buttava i dadi.

D: Lei ha mai potuto scrivere a casa sua?

R: No, mai scritto. Una volta uno ha scritto una lettera e me l’ha data da spedire, siccome andavo fuori a lavorare. Io avevo un cappello da carabiniere, lo avevo tagliato tutto attorno, dentro c’era la fodera ed infilavo sempre qualche lettera di qualcuno che mi davano. L’ho lasciata nel taschino della tuta e mi fa: “Che cosa hai lì?” Sono rimasto perché poi… Ho fatto due o tre ore con quel freddo che c’era vicino al portone sull’attenti. Poi mi ha chiamato e me ne ha detto di tutti i colori: “Ignorante, perché ti sei fatto prendere?” Tante parole e finalmente poi mi ha lasciato libero, fortuna che quello non aveva scritto le cose, aveva scritto a sua mamma, ma cose da poter leggere.

D: Come faceva Lei a spedire? Aveva i francobolli?

R: No, si davano a qualche persona, che veniva vicino alla galleria. Si buttavano, poi le raccoglievano e mettevano il bollo loro, noi no.

D: Chi era la iena?

R: Era il più cattivo degli uomini, la iena: quando lo si sentiva parlare si aveva paura.

D: Era una SS?

R: Sì, una di quelle giuste anche. Era lui che comandava quasi più dell’ufficiale.

D: Lei era qui a Bolzano quando hanno abbattuto le baracche negli anni ’60? Non è andato a vedere che cosa stavano facendo?

R: Sì, sono andato a vedere.

D: Ha fatto delle fotografie?

R: Sì, io ho la fotografia io, i miei cognati ed altri due amici, abbiamo fatto la piramide.

D: Delle fotografie delle baracche ne ha fatta qualcuna?

R: Sì, sugli avanzi della baracca la piramide nostra che…

D: Ce l’ha qui?

R: No, è la moglie che mette via tutto. Abbiamo un libro con fotografie in grande della gente che era lì alla baracca.

D: Lei ha mai assistito in questi mesi nel campo di Bolzano a degli atti di violenza?

R: Noi no, che ricordo no, però si diceva fra di noi che c’erano quelli votati alla morte, avevano il disco bianco ed il centro rosso: quelli li portavano a morire da qualche parte ed ogni tanto di notte qualcuno partiva. Li portavano dietro la caserma, li uccidevano lì o… ma si parlava fra di noi. Però hanno sempre fatto delle pagliacciate, c’era una squadra di Verona che era gente… si faceva i gavettini, si bruciava il coso fra le dita, si facevano i processi ad uno che faceva qualcosa. Veniva condannato se aveva portato via qualcosa al suo amico, la coperta, allora botte.

D: Tra di voi?

R: Tra di noi.

D: Volevo chiederle ancora una cosa. Prima parlava della Forst.

R: Forst, ingegner Forst. So che ho due marchette ed ho su ingegner Forst, ma il nome non lo so. C’era un ufficio di fianco alle Caserme Mignone.

D: Invece quella ditta che era in Via Fago?

R: La Faifer, la ditta Faifer: quella ci dava da mangiare, anche bene.

D: Si ricorda questo nome per quale motivo? C’erano delle scritte?

R: Si parlava anche con gli operai, qualche parola si faceva. Ditta Faifer.

D: Di Bolzano?

R: Non so se era di Bolzano, dal cognome è più o meno vicino.

D: Sono tornati tutti a casa quei cinquanta più o meno che erano stati rastrellati con Lei? Vi siete più rivisti?

R: Ne è morto uno, perché in Germania sono andati due fratelli, quelli sono tornati, in un altro paese quello è morto dentro i forni. Poi ho trovato ancora degli amici, adesso siamo dimezzati, non so neanche chi è vivo ancora di quelli che c’erano.

Samiolo Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Sergio Samiolo, sono nato il 12 dicembre 1923, a Cismon del Grappa ed ora abito a Feltre, da sempre praticamente.

Io il 3 ottobre del 1944 sono stato arrestato dalle SS tedesche nel corso di un rastrellamento che hanno fatto qui in zona, in tutto il paese di Feltre e mi hanno portato sul cortile del Metallurgica Feltrina.

Da lì poi ci hanno spostato al cinema Italia, poi caricati su un camion. Ci hanno portato prima a Grigno di Valsugana.

Lì siamo stati un paio di notti, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno, per spedirci non si sapeva dove.

Io ho la fortuna di avere uno zio che faceva il capostazione a Bolzano; arrivati a Trento ho trovato, fra i militari tedeschi che facevano il servizio lì in stazione, due miei ex compagni di naia, eravamo a fare la naia assieme all’aeroporto di Ghedi.

Quando mi hanno visto si sono meravigliati e mi hanno detto che forse potevano fare qualcosa. Io ho detto loro solamente: “Avvertite il capostazione di Bolzano che sono su questo treno e che stiamo arrivando”.

Difatti il capostazione ci ha fatto arrivare, tre giorni ci ha impiegato da Trento a Bolzano questo treno.

Quando siamo arrivati alla sera lui è venuto lì ma non l’hanno lasciato avvicinare. Ci hanno caricati su dei camion e portati nel campo di concentramento.

La mattina dopo ci hanno passati all’appello, al controllo dei militari che c’erano e ci hanno fatto dare le generalità. Poi ci hanno dato una tuta e ci hanno mandato in campo con l’ordine di adoperare solamente ed esclusivamente la tuta, senza nessun capo civile possibile: praticamente solo con la biancheria intima e la tuta e basta.

Per questo motivo una mattina che avevo più freddo del solito, mi sono messo un maglione sotto, sennonché per andare all’uscita, per andare a lavorar, e ci facevano lavorare sempre, mi hanno fatto aprire la tuta e si sono accorti che avevo un maglione sotto: mi hanno dato con un tubo di ferro di quaranta, cinquanta centimetri sulla testa e qui ne ho la cicatrice. Mi hanno steso come fossi stato un vitello, buttato per terra, per fortuna che come ha detto il mio amico, avevamo il capoblocco che era un dottore e direttore dell’ospedale di Feltre; mi ha fatto portare dentro e mi ha medicato alla meglio.

Vorrei raccontare un altro episodio.

Noi andavamo a lavorare nelle gallerie di Gries, le gallerie antibombardamento di ricovero per i militari, per evitare i bombardamenti. Al ritorno da questa caserma stavamo facendo un paio di chilometri di strada a piedi per rientrare in campo di concentramento ed avevamo i parenti che ci facevano la scorta, da Feltre a Bolzano sono 140 chilometri, devo premettere che mio padre faceva il taxista e aveva la possibilità con i parenti di uno o dell’altro di questi cento e passa miei amici, di venire su spesso e mi veniva a trovare.

Un bel giorno è venuto fuori da una casa, che era in fianco a questa strada, una signora ed ha redarguito piuttosto pesantemente il militare che ci faceva la scorta; non ho capito quello che diceva, perché il tedesco non lo so.

Il fatto che è dopo dieci minuti questo militare, che era un austriaco di Vienna, forse uno dei migliori che ho trovato come temperamento, ci ha raccomandato, ha fatto mandare via i nostri parenti ed ha detto: “Mi dispiace, ma devo agire così, perché altrimenti quella signora mi denuncia e mi manda a Stalingrado a fare la guerra”.

D: Sergio, ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Il mio numero di Bolzano era 5.001 e triangolo rosa, per circa un mese e mezzo, forse due scarsi. Verso la fine di novembre, alla mattina durante l’adunata, hanno domandato se c’era gente che volesse andare a lavorare fuori dal campo.

Io ho approfittato dell’occasione perché avevo sentito che una squadra delle nostre era andata a lavorare verso Merano in una fabbrica di marmellata ed io pensavo: “Tento anch’io”.

C’era tanta gente; c’era gente che diceva che ci avrebbero mandati su per i passi a spalare la neve, per tenere aperte le strade per i militari. Io ho tentato, invece ci hanno mandati a Vipiteno.

A Vipiteno ci hanno sistemati in una caserma; eravamo in due stanze, in una piccola eravamo in otto, su quattro letti a castello, invece i rimanenti, ventiquattro, venticinque che erano, erano in un’altra aula o camerata che dir si voglia. Praticamente lì siamo stati. Noi avevamo che ci facevano la guardia otto militari della SS altoatesini, parlavano benissimo l’italiano, fra i quali c’era anche quello che mi aveva dato il colpo in testa, un certo Baldo mi pare si chiamasse.

Avevamo anche un po’ di paura: avevamo capito che erano cattivi, erano cattivi perché erano in pochi e dovevano sorvegliare parecchie persone.

Invece lì eravamo in meno, tanto è vero che poi eravamo riusciti ad addomesticare questi militari ed alla sera uno di noi, con la scorta di uno di loro, si andava fuori e si faceva un sacco pieno di fiaschi di vino e ce li riportavano dentro.

Infatti una sera un nostro amico è andato fuori ed è ritornato con il mitra sulle spalle, ma senza sentinella, tutti quanti siamo andati fuori in cerca e lui ed il sacco di vino erano in una cunetta coperti dalla neve, ubriaco fradicio.

D: Scusa Sergio, ritornando un attimo a Gries, tu dicevi che andavate a scavare delle gallerie… Ti ricordi più o meno dove?

R: Alle spalle della caserma c’erano le gallerie; noi si andava, si scavava. Facevano saltare le mine e si andava dentro; siccome quello è granito puro, si andava dentro e mi ricordo che per più di un mese ho continuato a sputare saliva che era come malta, perché si respirava quello.

Però anche lì non è che siamo stati proprio… E’ inutile, eravamo prigionieri e bisognava agire da prigionieri, se si voleva stare… Infatti io ed il mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, un certo Felice Bellumat, ci hanno anche premiato perché lavoravamo: ci hanno dato un pacchetto di sigarette a testa, anche se io non fumavo allora, comunque è servito da scambiare.

D: Ricordi anche tu la celebrazione della messa nel campo di Bolzano?

R: Assolutamente non mi ricordo niente della messa. Io mi ricordo che ci si trovava fra di noi, si parlava, specialmente alla sera; bisognava cercare di buttarla un po’ alla carlona, cercare di sopravvivere e reagire. Noialtri alla sera si campava, questo mi ricordo; poi quando mi hanno mandato lassù a Vipiteno ci è andata anche discretamente.

Comunque posso dire questo: che il lavoro era quello che era.

Posso dire questo: a Vipiteno, dove eravamo noi, hanno portato tutte le macchine che facevano le rivoltelle Beretta. Mi ricordo d’aver portato su dei…. e una fatica tremenda a portarli su per le scalinate, portare ai piani superiori queste macchine, che eravamo andati a prendere. Avevamo fatto un trasbordo da un camion ad un altro, uno si era rotto e siamo andati giù noi a trasbordarlo su un camion buono; poi le abbiamo portate su ed abbiamo cominciato a mettere a posto tutto quanto.

D: Dove avete portato a Vipiteno queste macchine?

R: Nella caserma dove eravamo alloggiati noi avevamo il nostro alloggio, queste due stanze, una più piccola ed una più grande, poi c’era una caserma piuttosto grande e c’erano altre stanze. In tutte queste stanze venivano messe dentro queste macchine per fare le Beretta.

D: Come deposito o per la produzione?

R: No, per la produzione. Quando ci hanno portato su quella valle che c’è alle spalle della Caserma di Gries, la Val Sarentino, c’erano due strade, una era bassa e mi ricordo che era vecchia, e un’altra sopra. Era praticamente come la Gardesana, tutte gallerie. Loro pensavano di adoperare le gallerie per metterci dentro le macchine per la produzione di armi; avevano domandato chi sapesse guidare le macchine, allora io, siccome avevo la patente, ho alzato la mano, e ci hanno mandati sulla strada di sotto a prepararla, con pale, badili e rastrelli per inghiaiare la strada, in maniera da sistemare la strada, in maniera da lasciar libere le gallerie per adoperarle come officine meccaniche dove mettere dentro macchinari. Non so se poi questo è avvenuto, perché sono stato su due volte e basta.

D: Poi sei rimasto sempre a Vipiteno?

R: Quando mi hanno trasferito a Vipiteno sono stato là fin quasi alla fine; ad un certo punto c’è stato un rilassamento della sorveglianza ed ho approfittato dell’occasione, ho preso il treno, sono scappato e sono andato a Bolzano, dove avevo, come ho detto, mio zio che era capostazione; aveva fra l’altro due figli, miei cugini, che erano tutti e due militari ed avevano vestiti da darmi.

Insomma mi sono vestito con i vestiti dei miei cugini, sono stato tre, quattro o cinque giorni, finché sono arrivati gli americani e poi sono venuto a casa così, con i mezzi americani.

D: Quindi tu non sei rimasto fino al 3 maggio?

R: No.

D: Quando sei venuto via?

R: Adesso non ricordo, ma verso la fine di aprile o qualcosa del genere, mancavano pochi giorni ormai, c’era uno sbandamento generale, si vedeva che non c’era più una disciplina che teneva ferma la gente.

D: Sei scappato?

R: Sì, sono andato, eravamo davanti alla stazione, sono montato su un treno e mi hanno portato a Bolzano. A Bolzano sono sceso e sono andato dal capostazione che era mio cugino e basta.

Sembra facile. E’ così insomma.

D: Durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: No, non scrivevo perché avevo, come ho detto prima, mio padre che andava e veniva, quindi quello di cui avevo bisogno e quello che volevano sapere loro era in comunicazione diretta; in linea di massima veniva su e stava su, perché portava su i parenti dei miei amici che c’erano lì e andavano a dormire in albergo davanti alla stazione.

D: A Vipiteno tu eri addetto a cosa?

R: Noi eravamo addetti a caricare, scaricare, portare su il materiale che serviva per le pistole e i mitra che facevamo e basta; perlomeno io facevo quel lavoro, portare su e giù il materiale.

D: Rapporti con i civili e con la gente del luogo?

R: Noi avevamo rapporto con un casellante della ferrovia, che era dei nostri paesi qui vicino, un certo Sori; per mezzo suo abbiamo potuto in qualche maniera mangiare un po’ più discretamente, in quanto attraverso lui riuscivamo ad acquistare carne, pane e qualcosa.

Certo che non c’era da mangiare per tutti, quel poco che c’era, perché anche questo signore ad un certo punto doveva cercare e non era facile trovare della roba.

Mi ricordo d’aver mangiato tanto caprone.

D: Perché tanto caprone?

R: Perché era l’unica cosa che si poteva mangiare allora, ne ammazzavano continuamente e si mangiava caprone, sempre in brodo però. Si faceva il brodo.

Un’altra cosa, quando ci hanno mandato a Vipiteno ci hanno mandato con i viveri razionati per dieci giorni per tutti e trentatre.

Eravamo tutta gente di venti, venticinque, trent’anni anni al massimo, alla fine del secondo giorno avevamo fame tutti e per otto giorni cosa si faceva? Siamo stati quattro o cinque giorni a mangiare miglio ed acqua, con il miglio si faceva il minestrone, ed un po’ di margarina. Poi, quando è arrivato, siamo riusciti a conoscere questo Sori, che ci portava la carne di capra e mettevamo dentro questo e facevamo un minestrone e così si mangiava un po’ tutti.

Riello Elio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Elio Riello, nato a Ventimiglia il 10 luglio ’22 e sono stato arrestato a Ventimiglia il 21 maggio del 1944.

Ero il segretario del costituendo Comitato di Liberazione, perché qui eravamo proprio in fase iniziale allora, si parlava poco dei partigiani e di altre cose.

Sono stato arrestato dalla Guardia Repubblichina. Sono stato portato ad Imperia dopo un interrogatorio a Ventimiglia.

Ad Imperia siamo stati alcuni giorni e poi siamo stati portati nel carcere di Marassi a Genova. Da Marassi dopo un po’ siamo stati trasferiti a Fossoli.

D: Durante il periodo di carcerazione, Elio, sei mai stato interrogato?

R: A Ventimiglia e ad Imperia. Sono stato interrogato a Ventimiglia e ad Imperia. A Ventimiglia quando hanno fatto la retata e poi ad Imperia quando hanno proseguito nei particolari.

D: Da chi?

R: Diciamo dalla polizia di allora.

D: Italiani erano?

R: Sì, sì, tutti italiani. I tedeschi sono entrati in funzione solo dopo Mauthausen praticamente.

D: Quindi dal carcere di Marassi siete stati poi trasferiti…

R: Tutti a Fossoli.

D: Più o meno quando?

R: A Fossoli saremo stati… Non mi ricordo più… So che siamo partiti da Fossoli mi pare l’8 giugno, ho tutto scritto là, però non ricordo esattamente.

D: Con cosa siete stati portati a Fossoli?

R: Siamo stati portati sempre a Genova in pullman e a Fossoli su un camion. Da Fossoli invece a Mauthausen …

D: Nel campo di Fossoli è stato immatricolato?

R: Non mi ricordo.

D: E neanche il blocco, la baracca?

R: No, assolutamente.

D: E’ stato molto tempo a Fossoli?

R: Non molto.

D: Lavoravate?

R: No, assolutamente. A Fossoli non facevamo niente. A Fossoli praticamente, aspetti un momento, mi pare che l’8 giugno se non sbaglio siamo stati portati a Mauthausen, mi pare, ma non sono sicuro, non mi ricordo più…

D: Si ricorda se a Fossoli ha visto anche dei religiosi tra i deportati?

R: No, non ricordo.

D: Poi quindi all’8 giugno…

R: Mi pare che sia l’8 giugno, trenta.

D: Il 21 giugno circa.

R: Ecco.

D: Dovrebbe essere.

R: Trasferito da Genova a Fossoli.

D: No, da Fossoli partiti per il Lager d’oltralpe.

R: Allora l’8 giugno probabilmente siamo stati trasferiti a Fossoli. C’era un 8 giugno.

D: Durante il trasporto da Fossoli a Mauthausen com’è…?

R: E’ stato un po’ movimentato perché avevamo con noi un prigioniero della guerra del 1915/1918, il quale ci ha presentato Mauthausen come la fine del mondo, poi in realtà rispetto a quello che abbiamo vissuto noi erano rose e fiori quello che diceva lui. Quello del 1915/1918 in fondo era un campo militare, il nostro era un campo di sterminio.

Qualcuno ha tentato la fuga. Di questi tutti meno uno sono stati poi presi e portati a Mauthausen senza alcuna pena particolare. Li hanno riportati nel campo. Uno invece, un certo Airaldi di Ventimiglia è riuscito a scappare e non l’hanno più preso insomma.

D: Elio, come ti ricordi l’arrivo a Mauthausen?

R: L’arrivo a Mauthausen è stata una cosa deprimente diciamo perché è stato togliere tutta la personalità dell’individuo in definitiva, questo è il discorso. Ti hanno spogliato completamente, ti hanno dato degli altri vestiti, ti hanno rasato e tutto il resto. Da quel momento praticamente siamo diventati dei numeri.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: E’ facile ricordarsi: 76543, 76.543.

D: E dopo vi hanno messo nel blocco di quarantena?

R: Il blocco di quarantena.

D: Che era il numero? Te lo ricordi?

R: Era uno dei più famigerati, non mi ricordo se era il 15, credo che fosse il 15, era il più famigerato. So che quando siamo andati a Mauthausen l’ultima volta ho detto un numero, ma mi hanno detto guarda che non ti ricordi è l’altro. C’era un Kapò terribile.

Diciamo che contrariamente a quanto si diceva sono state ancora rose e fiori rispetto a quello che è venuto fuori dopo.

D: Lì nel blocco di quarantena quanto tempo sei rimasto?

R: Siamo rimasti… Io sono rimasto… Credo verso la fine di luglio perché l’attentato a Hitler l’ho sentito ancora a Mauthausen, quindi mi pare che fosse il 20 luglio l’attentato a Hitler, no? Quindi qualche giorno dopo sono stato trasferito a Peggau.

Il periodo di quarantena, a parte che si dormiva come le bestie perché eravamo messi uno contro l’altro in fila indiana, incrociavamo, ci mettevamo a terra con i piedi davanti e dietro la testa. Ognuno s’arrangiava come poteva. Io sono riuscito anche a dormire perché c’era una stufa che serviva per l’inverno naturalmente, ma eravamo d’estate, dormivo tutto attorno alla stufa, curvo, di modo che riuscivo a dormire rispetto agli altri che avevano i piedi davanti e i piedi dietro. Qualche volta ho dormito anch’io con i piedi davanti.

E’ stato poi il momento decisivo dopo, direi che c’è stata anche un po’ di fortuna. In questo senso, che una sera eravamo destinati ad andare credo a Gusen, Gusen era l’infermo. Perché il problema qual era? Evitare Gusen, i campi più grossi, Mauthausen perché c’era la cava e tutto il resto e aver la fortuna di andare in un campo piccolo.

Quella sera che dovevamo essere trasferiti a Gusen non mi sono sentito bene. Qui ho rischiato grosso, perché se andavo a finire all’ospedale ero cotto, non uscivo più. Invece mi hanno tenuto lì, mi sono ripreso.

Dopo due giorni stavo abbastanza bene e invece di andare a finire a Gusen ho avuto la fortuna di andare a finire a Peggau. Fortuna che non mi hanno mandato in infermeria e fortuna che sono andato a finire a Peggau.

