Pahor Boris

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Boris Pahor, nato a Trieste il 26.8.1913, come cittadino austriaco. Per quanto riguarda il mio arresto dopo l’8 settembre scappo anch’io. Ero interprete presso prigionieri jugoslavi, prima ufficiali poi a Bergamo vi erano quelli francesi; vengo a Trieste con un treno e la faccio franca fino alla stazione centrale di Trieste.

Alla porta vi era un carabiniere, un militare tedesco e si era ingabbiati. Alcuni sono montati su un treno che partiva e abbiamo viaggiato fino a Miramare dove siamo saltati giù dal treno e siamo scappati verso Contovello e Prosecco ed io ero deciso di andare dai partigiani per salvarmi dalla città.

Mia mamma che era di origine contadina è venuta su da Barcola a portarmi stivali da montagna e un sacco da montagna che poteva tenere la pioggia. Intanto che mi preparavo per partire è venuta mia sorella minore insieme con la sorella di Pino Tomasic, quello che era stato fucilato dopo il secondo processo per la difesa dello Stato nel 1941. Mi dicono: “Cosa vai a fare, i partigiani possono fare senza di te, qua a Trieste abbiamo bisogno”.

Mi sono calato giù alla chetichella e dico: “Qua non mi pescano i tedeschi” perché a Trieste conosco tutti i buchi e per un po’ mi sono arrangiato a raccogliere il necessario per i partigiani. Abbiamo fondato un Comitato nel centro della città ed erano di Lubiana i collaboratori, clericali sloveni che combattevano secondo loro l’ateismo comunista. I comunisti erano la parte più combattiva del Movimento di Liberazione Nazionale sloveno, erano insieme con i comunisti cristiani sociali, i liberali di sinistra e la maggior parte della cultura slovena. Invece questi disgraziati (non posso dire altrimenti) sono venuti qui da noi, avevano una caserma al rione San Giovanni e in città avevano un centro di polizia scoperto dopo perché io avevo collaborato con la rivista dei cristiani sociali di Lubiana perché possiamo dire che era la gente di cultura più qualificata. Ho mandato una novella e me l’hanno pubblicata con tutto che il mio sloveno era abbastanza scadente ma si vede che l’hanno corretta e questi hanno pensato: “Siccome questo ha pubblicato dai cristiani sociali certamente è legato con loro”, soprattutto perché tutti i nostri sloveni della regione Venezia Giulia erano capi tutti antifascisti organizzati, dai comunisti fino ai liberali e ai cattolici, si era tutti antifascisti, soprattutto qua, sapevano che dalla parte cattolica, persino i nostri sacerdoti, erano dalla parte antifascista, contro il Vaticano perché ha dovuto obbedire al Duce e la Chiesa ha dovuto pensionare l’Arcivescovo di Gorizia, che era un vescovo fantastico, aveva detto: “Il Vangelo insegna di dare la lingua che parla un popolo, dare anche la maniera di pregare nella propria lingua; mi manterrò a questa norma o se si vuole a questo cristianesimo pratico a costo di perdere la Mitra pastorale” e poi l’ha persa e hanno mandato via anche lui.

Loro sapevano di questo e sono venuti proprio con questa idea di prelevare tutti quelli che potevano diventare membri della lotta di liberazione nazionale, si presentavano come partigiani bisognosi di dormire e accoglievano la gente festosamente. Non si era parlato sloveno per vent’anni, era tutto proibito quello sloveno, a sentire un uomo che parlava sloveno ci cascavano come pere cotte.

Purtroppo, il primo trasporto eravamo in 600. Questa polizia è venuta a casa mia, abitavo in via San Nicolò, n. 13 – IV piano, sono venuti al mattino alle 6,30, il portone a quell’ora era sempre chiuso e si sono arrangiati loro il giorno prima per la chiave. Erano in 4 o cinque, uno era in abiti civili, gli altri avevamo la divisa un po’ differente, avevano qua una specie di tricolore sloveno. Hanno svegliato la famiglia, quello che era peggio in tutta la questione era che uno dei militari, c’era un capitano prigioniero al lago di Garda dove ho fatto l’interprete, era uno sloveno, vi era un tenente colonnello sloveno, un capitano e un altro; uno si è rifugiato a Trieste e non sapeva se andare dai partigiani o no, mia mamma cattolica ha detto “Prendete la camera delle due sorelle”, una andava a dormire nell’altra camera e dormivamo insieme. Ci avevano presi tutte e due. Io avevo una macchina da scrivere e avevo un articolo che avevo preparato contro i nazisti sotto il marmo del tavolino di notte. Ho detto a mia sorella quando mi salutava in anticamera prima di andare via: “Butta via quello che c’è sotto il marmo”. Invece di aspettare che fossimo andati via è andata subito a cercare il marmo e l’hanno pescata, mi hanno fatto tormentare dalla SS. Mi hanno portato prima in un loro ufficio in centro e mi hanno dato un po’ di colpi con dei cinturoni che avevano, dicevano che mi avrebbero fucilato. Dopo è venuto uno che doveva avere un’autorità superiore, un giovane e dice “Mandiamolo a marcire”, parlava sloveno ….

D: Professore, questo quando è avvenuto?