A Peggau si lavorava in galleria. Facevamo gallerie, costruivamo fabbriche, dei tunnel che servivano a fabbriche contro i bombardamenti aerei.

Lì ho preso una volta anche una serie di frustate di quelle come si devono perché io mi sono qualificato come studente d’ingegneria, poi mi hanno detto se sapevo fare il muratore, ho avuto la faccia tosta di dire di sì.

Ho provato a fare il muratore. Se ne sono accorti. Per fortuna che il capo che era un civile tedesco me l’ha mezza ancora aggiustata, ma qualche frustata me l’hanno data.

D: Com’era il campo di Peggau?

R: Il campo di Peggau in se stesso era abbastanza piccolino, insomma, tenuto conto della situazione degli altri campi si stava diciamo… Non che si stesse bene, ma era indubbiamente forse migliore degli altri.

Naturalmente lì si andava ad esaurimento, cioè quando uno non ce la faceva più… Lì per fortuna c’era un’infermeria, finché potevano ti facevano riuscire. Questo è stato…

D: Il campo era grande, c’erano molte baracche?

R: Eravamo due gruppi per esempio, eravamo mi pare quattro baracche più i servizi naturalmente.

D: C’erano molti italiani?

R: Eravamo mi pare circa otto/dieci non di più. Poi c’era qualche francese e poi russi “a gogò”.

D: E il campo era molto distante dal luogo?

R: Il campo… Eravamo a circa due chilometri e mezzo a piedi tutti i giorni. Il che era sotto un certo punto di vista una camminata, ma d’inverno era un affare serio perché mentre di giorno ti lasciavano anche dei vestiti di civili, basta con la targa dietro, la famosa striscia dietro, di notte dovevi andare con quei vestiti fatti da loro, erano vestiti praticamente di carta.

Siamo arrivati nell’inverno a circa 30/35 gradi sotto zero. Quando si faceva il turno di notte uscendo la sera verso mi pare le 18.00 o le 20.00 e al mattino rientrando dopo dodici ore, erano turni di dodoci ore, si aveva un freddo da matti, tenuto conto che le calorie che assorbivamo non erano molte.

D: Le gallerie che scavavate erano molte?

R: Perlomeno mi pare tre che però non sono servite a niente perché poi quando siamo andati via non erano ancora finite praticamente.

D: Elio, come avveniva lo scavo della galleria?

R: Con criteri, col martello pneumatico, sistemi moderni per allora. Io che sono abbastanza pratico, avevano le pale meccaniche. I criteri erano abbastanza moderni insomma. I martelli pneumatici e pale meccaniche … dietro. Non c’era niente di particolare. Noi facevamo tutto il lavoro manuale di caricare i carrelli, completare, spingere i carrelli, quell’affare lì ed era faticoso.

Qui ho avuto un altro colpo di fortuna perché… Il colpo di fortuna è stato questo. Una sera avevano rubato qualcosa nel campo e ci hanno messo tutti di fuori, ci hanno fatto spogliare praticamente.

Io avevo avuto da militari italiani che lavoravano lì delle coperte che mi facevano da pezze da piedi come si dice. M’è andata bene perché ho detto qui sono suonato, mi vedono con queste, mi dicono dove le ho rubate.

Invece per fortuna non mi hanno detto niente. Lì è stato un altro di quei colpi perché oltretutto con quelle specie di pezze da piedi andavamo, mi scaldavo i piedi che era una cosa importantissima.

Poi il problema di vivere e di sopravvivere era una questione anche di volontà per conto mio. Io per esempio ero riuscito a farmi un coltellino con della latta. Mi davano del pane alla sera, non lo mangiavo, lo tenevo tutta la notte, poi al mattino lo tagliavo in file sottili che neanche il coltello più affilato attualmente riuscirebbe a tagliare.

Era la questione di dire, beh, ho ancora qualcosa da mangiare. Era una cosa importantissima. Per conto mio, a parte che contava la salute che uno aveva, ma per resistere bisognava anche combattere moralmente.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri italiani che c’erano con te a Peggau?

R: Non mi ricordo. Quello di Genova, come si chiama? Mi sfugge il nome. Ce ne sono diversi, li ho tutti presenti davanti ma ormai la memoria mi ha mollato, non solo per quello, per altre cose anche.

D: Lì a Peggau dopo il lavoro facevate sempre l’appello?

R: Sì, sempre l’appello. Al rientro in campo, al mattino e alla sera. Gli appelli erano due, prima di partire e quando si arrivava.

D: Nelle gallerie avevate contatto con i civili dicevi?

R: Sì, avevamo contatto con alcuni civili, ma militari. I militari italiani che erano stati arrestati come militari. Lavoravano anche loro e noi riuscivamo ad avere quei contatti lì, un po’ di straforo, ma riuscivamo ad averli.

D: E invece altri civili niente?

R: No, altri civili niente. C’era il capo loro, il capo dell’impresa, soprattutto ricordo quello che era il capo, lo ricordo molto bene.

D: Sai per che ditta lavoravate voi?

R: No, questo proprio no. Questo assolutamente.

D: Non c’era nessun segnale, nessuna indicazione?

R: No. Anzi due anni fa un tedesco che si è occupato di quel campo lì, un austriaco è venuto qua e abbiamo avuto una certa corrispondenza, poi ci siamo persi. Lui aveva avuto notizie molto precise su Peggau, aveva fatto un’indagine. A Peggau non c’è più niente, hanno fatto sparire tutto, come del resto hanno fatto sparire a Gusen. A Gusen non c’è più niente. L’unico che si salva è Mauthausen ridotto alla parte centrale e l’altro vicino a Monaco, Dachau anche, ma a Gusen hanno fatto sparire completamente tutto. Poi mi pare che siamo stati a Ebensee. A Ebensee facevano le gallerie tipo noi, uguali, erano le stesse gallerie.

D: Che dovevano servire queste gallerie per delle fabbriche?

R: Per fabbricati, erano come capannoni praticamente, erano destinati a quello. Andavamo ad esaurimento. Man mano che eravamo giù si passava dall’altra parte della barricata. Era tutto lì il discorso.

D: Il campo era vicino, nei pressi del centro abitato oppure no?

R: No. Nel campo io non ricordo praticamente di aver visto, né nel posto delle gallerie. La mia impressione, quella che mi è rimasta è che fosse un paesino allora assai piccolino. Può darsi che poi mi sia sbagliato completamente.

D: Lì nel campo tra i deportati c’erano anche dei ragazzini, dei giovanetti?

R: No, giovanetti no. C’erano dei russi giovani, ma non ragazzini, almeno, non mi risulta che ci fossero dei…

D: E lì a Peggau siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino mi pare all’1 o al 2 aprile, cioè all’indomani di Pasqua del ’45. Lì è stato di nuovo un altro viaggio avventuroso, perché siamo partiti da Peggau a piedi. Ad un certo momento ci hanno bombardato i russi, ci abbiamo lasciato due dei nostri di tutto il gruppo. Poi ci ha preso un acquazzone infernale, abbiamo continuato ad andare a piedi fino ad una certa stazione, non so quale sia.

Poi ci hanno caricato sul treno, vagoni scoperti, abbiamo attraversato un valico, nevicava. Io so che ad un certo momento ho detto, sono cotto. Mi hanno stretto in due, mi hanno scaldato, mi hanno dato una manciata di ricotta mentre eravamo su lì e mi sono salvato.

Quello che è stato doloroso è che uno dei due che mi ha salvato dopo che siamo arrivati a Mauthausen, a Mauthausen si va a piedi al campo, durante la camminata per andare al campo è caduto lì. Non si poteva far niente perché ti costringevano ad andare via ed è morto. Questa è una cosa che uno ce l’ha qui. Ma d’altra parte…

D: Quanto è durato questo viaggio di ritorno a Mauthausen?

R: Adesso non ricordo più, ma è durato una giornata mi pare. Ripeto, mi ha salvato una manciata di ricotta e gli altri fra i quali questo qui che mi hanno stretto in mezzo. Poi invece quando arrivavamo a Mauthausen, o camminare, o ti facevano fuori subito.

D: Ritornato a Mauthausen cos’è successo?

R: Ritornato a Mauthausen praticamente non abbiamo fatto più niente. Sono successi degli episodi perché ad un certo momento, un altro episodio di quelli che ti rimangono impressi lì. Arriva un gruppo nel quale c’era uno di Genova, essendo liguri ci siamo messi a parlare, finalmente sono arrivato lì, me ne vengo fuori. Quelli sono andati tutti a finire nel crematorio. Si vede che erano destinati. Lì avevano già fatto delle scelte.

Una volta ci hanno fatto una visita, ero indeciso tra quelli che dovevano stare e non dovevano stare. Fame, si mangiava pochissimo. Se moriva qualcuno ce lo tenevamo lì per pigliare il pane. Finché poi sono arrivati gli americani… No, no, pardon, noi siamo stati liberati il 5 maggio dagli americani di Patton.

Due giorni prima hanno abbandonato il campo, cioè abbiamo preso in mano noi il campo, noi, quelli che erano in grado di farlo. Anche lì tutto il mondo è paese, quelli che stavano a Mauthausen erano in fondo una specie d’imboscati rispetto… Fortunati loro, ma erano riusciti a tenersi in salute come in tutti i casi della vita.

Lì allora abbiamo cominciato… Dopo due giorni sono arrivati gli americani. Io non li ho visti perché con un altro mio collega qui di Ventimiglia stavamo curando due amici di Isolabona, dei quali uno è morto esattamente un anno dopo a Isolabona qui.

Non li ho visti gli americani, abbiamo visto che erano, cioè abbiamo sentito che erano arrivati, ma stavamo curando questo qui che era… Poi niente. Siamo stati lì finché sono arrivati, allora hanno cominciato a darci da mangiare, hanno cominciato a disinfettarci perché eravamo carichi di pidocchi da morire.

Poi lì sono cominciate le dissenterie, la TBC chi l’aveva. Io sono tornato a casa che avevo 39 di febbre. Ho detto questa qui è una bella TBC, invece per fortuna era solo colite. E crescevo di mezzo chilo al giorno a casa. Sono arrivato qua dopo un mese perché da Mauthausen gli americani ci hanno portato sul lago di Costanza. Gli svizzeri non ci hanno fatto passare. Ci hanno rimandato al Brennero.

Poi dal Brennero sono arrivato, ci hanno portato a Milano. No, dal Brennero ci hanno portato direttamente a Milano. E’ arrivata l’Opera Pontificia di Brescia. Poi da Milano sono riuscito ad arrivare a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova ho avuto già notizie dei miei. Ho trovato un amico, mi ha detto: “Stanno tutti bene”.

Poi da Genova a Ventimiglia è stato di nuovo un viaggio mezzo su un camion che si trovava, l’ultimo pezzo un mio vecchio conoscente mi ha portato in bicicletta da San Remo a Bordighera.

La cosa sarà strana, il mio cane se l’è fatta addosso quando sono arrivato.

D: Cioè in totale quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Praticamente io sono stato arrestato a maggio e sono arrivato a casa, beh, facciamo il 5 di maggio, quasi un anno.

D: E con te questo amico che accennavi di Ventimiglia?

R: E’ mancato due anni fa.

D: Ma è stato arrestato anche lui con te?

R: No, era di un altro gruppo. Del mio gruppo eravamo, io ho di là una relazione perché avevo fatto una relazione, eravamo un certo numero, siamo tornati a casa, mi pare, quattro o cinque, adesso di quel gruppo sono rimasto solo io. Invece questo mio amico era di un altro gruppo.

D: Che è sopravvissuto anche lui?

R: Sì, siamo tornati insieme. Lui è stato quello che appena… Siccome lui era a Mauthausen da un po’ prima, era riuscito ad intrufolarsi nelle cucine, faceva il macellaio. Allora mi ha fatto entrare nelle cucine, ecco perché curavamo il nostro amico, perché riuscivamo a prendere patate, qualcosa in cucina per dare a questo.

D: Ecco, di Peggau cosa ti ricordi ancora, di questo sottocampo di Mauthausen?

R: Mi ricordo com’era fatto, diciamo la parte delle gallerie, tutto quell’affare lì. Le linee generali me le ricordo. Poi i dettagli ormai, ripeto, anche per l’età stanno sparendo.

D: Ed eravate solo pochissimi italiani?

R: Eravamo non più di dieci penso.

D: Però oltre a queste baracche che dicevi, le vostre, c’era anche un’infermeria lì a Peggau?

R: Sì, c’era un’infermeria. Era un’infermeria dove però uno entrava, non è che lo facessero fuori, se riusciva a guarire… Meno quando siamo partiti che quelli che erano in infermeria li hanno fatti tutti fuori. Li hanno fucilati tutti.

Gasiani Armando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Gasiani Armando, nato a Castel di Serravalle provincia di Bologna il 23.1.1927. Eravamo una famiglia di contadini, dopo dieci anni abbiamo traslocato, da Castel di Serravalle siamo venuti ad Anzola Emilia e siamo rimasti fino a dopo che sono arrivato Bologna, però il rastrellamento è avvenuto in questa zona. Prima del rastrellamento io e mio fratello, senza che i miei genitori sapessero, eravamo collaboratori della Resistenza, nella nostra campagna c’era una base partigiana. Ad un certo momento la Resistenza ha avuto un periodo molto grave, ha avuto un po’ di relax e ci hanno consigliati di andare a lavorare perché noi eravamo già una famiglia molto grossa, avevamo altri fratelli, eravamo in ventidue in famiglia, una famiglia molto grande, allora hanno consigliato a noi due di andare perché ci dicevano: “Voi da là potete ancora continuare la vostra attività, dicendo magari qualcosa che a noi può interessare”.

Durante questo è venuto proprio il giorno del rastrellamento del 5 dicembre del 1994. Questo rastrellamento io direi che è stato un rastrellamento politico guidato, pilotato da una spia, questa spia era un partigiano, è andato in mezzo alle SS e lui l’ha pilotato, praticamente lui sapeva tutta Anzola com’era messa, tutte le famiglie, le basi partigiane. Chi erano i partigiani e lui piano piano questo rastrellamento l’ha guidato, l’ha pilotato e l’ha accompagnato per tre, quattro giorni, chi non era dentro il rastrellamento è andato a prenderlo a casa. Noi eravamo tra quelli che hanno preso, perché il mattino si andava a lavorare. Sono arrivati all’improvviso.

Noi si sentiva qualcosa di diverso, sentivamo qualche abbaio di cani, ma era una mattina un po’ nebbiosa, un po’ piovosa, non era una bella mattina, però a quel momento devo dire siamo arrivati… siccome con questo documento che ci avevano dato in mano, secondo loro noi potevamo girare tutta l’Italia che eravamo in regola con questo documento firmato da Kesserling, noi forse non abbiamo badato a questo rastrellamento. Può darsi che fossimo anche fuggiti, però eravamo già messi in maniera che ormai di fuggire non era più tempo. Ci hanno presi su e ci hanno portati ad Anzola Emilia, dentro nelle scuole. Dentro nelle scuole hanno fatto questa retata di cittadini giovani, non più giovani, partigiani, non partigiani e li hanno portati in questa scuola che eravamo circa duecento. Alla sera verso le nove in questa scuola c’era una lampadina.

C’erano due tedeschi di dietro, c’era questa spia che ci mandava destra o a sinistra in modo che da una parte andavano a casa e dall’altra parte li tenevano. In quel momento noi siamo rimasti lì in sessantasette di Anzola e dopo un’oretta ci hanno caricati su due o tre camion, non ricordo, siamo partiti verso Bologna e siamo andati in Villa Chiara che lì c’era il comando della Gestapo e dopo tre o quattro giorni, hanno cominciato a fare questo processo. É per quello che dico, questo rastrellamento diventa politico per me perché era pilotato. Io, per esempio, sono stato preso un’altra volta prima del 10 settembre, però quello non era un rastrellamento, sono andato a finire a casa di un contadino e da lì sono riuscito a scappare. La differenza da quello a questo per me, infatti lo dice anche nelle condanne che loro hanno…

D: Scusa, lì in Villa Chiara vi hanno interrogato e processato?

R: Sì. Abbiamo avuto tutte le nostre condanne. Più o meno, loro hanno dato le condanne, però non si sapeva che condanne, perché abbiamo avuto anche delle persecuzioni, hanno dato dei calci. Hanno usato anche della violenza contro di noi, volevano sapere chi era qui, delle basi partigiane e tutte queste cose, ma in quel momento nessuno ha fiatato, magari cercava di tenere possibilmente il suo riserbo per non fare danno alle famiglie che erano rimaste fuori da questo rastrellamento.

D: Durante il rastrellamento hanno preso solo uomini o anche donne?

R: Anche donne. Quelle che avevano preso lì sono andate a prenderle a casa. Allora volevo tornare su Villa Chiara. Lì abbiamo avuto veramente il processo. Eravamo mica solo noi, eravamo più di duecento dentro, perché è molto grande. Questo processo è durato sette o otto giorni. C’era uno, interrogava però di dietro c’erano i picchiatori che magari pensavano loro di darci… magari per poter avere più informazioni di queste basi partigiane che ad Anzola c’erano state. Nonostante che avevano questa spia, però non erano convinti abbastanza e volevano anche sapere da noi magari quali erano le informazioni anche più sicure perché noi eravamo in zona, abitavamo lì. Dopo sette o otto giorni, finito questo processo verso l’11, 12 di dicembre, siamo partiti. Siamo andati in San Giovanni in Monte. Hanno portati tutti dentro a San Giovanni in Monte con dei catenacci avanti e indietro. Però si vedeva un po’ tutti, anche gli altri ragazzi, a un bel momento sono spariti una gran parte di questi ragazzi che erano stati processati con noi. Il 13 o il 14, non si sa la data precisa, sono partiti, sono quelli che hanno fucilato ….

La loro condanna è stata quella. Invece la nostra condanna era di venire, abbiamo capito poi dopo perché non è che a quel momento si sapesse dove si andava a finire, perché eravamo in mano sua, però nel momento che noi abbiamo avuto questa spia abbiamo dubitato qualcosa anche di grave, infatti, la condanna nostra era quella di venire in Germania. Però sempre questo viaggio ignoto, da Bologna noi siamo partiti il 23 dicembre e siamo andati a Verona, Verona, Bolzano.

D: Siete partiti con cosa?

R: Tre camion. Eravamo novantuno uomini e nove donne, cento persone.

D: Tutte di Bologna più o meno?

R: Sì, Bologna o provincia.

D: Quindi Vi siete fermati a Verona…

R: A Verona perché era giorno, viaggiavano di notte, loro viaggiavano solo di notte. Comunque tanti hanno avuto la fortuna che qualche partigiano, magari i partigiani li andavano a liberare, invece noi non abbiamo avuto nessuna… niente di questo. Siamo arrivati a Bolzano il 24, il 25 e lì siamo arrivati in questi campi. Però in quel momento non ci trovavamo in un campo di concentramento personalmente perché si vedevano i civili, si vedeva il comportamento non violento, si vedeva che chi aveva dei soldi magari poteva anche andare a comprare qualcosa. Con i civili qualcosa si poteva anche avere, però noi non avevamo nemmeno la valigia perché noi eravamo rimasti, ci avevano presi andando a lavorare, eravamo solo coi vestiti e questo continua, 7, 8, 10 giorni però non si sapeva da che parte…

D: Scusa Armando, quando siete entrati nel campo di Bolzano vi hanno dato un numero?

R: Per me agli uomini no, alle donne sì. Perché secondo l’altro, lui dice: “A me lo hanno dato”, allora ieri ci guardavamo e invece non c’è il numero degli uomini, l’hanno dato solo alle donne, si vede che loro avevano già un programma che loro rimanevano, invece noi dovevamo andar via da lì. Infatti siamo partiti dopo il 6 gennaio. Non so quanti eravamo, cinquecento o settecento non so di preciso quanti eravamo, ci hanno presi tutti e ci hanno portato alla stazione. Lì c’era un carro merci pronto per caricare il vagone. Avevo un fratello con me, come Le ho detto anche prima, io e mio fratello eravamo sempre assieme e allora in quel momento ci hanno messi su questi vagoni, sessanta ogni carro. Poco mangiare, niente da bere, poco di niente. Io in quel momento ho preso anche la febbre, non sono stato bene, forse era la commozione, non so come, debbo dire, perché allora avevo diciassette anni, non è che poi fossi tanto anziano, allora pensavo ai miei genitori o forse non sono stato bene durante due o tre giorni, però con mio fratello ci siamo rinfrancati. Lui aveva già un’esperienza di guerra, aveva fatto il soldato. Era già andato al fronte, aveva già un’esperienza e lui aveva sempre detto, è per quello che abbiamo aderito alla Resistenza, perché diceva: “Io alla guerra non ci voglio più andare. Se difendo, difendo i miei interessi, non quelli degli altri, la libertà mia, non quella degli altri”. Questo l’ha sempre detto ed è per quello che noi abbiamo fatto forse un atto contro i nostri genitori, diverso da quello che loro pensavano, invece noi pensavamo poi alla libertà di tutti.

Su questo mio fratello mi è sempre stato vicino e siamo partiti, durante il viaggio c’era con noi, mi ricordo che si chiamava… adesso non mi viene il nome, comunque diceva che se andiamo a Mauthausen a casa non ci andiamo più nessuno. Diceva cosa, Costa, mi è venuto, e diceva questo. Noi si domandava: “Cosa sai te di queste cose?” E invece lui diceva sempre: “Se andiamo a Mauthausen…” senza dire dove l’aveva imparato o no. E arriviamo proprio alla stazione di Mauthausen, eravamo in vagone assieme, perché nel vagone ce n’era più di uno. Dice: “Se non viene la Liberazione, noi qui in Italia… e non sapranno nemmeno da che parte saremo”. Io mi sono messo a piangere. E poi dopo siamo saltati giù.

L’aspetto del paese di Mauthausen. C’era la gente, quando hanno visto noi, scappavano tutti via. Ho detto a mio fratello: “Guarda che aspetto noi diamo a questa gente, cosa siamo noi nei loro confronti. Cosa vuol dire questo fuggi, fuggi, guardavano qualcosa, cosa siamo nei loro confronti! O siamo delinquenti o qualcosa del genere”. Infatti loro ci hanno sempre considerati nella politica del razzismo che noi eravamo avversari, non abbiamo aderito alle truppe alleate quando sono venute là, che prima eravamo alleati, però noi siamo stati degli avversari anche politicamente. Ma allora non è che si sapesse cos’era il comunismo o il socialismo, più che altro abbiamo avuto tante riunioni che venivano… però parlavano sempre di questa libertà perché la Resistenza non è stata fondata solo dai comunisti e dai socialisti, c’era tutto il popolo, era il corpo di Liberazione che era tutto il popolo che diceva cosa si doveva fare per essere liberati da questo. Questo è un esempio dell’impatto quando siamo arrivati in questo paese.

Pian piano andiamo su per la mulattiera, tutti pieni di fango, era il 12 o il 13 gennaio con un freddo, poi eravamo vestiti senza paltò, senza niente. Allora mio fratello mi diceva: “Vedrai…”, anzi direi che molti di noi lo pensavamo, perché quando presero l’8 Settembre i militari, li portavano in Germania, però si sapeva che andavano a lavorare. Invece anche loro hanno fatto… comunque noi si sperava di andare ad un lavoro. Allora andiamo su con queste SS con i cani, che se si sbagliava… eravamo già stanchi, perché quattro o cinque giorni con poco da mangiare avanti e indietro, però l’esperienza mi dà anche questo, che loro, secondo me, facevano questa cosa perché, saltando giù dal treno, eravamo deboli, non c’era una reazione di una fuga, di qualcosa perché eravamo tutti deboli, in maniera che nessuno aveva il coraggio magari di fare una … le hanno studiate tutte queste cose per riuscire bene nel loro programma, andiamo e arriviamo. Quando si apre il portone, ecco, io e mio fratello ci siamo abbracciati e abbiamo detto: “Ma qui è la fine del mondo”.

Vedere questo spettacolo, tutti questi prigionieri, tutti così magri, poi c’era qualche morto qua e là. Chi chiamava aiuto. Mi ricordo che sotto a Mauthausen c’è un muro dove ci sono delle catene e c’erano due o tre che chiamavano aiuto, legati alle catene. Aveva ragione Costa quando diceva: “Se andiamo lì forse non riusciremo più nemmeno a ritornare” e ci siamo abbracciati tutti e due e poi ci hanno messi in fila e pian piano abbiamo fatto tutto il giro. Il primo ti toglieva i vestiti, il secondo ti depilava e poi al terzo stadio ti segnavano un numero e poi ti facevano una fotografia a mezzo busto.

Questi erano i tre stadi, il quarto è quello di andare a fare la doccia. Là tutti assieme e poi si veniva fuori con due zoccoli. Anche lì bastonate, due zoccoli con un panno in spalla, non il vestito, un panno in spalla. E in mezzo alla piazza c’era un freddo! Allora io mi ricordo che con mio fratello pensavamo: “Cosa abbiamo fatto per venire qui, cosa abbiamo fatto di male?” Si diceva. Comunque l’abbiamo purgata abbastanza bene. Dopo due o tre ore arrivano. Ecco il numero. Ci danno il numero con il vestito, perché loro dovevano cucire, attaccato alla giacca e poi i pantaloni. E siamo partiti, lì siamo stati fermi un’oretta, neanche, e siamo andati per un’altra scala e ci hanno portato alla quarantena.

D: Armando, il tuo numero te lo ricordi?

R: 115523.

D: Ascolta, assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No, il triangolo è quello lì, attaccato al numero, il triangolo è rosso, solo che era un po’ sbiadito, l’ho lavato, l’ho messo a posto, però man mano che si consuma, era da tanti anni…

D: E lì ti hanno mandato poi alla quarantena.

R: Alla quarantena eravamo tutti … l’impatto è stato questo, che era pieno in una maniera! Ci siamo messi in mezzo ad un baracca larga come da qui a lì, a dei materassi, sei per ogni materasso. Era lunga 100 metri, eravamo cinquecento, seicento, settecento noi, tutti in fila come le sardine. Qualche volta si divertivano: il Kapò da una parte e uno correva sopra di noi. Correre un Kapò e in due si correva e se uno si lamentava, chiamava aiuto, davano delle grandi legnate. Chi prendevano, prendevano. Questo è durato … perché lì a Mauthausen è un campo che prende la manodopera e la dà fuori e la manda in questi altri quarantotto sottocampi, non è che vadano là, muoiono lì. Man mano che le fabbriche volevano della manodopera e Mauthausen dava questa manodopera, di carne umana che eravamo noi, le cavie. Lì siamo stati fermi un venti giorni, però durante questo periodo non è che si lavorasse… si lavorava saltuariamente, però più che altro ci facevano tribolare. Alzarsi alla notte, se uno faceva dei rumori in mezzo alla piazza anche se pioveva, nevicava, bagnava, non bagnava, era uguale Loro si divertivano anche a fare questo. Per loro era un divertimento, ma per noi era un grande sacrificio, anche psicologicamente era una cosa che quando sto pensando delle volte, dico: “Io non saprei come ho fatto a venir fuori da questo coso”. Comunque siamo riusciti e abbiamo fatto questi venti giorni, più o meno e da lì mi pare che una mattina siamo partiti un bel gruppo e lì eravamo assieme io e mio fratello.

Torno indietro un passo. Io ho compiuto gli anni a Mauthausen il 23 gennaio, sono arrivato il 15. Mio fratello in quel momento non era lì. Dopo un pezzo arriva, “Oh”, dice, Armandin compi gli anni oggi?” “Sì”. “Guarda mo’ qui”, eravamo in mezzo alla piazza, “Guarda mo’ qui in che condizioni compi gli anni”. Ci sono stati tanti morti e poi chi chiamava aiuto, chi bastonava, era un delirio. Gli dico: “Io li compio oggi, tu li compi il 20 luglio. Tu non so in che modo li compirai e che terra pesteremo in quel momento”. Ci siamo andati ad abbracciare e poi abbiamo fatto un gran pianto, perché pensavamo ai nostri genitori, che loro non sapevano questo viaggio che si faceva, in che condizioni eravamo, voglio dire questo. Da lì, verso il 2 o il 3 di febbraio fanno questo gruppo perché …. a 5 chilometri e noi siamo partiti a piedi, siamo andati a … so che sono due campi e in mezzo c’è la divisione. In quel momento mi hanno diviso da mio fratello. Questo per me è stata la cosa che non posso dimenticare questa cosa perché eravamo più che fratelli, poi anche dal lato umano. Delle volte uno aveva qualcosa, magari aveva preso delle botte e aveva bisogno di sfogarsi, non avevi nessuno al quale potevi riferire queste cose, questo malumore.

In quel momento mi sono stato …. e andiamo in baracca e cominciamo a… nel frattempo che sono fuori, senti anche questo è un atto di fortuna, dice: “Non dire che sei un contadino, digli che sei un meccanico”. Di corsa, un italiano che è passato lì, perché quando ha visto che eravamo italiani, ha detto: “Non dite che siete contadini, siete dei meccanici”. Allora andiamo dentro, arriva un tedesco, non capivo niente, che avevo già il sangue che mi andava in fondo ai piedi. Dice: “Italiani… meccanico”. Al mattino dopo partiamo in treno perché … rimane sotto … e … te sai che si andava in treno coi vagoni merci. Si parte, si va a questa stazione che era distante, 500, 600 metri, a piedi sempre a piedi. Mettevano un centinaio di prigionieri ogni vagone e poi dopo uno fischiava. Chi andava su rimaneva… lì non c’era niente. Mi ricordo una volta che ho cercato di dare una mano a uno per venir su, mi è arrivata una legnata qui sopra e mi ha spaccato il labbro qui, che ho pianto. Non si poteva aiutare. In quel momento diventa difficile anche per noi il lato umano, non si era più … però se avevi un italiano vicino, un fratello vicino, quando riuscivi magari a collegare il discorso, qualche cosa poteva aiutarti per il morale e tutte queste cose. Andiamo in questa fabbrica, tu sai quanti chilometri di galleria aveva e poi, prima di arrivare lì anche questa strada, perché si saltava giù 500 metri prima.

Questa strada tutta piena di fango, sempre continuamente si doveva girare, non potevi andar sui margini perché arrivavano coi cani, con le botte. Sempre fango, era un delirio. Arriviamo in questa fabbrica. Dopo sei un numero, l’avevo imparato un po’ abbastanza nei venti giorni che siamo stati su a Mauthausen, avevi imparato il numero.

Il tedesco non lo so nemmeno ancora, però un po’ lo capivo. Mi chiamano, mi mettono vicino … dico: “Meno male che almeno siamo coperti dal fango, dalla pioggia, dal freddo”; era abbastanza caldino. Mi fa partire una macchina elettrica, io dico: “L’ho vista”, era una sega, so che tagliava i tubi. Metto giù la mano, trovo l’interruttore, proprio l’ho preso al volo. Non ho mai più avuto problemi con loro perché lì dentro magari il lavoro non era faticoso, era noioso, però non era faticoso. Primo non avevi i Kapò ai calcagni, ce n’era uno ogni cento metri, però nelle baracche invece ne avevi tre, erano continuamente in giro, invece lì non avevi … e poi avevi la protezione dall’acqua, dal freddo…

D: Quando tu dici sono stato lì in fabbrica, ma queste fabbriche erano quelle dentro le gallerie?

R: Sì.

D: Lavoravi nelle gallerie?

R: Lì si lavorava intorno e si facevano degli aeroplani. Nel nostro banco si saldavano dei tubi, le misure, si sbavavano e poi c’erano i saldatori che, man mano che noi si provava, li mettevano e poi saldavano, non so cosa facessero. Questi saldatori sapete quant’acqua hanno … per noi a rischio, perché l’acqua era avvelenata. Non si poteva bere e non davano l’acqua loro. Era avvelenata, veniva il tifo. Allora bisognava stare attenti anche a questo. Durante questo lavoro, col tegamino a rischio, si dava ai saldatori con la fiamma ossidrica la scaldavano e tutti sentivano questa bollente, ti sentivi bene. Il lavoro non era molto pesante, era … anzi tutte le mattine passava in ingegnere austriaco. Veniva da fuori perché la fabbrica era gestita da civili. Allora questo ingegnere veniva da fuori e passava, non ha mai detto che ho sbagliato qualcosa. Guardava, ogni tanto diceva: “Italiano gut”. Andava bene perché il lavoro non era poi così difficile. Le misure con tutti i suoi stampi, ho sempre incontrato … questo voglio dirlo forte e piano, questo tedesco per me era anti hitleriano. Era una brava persona, perché si confidava. Noi avevamo giorno per giorno la cosa della guerra e lui veniva dentro, era amico con uno, non so se era un tedesco, non so cosa fosse e lui gli dava le notizie del fronte della guerra. Questo era per me uno degli uomini, posso dire anche sul lavoro non ha mai detto niente a nessuno di noi, veniva dentro… poi andava via. Si vede che … l’unico che potrei dire che è stato un tedesco buono.

Vado avanti con la fabbrica. In un giorno si doveva fare un aereo, perché 12 o 14 chilometri di gallerie tutte attrezzate, alla fine veniva fuori un aereo. Fuori c’era il collaudo. Man mano che andavano su, nove su dieci venivano mitragliati dagli americani e venivano messi giù un’altra volta. Ma loro andavano avanti lo stesso. Comunque lì si stava, forse anche la gioventù, ma lì forse mi ha salvato la vita. Mi ricordo uno che era con noi, loro adoperavano tutte le cattiverie per demoralizzarti, per andare in bagno dovevi domandare al Kapò, delle volte ti facevano andare sopra una scalinata che era un freddo da cani anche se pioveva, nel frattempo che vado sopra di lì trovo un nostro amico di Bologna, si chiamava Bruna. Mi fa: “Gasiani, come sei magro”. Gli dico: “Ma tu ti sei guardato? Sei l’ombra”. Sono andato per un bel po’ di tempo, dopo pochi giorni non l’ho più visto, si vede, lavorando fuori alle gallerie, alla pioggia, ma scherzi? Era un lavoro… Era il mangiare che non c’era, non era tanto il lavoro, la fatica, ma era il vitto che era poco, le sostanze che erano poche che non potevi tirare avanti.

Un fisico ha bisogno delle sue sostanze per sopravvivere, sennò … e poi man mano che si andava avanti, calava sempre il menù del mangiare. Perché? Perché a Mauthausen arrivavano quelli dei campi che sgomberavano da Dachau, Auschwitz. A Mauthausen non saprei quante migliaia c’erano e il mangiare era quello che era e calavano sempre. Invece di dartene un litro, te ne davano tre quarti, poi il pane, invece di dartene un etto e mezzo, te ne davano un etto, la margarina mai più. Calavano anche e il lavoro, uno che lavorava fuori era molto pesante, allora ci volevano delle sostanze molto buone. Il lavoro non era… però il Kapò era cattivo, era cattivissimo. Tutte le sere che noi si veniva fuori, si dovevano caricare i morti che morivano dentro o che facevano morire. Perché bisogna dire anche questo, o che li mettevano in un forno, o che li impiccavano o che li ammazzavano di botte, tutte le sere ogni tanto toccava anche a te. Chiamava il numero, non dovevi mica rifiutare. Quando chiamava il numero non sapevi mai cosa dovevi fare, andare incontro a questi Kapò o alle SS dovevi ascoltare quello che dicevano, se indovinavi a capire bene, sennò erano dei guai. Alla sera si caricavano tutti questi morti che venivano durante le dodici ore di lavoro e si portavano al treno per portarli nel campo Gusen che lì c’era il forno crematorio che magari li cremavano. Direi di fare un appunto, questa è una cosa molto … il Kapò era molto cattivo.

Lo spiego questo perché una cosa che è capitata e sono andato vicino alla morte in questo caso. Lui aveva la corda, il banco delle bastonate, lo sgabello. Una mattina era un giorno che avevamo dormito poco perché siccome lì si facevano dei turni di dodici ore e si cambiava turno, allora quando si lavorava di giorno, si andava in baracca di notte e qualcosa riuscivi magari a riposare, ma quando di notte andavi suonava sempre l’allarme. Non è che se tu dovevi riposarti, ti lasciavano riposare, ti mandavano fuori sotto a quella montagna dove c’era il , c’era una galleria, ti mandavano su. Da noi, andare da Gusen 1 a Gusen 2, ci saranno stati 500, 600 metri e ci mandavano. Quando c’era l’allarme tu dovevi stare fuori. Un giorno non abbiamo chiuso occhio. Allora quel giorno … adesso abbiamo interrotto. L’allarme non è finito e siamo andati a lavorare al mattino. Ti puoi immaginare, ci alzavamo alle quattro, quattro e mezza e si andava al lavoro e in quel momento andare dentro in questa galleria un po’ il caldo, un po’ la stanchezza, io mi sono messo lì… così. Il Kapò mi ha visto, è corso di volata lì … me ne ha dette, di qua e di là avevo un russo e un polacco, mi hanno dato un colpo, perché loro si sono immaginati che veniva contro di me perché avevano visto la mossa. Però un colpo da non credere… questi due ragazzi parlavano un po’ il tedesco, chissà loro erano riusciti a capire o che lo sapevano prima perché erano prigionieri anche da prima, si vede che loro avevano capito, io no. Parlavano con questo Kapò e dicevano: “Non è vero” e mi hanno portato fino al suo banco. … Questa era stata la cosa più umana che nella vita abbia avuto da gente che non conoscevo, questi due ragazzi che cercavano di tirarmi indietro e poi piangevano in un modo proprio di compassione, un modo umano. Lì c’era lo sgabello e la corda, ero vicino allo sgabello e la corda era alta così, era in terra lo sgabello e di là c’era lo sgabello da appendere, il bastonato anche portare alla fine della vita perché non aveva remissioni quello lì. Ad un bel momento, continuavo a piangere, loro hanno fatto proprio così… penso che sia venuto solo io indietro, penso che sia solo io venuto indietro da lì. Nessuno ha mai visto tornare indietro. Li hanno sempre finiti.

Questo lato umano si vede che nel momento … e i ragazzi quando vado a scuola me la domandano questa cosa, il perché. Io ho i miei dubbi che lui l’abbia fatto umanamente. Secondo loro dovevano bere quando venivano in officina, avevano un mezzo litro di grappa, loro dovevano avere, perché non si può infierire su una persona che non ti ha fatto niente così terribilmente a bastonate o finirlo. Lui secondo me, il mio giudizio, non aveva bevuto, era sano di mente e si è sentito … il lato umano in questo caso l’ho capito in questo modo, lui non aveva bevuto, perché sennò non si scappa. Quando ti prendevano erano feroci in una maniera che lo deve vedere per credere … che facevano sulle persone, quando le prendevano in che modo le facevano finire. Bisogna vedere queste cose per capire. Questo lato ai ragazzi dico: “Per me è stato un attimo di compassione”. Avrà detto: “Vivrà cinque o sei giorni, poi morirà da solo”, perché eravamo già alla fine di marzo.

Con questo io direi di aver finito qui, andiamo avanti ancora? Questo il campo e poi il ritorno. Il ritorno…

D: No, aspetta. Quindi ritornavi a Gusen 2 e alla Liberazione dov’eri?

R: Viene dopo.

R: Adesso torniamo al ritorno della fabbrica. Come ho detto prima chiamavano delle volte il mio nome per caricare questi morti per portarli nella baracca perché là c’era il forno crematorio per poterli bruciare. Ma quando si entrava dentro questa piazza, non è che facessero subito in modo per andare a riposare, mancava sempre qualcuno. O lo facevano perché mancava, o lo facevano per diminuire le ore di riposo, qualcosa che per noi era molto grave perché eravamo stanchi anche dodici ore e poi al mattino tre ore prima e poi andando avanti le ore cominciavano anche ad essere molte, in piedi e non finiva mai. Poi quando si rientrava c’era la barba, la riga dei capelli si dovevano fare tutte queste cose e dovevi stare in fila che molte volte dormivi… si riposava molto poco. Questo è il rientro, perché loro non riuscivano mai a trovare il conto che volevano, secondo me era una scusa sempre per diminuire, tanto la nostra vita in questo campo doveva durare dai quattro ai cinque mesi al massimo e dare più la possibilità di guadagno, di manodopera e noi come durata era questa. Perché il loro compito era questo qui, noi eravamo dei politici, degli avversari, allora noi dovevamo finire in questo modo, finire in una tragedia molto triste.

Bisogna aver visto queste cose per capire, perché anche spiegando, andremo dopo, cinquant’anni di silenzio che ho passato senza dire queste cose, però queste cose caricano in un modo la persona, che, saltando fuori da lì, non è che poi sia… è una cosa eccezionale, non so come sia che sono riuscito a saltarne fuori. Quando vado con i ragazzi, vedo questo qui, mi domando: “E’ tutto di guadagnato dal ’45 in poi la mia vita è tutto di guadagno”. Nonostante adesso che sto parlando è ancora meglio. Questa è stata la giornata che ho spiegato anche nel mio libro, delle mie esperienze, della mia testimonianza e arriviamo alla Liberazione.

La Liberazione è avvenuta il 5 maggio, però erano quattro giorni o cinque giorni che non si andava più a lavorare. I Kapò non c’erano più. A noi hanno detto che i Kapò li hanno fatti fuori i tedeschi a Gusen 2, li hanno fatti fuori loro, però di sicuro non so. Non c’erano, c’erano tutte le guardie, si erano cambiati i vestiti, dalle SS si erano messi i vestiti del Wermacht, tutti cambiati, si erano cambiati di divisa tutti i militari. Quando il 5 maggio era una giornata abbastanza bella, io mi sono messo da una parte vicino a un muretto perché io ormai ero agli estremi, perché se mi metto in mischia qui rimango schiacciato come tanti dopo. Stavo verso le 11 così, vedo una strada lunga 200 metri, vedo un’autoblindo con questa bandiera che arrivava. Tutti contenti e sono andati tutti perché le SS erano di fuori, da noi, erano nella villa fuori dal campo, erano lì tutti i capi della SS, allora tutti, io no, sono corsi vicino a questa rete, perché eravamo ancora chiusi e loro quando sono arrivati hanno domandato chi erano i responsabili. Uno ha tentato di fuggire, l’hanno fatto fuori, gli hanno sparato e l’hanno fatto fuori. Poi il resto hanno detto: “Questo, questo” e ne hanno presi sei o sette, li hanno caricati sull’autoblindo e poi hanno detto con il microfono che c’era chi spiegava, “Gli ammalati vadano negli ospedali che noi arriveremo poi per curare, perché adesso dobbiamo mettere a posto tutte le cose”.