R: E’ avvenuto il 21 gennaio 1944. Lì sono stato una giornata io e questo disgraziato di capitano, era simpatico, abbiamo fatto un mese e mezzo di prigione insieme. La sera mi hanno consegnato in prigione, ormai avevano fatto il loro dovere e sono stato in cameroni dove c’era posto per quattro persone, eravamo in 32! Le pescavano sul Carso queste persone… Dopo quattro o cinque giorni mi chiamano perché ero già preparato, certi avevano le facce tumefatte, già provate, c’era un comunista, gli avevano fatto delle cose con l’elettricità. Alla radio aveva parlato anche dei sindacati, di come sono ben organizzati, ha ceduto, io avevo paura siccome come costituzione non sono forte, avevo paura di essere tormentato.

Al primo piano di questo palazzo che adesso stanno rifacendo, c’erano le celle, avevo in mente che ve ne erano tre, pare che ve ne siano state altre, o le hanno messe dopo. Io ero colpevole di non essermi presentato perché ero sottufficiale interprete, quando avevano bisogno di questo interprete volevano un ufficiale, il mio reggimento era Cremona, avevo fatto un anno di Libia prima, ho detto “Non sono ufficiale ma la lingua croata la so”, quindi, il mio colonnello mi ha fatto prima caporale poi voleva avere un sergente e quando sono venuto a Trieste ero un sergente, avrei dovuto presentarmi al comando. Ero due volte colpevole, la prima per non essermi presentato, la seconda era che trovandomi con la macchina da scrivere e quel mio articolo ero un antinazista; lui si è fermato soprattutto sul punto della macchina da scrivere più che sul fatto che non mi sono presentato al comando militare.

Vi era la questione della macchina da scrivere che, per fortuna, me l’avevano cambiata alcuni giorni prima. Avevo una macchina molto in gamba, questi nostri uffici avevano bisogno di macchine che facevano copie e me l’hanno tolta dicendo “La sua macchina è troppo bella, gliene diamo un’altra”, per fare le copie ci mettevano dentro tre, quattro carte carbone.

Alla SS dico: “Questo me lo hanno dato perché dal momento che non avevamo la possibilità di studiare lo sloveno, come studente universitario mi hanno detto di correggere la lingua, non è battuto sulla macchina che hanno trovato da me” e là si capisce, ci hanno giocato su abbastanza tempo, poi mi hanno legato a una sedia con un pezzo di manico di scopa tra le gambe in maniera che ero con la testa in giù e le gambe in aria, uno da una parte e uno dall’altra e davano dei colpi; ero come una zebra quando sono tornato in prigione, ero ben conciato.

Volevo dire che lui ha cominciato il discorso dicendo “Noi abbiamo avuto tante occasioni in Europa di parlare con gli intellettuali e ci siamo sempre trovati d’accordo su come poter lavorare insieme”. Tra di me pensavo: “L’avete fatto ma la conseguenza sarà che ne prenderò di santa ragione” e ho resistito, “Se non comincia con l’elettricità spero di farla franca”. Chi ha dato il testo da correggere non mi ha detto chi era, mi ha incontrato al caffé e per essere legali non si dice nome e cognome. Mi arrangiavo con il tedesco perché avevo fatto il seminario cinque anni, avevo sempre insufficiente in tedesco non perché non fossi capace di impararlo ma perché non lo sopportavo dal momento che i nostri vecchi non parlavano dell’Austria a cui si era soggetti. Mi è servito in campo di concentramento il tedesco come mi è servito il francese che ho fatto a Padova. Mentre ero interprete sul Lago di Garda andavo a fare degli esami con il permesso del colonnello, se non mi arrestavano quei disgraziati di collaboratori finivo a Trieste, mi laureavo e volevo andare a fare il partigiano con un attestato di studio perché dicevano che i partigiani erano una raccolta di gente che non faceva niente, erano non mezzi delinquenti ma fannulloni, la gente che non voleva essere del Movimento di Liberazione Nazionale aveva una brutta concezione di questi che si raccoglievano nei boschi, dicevano: “Che razza di esercito è questo?”, conoscevano qualcuno che non aveva mai fatto niente di interessante e che andava a fare il partigiano. Non volevo essere uno studente che non ha finito i propri studi ma volevo finirli.

Mi hanno chiuso durante una notte in un armadio a muro. Da noi abbiamo nelle vecchie case questi armadi a muro, non potevo stare né in piedi né mettermi giù, dovevo stare accucciato. Quella paura dell’ambiente chiuso l’ho sempre avuta, anche andare sotto terra con le miniere, quello è stato il peggio che ho sofferto. Il giorno dopo si è messo a dettare tutto quello che avevo detto e credo che sia stato l’unico caso. C’era tanta gente che se voleva fare a tutti una cosa simile c’era da battere a macchina moltissimo, invece si vede che voleva dimostrarmi una specie di legalità e ha battuta a macchina dicendo “Ha collaborato con i comunisti”, “No, dico, con il Movimento di Liberazione Nazionale”, ha corretto e mi ha fatto firmare.

Ho capito dopo che se avessero pescato uno che era con me, se avesse fatto il mio nome sarebbero stati capaci di farmi impiccare perché tante volte avveniva questo, lo racconto anche nel mio libro, una volta tre polacchi hanno fatto così. Molte volte ho avuto fortuna!

Ho firmato questo e dopo vi era uno di questi lubianesi che faceva il servizio, e mi dice “Vada via, mandatelo in prigione”. Allora sono andato in Coroneo e sono stato quasi tutto il mese di febbraio, mi pare che sia stato il 26-27 febbraio e abbiamo fatto questa vita di preparazione e per fortuna ci hanno mandato via perché pochi giorni dopo al Conservatorio di Musica triestino li hanno impiccati sulle scale, le finestre in via Ghega … se fossi stato lì sarei finito dentro, anche con la firma che ho fatto non sarebbe servito niente.