Dopo mezz’ora capita questo, mi giro verso la cucina, ho visto uno spettacolo mai immaginabile. Tutta questa gente che andava a prendere qualcosa. La fame è brutta, si sono dati tutti ad andare a prendere qualcosa e come una valanga. Chi rimaneva sotto rimaneva schiacciato. Finito questo, dopo due ore non c’era più niente. Io non so quanti morti che ci saranno stati là sotto, chiamavano anche aiuto ancora i viventi. Io non giravo perché ero lì messo in una maniera che non giravo più, però sentivo, eravamo distanti 150 metri, ho visto bene questa scena. Io prima ho riso quando sono arrivati gli americani, ma in quel momento mi sono messo a piangere e ho detto: “Guarda in che modo vanno a morire proprio all’ultimo momento”. Quando sono crepati dal mangiare un po’ in fretta.

Ecco questa è la Liberazione e nel frattempo che ero lì, sono arrivati degli italiani che venivano da Gusen 1 e ho cominciato a fare indagini per mio fratello. Infatti trovo uno e mi dice: “Tuo fratello c’è ancora, è vivente e ti cerca”. Ma c’erano tante migliaia di persone, andare a sapere, poi c’erano due strade, una a destra e una sinistra. Bisogna vedere se uno ha preso quella sopra o quella sotto, l’abbiamo cercato un bel po’, ma non l’abbiamo trovato. Il giorno dopo arrivano cinque o sei bolognesi fra i quali Corazza, e ci siamo uniti a loro e abbiamo deciso di venire a Linz a piedi. Abbiamo girato un paio di giorni, in quel momento mi è venuta una dissenteria che non stavo più in piedi. Allora Corazza è andato in mezzo alla strada, si sentiva una motocicletta arrivare. Infatti arriva, era un inglese. L’ha fermato, cercava di farsi capire, io ero messo in condizioni… diceva: “Sta morendo”. Mi ha caricato e mi ha portato a Linz vicino all’ospedale. A 50 metri dalla porta alle 9 di mattina mi sono accorto che era ancora buio, non mi sono mosso. In quel momento ho detto: “Sarà meglio che provi ad andare a bussare da qualche parte”. Lui mi ha scaricato lì, perché si vede che lui aveva fretta e ha detto: “Adesso poi si arrangerà anche lui”.

Ho visto questa porta dell’ospedale, sono andato ad aprire. Due infermieri mi hanno preso a braccio, mi hanno fatto fare il bagno, mi hanno messo a letto, mi hanno dato qualcosa da mangiare, ma è stata roba da poco. Comunque è stata un’accoglienza buona, però si moriva anche lì. Ti davano da mangiare poco, poco serviti, perché forse avevo bisogno anche di medicine che loro o non avevano, o eravamo già, come ho detto prima, noi italiani eravamo ancora forse sotto il mirino dell’odio, perché eravamo un po’ odiati. Dopo 4 o 5 giorni passa la Croce Rossa. Davano un po’ di zucchero, un po’ di cioccolato e poi ci faceva firmare un librone grosso così. Sfoglio, scrivo, c’era anche un italiano, dice: “Hai un fratello qui?” “Sì”, allora sfoglia, era mio fratello. Ma dov’è, dove non è. Ho domandato, “Se vieni giù te lo insegniamo”. Io vengo giù, non giravo, facevo fatica ad andare in bagno. Allora dopo che ho firmato, mi hanno dato questa roba, mi fanno andare fuori dalla porta dell’ospedale. Saremo stati in linea d’aria a un chilometro e mezzo. “Meno male, come sta?” “Sta meglio di te”. Il morale c’era, dico: “Andiamo bene, ci salviamo tutti e due”. Passo questo, qui si muore lo stesso, qui non si vive. Passano tre o quattro giorni, passa una crocerossina di Trieste, sembrava mia mamma. C’era un professore, hanno detto che era un russo e l’autista. E dice: “Se volete venire con noi, noi abbiamo preparato una gran baracca e vi daremo da mangiare e da curare per potervi mandare ai vostri paesi”. “Se mi date una mano, vengo giù”. Infatti mi danno una mano, andiamo su questo camion, eravamo una trentina e ci portano dentro una baracca, saremo stati in duecento o forse più, ognuno con il suo lettino, il lenzuolo. Sembrava tutto un altro mondo. Poi ha cominciato a darci da mangiare sei volte al giorno e una puntura un giorno sì e un giorno no. Ogni puntura che mi facevano, io mi alzavo che andavo avanti così.

Dopo sette o otto giorni dico: “Adesso vado a trovare mio fratello”. Una mattina dico al professore: “Guardi che io vorrei andare a trovare mio fratello che è qui e lo vorrei prendere, è qui a un chilometro e mezzo”. Mi guarda il professore: “Non è che sei messo male, ma quanto ti ci vuole?” “Io penserei in giornata di farcela”. “Ma vai, vai”. Allora parto, avevo un passo discreto, mi ero messo abbastanza in forza come energia, però come chili no. Parto. A 500, 600 metri c’era il comando americano. Mi chiedono: “Dove vai?” “Niente, voglio andare a trovare mio fratello che è là”. “Qui i prigionieri dei campi di concentramento non possono girare”, c’era una malattia che avevano paura che infettasse magari i cittadini. Prova una volta, prova due, prova tre. Non c’è stato niente da fare.

Una volta c’era un italiano gli dico: “Vallo a prendere tu”. “Non possiamo muovere nessuno se non hanno l’ordine di andare a casa”. Loro dopo si divertivano, quando mi hanno visto, si divertivano a venirmi a prendere, mi davano della cioccolata, allora fumavo qualche sigaretta e mi facevano le fotografie. Mi piacerebbe avere quelle fotografie, ne avranno fatte migliaia. Tre o quattro volte sono venuti a prendermi e poi mi chiamavano “la morte vivente”. “Non abbiamo mai visto uno così brutto vivente, proprio pelle e ossa e basta”. Mi chiamavano “la morte vivente”. Passa questo, non sono stato capace. L’unica cosa che mi è dispiaciuto è questa qui per mio fratello, di non potergli dare una mano, poter riuscire a venire lì. Secondo me se veniva lì può darsi che riusciva anche… ma dopo che sono arrivato a casa è venuto uno di Imola che aveva una lettera scritta da lui che diceva che era impossibile per il momento venire in Italia perché era in condizioni non molto belle. É stato lì a mangiare con noi, eravamo una famiglia di ventidue, poi siamo andati fuori. “Vedi adesso come sono, ero là anch’io, tu mi dici la verità”. Mi ha detto: “Tuo fratello quello che mangia non tiene dentro più niente. Sarà difficile che rientri. Secondo me la tubercolosi lo ha ammazzato completamente”.

Se non c’era una cura subito dopo, allora questa era stata la malattia che l’ha stroncato e questo è finito…

D: Armando, tu invece…

R: Il ritorno.

D: Quando sei rientrato?

R: Allora torniamo sul ritorno. Finito questo io sono stato lì un bel po’. Sono partito il 24 giugno che ero in condizioni abbastanza… ho domandato al professore: “Posso andare via?” “Ma sei tanto spiritoso che ce la fai”. Ho fatto una fatica. Partiamo, mi caricano in camion e mi portano alla stazione e là c’era un treno merci. C’erano sei, nove lettini per ogni vagone, si stava da Dio, poi l’assistenza, c’erano i dottori, c’era la Croce Rossa, c’era tutta l’assistenza per poter fare questo viaggio e partiamo. Un treno lunghissimo. Nel primo tempo tutti urlavano, quando il treno è partito ci siamo messi tutti a piangere per la contentezza di sentire il treno, di tornare e siamo arrivati a Bolzano dopo quattro o cinque ore. A Bolzano ci siamo fermati due giorni. Anche lì sono andato all’ospedale, lì c’è poi anche quell’affare che mi hanno dato e poi da lì quando siamo arrivati eravamo in maniera anche già… io sono stato all’ospedale poche ore. Mi hanno detto: “Tu puoi andare, non hai niente, puoi girare, puoi andare a prendere da mangiare e lì c’era tutta roba in bianco, tutta roba di riso”.

Per il microfono dicevano: “Se uno ha fame o qualcosa, venga qui e gli diamo il buono”. Allora non andavo a prendere il buono, dappertutto dove andavo, mi davano qualcosa. Avevo una valigetta grande così piena di pane di riso. Dappertutto me ne davano perché dicevano: “Questo è uno che ha fame veramente”. Lì sono stato benissimo perché ho mangiato abbastanza bene, però non ho sforzato tanto, me l’hanno detto anche loro, non è che deve sforzare perché ancora lo stomaco, era già venti giorni o più che si mangiava un po’ di più, però bisogna stare attenti. Lì c’era tutto pane di riso. Finito questo, c’è una partenza per Modena, non per Bologna, per Modena, ma noi avevamo fretta di arrivare a casa per vedere la famiglia che non sapeva niente. Parte un’autocolonna di venti camion, nel nostro c’era un tedesco a guidare, dopo due chilometri ha cominciato a dire che il camion non andava. Eravamo una trentina su questo camion, nessuno era capace di guidare, perché sennò penso che lui non sarebbe tornato indietro. Perché eravamo tanto imbestialiti, l’odio viene da queste cose perché lui voleva tornare indietro. Arriva un americano con una jeep. E dice: “Gli altri sono già avanti tanti chilometri, com’è che siete qui?” “Non vuol portarci avanti perché ha detto che il camion non va”. Gli punta la pistola dice: “Parti”. Allora è partito e siamo riusciti ad arrivare dietro gli altri. Quando siamo arrivati a Modena, c’era il campo di quarantena e noi eravamo in due e non siamo voluti andare. Abbiamo detto: “Vogliamo andare per la strada, troveremo ben qualcosa da poter…” Erano le 11 di notte, finalmente passa un camion carico di carbone. Uno con l’autista e io sopra il carbone, tutto nero. Arriviamo a Castelfranco. Lui doveva fermarsi, passa un altro, era carico di gesso. L’autista lo conosceva, si chiamava Luppi. Mi ha detto: “Ma sei tu?” Come dire che prima mi conosceva. Dico: “Sì, sono io”. “Salta su”. Anche lì perché ero più leggero mi mettono sul gesso e tra nero e bianco, tra il pelo della barba, perché a diciotto anni si ha la barba, tra la riga, tra lo sporco, avevo un giaccone tutto sporco.

Prima di Anzolo ci mette giù. Poi noi due piano piano siamo partiti. Ad un certo momento ci fermiamo su un argine, c’era una montagnetta e lì abitava una famiglia che erano sfollati a casa nostra. Sente la voce e mi chiama per Serafino. “No, dico, sono Armando”. “Aspetta che ti porto a casa io con la bicicletta”. Viene giù, erano le due e mezza di notte e andiamo a casa mia. Quando sono arrivato a casa, la debolezza, si vede, c’era la casa che sembrava grandissima, le siepi alte, la strada larga. Si vede che la debolezza che avevo addosso, la vista la faceva grande. Suono, dice: “Chi c’è?” “Guarda che ho portato a casa Armando che è arrivato dalla Germania”. Vengono giù, erano in ventuno, il ventiduesimo sono io. Allora non c’era la luce, c’erano le candele o i lumini a petrolio. Cominciano a guardare, ma no, e poi avevo perso la voce che non parlavo, parlavo male perché tra l’aria, il viaggio, avevo perso la voce. Non avevo la voce. Non mi conosceva. Io dicevo: “Sono io”, si vede che ero proprio brutto più del normale, così magro, sporco, avanti e indietro. Ha capito la mamma. “Anche voi”, allora si dava del voi alla mamma, “anche voi non mi conoscete? Sono vostro figlio”. “E Serafino è arrivato?” “No”. Sono rimasti male che non era arrivato, comunque pensavo che fosse arrivato. Mangiamo un po’, mi lavo un po’. Dopo arriva il dottore, arriva dopo un’ora, un’ora e mezza. Era il mio dottore di condotta. Dice: “Dove sei andato? Cosa hai fatto?” “Niente, è capitato un tragitto così, così”. Ho spiegato. Mi ha visitato. Ha detto: “Io non trovo più niente qui. Ti trovo esaurito in una maniera, disfatto”. Lui mi ha cominciato a curare e pian piano ho cominciato a mangiare, in un mese sono cresciuto otto chili. Io penso che fossi sempre dietro a mangiare. Passa questo, vado alla visita del dottore, perché dopo sono stato via altri due anni. A questo campo di concentramento all’arrivo ero malato di polmoni, il dispensario ad un certo momento dice: “Guarda che c’è un viaggio per malati dei campi di concentramento in Svizzera. Se vuoi andare, c’è un posto anche per te”. Allora mio babbo dice: “Sei tu che devi guarire, io penso che tu fai bene ad andare”. Sono andato in Svizzera, sono rimasto là due anni lontano dalla famiglia e questo dottore svizzero faceva per i prigionieri dei campi di concentramento, per curare mille persone. Io sono andato in questo… Da allora non ho mai avuto dei problemi come salute. Veramente sto bene.

Allora per i cinquant’anni… andiamo avanti?

D: Cosa volevi dire dei cinquant’anni?

R: Il silenzio. Forse lo volevo dire prima, va bene anche adesso?

D: Sì.

R: In casa con gli amici di questa tragedia non si poteva parlarne, perché io praticamente non ero io che ero disponibile troppo a dire perché non riuscivo magari a dire. Anche i miei genitori, quando cominciavo a dire, per esempio: “Mi è capitato questo” dicevano “É impossibile”. Allora io emotivo, mi mettevo a piangere e mi chiudevo, fermo lì e soffrivo. Ho sofferto tanto per questa cosa. Anche gli amici, quando con gli amici eravamo ragazzetti insieme e cominciavo a raccontare “La guerra l’abbiamo passata anche noi” dicevano. “Questa non è una guerra, questo è uno sterminio che abbiamo avuto noi, non è una guerra. Io non sono diventato magro così ad andare al fronte, è stato in campo di concentramento, che lì si doveva morire e scomparire completamente”. “É impossibile”. Allora ti dava questo senso di non essere creduto e sono andato avanti per quarantotto, cinquant’anni anni sempre con questo. Io sono venuto a Mauthausen, ma io ho sofferto tanto a venire. Lo facevo anche per accontentare gli altri e poi anche per mio fratello che sapevo già che era morto, anche per andarci, perché se non andavo io, magari, cercavo sempre di mandare i miei fratelli per fargli capire queste cose e per cinquant’anni anni ho avuto questo terribile… io ho passato una gioventù silenziosa, monotona, vivevo da solo, la solitudine. Questa è stata… poi il cervello è rimasto bloccato. Chi mi ha sbloccato è un po’ mia moglie che ha cominciato a dire: “Vedi che per televisione cominciano a dire queste cose, perché non vai anche tu a dirle?” “Se riesco”. “La vita è bella” di Benigni mi ha dato la via d’uscita, “La vita è bella” di Benigni, quella mi ha dato il benestare, perché ho detto: “Finalmente al mondo c’è uno che ha detto la verità senza provocare delle fratture”, anche i ragazzini possono ascoltare e possono fare anche dei calcoli su quello che ha detto e ragionare, senza essere violenti. Da quel momento andare all’associazione, ho cominciato ad andare con Corazza alle scuole e adesso dicono tutti che sono diventato molto più giovane. Si vede che è scattato un meccanismo in me che è stato una cosa e sono contentissimo adesso. Sono l’uomo più contento del mondo.

Corazza Osvaldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono Osvaldo Corazza, sono nato il 9 gennaio 1927 e risiedo a Bologna.

Il mio arresto avverrà ad Anzola dell’Emilia, anzi più precisamente a San Giacomo del Martinone, sempre considerando che noi eravamo usciti, eravamo sfollati da Bologna a San Giacomo del Martinone ed eravamo ospiti di uno zio.

Poi, per effetto dei bombardamenti, le operazioni aeree di Pippo, dato che la casa di mio zio era al lato del ponte Samoggia, allora decidemmo di cambiare il luogo ed andammo in una casa colonica, a casa di un contadino lì vicino, era della famiglia Guermandi e in questa casa, in questo luogo era sinonimo che lì c’era un’operazione resistenziale ed era una base partigiana, era un punto di incontro, di arrivo e di partenza delle varie formazioni che erano in movimento, le staffette che arrivavano portavano comunicazioni, quindi era un’operosità di quel genere.

Noi vivevamo in quella casa e non è che avessimo delle grandi funzioni in quest’operazione resistenziale, però operavamo insieme ai figli del contadino, nel conservare il materiale, armi ed altre cose, che le varie squadre, partigiani di passaggio, dopo le operazioni che svolgevano, quello che recuperavano lo portavano lì.

Noi raccoglievamo le armi, le tenevamo pulite, ed era un modo per dare continuità a questo movimento.

Diciamo così che noi ormai lo ritenevamo una cosa abbastanza normale perché spiritualmente, idealmente, la mia famiglia è sempre stata antifascista.

Mio padre era stato nel 1916 – 1918 consigliere comunale socialista di Anzola dell’Emilia, era stato anche bastonato ecc.

Quando, a Bologna avvenivano delle manifestazioni fasciste, lui veniva preso e poi portato dentro al gruppo rionale di Santa Viola, per esempio quando passava Mussolini in treno che da Roma andava a Milano, veniva preso e lo tenevano là, un giorno, una notte, due, a secondo.

Quindi, c’era da parte nostra già una predisposizione a questo movimento, quindi vivevamo nella paura, tenevamo sempre conto di questo perché chi ha vissuto quei momenti si rende conto di quale era la malvagità delle forze di occupazione, le SS, i luoghi fascisti e quindi si consideravano queste cose, però le operazioni venivano svolte.

Lì, come dicevo, la nostra collaborazione consisteva in questo: noi avevamo rapporti anche con altri contadini, altre basi, e noi dicevamo ai contadini che avevamo intorno, considerando che allora era tutto razionato: carne, fagioli, patate, latte, i contadini quando nascevano un vitello, due vitelli, tre vitelli, li dovevano denunciare al Comune.

Allora noi dicevamo: “Non denunciateli tutti quando arrivano due vitelli”. Così noi, dopo un certo periodo, andavamo a prendere questi animali, facevamo la macellazione, suddividevamo i pezzi, li mettevamo dentro dei sacchi di tela juta perché fosse una cosa grezza e quelli poi li portavamo alle altre basi che svolgevano questo tipo di operazioni, perché in questi luoghi non è che c’era una casa abbandonata. Voi pensate che c’era mezzo paese in quella casa, e anzi dirò che siamo stati fino a quarantatré residenti in quella casa e quindi c’era un movimento abbastanza aperto.

Quando facevamo queste operazioni di rifornimento alle altre basi, io o altri, andavano dal contadino sopra, nei luoghi in cui bisognava andare, con le armi, lì radunavamo e quando c’era un certo numero di armi, le mettevamo dentro ai carretti in mezzo a fascine ecc. e poi li portavamo in su, due o tre o quattro contadini, poi là abbandonavamo la cosa e lui pensava a fare la stessa cosa per riuscire al rifornimento delle armi alle formazioni partigiane di montagna, che erano tante in montagna, però l’unico difetto era proprio questo: la mancanza delle armi, perché nelle zone intorno, dove noi operavamo, qui operava la sessantatreesima brigata Bolerno, non è che sono avvenuti dei lanci di armi, rifornimento.

Questo è avvenuto, più che altro, nelle cime, ma soprattutto in Romagna. In Romagna sono avvenuti questi lanci, ma qui nell’Appennino nostro poco, nel Modenese, Monte Fiorino ed altro.

Diciamo che era una base che aveva questo carattere: era abbastanza operativa.

Direi anzi che la sera stessa che noi siamo stati arrestati all’interno della stalla, c’era una squadra di otto, dieci, dodici partigiani, non ricordo bene, che al momento in cui siamo stati circondati, loro riuscirono attraverso il portone dietro della stalla, a rifugiarsi dentro a un rifugio che noi avevamo preparato precedentemente in mezzo alle balle di paglia, avevamo lasciato un vuoto che sarà stato tre metri, due metri per due metri e mezzo circa e si tirava fuori una di quelle balle, entravano e poi si ritiravano dentro le balle.

Avevano spazio per respirare, perché filtrava aria.

E si rifugiarono lì perché subito dopo l’operazione di accerchiamento della casa e della stalla non avrebbero più fatto in tempo.

Il nostro arresto avviene a causa di una soffiata, diciamo così, ed è avvenuto un rastrellamento un po’ di giorni prima di questo rastrellamento, a San Giovanni in Persiceto, hanno arrestato moltissime persone, tra i quali c’erano anche alcuni partigiani che vedremo poi che sulla deportazione, noi troveremo i Comuni di San Giovanni in Persiceto e Anzola dell’Emilia, i due Comuni che hanno più deportati per effetto di questi arresti generalizzati e poi selezionati attraverso questi soggetti che erano i delatori.

Infatti ad Anzola dell’Emilia c’era un ex partigiano che era diventato il delatore.

Molti confronti sono stati fatti in carcere con noi e lui diceva: “Questo sì, questo no”, questo vestito con delle maglie, che le formazioni partigiane avevano distribuito e allora dicevano: “Questo è vestito…”, e tutte le volte che tu uscivi da questi confronti erano botte, ti dicevano: “Dove hai preso quella maglia?”

E io che ero un ragazzetto con una fisionomia abbastanza infantile, io dicevo: “Non so, me l’ha dato mia mamma, non so dove l’ha preso” e poi sberle, sganassoni, pugni.

Insomma lo svolgimento era questo.

Per tornare al periodo dell’accerchiamento, questi partigiani verso la mattina romperanno l’accerchiamento.

Premetto che nel mese di ottobre, questo avviene il 2 dicembre del 1944, nel mese di ottobre, per effetto della rottura degli argini del Samoggia, si era prodotto un grande allagamento e anche lì da noi nel cortile c’era così tanto di malta nella campagna, ancora di più.

Loro, alla mattina presto, aprirono il buco, aprirono il varco e fuggirono e riuscirono a fuggire tutti fuori che uno si sentì sparare.

Questo non riuscì a scappare e si andò a rifugiare nell’orto, e lì venne visto, trovato e portato in casa.

In quella mattina, mattina molto presto, venimmo arrestati, gli uomini che erano in quella casa. Il figlio del contadino Gaetano e un altro, un certo Bruno Baiesi che erano anche loro nelle formazioni, erano in casa a dormire e quando hanno sentito tutta questa cosa, sono fuggiti per una porticina e si sono nascosti sotto un sottoscala dove la donna di casa teneva le fascine di biancospino, le fascine adatte per cuocere il pane nel forno. E si andarono a nascondere là.

E sono stati nascosti lì per due giorni.

Infine, in un momento di calma, di tranquillità, che le SS avevano allentato la vigilanza, uscirono dalla porticina dietro e si andarono a rifugiare dentro un altro rifugio che avevamo scavato in un argine del Samoggia, con una botola, che quando era chiusa non si vedeva niente, e stettero là fino a un giorno o due prima che i tedeschi abbandonassero perché dovettero decidere, perché era pericolosissimo perché il portare loro da mangiare… Una notte uscirono dalla botola, entrarono dentro il letto del fiume ed uscirono nel sotto argine, la barlaida, la chiamavano e sono fuggiti verso Anzola e si sono nascosti in altri luoghi fuori dall’accerchiamento.

Questo che avevano trovato l’hanno portato in casa e hanno cominciato a interrogarlo con botte, calci, pugni, faceva sangue dappertutto e volevano sapere chi era il comandante e tutte queste.

Poi infine ci legarono con un cappio da contadino per il collo e in fila ci portarono fuori.

D: Chi è che hanno legato Dado? Te…

R: Tutti. Ci legarono..

D: Anche il tuo babbo?

R: Eravamo in otto, come ho detto, ci legarono con questo canapo e poi in fila ci portarono fuori, ci caricarono su un camion e ci portarono fuori.

Usciti dalla cavedania di questo contadino c’era già la strada della Persicetana, lì a fianco c’è il cimitero. Lì c’erano due o tre camion, siamo arrivati con il nostro camion e cominciarono: alt…, parlavano, discutevano e siamo stati lì un bel po’ e questo ci faceva pensare, c’erano le grandi paure, perché si pensava che poi ti avrebbero fucilato al cimitero.

Dopo un pezzo, invece decidono e ci portano a San Giovanni in Persiceto.

A San Giovanni in Persiceto avemmo prima un interrogatorio, alla casa del fascio, dove c’era….

D: Ma questo sempre le SS.?

R: Lì vorrei precisare che hanno fatto il nostro arresto le SS.

Dietro alla delazione di ogni soldato tedesco che era fuggito dalla formazione militare ed era entro entrato nelle formazioni partigiane.

Ora, tutto fa pensare che fosse stata una mossa politica per fare spionaggio.

Io non lo so, per il tipo, il soggetto che era, un ragazzo abbastanza mite, non credo che fosse stato .., comunque a parte questo…

Fatta questa operazione ci portarono via, arrivammo in San Giovanni in Persiceto e subito ci portarono al Comando dei fascisti, delle brigate nere che fecero un primo sommario, interrogatorio.

Poi ci portarono dentro alla Caserma dei Carabinieri, c’erano delle cellette e lì stettimo due giorni.

C’erano le cassapanche, c’era la paglia, si dormiva lì e ogni tanto dallo spioncino del portone passava un tedesco e diceva: “Domani tutti kaputt”, e questo non è che…

Questo incoraggiava sempre di più il pensiero che saremmo stati fucilati, impiccati perché già sapevamo di questa operazione dei tedeschi, quindi vivevamo in una grande paura. Quando sono arrivati i tedeschi in casa, nell’arresto, io ero timoroso, pauroso, anzi direi che a malapena riuscivo ad allacciarmi le scarpe dalla paura, perché bisogna immaginare l’atteggiamento di queste persone quando arrivavano, con i calci del fucile, ad ogni mossa, e questo soprattutto per dei ginetti come eravamo noi, non incoraggiava un granché.

Di fatto stiamo due giorni a San Giovanni in Persiceto, poi una sera, verso le nove, le dieci ci ricaricano in camion e partiamo.

Quando si arriva a Bologna, noi vedevamo dalle fessure, si fermarono sulla via Emilia davanti all’entrata della via Gucchi che in fondo alla via Gucchi c’era il tira a segno dove normalmente facevano le operazioni di fucilazione, ci sono oltre duecento fucilati nel tiro a segno.

Anche lì ci fermarono, discutevano, parlavano, solo che noi non capivamo niente di tutto questo.

Vivevamo solo nella paura.

Dopo un lungo periodo ripartirono e ci portarono su.

A noi è parso di aver fiancheggiato i portici per andare a San Luca.

Però questo è un po’ incerto.

Solo che a un certo momento, avanti un pezzo su per la collina ci fermano davanti a una grande villa, con dei cancelli grandissimi, che in fondo a questa villa c’erano delle piante rampicanti, lo ricordo bene perché c’era Carlo Nepoti che poi morirà a Mauthausen e diceva: “Qui ci fermano, qui c’impiccano, andiamo sulle corde”.

Erano piante rampicanti che io vedrò poi, dopo la guerra, andando a percorrere per vedere quei luoghi e ci portarono infine su nella casa di Sabbiuno.

Lì c’era una camera, una grande pagliata, e ci chiusero dentro.

Alla notte ci diedero anche da mangiare, una brocca, di quelle alte, piena di brodaglia, pezzi di carne e dovevamo mangiare con un cucchiaio solo e facevamo un po’ per uno a mangiare.

Ricordo che l’unico indizio che mi fa pensare, e non lo dico con l’assoluto però, perché di notte mi venne il bisogno di andare al gabinetto, e allora a forza di insistere, viene uno con me, un militare, e mi porta là dietro in un posto vicino alla siepe, intanto mi curava, io facevo le mie cose, infine ritorno dentro…

Quindi noi eravamo lì in attesa, senza sapere qual era la destinazione.

D: Scusa, Dado, invece di portarvi a Bologna vi hanno portato a Sabbiuno.

Sabbiuno è una località in un paese….

R: No, è una zona di collina sopra a Casaglia, sopra a Monte Donato, diciamo e, passata la notte, ci ricaricano sul camion e ci riportano a Bologna, al Comando della Gestapo, vicino alla strada …

D: Il Comando della Gestapo era qui ai giardini?

R: Era lì ai giardini, si chiama via Santa Chiara, a lato dei giardini Margherita.

Dalla botola della cantina dove noi eravamo, noi vedevamo, dietro agli alberi dei giardini, il monumento di Carlo Alberto che una volta era nella piazza maggiore, venne tolto durante la guerra.

Come arrivammo giù, lì ci misero dentro in due cantine e incominciarono gli interrogatori.

Mi presero subito e mi portarono su a pulire tutti i gabinetti del Comando e tutta la mattinata rimasi a fare quelle cose.

Poi il pomeriggio iniziarono gli interrogatori.

Ti chiamavano su e ti mettevano a sedere, di fronte a un ufficiale delle SS, su una sedia e incominciavano a dirti: “Tu sei della GAP e della SAP, e io dicevo: “Io non so neanche cos’è la SAP e la GAP”, io non ero niente, ero sfollato là. E cominciarono: “Chi era il Comandante della formazione del GAP?” Noi…, però resistevamo. Alla fine si scoccia, si alza su e si avvicina e ricomincia: “Tu eri della GAP o della SAP?”

Io dissi: “Non lo so”. Così mi diede dei grandi sberlone, dei pugni e allora si infiammò tutto nel parlare.

Dopo un po’ arriva dentro un ufficiale della brigata nera che disse: “Cosa c’è?” E io dissi: “Mi chiede se sono della GAP o della SAP, vuole sapere delle cose che io non so”.

Andammo avanti ancora, lui cercava bonariamente di dire: “E’ meglio che dici, perché è l’unico modo perché tu puoi salvaguardarti” ecc. e così.

Io non dissi niente.

Dicevo sempre la stessa cosa, come un disco.

Finalmente finì.

Io, da questi interrogatori, me la caverò con pugni e schiaffi, però gli altri venivano malmenati molto forte.

D: Scusa, Dado, ritorniamo a Sabbiuno, è una località dove non ci sono abitazioni?

R: No. Dove c’è ora il monumento, il monumento è un arco di cemento con le bocchette dove stavano quelli che fucilavano.

Lì c’era una casa da contadino, una casetta, poi c’erano delle altre, in collina.

La frazione come tale era prima e noi non sapevamo…

D: Perché vi hanno portato lì? Cos’era quel luogo?

R: Te lo stavo dicendo.

A Sabbiuno, poi si scoprirà dopo la guerra, che in quel luogo erano stati fucilati cento partigiani.

Sono stati ritrovati nel giugno del 1945, quindi un mese e mezzo dopo la fine della guerra, giù per questi calanchi che sono calanchi di terra maltosa, erano tutti seppelliti nella malta, per quello ci hanno impiegato tanto a trovarli. Di questi martiri ce ne sono quarantasette riconosciuti e cinquantatre sconosciuti.

Sappiamo che erano in quel gruppo ma non si sono potuti individuare.

Quando portarono su questi gruppi di partigiani arrivava il camion al carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, lo mettevano davanti, veniva fatto l’appello all’interno, li portavano fuori e li legavano, gli toglievano tutto, quel pane che avevano, quel pane che avevano racimolato e gli legavano le mani dietro alla schiena. Li cacciavano sul camion e partivano.

Ricordo molto bene queste cose perché io vidi partire mio cugino Bruno che sarà uno di questi fucilati. Poi conoscevo bene il muretto, una medaglia d’oro, perché eravamo Dante e Dusiani, dove eravamo stati a scuola elementare insieme, non sapevo che erano partigiani quelli, però li vedevo, perché io ero nella cella di transito, proprio di fronte all’entrata o all’uscita di San Giovanni in Monte.

D: Scusa, queste fucilazioni condotte lì a Sabbiuno, sono state eseguite da chi?

R: Dalle SS, potrebbero esserci anche delle brigate nere, ma quando uno andava nelle mani della Gestapo, quelli rimanevano in mano alla Gestapo.

Finiti gli interrogatori alla Gestapo, lì c’era la selezione o chi era fucilato o chi era eventualmente deportato, se non alcuni, come dirò, di noi otto che eravamo, tre di questi saranno rilasciati dopo gli interrogatori perché erano vecchi, due erano vecchissimi, poi c’era il garzone del contadino che era un montanarino che allora usava così, andavano a prendere i poveri ragazzi, però forti per lavorare, era un po’ semplicione, e anche quello viene rilasciato, Toni si chiamava.

Io lo ricordo molto bene perché molte volte lo schernivamo anche perché era un po’ semplicione.

Degli altri cinque, due saranno fucilati in Sabbiuno, quel famoso Baiesi che trovarono quando ci hanno arrestato e l’anziano contadino, era un omone, un vecchietto, era un uomo forte come forza, pieno di arroganza.

Quando durante il periodo dell’occupazione, le brigate nere venivano nel cortile dei contadini, venivano lì e cominciavano a sparare alle galline, derubavano, e lui veniva fuori dalla stalla con il forcale: se torni a tirare un colpo di fucile te lo pianto… Diceva così. Non aveva paura.

Dicevo che due sono stati fucilati lì, altri due, io e Nepoti Carlo saremo invece mandati a Mauthausen.

Mio padre, che era in carcere con me, quando sono venuti a chiamare all’interno della cella, cominciarono a chiamare Corazza Osvaldo e quando arrivarono alla fine Corazza Gaetano non l’avevano chiamato, però dentro all’ufficio matricola, dove c’era il salone in cui ci avevano radunato per deportarci in Bolzano, chiamarono anche Corazza Gaetano.

Non c’era, si vede che nel chiamare, lui avrà letto: “Corazza l’ho già chiamato ed è passato giù, immagino io”.

Lì, all’ufficio matricola chiamano “Corazza Gaetano, Corazza Gaetano”, non c’era. Ne avevo altri due di Corazza insieme a noi, che erano due cugini miei, che uno poi morirà a Gusen, l’altro invece verrà a casa e lì dice che ci fanno partire.

Mio padre rimane in carcere, che dopo una ventina di giorni, partiti noi, lo mandarono ai confini della Svizzera, a badare a dei cavalli, dopo alcuni giorni che era là abbandonò i cavalli e arrivò a casa, arrivò a casa prima della Liberazione.

A noi invece ci caricarono il 22 dicembre, se ricordo bene, arrivammo all’antivigilia di Natale a Bolzano, però facemmo una notte fermi in una scuola a Pecognaga, perché ci portarono via, si partì si vede tardino, verso la mattina eravamo nei dintorni e ci portarono a Pecognaga.

Lì ci portarono dentro quella scuola e stemmo lì tutto il giorno, sempre guardati dalla SS.

Si vedeva la piazza di Pecognaga.

Alla sera ci ricaricarono sui camion e via. Si parte, si passa il Po su questi ponti fatti di barche e giungemmo a Bolzano in mattinata.

D: In quanti eravate più o meno, Dado?

R: Eravamo novantun uomini e nove donne. Erano due o tre camion.

Mi ricordo che sul camion avevo l’avvocato Costa vicino che aveva una gamba diritta e mi diceva che gli stavo addosso alla gamba. Ci avevano pigiati lì dentro così e così si doveva andare.

Arrivati a Bolzano, lì comincerà l’operazione di tosatura e anche l’immatricolazione.

Io avevo il numero 7.973, detto così me lo ricordo un po’ meglio. Poi pensate che ci sono degli amici miei che non si ricordano che li avevano numerati perché poi i ricordi sfuggono dopo tanto tempo.

Lì fu la prima volta che ci dissero: “Da oggi in avanti voi avrete questo numero, non avrete più nome e cognome”, la prima volta.

Poi di nuovo, ci rinnovarono questa espressione quando arrivammo a Mauthausen.

Dal 22 di mattina stemmo fino al 6 di gennaio in Bolzano.

Lì non facevamo niente, non si faceva niente e al mio arrivo, racconto questo episodio perché simpatico, incontrerò il mio amico Balboni, che era amico mio perché eravamo vicini di casa, eravamo nel bar insieme.

Quando eravamo lì in fila, diritti così, arrivò un gruppo che veniva da fuori, allora si avvicinò a Balboni e disse: “Siete di Bologna?” E noi rispondemmo: “Sì, siamo di Bologna”. “Non c’è nessuno di Santaviola?”

C’ero io, Balboni… “Ma com’è che sei qui?” Allora parlarono in fretta, perché lì menavano… Poi ci portarono dentro al posto.

Ricordo che di tanto in tanto, lui che veniva di fuori riusciva a recuperare qualche po’ di miele o cose del genere e ogni tanto ce lo portava.

Insomma lì passammo questi giorni in Bolzano, sembrava che si fosse aperta la prospettiva di poter andare a lavorare dietro il campo, che stavano allargandolo, sembrava ci fosse un ufficiale americano, un pilota e dicevano che era il capo che conduceva i lavori di carpenteria e allora noi chiedemmo se si poteva andare a lavorare lì. E non ci dissero neanche di no e si arrivò che ci spedirono via e non riuscimmo a combinare niente.

Da Bolzano ci caricarono il 6 di gennaio…

D: Dado, ti ricordi, scusa, nella tua brevissima permanenza a Bolzano, se hai trovato anche dei religiosi?

R: Io dirò questo: dei ricordi di Bolzano, di espressioni spirituali no…, poi neanche nel resto.

Ricordo bene che facevamo arrabbiare un nostro amico, che era deportato lui, era molto religioso.

Ogni tanto qualcuno si metteva una gabbana nera e diceva: “Pietro, vieni qui che ti voglio confessare”.

Stiamo facendo un monumento dedicato a lui e a un altro.

Si chiamava Pietro…

D: Ma di sacerdoti non ne ricordi?

R: Ne troveremo due quando arriveremo a Mauthausen.

Comunque lì, una delle cose impressionanti che vidi, alla mattina veniva fuori dalla baracca, dalla baracchetta per andare a fare il bagno, in mezzo, in fondo al piazzale di Bolzano c’erano le celle.

C’erano le celle e dentro a queste celle, ricordo, quando passavamo, c’erano dei mongoli che erano quelli che dalle truppe russe erano passati alla collaborazione. E li avevano arrestati perché chissà cosa avevano fatto. Comunque facevano degli urli che sembravano dei selvaggi.

Un giorno, mi capitò una mattina, che passando di lì, uno di questi venne di lì dall’inferriata e portò un deportato e gli fece vedere che aveva del pane. Quando si avvicinò lo prese per il collo e se lo tenne lì, io vidi che cadde in terra. Non so se era morto o quasi morto perché io tagliai la corda.

Secondo me era morto, ma non ho la certezza.

Così imparai che quella era gente così.

Una delle cose più grosse erano quelle lì.

Del resto lì abbiamo vissuto una vita da niente.

Il 6 gennaio venimmo ricaricati e portati in stazione. Lì ci stringeranno dentro i vagoni, non lo so quanti eravamo, sessanta o sessantacinque, so che non c’era posto per tutti, solo in metà vagone ci si poteva sedere e bisognava fare i turni, arrivammo a Mauthausen l’11 gennaio, alla mattina presto.

D: Scusa, Dado, siete partiti da Bolzano da dove?

R: Dalla stazione ferroviaria di Bolzano, con il camion, da dentro il campo ci portarono alla stazione e da lì ci ricaricarono dentro i vagoni bestiame.

Il viaggio fu molto lungo, perché voi pensate che da Bolzano ad arrivare a Mauthausen ci sono 400 km, per treno penso ci saranno 350 km e stemmo nove, dieci giorni in viaggio.

E ci hanno dato da mangiare una volta, a metà del viaggio che fu il 9 gennaio che io compivo diciotto anni quel giorno.

Fu un viaggio molto penoso e non ci furono dei morti nel mio vagone, ma in altri vagoni sì.

Mi ricordo bene che una delle cose penose era la sete, c’era il fiato pesante.

Allora, per rinfrescarci la bocca leccavamo i bulloni che fissavano le piastre che tenevano ferme le aste del vagone e facevano una brina, e le cavavo quelle o con le dita…

Da mangiare ci diedero un bussolotto di carne tritata, una specie di Simmenthal, e una pagnotta di pane, ogni due.

Dopo, con quei bussolotti, con le cinture, dal mezzo del finestrino che c’erano i fili, aprivamo i fili reticolati, mettevamo giù i bussolotti per raccogliere un po’ di neve, a volte ci andava bene e delle volte ci andava male.

A volte si raccoglieva un po’ di neve, a volte dei sassi, a volte anche dello sterco che dietro alle ferrovie non mancava.

Durante questi giorni e notti ci lasciavano fermi delle ore.

Non era freddo, neanche se era gennaio, all’interno del vagone, e poi eravamo anche abbastanza vestiti perché in carcere, durante il periodo della permanenza in carcere, un giorno alla settimana potevano venire dei familiari a portarci qualcosa da mangiare, vestiti, quindi eravamo abbastanza vestiti. Non era neanche freddo, almeno non ricordo che era freddo.

Arrivammo a Mauthausen, ci scaricarono a Mauthausen e finita l’operazione di scarico, ci avviarono. Passammo dentro alla cittadina di Mauthausen che non è come era adesso.

Adesso c’è il viale di circonvallazione. Allora non c’era.

Il viale di circonvallazione che costeggia il Danubio non c’era. C’era solo la strada che passava al centro.

Al lato destro c’è una rupe, una grande collina dove sopra ci sarà il campo e a destra tutte le residenze.