A Dachau come tutti i campi appena arrivati vi erano i bagni grandiosi, ci prendano via tutto quello che era peloso cominciando dal pube e sotto le ascelle, i capelli, dopo il bagno c’era la disinfezione come le giumente, con un pennellone che bruciava maledettamente e dopo si era sulla neve. La neve c’era già a Trieste, in carcere si andava a fare le passeggiate sul terreno bagnato dalla neve. Era una spianata dove da una parte si usciva fuori dalla doccia e dall’altra si era in fila per passare davanti ad una baracca dove si dava nome e cognome e ci davano il numero che si sarebbe cucito sulla parte sinistra del petto, il triangolo rosso come prigioniero politico e bisognava dichiarare la professione. Non ero preparato e ho detto “Studente universitario”, ed è la peggiore professione per loro, tutta gente che andava a scavare e a lavorare nella cava; se avessi saputo prima avrei inventato qualche cosa.

Il fatto è che all’uscita della baracca si prendevano un paio di pantaloni, una specie di camicia, roba che come vestizione invernale era una miseria, un paio di zoccoli per camminare sulla neve, era un disastro. Quando siamo partiti da Trieste le nostre mamme ci avevano preparato tutta la lana, cappotto pesante, eccetera, è stata una delusione tremenda.

Davanti a una baracca, eravamo 600, siamo stati fermi non so quante ore prima di farci entrare dove si sarebbe dormito e siamo rimasti lì sei o sette giorni, non so la data giusta, si perde poi la concezione del tempo. Poi ci hanno fatto un altro svestimento e ci hanno mandato in Alsazia, in un paese che si chiamava Markirch che voleva dire Chiesa della Maria, in francese si chiama Saint Marie aux mines, che vuol dire Santa Maria alle miniere.

D: Vi ricordate il vostro numero a Dachau?

R: Dovrei andare a pescare le lettere …. posso trovarlo …

D: A memoria non lo ricordate?

R: Dopo di questo ho avuto quello di Natzweiler, poi quello di Dora, dopo Bergen Belsen.

D: Quando siete partiti da Trieste vi hanno portato dal Coroneo alla stazione?

R: Questa partenza e anche quella dopo la mia, siamo tutti partiti dalla parte commerciale, dove c’è adesso il silos. La prima partenza era uguale a tutte le altre solo che a Trieste vi erano tutti vagoni chiusi, diversi trasporti che ho fatto dopo erano chiusi e aperti, peggio era in quelli aperti, si era esposti al freddo e alla pioggia.

D: Da Dachau a Markirch come vi hanno portato?

R: Come al solito era un treno da carro bestiame e ci hanno scaricato alla stazione, ci hanno portato in un’industria di pellame, era tutto a piano terreno con una specie di tavolato dove correva l’acqua sotto e lì vi erano i soliti letti a tre piani per dormire i castelli, là mi sono ammalato perché dal punto di vista intestinale sono suscettibile e ho subito lo shock perché ci alzavamo alla mattina di buon ora e si andava a fare 3 km da un traforo che era ferroviario, abbandonato, e bisognava trasportare i binari da una parte in modo che poi hanno cementato l’altra parte e hanno fatto la fabbrica di motori per i missili, i “V2”. Bisognava lavorare 12 ore e ritornare a piedi sulla neve in questi stanzoni; non era organizzato come i campi normali, era tutto da costruire e dopo che ci davano quel pasto pomeridiano, un pezzo di pane sempre uguale, una specie di pane come una cartolina illustrata di due dita di altezza, si andava a dormire e dopo un’ora e mezza all’appello perché o mancava o … stanchi di 12 ore di lavoro, dormi un’ora e mezza … è morto uno dei triestini, uno di Padriciano, dopo un mese e a me su quella cassa di morto mi hanno portato a Natzweiler. Mi sono buttato per terra, il pane non lo mangiavo, il comandante mi ha dato alcune pedate e mi ha messo su questo camion che partiva, erano 50 km. Da Strasburgo e da questa specie di campo, abbiamo fatto tutte quelle salite, avevo 38 gradi di febbre. Il capo del quale dopo sono diventato interprete, mi ha dato un’aspirina, dopo due o tre giorni l’organismo si è rimesso a posto, ho avuto qualche purga, anche adesso porto sempre con me il sale amaro, sono quello dell’intestino difficile, ma là mi hanno messo in una baracca, una manifattura, e si tagliavano dei pezzettini di diverso materiale. Hanno detto che poi mettevano insieme i pezzettini, facevano dei palloni per i bastimenti affinché non battano contro il molo. Stava con me Gabriele Foschiatti di cui parlo, non sapevo che era del Partito d’Azione; mi diceva che dopo la guerra avremmo organizzato il problema delle minoranze; tra di me pensavo “Venire proprio davanti al forno crematorio per fare l’amicizia tra i popoli!”. Tornando ho letto un libro che hanno fatto a Udine proprio dedicato a lui, c’era una specie di organizzazione sulla carta e poi il fantastico è che è il controllo delle minoranze dei diversi stati deve essere fatto in base a un’organizzazione europea, non ciascun stato dà per se stesso e oggi abbiamo il Parlamento Europeo, ma non c’è una legge dove gli Stati siano obbligati ad essere controllati.

D: Come vi ricordate Natzweiler quando siete arrivati?