Ricordo che quando passavamo dalla città, si vedevano i bambini che guardavano e curiosavano e le donne, quando vedevano che passavamo, chiudevano gli scuri, si tiravano dentro, insomma. Non avevamo delle scherni, altri amici miei mi hanno detto che invece trovavano dei bambini che tiravano loro i sassi, sputavano, ma io questo non l’ho verificato.

Arrivati a Mauthausen ci fecero percorrere la strada all’interno, come dicevo, di quella gente che era lì in giro e cercava di allontanarsi più che di curiosare o tanto meno di solidarizzare, che non sarebbe stata cosa facile, è vero, tanto per chi fosse stato nazista o antinazista, venire a solidarizzare era una cosa pericolosa.

Passato il paese c’è una mulattiera che va su dal paese, non è più la strada normale che si fa ora, su per questa mulattiera finalmente arriviamo sopra, come arriviamo sopra nella strada, a sinistra c’era una casa del contadino che c’è ancora e subito a destra tu vedi la facciata del campo, c’era la neve.

Le mura che sono belle grigie adesso, ma nel confronto con la neve erano mura scure.

Sopra al campo c’erano dei nugoli di corvi che urlavano perché lì intorno c’erano le famose fosse comuni, di cui noi sapremo dopo, e di cui io non ho mai saputo.

Arrivammo dentro al campo e come arrivati al campo, un episodio simpatico, appena dentro il portone, fermano tutta la fila e io rimango lì tra il dentro e il fuori del portone.

Lì di fianco c’era un marocchino, un francese, era un mulatto che spazzava. “Italiani…, good maccheroni…”, diceva e continuava a spazzare.

Poi ci portarono dietro alla prima baracca di destra e lì ci fermarono e incominciarono l’operazione della spoliazione, la rasatura e infatti in venticinque o in trenta andavamo giù, ci fecero fare la spoliazione e dissero: “Mettete lì la roba che poi quando uscite dalle docce…”. Intanto ci facciamo avanti, di qua e di là c’erano due barbieri che ci tosarono da capo a piedi.

Noi eravamo già rasati da Bolzano e lì ci fecero la prima riga, la Strasse.

Così, spogliati, nudi, comincia quest’operazione.

Io ho assistito alla prima operazione di punizione di due preti, che erano due preti di Milano, uno di qua e uno di là e non volevano farsi tosare sotto e hanno preso tante di quelle botte da fare paura, perché lì ti tosavano la parte sopra, io non avevo niente da tosare, non avevo la barba, nel petto non avevo il pelo, ci fecero salire su un mensolino alto come una sedia, e poi ti tosavano sotto. Poi ti davano la creolina, questo dopo che venivi fuori dalle docce.

Fatta la rasatura, si andava dentro. Quando eravamo tutti dentro, ti facevano fare la doccia, e fuori di là quando uscivi la tua roba non c’era più.

Lì c’era un bancone, ti davano un paio di mutande, una maglia, un paio di scarpacce e fuori.

C’era la neve fuori, ci portarono fuori e lì aspettavamo perché finché non si era raggiunto un certo numero non si andava in baracca.

Finita l’operazione di questo, allora ci portarono in baracca, dentro il campo di quarantena.

Come arrivammo là ci diedero da mangiare, una sbobba dolcina, una cosa proprio che non si poteva mangiare e sopra, perché erano tutti castelli, file di castelli e qui c’era la… che ti dava questa roba e noi facevamo gli schizzinosi perché nonostante tutto, venivano dal carcere, da Bolzano e qualcosa mangiucchiavamo.

Così c’era un deportato spagnolo, lì sopra a sedere, al terzo piano del castello che diceva: “Mangiatela perché non la mangerete mai più. C’era dentro del semolino, della roba…”

D: Dado, il blocco di quarantena, ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No, il numero non lo ricordo.

Ricordo che appena entrati dal cancello eravamo nel primo blocco. Non so venti, ventuno, ventidue, erano tre, credo, i blocchi di quarantena, però alla quarantena stemmo solo pochi giorni.

Nei blocchi di quarantena c’erano i castelli a tre piani, quelli dove l’ultimo batteva la testa sopra.

Ricordo bene che c’era anche uno di questi spagnoli, un certo Eolo, ci cantava “Limon Limonero”, una canzone spagnola, bella…, voi siete giovani, non la sapete.

E lì fu la prima esperienza della baracca. Arrivò poi il giorno dopo che ci diedero la numerazione.

Come vi dicevo, ci misero a sedere contro il muro della baracca, lì ci misero a sedere e poi una piastrina con il numero: 115.453.

E ci fecero la foto, perché questo rimaneva il documento del campo, cosa che non troveremo mai.

Non credo nessuno abbia trovato le foto di Mauthausen, quindi credo siano state distrutte, a meno che non saltino fuori tra altri cinquanta anni.

Solo che non possiamo vedere se siamo venuti bene!

Ora, lì fatta quest’operazione, noi rimaniamo in attesa…

Dirò, ritornando indietro, che dei cento che siamo arrivati a Bolzano, le donne rimarranno a Bolzano e partono solo gli uomini e alla fine della Liberazione torneremo a casa dodici, tredici, quattordici, il numero preciso non lo so, non lo ricordo.

Fatta quell’operazione, noi al campo non saremo adoperati per andare alla scala, alla scala della morte, anzi io dirò che della cava ne avevo sentito parlare perché vedevamo, alla mattina, quando sull’Appel Place ci facevano la conta, vedevamo che arrivavano verso le 6, i deportati del blocco di eliminazione, laddove c’erano quei russi, che poi avverrà il tentativo di fuga e arrivavano su moribondi, stramazzavano in terra insieme ai sassi, si accatastavano in terra.

Allora mi dissero che quelli andavano nella cava per prendere questi sassi, ma io non l’ho mai vista, anche quando sono stato liberato.

Sono stato liberato a Gusen, ma non l’ho mai vista la cava. L’ho vista solo dopo la guerra. Quindi lì non facevamo niente.

L’unico impegno per cui io sono stato utilizzato all’interno del campo è quando è avvenuto il tentativo di fuga.

Noi usciremo dopo tre o quattro giorni dal blocco di quarantena, entriamo lì, credo nella seconda baracca, fuori dal campo di quarantena, credo fosse il blocco dodici, tredici, era il secondo dietro.

E lì, invece noi non avevamo più i castelli, ma avevamo i pagliericci in terra.

Alla sera, entriamo in questa baracca, era tutta vuota, solo lì in fondo c’era una pila, una catasta di questi materassini che poi, alla sera, i Kapò ci dicevano: “Via, stendere…”, ci facevano stendere i materassini e loro ci mettevano a letto.

In fila, così, testa e piedi, tutto il piano coperto di deportati, solo il sentiero in mezzo, che poi loro per divertimento, quando giravano ci giravano sopra.

Quando le notti sono rumorose, alla mattina, alle quattro ci svegliavano e ci mettevano in fila sull’attenti fuori, accanto alla baracca e a me è capitato una volta di essere fuori. Ti lasciavano lì, alle cinque, alle sei, alle sette, tre, quattro ore, finché volevano e stavamo lì sull’attenti.

Quando qualcuno non resisteva e cadeva mettevano là il mucchio di neve, se rinveniva tornava in fila, altrimenti lo portavano via.

A me è capitato una volta, in quel periodo che eravamo lì, avvenne il famoso tentativo di fuga, là dal blocco di eliminazione, in quella baracca che era definita di eliminazione perché là ai deportati che c’erano il mangiare lo portavano solo quando rimaneva, quando rimaneva del mangiare dalla quarantena, allora passavano dietro, perché questo era dietro alla quarantena, e gli davano da mangiare. Altrimenti andavano alla sera a caricare i cadaveri e via.

Nei primi giorni del febbraio del 1945, sarà il 4, il 5, o il 3 febbraio, avvenne questo tentativo di fuga.

Nel pieno della notte cominciammo a sentire sparare, sembrava il terremoto, le mitragliatici, i fucili.

Noi eravamo rinchiusi nelle baracche.

Durò un paio d’ore tutta quest’operazione. Verso mattina, appena giorno incominciarono a prendere degli uomini e con i carri, i carriacci che erano là, sempre trainati, andarono fuori dal campo a caricare i cadaveri.

Io vedevo, quando tornavano che erano insanguinati, dei pezzi di carne ecc., ma noi eravamo ancora lì in baracca.

Arrivarono lì, verso le nove, le dieci, a mattina fatta insomma, anzi forse anche un po’ più tardi, perché prima sgombrarono tutti i cadaveri che poi li portavano nelle botole, che li davano ai forni crematori e ci vennero a prendere a me e a un altro. Ci diedero una specie di barella fatta a cassa e con uno delle SS dietro ci porta fuori dal carro e andammo là fuori a raccogliere gli zoccoli, gli stracci, voi immaginate il pandemonio.

Se da questo tentativo di fuga, la storia dice che ci saranno circa seicento morti, i superstiti sono una decina, poco più o poco meno.

E’ vero, c’era un pandemonio.

Noi andammo fuori, caricammo questa cassa e poi tornammo dentro.

Ci fecero andare giù dalla scala dei forni crematori, passammo dentro, davanti ai crematori e poi ci portarono là in fondo che c’era un magazzino di carbone a vuotare la roba là dentro e poi tornammo fuori.

Fu l’unica occasione in cui vidi i forni crematori, poco lontano c’era anche la camera a gas, però questa è una storia che credo siano pochi che la possano raccontare perché chi ha lavorato nei forni, chi ha lavorato nelle camere a gas veniva eliminato. Quindi era difficile trovare qualcuno che potesse testimoniare di queste cose.

Forse sarà qualcuno di sopravvissuto probabilmente, un tedesco.

Insomma, una storia molto sconosciuta.

Quindi torniamo in baracca.

Io assistetti all’arrivo prima di questo tentativo di fuga, all’arrivo dei deportati che arrivavano da Auschwitz tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, L’1, 2 o 3 febbraio, non ricordo bene. Ricordo bene però che Teo Ducci mi disse che arrivò il primo di febbraio. Noi vedemmo arrivare questi deportati e li portarono là dietro, dove portarono noi.

Tieni conto, quando arrivammo noi, che ci misero lì, c’erano dei deportati che erano già dentro. Arrivavano là dietro, di nascosto, e dicevano: “Avete degli orologi, degli anelli, dateci tutto, perché ci tolgono tutto…” ma chi ci credeva? Noi pensavamo che questi facevano i furbi per poi dopo trafugarci e questo non potevano farlo con quelli di Auschwitz perché quelli avevano meno di quello che avremmo avuto noi.

Insomma lì arrivarono alla sera, e il pomeriggio verso sera erano tanti, tantissimi, non so quanti.

Però lì morirono tre, quattro, cinquecento deportati morirono assiderati nella notte, là fuori, aspettando di fare quest’operazione di tosatura, disinfezione, uno potrebbe dire: che tosavano se venivano dai campi? Però avevano scrupolo di ripulire e poi ci disinfettavano con quella creolina, una roba puzzolente, che bruciava.

Facevano quest’operazione, per dirvi che io non ho mai avuto i pidocchi, neanche a Gusen.

Avevo una scabbia spaventosa, forse era per quello che non si rigiravano.

Però non ho mai avuto gli insetti.

Verso il 5 o il 6 febbraio ci incolonnarono e ci portarono giù a Gusen.

Ai primi di febbraio, ci incolonnano a piedi, scenderemo da Mauthausen e per strada arriviamo a Gusen.

Ci fanno entrare tutti a Gusen 1, poi lì a Gusen fanno la selezione di quelli che rimangono a Gusen 1, noi usciamo di nuovo e andiamo a Gusen 2.

A Gusen 2 ci suddividono nelle varie baracche.

Quando io arrivo nella mia baracca, di cui non ricordo il numero, ma penso il 10, non ne sono certo, perché ero un cinazzo e me ne fregavo di quello che avveniva intorno e cercavo solo la strada per non essere picchiato e trovare il mangiare.

Infatti mi portarono dentro a questa baracca ed era vuota, si vede che erano già partiti per Saint George, per il lavoro. Andai dentro questa baracca, guardavo, e ad un certo momento sentii dire, guardavo, andai a vedere, là in fondo, al piano di sotto del castello, c’era un deportato, mi avvicinai e parlava in francese, e io ho detto: “Sono italiano”. E mi ha chiesto: “Italiano?” Lui era un professore francese di italiano. Mi ha detto: “Com’è che sei qui?” Allora io tergiversavo e dicevo: “Non so, sono stato preso, mi hanno portato…”

Così lui mi parlava un po’ da padre dicendo: “Questo è un posto in cui è difficile sopravvivere, quindi tu stai attento, cerca di capire subito le cose che ti dicono, perché altrimenti sarai bastonato continuamente, quindi cerca di intendere tutto quello che ti dicono”.

La sera che arrivarono a casa, mi diedero il pasto e dove dormire, dormivo con un forestiero, non era uno dei nostri.

Passò la notte e alla mattina già ero in squadra per andare a lavorare. Quando sono tornato, alla sera dal lavoro, non c’era più. Non so se l’hanno portato all’ospedale o se l’hanno portato invece al Revier perché a Gusen 2 c’era la parte davanti con tutta una fila di baracche, undici, dodici, credo che l’infermeria era il dodici o il tredici. Dietro all’infermeria, fuori dal recinto c’era il blocco di eliminazione, con una grande piazza e c’erano i binari del trenino che ci portavano a Saint George dove c’era la galleria con la fabbrica della…., ogni mattina, ogni sera, a secondo del turno che si faceva, arrivavamo nella piazza, e ci mettevano davanti ai vagoni tutti preparati, aprivano il vagone e a bastonate ti facevano salire sul vagone. Non ci stavano mai tutti.

Allora, chiudevano, facevano andare su tutti, poi quando avevano finito l’operazione ce ne erano ancora sette, otto, dieci, riaprivano il vagone, risalivano la scaletta, incominciavano a bastonare dentro, si faceva il vuoto, due legnate a quelli che erano giù per andare su.

Erano legnate tutte le volte lì.

Una mia esperienza all’interno di questi carichi, per Saint George fu questa, qui c’era l’entrata del vagone, nell’angolo a destra, io ero proprio là nell’angolo.

In uno di questi momenti che ricaricavano quelli sotto…, gli altri si allargano e venivo schiacciato, quasi stavo per soffocare perché mi spingevano in questo angolo. Finalmente si allentò un po’ la cosa e mi ripresi, per dire come poteva essere l’operazione di carico.

Il percorso di questo trenino, con un soldato della SS di qua, e di là, e seguivano a passo d’uomo il trenino. Di notte, avevano i cani, avevano dei fari a pila per vedere. Poi, avevano la macchina che non trainava, ma spingeva, andava indietro con la raspa che raspava sui binari per evitare eventuali fughe ecc.

Quella era l’operazione di carico quando si arrivava dentro al piazzale della fabbrica e si scendeva incolonnati, ci portavamo davanti al primo stallen, la prima galleria, e lì c’erano quelli che contavano alla sera, alla mattina.

La conta è sinonimo di una delle pene a carattere psicologico perché ti tenevano alla conta anche delle ore, delle volte e ti tenevano lì e ricontavano, così facevano perché tanti entravano nell’officina e tanti dovevano uscire. A volte si rimaneva lì delle mezze ore, ancora più, che ne mancavano uno, due o tre, che li andavano a cercare e li trovavano già morti, dietro delle lamiere, degli angoli bui. Li trovavano là, erano andati per riposare e poi morivano. Quando c’erano tutti, allora si ritornava.

Io, in fabbrica, ero a banco e facevamo gli sbavatori.

Le lamiere che venivano tranciate, facevano la bava e noi, nella morsa, mettevamo queste lamiere e poi con la lima limavamo queste.

Eravamo in quattro, c’ero io qui a destra, c’era un triestino che non ho mai più rivisto, non ricordo, non so se è vivo o morto ma non l’ho mai più trovato.

Di fronte a noi c’erano due rossi che erano due rossi che erano in carcere con noi nel carcere di San Giovanni in Monte, che erano nelle formazioni della Stella Rossa, erano di Sesia Bologna perché dovevano venire alla liberazione di Bologna, poi sono stati arrestati, trovati e poi hanno fatto il percorso della deportazione. Erano lì, lavoravano con noi.

Si lavorava, sbavava ecc.

Una delle pene era andare al gabinetto perché quando andavi al gabinetto c’era sempre la fila, c’era la fila perché c’era un mucchio di deportati che aveva la diarrea.

Ricordo che una volta avevo davanti a me uno di quei bimbetti che erano poi gli amanti dei Kapò e girando gli presi nel tacco della scarpa e gli si sfilò la scarpa, si girò indietro e mi diede due sganassoni. Allora, io mi tirai indietro, perché se tu toccavi uno di quelli lì eri spacciato. Anche se arrivavano che litigavano, lì loro menavano tutti, lì per andare al gabinetto…, per dire com’erano le varie peripezie.

Un altro episodio all’interno dello stallen, del reparto di lavoro fu quando veniva l’allarme e toglievano la corrente dall’interno. Noi potevamo riposarci, stare lì, ma non potevamo muoverci dal banco e un giorno venne l’allarme, tolsero le luci, ci misero lì a riposare.

Era un bisogno estremo per noi sederci in terra. Dopo un’ora, un’ora e mezza venne la luce, cominciammo a lavorare, da lì arrivava il responsabile della SS del reparto perché in ogni reparto c’era una SS più il Kapò. Di civili c’era uno solo che era il capo reparto tecnico, bell’omone, moro.

Arrivò la SS da lì sotto, da me veniva fuori un rivolo di acqua e allora lui disse: “Chi ha fatto pipì?” Io no, lui no, nessuno, manda a prendere il Gummi, comincia a bastonare il primo rosso di qui, dopo otto, dieci botte, si alzò su e gli picchiarono nella testa, cadde in terra, lo massacrarono di calci la SS e il Kapò, poi portarono via quello lì massacrato e sotto l’altro che fece la stessa fine.

Delle volte, i ragazzi mi chiedono: “Quali sono stati i momenti in cui lei ha avuto paura?”

Io paura l’ho avuta sempre dal momento che mi hanno arrestato, sempre.

Lascio immaginare a voi, in questo momento che tu eri in attesa di quest’operazione. Anche questo rosso che non vedremo mai più.

Dopo andò sotto il triestino, gli cacciarono dieci colpi di Gummi e lo mandarono al posto a lavorare. Poi andai sotto io, sei colpi di Gummi, un calcio nel culo e a posto e cominciammo a lavorare e vi dirò che con soli sei colpi di Gummi, per quindici giorni non potevo sedermi, perché picchiavano forte.

C’erano i Kapò che picchiavano forte perché erano malvagi, perché lo sanno tutti, ma anche il più bonario doveva picchiare, altrimenti la SS diceva: “Te le do a te”.

E questo fu uno degli episodi più drammatici all’interno della galleria di Saint George.

D: Dado, scusa un attimo, queste gallerie dove erano allestite le officine, erano molto grandi?

R: Vi dirò, le gallerie di questa officina io non le conosco perché arrivavamo dentro dopo che ci avevano contati, arrivavamo dentro e ognuno si smistava per i suoi reparti. Gli stallen erano i vari reparti. Passando per andare là in fondo dove lavoravo, vedevo che qui a destra e a sinistra c’erano altre gallerie. Io non ho mai visto. Ho visto, due anni fa, a Gusen che c’è un plastico adesso. Sono rimasto strabiliato, non meravigliato, perché è una fabbrica di una grandezza immane, con tutti questi reparti, queste gallerie, era bucata quella montagna e d’altra parte il nostro treno era un treno bello lungo, che ci portava dentro, ci scaricava nel cortile. Voglio dire che c’erano molti deportati, quindi doveva essere grande, però il problema della deportazione si può anche dire poco perché quando tu vivevi nel campo non è che tu potevi andare a girare, curiosare, che c’era il pericolo dei Kapò e delle SS.

Quando eri in fabbrica ancora peggio, non potevi andare a girare perché lì c’erano i Kapò che sorvegliavano…

D: Dado, voi lavorate dentro nelle gallerie, nelle officine installate nelle gallerie per quante ore?

R: Dodici ore facevamo dalle sei del mattino alle sei di sera.

D: C’era umidità? Il clima com’era? Si respirava? Era caldo?

R: Dove ero io si stava abbastanza bene, perché era proprio di fronte all’entrata, era molto lungo ma comunque era arieggiato abbastanza bene, umidità non ce n’era. La vita era quella.

Una vola assistetti, non era del nostro reparto, ma di un altro reparto, un operaio veniva punito non so cosa aveva fatto e lo misero su un banchetto alto così e poi lo misero in piedi e gli diedero un altro banchetto e gli facevano fare le flessione.

Voi lo vedrete non nelle foto del museo di Mauthausen, ma nei disegni, quei disegni li hanno fatti dei deportati, altrimenti non si possono fare delle cose così espressive alla realtà e lo misero lì e una flessione, una, due, dopo tre o quattro flessioni cadde giù e lì venne massacrato come hanno fatto con quel rosso.

Dico queste cose non tanto per impressionare, ma per dare dimostrazione dell’ambiente com’era, il lavoro non era né difficile, né massacrante.

Però, il problema era questo: tu eri costretto a questo tipo di ambiente, quindi non era tanto la fatica, quanto invece la condizione di sopravvivenza Anzi, io dirò che penso che il motivo della mia sopravvivenza, come di altri, sia dato dal fatto che noi abbiamo lavorato in galleria ed eravamo coperti dalle intemperie, da tutte le fatiche, perché chi lavorava nelle cave, chi lavorava a fare le gallerie, quella era roba da schiavi.

E io penso che uno dei due o tre elementi fondamentali per cui siamo sopravvissuti è questo dell’avere lavorato in galleria, questo sia uno dei punti fondamentali. Perché dovere lavorare fuori, mezzo svestito, sotto l’acqua gelida, al ghiaccio è difficile sopravvivere.

E questo avviene fino a pochi giorni dalla Liberazione.

D: Dado chi era Carlo Manzi?

R: Carlo Manzi era un amico nostro, che era in carcere con noi. Era di Decima di Persiceto. Carlo Manzi…

E la sua fine è stata una fine brutta.

Anche se lui muore inconsapevole perché ormai era ridotto in coma, era sfinito, perché lì tu morivi di sfinimento.

Quando noi parliamo di musulmani, Manzi sarebbe stato un musulmano. Solo che ci sono dei musulmani che prima di arrivare al coma totale riescono anche a girare, però quando tu incontravi uno di questi, gli parlavi, come io parlo a te, ti guardavano con degli occhi così ma non capivano niente di quello che tu gli dicevi.

Manzi era ormai ridotto in quel modo e l’occasione in cui l’ho visto finire è stato quando, una sera, tornando dal lavoro, venne il Kapò come responsabile della SS, il Manzi non era venuto al lavoro perché ormai era…, l’avevano tirato giù perché dormiva al primo piano basso, hanno preso via un assetto da sotto, gliel’hanno messo sul collo e poi il Kapò gli ha messo il piede sopra intanto che loro due parlavano, intanto che lui era spirato.

Poi lo portarono via e non lo vedemmo più.

Carlo Manzi…, ho avuto un problema, quando sono tornato a casa, le sue sorelle sono venute a trovarmi in ospedale, però si sono raccomandate che non andassi a casa sua perché la mamma soffriva di cuore. Io ho detto che era morto, ma non ho detto così perché non aveva importanza dire queste cose. Può avere importanza a livello testimoniale per dare esempio, ma sul piano sentimentale non serve a niente.

D: Dado, tu con altri, avete mai pensato alla fuga?

R: Sì, questa è una cosa…

Direi che è quasi ridicolo pensare nell’ambiente in cui vivevamo…

Avanti un pezzo, in fabbrica, Stanghellini che era un anziano che là c’è morto suo figlio, lui ha assistito alla morte di suo figlio, Stanghellini Adelio che verrà a casa, anzi sarà quello che mi porta a casa, era stato nel blocco di eliminazione, al Riviere perché suo figlio era andato all’infermeria, all’ospedale e dopo un pezzo non arrivava più in baracca e allora si sapeva che dopo due o tre giorni che erano all’infermeria, o tornavano al lavoro o venivano inviati al Riviere. Allora Stanghellini che parlava un bel po’ il tedesco perché nel 1939, lui era immigrato a lavorare in Germania, 1938 – 1939, poi venne a casa, quindi lui parlava un po’ il tedesco.

Una volta si avvicinò al capo tecnico, il civile e gli disse: “Guarda che noi siamo italiani, ecc. siamo qui…, non siamo dei delinquenti”, lui stava lì e disse: “Guarda, noi abbiamo due persone che hanno un mucchio di oro”. Glielo raccontavano, abbiamo due amici milanesi che sono pieni di oro, insomma siamo una squadretta di sette, otto.

“Se tu ci porti fuori a lavorare alle macerie, dietro alla ferrovie… “Allora lui disse: “Ma…”, non si scandalizzò.

Il fatto che non si impaurì.., però lasciò una porta aperta nel senso che non si arrabbiò ed affrontò il discorso.

Una settimana dopo ritornò alla carica dicendo: “Allora, cosa dici?”

“Noi abbiamo quest’oro e te lo diamo tutto”.

Gli disse intanto che non poteva perché non aveva queste funzioni di portare fuori la gente, ma disse: “Anzi, se potessimo fare una cosa del genere, io vorrei venire con voi”. E così il discorso rimase lì.

E passò il tempo, la cosa non andava.

Finalmente lui disse, una volta: “Tu decidi, altrimenti noi tentiamo una fuga disperata”.

Avevamo preparato già un paio di cesoie che avevamo fasciato con degli stracci perché c’era un gabinetto che era fuori dal campo, si andava sopra alla collinetta, c’era anche la collinetta, tanto morire dovevi, eravamo già all’estremo. Non saremmo fuggiti, perché non ce la facevamo neanche a correre, però la disperazione ti fa fare di tutto.

Allora lui ci disse: “Non fate delle sciocchezze, delle stupidaggini perché fra cinque, sei giorni ci sarà la Liberazione”. E la Liberazione avvenne davvero.

E’ stato onesto.

Stanghellini che poi mi porterà a casa ha assistito all’uccisione di suo figlio in questo modo, quando era anche lui al Riviere una sera, vanno dentro due Kapò, chiamano Atos, suo figlio e lo portano fuori.

Com’era fuori dalla porticina, gli cacciarono una legnata nel collo e li ammazzavano così e li portavano nel piazzale là fuori, che quando noi prendevamo il treno, ogni mattina, vedevamo delle centinaia là fuori.

Atos venne portato fuori verso la mattina, però di nascosto ritornò in baracca. Aveva il collo che era più grosso della testa. Era impossibile che potesse sopravvivere. Però arrivò e tornò a letto alla sera. Ripercorsero la stessa cosa, andarono a riprenderlo e così lo uccideranno.

Il padre uscirà dal Riviere perché in quei giorni doveva venire la visita della Croce Rossa Internazionale, che noi non sappiamo, io non ho mai visto niente, noi eravamo gli ultimi e allora per effetto di questa eventuale visita, vuotarono il blocco di eliminazione in Riviere, lo vuotarono e lui tornò in baracca.

Arrivai una sera io da casa da lavorare perché lui dormiva con me, e c’era un altro nel mio piano, andai lì, gli diedi una… , come vedeva che lo scuotevo, mi guardava, quasi cadavere dicendo: “Corazzino…”, era disfatto…, non l’avevo conosciuto. Era a letto che tremava, aveva un paio di mutandine corte e una camiciola e basta.

Io mi ero organizzato un paio di mutande felpate e gli diedi queste mutande, poi andai a letto …, insomma nel giro di due o tre giorni si riprese. Lui si riprendeva e invece io calavo sempre…

D: Scusa, un attimo, Dado, queste punizioni che tu accennavi, tipo Atos e tipo gli altri che andavano a prenderli, che venivano puniti. Le ragioni quali erano?

R: Nel Riviere non erano punizioni, erano uccisioni. Venivano eliminati, invece di dare un colpo alla nuca, gli davano una legnata, così non facevano sangue, così non si sentivano i rumori. Così risolvevano le loro cose.

Questa è la conoscenza che ho del Riviere, perché quando Stanghellini tornerà, lui mi racconterà questa cosa e un bel po’ della mia sopravvivenza è anche dato da questo perché lui mi prenderà come sostituto di Atos, guai se qualcuno mi avesse fatto un dispetto, altrimenti imbestialiva.

E mi ha praticamente portato a casa, perché io non riuscivo a girare tanto e dove mi trovavo, dopo due minuti già dormivo e dovevano prendermi e andare.

D: La Liberazione. Tu dov’eri al momento della Liberazione?

R: Dalla Liberazione a venire avanti c’è un po’ di storia tragicomica.

Io ero a Gusen 2, alla baracca dove mi misero all’arrivo ed erano già due giorni che non andavamo a lavorare e si sentiva dire da Radio Scarpa che era morto il Furher. Ma il fatto che non lavoravamo, non ci davano neanche da mangiare.

Così, ad un certo momento, dopo due giorni ci accorgemmo, una mattina, che fuori dai reticolati c’era lo steccato dei reticolati, al di fuori due o tre metri, c’era lo steccato di legno fitto, che non si vedeva. Noi sentimmo i contadini che passavano con il carico, ma non li vedevamo perché era molto alto e il campo rimaneva in basso. E’ ancora così adesso.

Vedemmo che da là sopra c’è una torretta con un autoblindo con una stella bianca, noi dicevamo: è la stella russa, invece quella era rossa, quella era bianca e incominciò a sparare verso la campagna, fuori dal campo. Allora lì si aprì il cancello, proprio nella vicinanza, a metà c’era un cancello nel reticolato, venne aperto perché corrente non c’era più e abbattuto l’altro steccato di legno, io andai fuori e c’erano tutti i soldati della SS in fila per tre o quattro e c’era un carro davanti con il cavallo e tutti gli zaini sopra e la camionetta sparava fuori dove c’erano i camminamenti antiaerei che ci hanno portato una volta o due, perché questi non fuggissero.

Come sono arrivati fuori i deportati, hanno cominciato a togliere gli assi dello steccato. Li hanno massacrati tutti, io ho assistito a quella scena, ho assistito a quella scena un attimo e poi sono venuto via, perché andavo a cercare da mangiare.

D: Questo ti ricordi quando è avvenuta la Liberazione?

R: Il 5 di maggio.

Intanto che venni giù da questa scena, lì a fianco c’erano due deportati che litigavano per una scatoletta aperta, che uno tirava di qui e uno di lì e si tagliavano le dita, ma nessuno la lasciava andare.

Andai in cucina e dentro la cucina c’erano i deportati, uno, due, con i piedi dentro alle marmitte si tiravano su quella brodaglia che era rimasta sotto, in fondo e andai avanti nella sussistenza nel magazzino. C’era uno scompiglio di gente che faceva paura, si tiravano addosso le scansie. C’erano delle scansie, con dei pani di verdura secca, dei cubi rettangolari grandi così di verze secche, pressate.

Andare là dentro era un pericolo.

Mi avvicino lì, stavano vuotando un sacco di zucchero in dieci o dodici.

Sopra a questo sacco, uno o due ci hanno lasciato le penne senz’altro.

Io ho fatto un tentativo o due, e ho preso un pugno… però sono tornato indietro e me lo sono mangiato. Poi mi sono messo fuori da questo posto e aspettavo che venissero quei cubi, mi mettevo lì, e come ne arrivava uno, gli davo una manata e gliene portavo via un pezzo e me la mangiavo, che era poi quella che loro cuocevano nelle brodaglie.

Infine uscimmo, ci trovammo in sei o sette perché ci fecero uscire per andare a Gusen 1.

Noi arrivammo a Gusen 1, e c’ero io, Gasiani, Franchini, questi di Anzola, ci trovammo in sei o sette e cosa abbiamo fatto? Invece di andare dentro al campo, girammo intorno alla camionetta e poi fuggimmo, andammo via di nascosto. Noi da Gusen a Linz l’abbiamo fatto a piedi. Partito da lì, a me scoppia una diarrea che ogni duecento metri dovevo fermarmi.

Comunque andammo. Cercavamo da mangiare, dovunque ma non si trovava un granché perché la gente si nascondeva. Allora visto che arrivavamo vicino alla sera, ci siamo messi a raccogliere vicino al Danubio, abbiamo trovato un bidone di lumache, poi andammo avanti e a un certo punto cominciammo a sentire dei colpi di fucile, e ci nascondemmo dietro a un argine, ci alzammo, guardammo e di là c’era una casa di contadini. Vedemmo che dei soldati italiani venivano fuori dalla stalla, uno aveva una gallina sotto il braccio, il secchio con il latte.

Allora anche noi dentro a questa casa, eravamo in cento lì dentro, c’era la gente dentro il pollaio, il maiale che urlava, Stanghellini andò dentro il pollaio e riuscì a beccare una gallina.

Io arrivai al piano sopra e come arrivai sopra, c’erano due donne che piangevano, erano disperate. Ho dato una guardata così e poi ho cominciato ad aprire i cassetti dei comò e degli armadi. C’erano dei cassetti dove c’erano anche dei soldi, dei marchi.

Non ce ne fregava dei soldi. Finalmente arrivai in uno sgabuzzino grande così, alto così con dei cassetti, aprii un cassetto e c’era della roba color nocciola, color cammello e pensai: questa è farina. Allora ho cavato il cassetto… però avevo già trovato prima, in un altro cassetto, dei vasetti con della carne, sotto grasso.

E allora me ne ero messo dentro alla giubba e presi questa cassetta di farina e mi avviai giù. Intanto, mentre andavo giù mi assalirono.

Della farina mi è rimasto solo quello che c’era negli angoli, un po’ era rimasta. I bussolotti me li tolsero tutti, me ne era rimasto uno solo. E così andammo.

Appena fatta questa razzia ci avviammo. Dopo un pezzo attraversammo il Danubio sopra un vecchio ponte ferroviario, attivo, c’erano i bombardamenti in corso, ma quello funzionava.

Siamo passati di là, subito di là, voi avete presente dove ci sono le grandi fabbriche siderurgiche lì dentro, andammo dentro una baracchetta lì, da una parte c’erano i fabbri e dall’altra c’erano i falegnami.

Di là c’erano già due o tre russi, in quella dei falegnami, di qua in quella dei fabbri andammo noi.

Poi cominciammo a parlare, loro erano là che provavano a cuocersi qualcosa.

Allora loro ci hanno dato un po’ di pastina, di robina e noi abbiamo dato loro un po’ di farina. Con la gallina abbiamo fatto il brodo e con il grasso del vaso abbiamo fritto le lumache, quando le bollivamo facevano…, hai mai visto cuocere le lumache? Sono buone, allora erano buonissime. Io le mangio ancora adesso.

Comunque, quelle prese e mangiate avevano un saporaccio.

Abbiamo mangiato un bel po’. Quando erano le dieci, le undici della notte abbiamo cominciato a stare male, sembrava di crepare e io capisco quelli che sono morti il giorno della Liberazione, erano centinaia.

Sembrava che lo stomaco si aprisse come una camicia, con dei dolori spaventosi.

Finalmente siamo riusciti a rimettere e ce la siamo cavata e abbiamo passato la notte. Il giorno dopo siamo andati in città e abbiamo trovato rifugio in una casa abbandonata, lì andavamo a frugare dappertutto, rubacchiavamo dove arrivavamo e trovammo una cantina, in una casa bombardata, andammo giù dalle scale, e c’erano delle reti, dei materassi, si vede che ci vivevano i cittadini prima del bombardamenti e ci siamo collocati là.

Poi andavamo fuori tre o quattro alla volta, a fare delle operazioni nelle cantine e rubacchiavamo dove trovavamo.

Una cosa bella, mi ricordo un giorno che giravamo sul marciapiede a Linz, incontrammo due vecchiettini di settanta, ottanta anni, ci parlavano in tedesco e non capivamo cosa dicessero perché non c’era Stanghellini con me, insomma abbiamo capito che ci dicevano: “Eravate prigionieri”. Insomma ci chiamarono dentro una porta, ci portarono in casa e ci misero a tavola. Ci hanno dato un pezzo di pane e un tegame con una specie di ragù dentro. Abbiamo mangiato, li abbiamo ringraziati e siamo venuti via.

Voglio dire che ce ne sono stati di atti di solidarietà e così iniziò la nostra peripezia del ritorno.

Staremo due o tre giorni a Linz, abbandonammo Gasiani perché una mattina eravamo lì, in giro alla ricerca sempre di mangiare, appoggiati contro una muraglia. Ad un certo momento Gasiani cominciò a cambiare colore: verde, giallo, stava male, poi cominciò ad avere una diarrea spaventosa, finalmente passò un soldato americano e abbiamo detto: “Lui male…” Lo prese e disse: “Vieni con me, anche voi venite con me”.

Allora ci avviammo dentro, avanti un pezzo, lui andò avanti e noi scappammo, eravamo lì in giro. Anzi, non scappiamo lì, lui venne con noi. Lo portammo nella cantina, volevamo offrirgli da bere perché avevamo rubacchiato in una cantina delle bottiglie di quel vino fatto di mele. Volevamo offrirgli da bere, quando ha visto… mi era parso che avesse un po’ paura.

Disse: “Andiamo all’ospedale, venite anche voi”.

E noi abbiamo detto: “Arriviamo”. Noi abbiamo preso la nostra roba e siamo andati.

Uscimmo da Linz e dopo un pezzo sulla strada per venire a casa, ci arrivò dietro un cavallo a galoppo e dopo un pezzo si fermò giù in un campo di fieno e allora ho detto: “Tenete che prendiamo il cavallo”.

Ho dato i fagotti che avevo io agli altri e mi sono avviato.

Io avevo abbastanza confidenza con i cavalli perché mio papà era stato anche birocciaio, avevamo tre cavalli noi. Mi avvicinai a lui…

D: Ti avvicini al cavallo…

R: Mi avvicinai al cavallo, lo presi per l’orecchio e poi con la corda che avevo di traverso gliela misi al collo e pian piano lo portai sulla strada.

Come arrivai sulla strada…, e di là urlavano, c’era il contadino che arrivava che veniva a cercare il cavallo, così io gli ho dato due colpi nelle costole e lui ha mollato.

Allora, finché ho potuto tenerci dietro, ci tenevo dietro, dopo rimanevo attaccato, mi dava delle ginocchiate intanto che andava.

Andavo finché potevo andare, avrò fatto più o meno mezzo chilometro, poi sono andato fuori strada, c’era una casona e andai a nascondermi là con il cavallo.

Dopo un pezzo sono arrivati questi miei amici e ho detto: “Allora com’è andata?… quando ha visto che scappavi, lui è tornato indietro”.

Allora lì ci siamo fermati un po’ a riposare e ci siamo avviati. Intanto mettemmo tutti i nostri fagotti sulla schiena del cavallo e poi gira, gira, dovremmo trovare pure una roccia per poter starci sopra, metterci qualcosa.

Dopo un paio di giorni che girammo così, andammo fuori strada e lì c’era una casa, ci girammo intorno, andammo di dietro e c’erano due fiacre, sai i fiacre cosa sono? Le carrozzelle della stazione di Roma, ce n’era uno grande, si vede che era da cerimonia, e uno normale.

Allora noi andammo lì, c’erano delle donne abbastanza giovani, trenta, trentacinquenni. Ci tiriamo fuori il biroccio e non trovavamo i finimenti, perché loro non avevano neanche i cavalli, altrimenti prendevamo uno dei loro e incominciamo con dei fili, degli stracci, dei sacchi a fare i finimenti, la briglia con degli stracci di sacco, il collare e le tirelle.

Insomma riusciamo a farla.

Tieni conto che quel fiacre aveva una stanga solo in mezzo, non è che come i birocci nostri.

Quando stiamo per partire, arrivò una jeep della Militar …, ci fece togliere tutto e così noi ci sdraiammo in terra, piangevamo lì come dei disperati. Finalmente uno di quelli lì che parlava un po’ d’italiano, un mezzo italiano, o i genitori erano italiani, convinse gli altri a raccogliere tutti i soldi che avevano per darli a queste donne.

Così li diedero a queste donne, ma non li vollero, loro non vollero dare…, allora si consultano e dissero: “Attaccate…” però noi non ci siamo visti.

Attaccammo questo cavallo, tutti sopra, ma quando stavamo per partire, incominciò ad alzarsi con le zampe davanti, non tirava, era un cavallo da sella, non era un cavallo da tiro. Allora fummo costretti a fare scendere giù uno e andare avanti, tenerlo per la briglia, andammo in strada e ci avviammo.

Per tutti i giorni facemmo così con uno davanti.

Una volta arrivammo in una salita, sopra, e ci toccò saltare giù perché non riusciva a tirarci sopra.

Comunque saltammo giù e arrivammo sopra su una discesa lunga.

Montammo tutti e Stanghellini guidava e io ero al freno, solo che era un freno che non frenava dolcemente, quando attaccava bloccava.

Allora ci avviammo, questo cavallo pian piano si avvia sempre un po’ più forte, arrivava un momento che lui non teneva più e allora disse: “Corazza, frena!” e io: “Se freno, si rompe la stanga”.

A un certo momento, il cavallo girò la strada, saltò il fosso e noi con le routine davanti rimanemmo impantanati dentro al fosso.

Uno di quelli che era a sedere là sopra, saltò contro il cavallo, Franceschini piangeva e sembrava si fosse rotto la spalla. Invece era solo la botta.

Ma guarda qui cosa facciamo? Cosa facciamo? Tiriamo su tutto, prendiamo il carro, andiamo dentro, tiriamo su il cavallo e andiamo dentro perché la stanga si era spaccata.

Andammo dentro da un contadino, prendemmo un palo, e cominciammo a legare questa stanga e ci avviammo.

Però il giorno dopo arrivammo in una salita, sopra c’era un valico, un passo, gli americani erano là e fermavano tutti i prigionieri perché volevano raccoglierli.

Poi per la strada tutti dicevano: “State attenti che ci sono le SS nascoste nei boschi che sparano sulla strada”. Allora, visto che non potevamo passare, andammo da un contadino a dire: “Ti diamo il cavallo e il biroccio, se tu ci dai del pane”.