R: Era terribile perché è fatto a scalinate, quindi come da noi dal mare fino su al paese del Carso. L’avevo confrontato con i nostri vigneti, lì vi erano i vigneti della morte, ogni giorno non si faceva solo la vendemmia dell’estate. Entrando e andando su per le montagne, alla prima entrata che si fa vi è il patibolo di legno, quando abbiamo fatto il primo incontro con quelli che erano gli anziani. Come nelle vite militari, la recluta che viene deve subire da prima gli anziani, poi i caporali, i sergenti; l’unica entrata è per quel camino che vedi laggiù, vi era un forno crematorio alla buona, vi era un camino di latta, ora lì l’hanno fatto in muratura, ma non era un grande campo, un campo di istruzione. Si capisce che stare alle adunate con neve dappertutto, si camminava sulla neve, restare lì due o tre ore era la fine del mondo, quello è l’unico caso dove ho pregato. Adesso sono credente nel senso che mi inchino davanti all’universo, al mistero ma come istituzione no. Invece una volta ero uno studente che aveva fatto il seminario, ho fatto due anni di teologia, è stata una preghiera della paura quindi, la preghiera non dovrebbe essere fatta in base alla paura ma si vede che già il primo uomo una volta con la paura ha creato il mistero della vita.

Specialmente di notte o di sera, solitamente non si facevano gli appelli, ma con il dilungarsi di un appello restavano tutte queste scalinate piene di gente e poi c’erano i fari, ci sono delle foto, c’era un disegnatore francese che ha fatto dei bei disegni su queste notti o serate scure, oppure quando c’erano i nuvoloni che si potevano toccare con la mano, ho descritto un’impiccagione ed era là che sono stato scosso.

Bisogna dire che su sedici blocchi la metà erano già ammalati, impotenti, gente che era in posizione orizzontale, era difficile uscire guariti da quelle baracche. Quel medico francese che è venuto a farci le fasciature perché avevano paura dei pidocchi, quindi, voleva dire tifo e i tedeschi stessi avevano paura, c’era il pericolo che prendevano anche loro.

Mi hanno tagliato un panericcio (in lingua tecnica non ricordo), c’era una specie di marcio che si è formato e un chirurgo belga ha fatto tre tagli ed ero quasi guarito, avevo una fasciatura di carta, non c’erano fasciature in tela, era tutta carta e mi tenevo questo braccio e dico: “Fino a che ho la fasciatura non vado a finire in qualche ….” più in là di mezzo chilometro c’era la cava. Questo medico dice: “Non so cosa fare, questo è guarito” e ho detto: “Non ti interessare, dammi la fasciatura ancora una volta!” Ha visto che mi arrangiavo in francese, “Italiano si vede che in francese te la cavi”, dico: “Me la cavo ma non perché sono italiano, ho fatto l’università, due esami, e poi sono solo cittadino italiano, la nostra regione è slovena”.

Dice “Ci sono tanti russi, polacchi, ciechi”; ha avuto la buona idea di dare il mio nome, l’ufficio che ho avuto non c’era nel regolamento del campo, c’era un interprete che era uno sloveno di Lubiana, faceva per la parte slava, mi hanno fatto da aiuto interprete al medico capo che era un medico in gamba, e bisogna dire che nel campo di Natzweiler e in quello di Buchenwald, c’erano i cosiddetti NN che in tedesco vuol dire “notte” e “nebbia”. Potevano fare di loro quello che volevano, erano destinati alla morte prioritaria, avevano sulla schiena della giacca, o quello che poteva essere una giacca, una N in rosso. Questo valeva per i francesi, per i belgi, gli olandesi e i norvegesi.

D: A Natzweiler vi hanno immatricolato un’altra volta?

R: Sì, sì!

D: La baracca della tessitura dove eravate voi era la numero 6?

R: Doveva essere stata la 8 perché era in alto, o la 8 o la 7, potrei anche sbagliarmi perché tante cose non mi interessavano, tante cose veramente le ho conosciute dopo. Trovandomi nel luogo del bagno c’era per terra uno zingaro, bello, forte, con la bava azzurra, sapevo che in qualche posto lo avevano gasato ma non mi sono mai interessato, pensavo che fosse nel campo invece fuori, lì dove c’è vicino una specie di rifugio, vi è quel casotto che è una specie di bagno.

Mi interessava nominare questo medico, un primario, non sapeva altro che il tedesco, dovevo aiutarlo anche in francese, l’italiano non lo sapeva quasi nessuno; sono stato suo interprete da marzo a settembre, perché la seconda armata francese con gli alleati erano a Belfor che non era lontana e avevano paura che circondassero il campo e tutti quelli che camminavano li hanno fatti marciare giù fino al treno, dopo non so se sono andati a Dachau perché lì non accettavano volentieri gente di cui non avevano bisogno; Dachau era un campo elite per i tedeschi, i primi deportati erano comunisti, socialisti antinazisti. Quelli che invece, erano ammalati, bisognava portarli dalla baracca fino al camion davanti al campo e dopo dal camion giù e caricarli e si capisce che era un trasporto, erano trasporti malvagi per la maniera con cui bisognava arrangiarsi, bisognava portarli a peso d’uomo. Per caso vi erano delle carriole, i russi facevano questi lavori di fatica, messi in carriole attorno al campo che aveva le scalinate in mezzo ma poi tutto in giro vi era la possibilità di andare con i camion e lì si capisce che c’era tanto bisogno di camion che molte volte bisogna aspettarlo.

Arrivati a Dachau di nuovo tutti quanti la doccia, avevano paura che infettassimo il campo, vi era un mucchio di morti davanti alla doccia. Dachau era grande, vi erano stracci, gavette, tutto il possibile e immaginabile, quelle strisce di carta, come racconto nel libro.

Quando si è entrati vi era questa specie di disastro e il disastro era che moltissima gente non poteva stare in piedi ed era ancora viva, doveva stare sdraiata; vi erano questa specie di anziani, molte volte non erano simpatici, non erano tutti politici, erano pezzi di galera che se la prendevano con i prigionieri come volevano. Poi vi erano anche gli anziani veri e propri ma questi non avevano questo lavoro diretto specialmente quando si entrava nel campo, certi sì ma non erano tanto simpatici, specialmente quelli che facevano i barbieri, gridavano, si faceva tutto gridando e poi quando bisognava levare i peli anche se ve ne erano pochi… Siamo finiti in un blocco di quarantena che era speciale perché non avevano più coperte e ci hanno dato dei sacchi: quello non mi andava giù, essere in un sacco non lo sopportavo, soffro di chiusura, non l’ho mai potuto accettare. A Dachau vi erano 3.000 sloveni, era un grande numero per la piccola Slovenia occupata dagli italiani e dai tedeschi, non so se i tedeschi dalla parte tedesca hanno cercato di svaligiare, mandare la gente verso il sud, hanno fatto man bassa per liberarsi della popolazione slovena da parte loro facendoli partire dalla Slovenia. Quelli che hanno il Movimento di Liberazione nazionale finivano nel campo di concentramento. Si vede che vi era qualcuno di questi sloveni del Movimento Cristiano Sociale che collaborava con il Movimento che i cosiddetti collaboratori li mandavano a Dachau senza avere la documentazione che attestasse che erano legati a quel Movimento, come preventiva, era moltissima gente, gente di cultura, vi era un chirurgo sloveno di fama europea, professori universitari. Hanno trovato tra le cartelle anche Boris Pahor e siccome con questo cristiano sociale avevo pubblicato una novella o due hanno visto che ero da salvare, mi hanno tirato fuori dal blocco e mi hanno trovato un posto da infermiere nel blocco della dissenteria, della cacca. Avevo questo polacco che si faceva passare per tedesco che aveva delle maniere abbastanza rudi; questi disgraziati avevano ancora un corpo in forma o normale e facevano tutto lento, non erano più da far lavorare, lo lavavo, e lui voleva una cosa molto più sbrigativa. La prima occasione che c’era me l’ha data Dora: hanno fatto un’organizzazione speciale per fare sabotaggi, vi erano ingegneri russi, francesi insieme con gli ingegneri tedeschi, hanno pescato i missili che non partivano oppure partivano e cadevano giù e quando li riportavano indietro sapevano da che parte era stato fatto il sabotaggio. Ne hanno impiccati una quindicina, hanno fatto una specie di rotaia attraverso il tunnel.

Insieme a questi ingegneri vi erano anche degli amici che facevano gli infermieri, come hanno partecipato quelli dell’infermeria non so, il fatto è che ne hanno scaricati una decina e hanno chiesto a Dachau dieci infermieri. In parte sloveni, poi vi era un croato e siamo partiti con treni normali fino a Dora; ho dormito una notte in prigione perché non sapevano dove mandarmi e poi hanno deciso per Natzweiler che dipendeva da Dora.

D: Prima di arrivare a Dora che cosa è successo a Monaco?

R: A Monaco vi erano i bombardamenti e le distruzioni, li facevano in maniera tremenda. Dalla baracca della quarantena si poteva, se si voleva, andare a fare i volontari a Monaco in città per scaricare il materiale, le macerie. Non avevo nessuna voglia di andare a lavorare e lì qualcuno ha avuto la maniera di mangiare perché dove cadevano le bombe vi era qualche cucinetta e hanno riempito le maniche delle giacche di cibo. Noi abbiamo incontrato la gente quando si andava in stazione e vi era un attacco aereo e ci siamo rifugiati, eravamo insieme con i cittadini impauriti, ci guardavano con una specie di occhiate che non si sapeva se erano di commiserazione o di paura, non erano di astio in quel momento.

In treno eravamo con questa gente, guardati dalle guardie e dopo mi hanno fatto fare servizio di infermiere, era un piccolo campo, tre o quattro blocchi, vi erano tre cambi. Si andava a lavorare in questi tunnel, questi trafori; molte volte mi hanno pregato, specialmente gli olandesi che erano lavativi e non avevano nessuna voglia di andare di notte. Per andare non era così semplice, prima si faceva un pezzo a piedi, dopo un pezzo con il trenino a scartamento ridotto dove vi erano le finestre rotte, faceva freddo, quando si arrivava ad un paesello bisognava salire su quei treni ribaltabili e specialmente per quelli malati arrampicarsi su era un lavoraccio. Non era un viaggio da accettare. Sono andato per liberarmi del campo anche perché dormivo insieme con i malati, mi sono preso la tisi dagli ammalati con cui dormivo e ci sono andato tre volte, erano 20 gradi sotto zero, dove c’era il vestiario ho avuto una specie di giacchettone che mi arrivava fino alle ginocchia ed era abbastanza solido.

Poi mi ricordo un ……. che aveva un paio di mutande lunghe che nessuno aveva e io me le sono cucinate in un vaso, con l’acqua bollente e ho indossato queste mutande lunghe così sotto il mio pantalone normale avevo queste mutande lunghe che era un caso tutto speciale, con 20 gradi sotto zero stavo bene, avevo una specie di riparo.