“Ma non ho del pane”.

Insomma ci diede una tessera per dieci chili di pane, c’era la tessera come da noi e poi ci diede dei marchi, ma cosa ce ne facevamo?

Comunque prendemmo questa roba.

Cavalcammo fuori dalla strada, cavalcammo la montagna e andammo giù dall’altra parte, quando arrivammo di là c’era un campo di concentramento di militari italiani e andammo là dentro.

Allora dissero: com’è, come non è…. Quando si arrivò, c’era confusione… E dissi: “Noi abbiamo un papiro che si può viaggiare, solo che non abbiamo il mezzo che è rimasto di là”.

Saltarono fuori due di Ravenna dicendo: noi abbiamo i cavalli, il biroccio. Avevano il biroccio carico di sacchi di zucchero. E noi abbiamo il papiro.

Ci mettemmo d’accordo, loro vennero con noi, là rimasero due o tre dei nostri, credo Castellani e due di Imola. Li lasciammo lì al campo perché non ce la facevano più, ma il papiro era già scaduto perché aveva solo sei o sette giorni di validità e ci avviammo. Noi, con quel biroccio arrivammo al Brennero.

Al Brennero gli americani ci fermarono e ci tolsero tutto: cavalli, biroccio. Ci arrestarono. Non avevamo documenti, niente.

Ci hanno preso, ci hanno riportato al campo di raccolta di Innsbruck, e ci restammo cinque o sei giorni e lì ci siamo caricati di cimici, quelle erano grandi come le mosche.

Stemmo lì sei giorni ed infine un’auto colonna ci portò all’ospedale di Bolzano, di lì noi fuggimmo, venimmo via io e Stanghellini, ci portarono a Verona, con i due di Ravenna, con dei mezzi di fortuna a Ravenna.

Quando calammo dal camion a Verona ci portarono dentro una caserma, i due di Ravenna andarono dentro e io e Stanghellini fuggimmo e venimmo via. Trovammo un carbonaio, chiedemmo se ci portava verso Bologna, ma lui rispose: “Io vado a Isola della Scala”. Era già qualcosa.

Stanghellini andò dentro e io sopra, in mezzo al carbone a dormire e arrivammo a Isola della Scala.

Lì ci ospitarono le suore.

Ci dissero: “Volete da mangiare?” E ci ospitarono le suore.

Andammo là, e ci diedero da mangiare un bel po’ di pane, della minestra, ci hanno dato da mangiare.

Tornammo lì nel parco che c’è ad Isola della Scala, c’era un’autocolonna americana che stava venendo a Modena, andammo lì ad informarci, allora dicemmo: “Se ci prendono su questi qui, andiamo bene…” Cominciammo a pregare l’uno, l’altro, ma non ci volevano…

Finalmente Stanghellini trovò uno che lo caricò, e allora dissero: “Come facciamo?”

Allora Stanghellini e l’autista di Stanghellini l’hanno pregato dicendo: “Vai a dire a lui, che carichi lui quello di dietro…”, era un negro. E venne lì…, mi caricarono. Era uno di quei Chevrolet, e la cisterna era vuota. Montammo su, lui che andava, ogni tanto con la bottiglia del cognac, o non so che cosa, sentivo che puzzava e che beveva, con i piedi sul cruscotto, il camion faceva così, perché dietro quando è vuoto, se vai forte sbanda.

E pensavo: “Questo qui mi vuole ammazzare prima di arrivare a casa, che sono già qui”, pieno di paura anche lì.

Con tutte quelle strade con i canali di bonifiche di qua e di là faceva paura.

Arrivammo a Modena, come arrivati, appena mi scaricò saltai una siepe, andai di là e ne feci tanta, tutta quella che avevo.

Poi andammo via, e li ringraziammo.

Fuori di Modena, andammo dentro da un contadino, dicevamo qualcosa, ma nessuno diceva niente, allora andammo nella stalla, era aperta, ci mettemmo a dormire nel fienile, dove raccolgono il fieno, ci mettemmo a dormire, alla mattina, appena giorno, e sentimmo gridare, era il contadino che veniva a governare le bestie e ci trovò là, e gli spiegammo che eravamo prigionieri, che eravamo arrivati…

D: Come eravate vestiti voi?

R: Io ero vestito con della robaccia che avevo procurato nella fabbrica. E’ stata la prima cosa che ho fatto quando arrivammo all’officina, andammo su negli uffici a vedere, curiosare e trovai dei vestiti, mi cavai tutto quello che avevo io e mi misi della roba. Tu pensa, mio papà era un omone, era grande a mio padre e quando la metteva a casa, mi toccava tirargliela su delle volte.

Allora lui ci disse: “Noi non abbiamo da darvi da mangiare, fate una cosa: andate di là da quella strada, c’è quel contadino, vedrete che lui vi darà qualcosa”.

Andammo da quel contadino e gli dicemmo: “Guardate, siamo di ritorno dalla prigionia”. E così ci misero a tavola una bella caraffa di latte con del pane bianco, una zuppa… che abbiamo fatto una mangiata!

Abbiamo mangiato e siamo tornati lì. Lì abbiamo trovato un altro negro di quelli dalle scope sul camion, gli abbiamo detto che noi volevamo andare a Bologna, ci ha preso nel cassone e ci ha portati fino a Santa Viola, e lì ci ha scaricati, lì vicino al mulino, dopo a piedi, io e Stanghellini a braccetto, tutti stracciati, come degli zingari, avevamo il fagottino con i resti, gli avanzi di pane.

Quando ci avvicinammo a casa mia, vidi là davanti mia madre che venne fuori dal cortile dove abitava mia sorella e dissi: “C’è mia mamma con il mio fratellino”. E mi dissero: “Tu ti avvicini a casa e cominci a vedere tua mamma”. Ma come no?

Arrivammo come da lì a te, e dissi: “Mamma, non mi riconosci più?”

Allora cominciò ad urlare, venne tutta la gente.

Andammo in casa, mi spogliano di tutto ecc., cacciano la roba in un cantone, che attaccherò la scabbia a tutta la famiglia. Poi mangiammo e mi portarono al centro di raccolta dei reduci, andai all’infermeria di questo centro di raccolta e quando fui dentro che mi spogliai, la dottoressa mi cacciò fuori perché disse: “Tu mi vieni ad impestare tutto il gabinetto medico”.

Mi mise fuori, mi diede del cotone, dell’olio che bruciava, e disse: “Non posso tenerti.”

Allora mio padre cosa fece? Mi prese, saltammo in tram e andammo all’ospedale Sant’Orsola, ma anche là non mi volevano. Solo che da là non venivamo via.

Andò a parlare con le suore, intanto io dopo due minuti che ero là mi addormentavo, non disturbavo nessuno.

Finalmente lì mi tennero, ci misero in una camera in mezzo, in un letto provvisorio e così dopo aver fatto quarantadue giorni di ospedale, poi tornerò a casa.

Sordo Albino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sordo Albino, nato a Castel Tesino il 24/7/1924.

D: Albino quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 gennaio 1945 a Castel Tesino, in casa, perché era appena arrivata la sera e alla mattina …

D: Tu eri arrivato da dove?

R: Dal Pader perché lavoravo a Pader perché dopo lo sbandamento mi sono ridotto solo a Pader e la sera dell’ultimo dell’anno rientro a casa…

D: Ma chi ti ha arrestato? Erano italiani o tedeschi?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: E ti hanno accusato di che cosa?

R: Di essere partigiano.

D: E tu eri partigiano?

R: Sì.

D: Con quale formazione?

R: Quella…, sono passati tanti anni, l’unica formazione che c’era qua nel tesino che veniva da…

D: Da via Glenda?

R: Sì, che la comandava il comandante Cumo.

D: Il tuo nome di battaglia qual era?

R: Nina.

D: Perché Nina?

R: Perché era la morosa.

D: Quando sono venuti in casa e ti hanno arrestato, dove ti hanno portato?

R: Ho visto che passano i tedeschi e allora ho guardato la porta della casa e ce ne erano due sulla porta della casa e allora ho chiuso la porta della casa e sono andato nella sala, ho aperto la porta della sala e ce ne erano altri due.

Mi hanno arrestato e mi hanno portato in municipio e là mi hanno fatto l’interrogatorio, ho preso anche qualche bella legnata.

Là ho passato la giornata e mi hanno fatto l’interrogatorio come a tutti, eravamo in undici e mi hanno messo su un camion e mi hanno portato a Strigno, là a Strigno ci siamo fermati…e poi siamo andati a Roncegno, in piazza a Roncegno.

Là, il giorno dopo, sono venuti a prenderci due alla volta alla caserma e ci portarono giù.

La c’erano dentro diversi tedeschi tra i quali Egendat e altri.

Uno alla volta mi interrogavano…

Dopo di me andava dentro un altro; hanno passato la giornata a interrogarci tutti e poi tornavano e li portavano su dai carabinieri.

Si pregava, si bestemmiava e non si sapeva la fine che si faceva; dopo un giorno o due, non mi ricordo, mi mettono alla mattina presto sul camion, destinazione ignota e siamo arrivati a Bolzano .

D: Nel campo di Bolzano?

R: Nel campo. Ci hanno scaricati dal camion, c’era un po’ di confusione.

Dopo hanno cominciato a domandare quelli che era capaci di fare i calzolai, falegnami, elettricisti, sarti e allora io e il Marietto siamo andati in calzoleria.

Non si stava neanche proprio male; c’era un capo della calzoleria che era un veronese. Ho fatto un po’ di amicizia con il capo calzolaio e siamo andati avanti a sistemare…… gli zoccoli di legno.

Passava un mese e intanto facevano le partenze, ne hanno fatte due intanto che eravamo là: una è andata a Mauthausen , l’altra invece li hanno portati alla stazione, alla notte c’è stato un bombardamento e li hanno riportati nel campo, dopo quella volta non ne hanno più fatte perché la linea del Brennero era sempre rotta.

Quelli che avevano avuto la fortuna nostra, che orami eravamo alla fine della guerra, abbiamo fatto quattro mesi noi, e di partenze non hanno più potuto farne.

D: Albino ma la tua immatricolazione te la ricordi? Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: 8048, mi pare che era.

D: E ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso.

D: Ti ricordi il nome del tuo capo calzolaio, quello lì di Verona?

R: Era Veronesi di cognome, ma il nome…

D: Veronesi di cognome?

R: Veronesi di cognome, me lo ricordo sempre.

D: Albino, ti ricordi quando tu eri nel campo se c’erano delle donne?

R: Sì c’erano, c’era il blocco delle donne.

D: Ma c’erano anche donne della Valsugana?

R: Sì ce ne erano due della Valsugana, madre e figlia, che erano di Novaredo.

D: E altre donne invece non te le ricordi della Valsugana?

R: No.

D: Tu non te le ricordi Albino?

R: No. Di giorno si era sempre lì in calzoleria che si lavorava e la domenica, che non si lavorava e c’erano libere anche le donne nel cortile, però io ero sempre dentro in branda e non…

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini?

R: No, non ricordo di avere visto dei bambini.

D: Ti ricordi dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, di sacerdoti ce n’era uno di Castel Tesino, che lo avevano portato a Bolzano, però dopo quando eravamo arrivati noi era già partito per la Germania.

D: Come si chiamava?

R: Don Narciso Sordo.

D: E perché era stato arrestato lui?

R: Per la questione che diceva che era dei partigiani, che sovvenzionava i partigiani ma nessuno era sicuro, non si sapeva niente. In agosto del ’44 e in ottobre del ’44 è venuto lo sbandamento, il rastrellamento , hanno portato via diverse persone qua, bruciavano le case perché ….un certo Marietto che era il padre del Renata, che poi è passato comandante dei partigiani, perché prima c’era Cumo poi con il rastrellamento … Cumo è morto e allora ne hanno fatto un altro che era…, adesso non mi ricordo più il nome.

Dopo, verso primavere, è restato un gruppetto di partigiani qua della zona, tra i quali c’era questo Renato Menefreo di Castello.

E’ restato un gruppetto e allora quando c’è stato l’ Armistizio si è formato di nuovo il gruppo e c’era il commissario, uno di …, nome di battaglia Adeo, il comandante era Marietto Celestino che era Renato.

D: Albino, ma tu con don Sordo siete parenti?

R: No.

D: Non siete parenti?

R: C’era un altro don Sordo dopo che era nei partigiani, che il nome di battaglia era Corvo ed era un prete, che dopo io con lui ho fatto una staffetta dalla malga qua dentro di Rabbiosa a Pietena dove c’era il comando a Pietena.

Il comandante che è ancora vivo, abita a Varese, era un capitano degli alpini di Varese.

Dopo è venuto il rastrellamento. Io con questo Corvo siamo partiti da Pietena, siamo arrivati a Rabbiosa, ha detto la messa e poi siamo venuti a Castello che qua si faceva il voto, il famoso voto dell’8 ottobre.

Noi eravamo in diciotto al Castello, il prete è andato su in chiesa ma io non sono andato. E’ arrivato uno e dice: “Io arrivo adesso da Grigno e la strada è tutta di tedeschi che vengono in su”.

Io sono andato ad avvisarlo e anche il Marietto e siamo scappati via dall’altra parte; quella sera sono andato ad avvisare anche ……, che era via con il vice comandante che era Nazzari di nome di battaglia e siamo scappati in Val Busa che c’erano delle gallerie…

D: Albino a proposito di sacerdoti, ti ricordi nel campo, a Pasqua, quando è stata fatta la messa?

R: Sì.

D: Hai partecipato anche tu?

R: Sì, si partecipava.

D: Ma ascolta, è entrato questo frate, questo sacerdote a celebrare la messa e dove l’ha celebrata? Te lo ricordi?

R: Sul piazzale, là sul piazzale in piedi.

D: Hanno distribuito qualche immaginetta sacra quel giorno lì?

R: No, io non mi ricordo di aver preso delle immaginette sacre, no, non le ho viste.

D: Ti ricordi, quando tu eri a Bolzano, se hai visto azioni violente?

R: No, là nel campo no. Però avevo sentito dire che quando non si poteva più portare dal Brennero per andare in Germania, mettevano della gente sul camion e li portavano fuori, però io non li ho mai visti.

D: E nel campo tu non hai mai visto azioni violente?

R: No. C’è stata una sera che hanno fatto un bombardamento gli americani e avevano centrato il magazzino della mensa e là quelli che erano di guardia intorno al campo …sono venuti giù dabbasso, perché se no tentavano di scappare, non facevano scappare nessuno.

D: Ma ci sono stati tentativi di fuga dal campo?

R: Sì, avevano fatto anche un box sotto che passava, però non sono riusciti a scappare, sono stati scoperti prima. Perché non c’era da avere neanche tanta …, perché se avevi paura…, perché se li vedevano le spie li portavano ai tedeschi.

Dopo c’era il comitato dei comunisti, non si capiva più niente.

D: Tu eri nel blocco A?

R: Blocco A.

D: Ti ricordi il tuo capo blocco come si chiamava?

R: Ermanno Trasferini.

D: Gigi Novello, non ti dice niente questo nome: Gigi Novello?

R: Era partito Gigi Novello, prima.

Era il fidanzato della Cicci, ma non era nel blocco A, veniva dal blocco B o C.

Nell’A che comandava era Pasqualini, che se si avevano soldi si poteva comprare della roba.

D: Ma dai, si poteva comprare?

R: Scatolette di sardine, roba di vestiario…

D: Quando tu sei arrivato nel campo a Bolzano, nei giorni dopo hai potuto scrivere a casa?

R: No, no.

D: E neanche ricevere pacchi?

R: Sì, è venuta mia mamma e sua mamma del Marietto e un’altra, Donata, a portare i miei pacchi; dentro mi hanno portato il pacco e me lo hanno consegnato.

D: Come avvenivano le partenze? Te lo ricordi?

R: Li mettevano tutti in fila e poi passavano due, terzo…, tre, quattro, terzo…, avevano quel sistema là.

D: Ma tu ne hai viste di partenze?

R: Io ne ho vista una di partenza e dopo la seconda li hanno portati al blocco perché la linea era saltata.

D: Tu quindi sei sempre stato in calzoleria a lavorare?

R: Sempre in calzoleria. Lavoravo in calzoleria e dopo hanno mandato via il magazziniere e mi hanno passato anche magazziniere della calzoleria. Si andava a prendere della roba su in magazzino, la portavo in calzoleria e si dava a chi lavorava.

D: Dove era il magazzino della calzoleria?

R: Si entrava ancora nel campo e dopo si andava in su, c’era una baracca con due della polizia davanti alla parta e ti stavano dietro, si prendeva la roba, li contava e poi li portavo in calzoleria.

D: Che materiali c’erano nel deposito?

R: C’era tutta roba di cuoio, a quegli zoccoli di legno si metteva su il cuoio e si facevano anche le scarpe per le SS, quelli che erano capaci di farle.

Io dall’inizio alla fine ho sempre avuto quel paio di scarpe che mi hanno consegnato, che erano ancora da finire ancora da principio e le ho portate a termine e le ho portate anche a casa, le avevo nello zaino.

D: Albino quindi, al mattino la sveglia, appello e poi andavate in calzoleria?

R: Sì e poi si andava in calzoleria.

D: E a mangiare a mezzogiorno?

R: Quello che ci davano.

D: Ma in calzoleria o nel campo?

R: No, si andava nel campo a mangiare.

D: Ritornavate nel campo e poi al pomeriggio?

R: Ritornavamo a lavorare.

D: Ancora in calzoleria? Quattro mesi così?

R: Quattro mesi così.

D: Tu fuori dal campo non sei mai andato a lavorare?

R: No, mai.

Quelli con il triangolo rosso non li facevano andare fuori dal campo.

D: Albino come ti ricordi la Liberazione?

R: La liberazione me la ricordo che alla mattina, alla sveglia, quando ci siamo alzati ho guardato fuori dal finestrino e non c’erano più le guardie sulle garritte, le mitragliatrici erano a terra.

Io ho pensato: “Qua Albino è successo qualcosa”!

Dopo è arrivata la voce che c’era la Croce Rossa Internazionale che pochi alla volta hanno mandato via tutti.

Qualcuno è stato fortunato che è andato via di qua il giorno prima, anche due e noi altri cinquanta alla volta; cinquanta li mettevano sul camion e anche se dovevano andare a Trento lo portavano in Val di Non, cinquanta li portavano da una parte, cinquanta fuori a piedi.

Toccava a tutti di andare fuori a piedi dopo.

D: Ma ti hanno dato un lascia passare?

R: Sì e dopo ci siamo trovati fuori a Ora e c’erano tutti i tedeschi che scappavano in su con le biciclette e con i carretti.

Io sono andato giù verso Trento, ho preso la strada che andava in Val di Fiemme e ci ho messo cinque giorni ad arrivare a casa, a piedi.

Volevamo fare il passo del Manghe, siamo arrivato al passo Manghe.

Alla mattina per andare fuori dalla porta c’era tanta neve fresca così.

C’era il biglietto, c’erano dei posti di blocco dove davano qualcosa da mangiare, a quelli che fumavano gli davano un pacchetto di tabacco da tagliarselo in due e piano piano siamo arrivati a Borgo.

Prima di arrivare a Borgo c’erano i contadini… a Borgo c’erano ancora i tedeschi che si stavano ritirando e ….i partigiani a Castello e siamo andati dall’Eugenio e là c’erano questi partigiani che io non avevo mai visto.

C’era uno che era un comandante dei partigiani …che prima era maresciallo delle SS.

D: E non gli hai detto niente tu Albino? Non gli hai detto niente a questo qua?

R:No, è venuto fuori un caso, mi ricordo benissimo.

Gli ho chiesto se era il comandante dei partigiani. Non mi ha neanche risposto.

Il municipio era pieno di armi, ho tirato fuori un fucile e un mitragliatore e ho preso una macchina.

Siamo andati via e siamo arrivati fino a Borgo con questa macchina e dopo da Borgo mi hanno portato fino a Pieve.

A Pieve abbiamo trovato mia mamma, sua mamma e compagnia che erano venuti a cercarmi, Marietto era già arrivato…

Siamo scesi dalla macchina … e a piedi sono arrivato qua.

D: Nel maso?

R: Avevamo le bestie, c’era mio papà con le bestie, mia mamma…, avevo un fratello più giovane, non mi ricordo neanche dov’era e siamo arrivati qua.

Le botte che abbiamo preso e la paura che abbiamo avuto in quei quattro mesi.

Dopo non sai più organizzare niente, dopo.

Quella volta c’era una cartolina da …, la Polizia Trentina o se no ..a nascondersi da qualche parte.

E io non avevo molta voglia di andare nella Polizia Trentina.

Poi avevo vent’anni, a vent’anni si ragiona anche poco.

D: Albino ti ricordi nel ’47, se non mi sbaglio, che qui in un paese vicino era stato ucciso uno che dicevano che era un fascista della decima Mas?

R: Non me lo ricordo.

Qua in Valsugana?

D: Sì.

R: No.

D: Non te lo ricordi? Era stato ucciso da ex partigiani uno.

Che poi avevano fatto un processo. Non te lo ricordi?

R: Mi sa che non è successo a Pieve