Questi disgraziati venivano da me, non entravo nel tunnel ma stavo fuori della baracca con due guardie, con gli ammalati. In queste baracche vi erano delle stufe che si facevano scaldare con quei quadratini di mattonelle di materiale pressato; era fuori che si moriva ma dentro vi erano solo malati. Lì ho avuto la fortuna di fare l’infermiere in una maniera, prima di partire dalle baracche, mentre si mettevano in fila, tutti questi ammalati, specialmente quelli che avevano la dissenteria, si lasciavano cadere i pantaloni e mostravano questa specie di … i resti di caffé, non so come si potrebbe dire, che scendevano giù fino alle ginocchia e a quelli si dava un bigliettino per presentarsi in infermeria, quindi, nelle baracche.

Sei o sette di queste cartelle le davo poi c’era qualcuno che aveva la febbre e aveva il termometro; intanto che uno si cavava i pantaloni davo il termometro all’altro, avrò salvato qualche vita ma era l’unica maniera che avevo di fare cosa utile come infermiere perché per tutto il resto avevo del carbone vegetale, una pasta bianca che faceva come una specie di gesso, ma se non c’era liquido caldo tutta quella roba invece di aiutare impasticciava lo stomaco, non faceva cosa utile, tutto il resto erano aspirine, disinfettante per le ferite, alcol. Lì sono stato fino ad aprile, ho avuto una emottisi che mi ha preoccupato molto, vi era un medico francese che faceva passare per medico anche suo fratello che non capiva niente di medicina e non mi piaceva come medico perché sapeva trafficare con il capo medico, era un medico reggimentale, non una SS. Avevo uno sloveno che aveva la febbre alta alla mattina e alla sera no, era un caso di tisi, potevo dargli un po’ di minestra a mezzogiorno invece dice a questo benedetto capitano “Sì, sì lo mandiamo a Dora”, “Ma”, dico in francese “c’è posto qua”, “No, perché là vi è una baracca speciale per ammalati simili”.

Me la sono legata al dito. Questo tipo non mi piaceva ma ho visto la visita che mi ha fatto. Il mio polmone aveva sputato sangue e aveva detto che non ci trovava niente ma credo che lo abbia detto a mio favore perché se avesse detto c’era un inizio di tubercolosi mi avrebbero scaricato. Mi ha mandato a Dora per fare una visita, i raggi che erano un assurdo fantastico con tutta quella gente che moriva e non avevano più posti nei forni crematori, avevano mucchi di cadaveri che ardevano. Sono stato a Dora quella settimana e mezza, ho visto la morte e lì è morto un infermiere sloveno che è venuto dal comando e si è preso il tifo e siccome non sapevamo nemmeno noi infermieri come è toccata a questo nostro amico, abbiamo fatto la proposta al capo che c’era, un olandese, di fare il controllo dei morti, l’autopsia. L’hanno fatta, davanti a questa baracca vi era un mucchio di gente, corpi che ardevano; arrivavano dei trasporti interi dalla parte russa perché liberavano i campi perché non volevano che venissero in mano ai sovietici e venivano dei treni completi di corpi coperti anche di calce, disinfettati, che venivano trasportati su questa specie di collina dove li bruciavano,. Vi erano questi trasporti infiniti e dopo i primi di aprile, avevo avuto dei bombardamenti, siamo stati un certo tempo senza acqua e senza luce, erano chiodi perché questi corpi di dissenteria si lavavano ma senza luce era una cosa …….. era una cosa infernale! E’ venuto poi questo ordine di scaricare il campo e fare il trasporto. Quelli che potevano camminare sono partiti ma siamo rimasti in quattro o cinque infermieri, più di cinque non eravamo. Vi era questo mio amico infermiere di Spalato, speravamo di restare insieme invece ha detto: “Ci fanno fuori tutti, vado a piedi, se c’è da camminare cammino” e si è salvato, l’ho incontrato dopo la guerra e non ha nemmeno voluto salutarmi. Sarà che abbiamo avuto questa specie di disgrazia che i comunisti sloveni dopo che si sono staccati, dopo che Stalin li aveva scacciati dall’Internazionale hanno fatto quel processo alla staliniana per mostrare ai russi che anche loro sono come loro e moltissimi di questi comunisti onestissimi hanno finito la loro vita impiccati e altri hanno fatto undici anni di carcere. Anche gli ex deportati non avevano tanto piacere di essere riconosciuti perché non si sapeva mai se c’era qualche spia che per vendicarsi… I processi erano finiti, io ne ho incontrato uno, un celebre pittore sloveno, incontrato a Lubiana il primo giorno: mi ha dato la mano ed è andato per le sue e questo l’ho scritto anche nel libro.

Io ero attaccato ai miei malati tanto è vero che c’era la sala vicino dove vi erano gli ammalati con le ferite ma c’era mancanza di minerali. Il corpo umano era esposto a ferite flemmoniche, le chiamavano così, che non si trovano oggi negli ospedali, lì invece bisognava incidere, vi era il pus, e poi vi era molto da fasciare.

Intelligentemente abbiamo scaricato tutto quello che abbiamo trovato nell’infermeria delle SS, molti bisturi, alcol, fiale di zucchero … non so come si dice in termine tecnico, lo zucchero della vite, lo zucchero che si mette nelle fiale agli ammalati, la flebo; hanno fatto anche delle pastiglie di questo zucchero, lo comperavo quando andavo in montagna per resistere, c’erano fiale da 10-20 cm e quelle le abbiamo adoperate in qualche caso per fare iniezioni. Il fatto è che abbiamo fatto un viaggio di cinque giorni, credevo fossero tre invece ho trovato in questi giorni la data e non ci siamo fermati dappertutto perché non sapevamo dove scaricare questo materiale, tutta questa gente semimorente, bisognava caricarlo da prima, uno o due ne abbiamo seppelliti, c’era un russo che faceva questo; di solito i russi facevano tutti i lavori di fatica, era gente che lavorava sul serio, non ammettevano un lavativo senza la voglia di lavorare. Ci siamo fermati il giorno dopo, ne abbiamo seppelliti 150, abbiamo lasciato vuoto un vagone, quello vicino alla macchina e poi non ne abbiamo più seppelliti altri. In vagoni aperti siamo arrivati a Bergen Belsen che il campo era pieno zeppo e anche lì ci hanno scaricati davanti a piccole caserme di un piano e hanno fatto delle foto. Ci siamo fermati vicino a un treno con un carico di patate. Uno ha scavalcato due rotaie, è andato fino a quel treno per prendere due patate e le SS hanno sparato e hanno traforato l’avambraccio e a questo polacco ha detto “Per una patata guarda cosa hai fatto”, prima gli ha detto “Stai attento”, poi si vede che è andato a cercarlo, poi ha trovato del nero, ha trovato delle scarpe, e si è unto con quel nero come un giorno di festa ed è andato lungo i vagoni e lo hanno riportato in linea orizzontale, scaricato nel vagone. Questa è una mia idea, è andato a cercarlo, poteva stare zitto, perché finire all’altro mondo due giorni … molti giorni dopo, caso mai sarebbe stato liberato anche lui. Gli infermieri sono stati così intelligenti che tutti questi malati che trovavamo, che potevano camminare li abbiamo aiutati e anche lì c’era poco da fare. Lì ci hanno liberato gli inglesi il 15 o il 16 aprile 1945 e hanno distribuito delle scatole di prosciutto cotto molto ben cotto e molta gente è andata all’altro mondo con quel prosciutto cotto e non c’erano cucine, e abbiamo dovuto impiantarle.

Con due francesi amici dissi: “Guarda che tagliamo la corda”. Non c’era filo spinato, c’erano i primi tentativi di cannibalismo, c’era gente affamata già nel campo mentre noi infermieri eravamo in posizioni migliori perché un po’ ci arrangiavamo. Con il pane che restava, con il pane che si ordinava per il giorno dopo quando il giorno dopo c’erano morti, si facevano piccoli pezzettini, un po’ di minestra in più ma già lavorare dentro era salute, tanta energia guadagnata. In cinque giorni non ho toccato né da mangiare né da bere, non ve ne era per nessuno, immaginate quelli in piedi, non potevano nemmeno accasciarsi perché non c’era posto, già lì vi era un mucchio di gente morta.

Mi hanno detto: “Noi tagliamo la corda se vieni con noi, e dico: “Meno male che me la cavo, che vado verso la Francia” e poi abbiamo fatto autostop con questi camion vuoti che tornavano indietro per prendere altro materiale. Loro due stavano in piedi e salutavano queste truppe che stavano arrivando ed io ero sdraiato in questa coperta sul tavolaccio del camion. Ad un certo punto ci hanno lasciato e siamo andati a piedi di nuovo e abbiamo dormito in un paese, non abbiamo trovato niente di caldo, la gente era scappata perché aveva paura dei militari.

Siamo arrivati alla frontiera olandese e là gli olandesi avevano preparato dei treni speciali di prima classe per quelli che tornavano. Non erano solo dalla parte nostra ma anche dalle altre parti, non solo da Bergen Belsen. Così abbiamo fatto il viaggio attraverso il Belgio fino alla frontiera francese, poi ci siamo fermati a Lille dove vi era il primo luogo dove abbiamo dormito con le lenzuola e con il pacco della Croce Rossa americana e siamo arrivati a Parigi.

A Lille abbiamo fatto questa sosta che era il 2 maggio, vi era il giornale Liberation, vi erano giornali di un formato di un quarto di giornale, Le truppe jugoslave hanno liberato Trieste”, questo lo racconto in un mio libro uscito in Francia, “Primavera difficile”, ho firmato un contratto e dovrebbe essere tradotto anche in italiano; arrivato a Parigi mi sono presentato all’ambasciata jugoslava e pensavo che dal momento che erano là si sarebbe risolto, invece è stata una bidonata perché ho perso tutto quel tempo che sono stato in Francia come jugoslavo, un mucchio di soldi hanno preso quelli che avevano la documentazione di essere stati là un anno e mezzo e io come jugoslavo sono andato fino a Trieste come deportato politico perché mi hanno dato la tessera dei deportati politici francesi e mi hanno curato come se fossi uno di loro, ho combattuto con i militari clandestini di De Gaulle.

Sono stato là fino a quasi a Natale del 1946 e sarei rimasto ancora lì ma siccome avevo una sorella minore che ha preso la tisi anche lei, scendendo dal quarto piano semivestita con il freddo che c’era, il medico disgraziato della mutua le diceva che aveva un’influenza invece di fare subito un controllo e dopo nel 1947 è morta. Sono tornato nel 1946 ed è morta a novembre del 1947.

Un po’ le due sorelle mi hanno fatto il predicozzo, là ho conosciuto un’infermiera e mi sono innamorato, per fortuna sono tornato alla vita mentre vi erano moltissimi deportati che si suicidavano, ogni giorno la radio cercava “Hai conosciuto il numero tale ..? l’hanno visto?” I primi mesi anch’io ero senza voglia, ho comunicato a casa ma non mi interessava tornare, poi a Trieste vi era il pandemonio, vi era il Movimento di Liberazione Nazionale diretto dai comunisti che non voleva avere contatto con i cosiddetti imperialismi e a scapito dell’interesse che avremmo avuto noi di avere come amici il governo militare alleato hanno fatto il contrario ed è stata una balordaggine politica fantastica.

Questa mia vita in Francia è stata molto in gamba perché mi arrangiavo con il francese entrando nel campo, poi un anno sono stato con i francesi e i belgi, ho conosciuto pochissimi sloveni in questi campi dove ho fatto il mio lavoro come infermiere, il francese lo parlavo abbastanza bene là poi ho fatto una specie di Università sdraiato sulla sedie di vimini. Eravamo la maggioranza, si potrebbe dire quasi tutti, ex prigionieri di guerra francesi, vi era poca gente deportata, uno è morto subito i primi mesi che era là, poi ho conosciuto un polacco e c’era poca gente deportata e questi erano simpaticissimi, tutta gente abbastanza anziana richiamata per la Seconda Guerra Mondiale ed erano tisici anche loro e si sputava, vi erano le bacinelle, cartoncini, sacchetti.

In questo mio libro “Primavera difficile” racconto questa specie di incontro e li si prendevano in giro, “Domani ti portano una cassa da morto”, “No, il prossimo sarà per te”, eccetera, ho imparato il francese, quello popolare, non solo quello parigino ma tutte queste specie di espressioni che mi sono servite dopo quando mi hanno pubblicato in Francia e mi hanno accolto come uno di loro perché anche oggi se occorre cambio disco e parlo francese come se parlassi italiano …

D: Lì avete conosciuto il vostro amore!

R: Per conto mio era una specie di ritorno alla vita in una maniera anormale perché questa francesina simpaticissima, intelligente, finita anche lei in un sanatorio che non aveva niente, il padre che non ha voluto che facesse delle scuole e aveva il dono del disegno.

In sanatorio non so quanto tempo è rimasta. Aveva letto tutti i libri che vi erano in biblioteca, si interessava non era costretta, era molto dotata per la letteratura. Un medico che ha scoperto che non aveva più nulla diceva “Cosa fai qua tu, perché non fai l’infermiera?”, l’hanno fatta infermiera ed era bravissima.

D: Non l’avete portata in Italia?

R: Non aveva il coraggio di venire, ha trovato uno abbastanza ricco del paese che le voleva bene, era un suo amico di infanzia e suo padre le diceva: “Qua vi è un partito in gamba, cosa vai a metterti con uno là?”. Il peggio era che gli ufficiali che erano anche loro ammalati avevano raccontato della Jugoslavia quello che avevano conosciuto durante la Prima Guerra Mondiale: “Lì ci sono le capre,le pecore che passano per le strade della città per andare in montagna, cosa vai a finire laggiù?”

Lei era un po’ sbilanciata, poi le ho spiegato che cosa è Trieste in confronto alle pecore, ma la madre che piangeva che voleva avere i nipotini e il padre che è andato a prenderla in sanatorio e l’ha portata a casa per paura che scappasse, ero tormentato, due anni è durata questa cosa e la racconto nel romanzo che si chiama “Nel labirinto”, tradotto in francese, ci sono queste sue lettere, aveva già il passaporto per venire poi è andato tutto fallito. Mi dispiace perché si sarebbe trovata la maniera, io non ho potuto andare a cercarla perché arrivato a Trieste ho dovuto finire la laurea, finire l’Università. L’avrei portata a casa mia come poi ho fatto con mia moglie quando avevo già il servizio come professore ma per impiantarmi e trovare un posto, ci volevano soldi, denaro e non ho fatto bene a portarla a casa mia perché mia madre era molto religiosa, io non ho voluto sposarmi in chiesa, mia mamma ce l’aveva con me e anche con mia moglie che non mi ha fatto fare quello che voleva anche la sua famiglia che era religiosa …. fino a che non mi sono deciso con l’aiuto di mio padre di comperarmi una casetta a Barcolla. I primi tempi ha dovuto andare dai suoi perché quella casetta che c’era ho dovuto distruggerla nella parte superiore ed alzarla, il primo armadio che c’era ha aspettato che fosse fatto il piano per essere coperto; ero non un poveraccio ma in male condizioni economiche per cui non potevo dire: “La vado a prendere e la porto”. Un altro forse avrebbe avuto più coraggio e avrebbe detto: “Trovo qualche casa del Carso, una cameretta per due persone e la impianto lì”, praticamente, è andata a finire male.

D: Professore, ritornando a Natzweiler vi ricordate se c’era una baracca isolata dalle altre perché facevano anche degli esperimenti?

R: Non era una baracca ma una casetta in muratura ….

D: Non la camera a gas, intendo dentro nel campo.

R: Nel campo non c’era questo …

D: Non c’era una baracca recintata?

R: Questo era fuori del campo, poi sono andato a visitare, c’è vicino quello che si chiama Struthof è appunto questo posto perché Natzweiler prende il nome del paese che adesso si chiama Natzweiler. I nomi tedeschi li hanno lasciati, qua non so perché hanno tirato via quella “e”.

Sono stato al corrente degli esperimenti perché vi era non separato dal campo ma dentro, mi sembra fosse stato il quarto blocco. Dirò una corbelleria perché non sono mai stato attento. Hanno voluto tanti russi comunisti, dicevano loro, per fare degli esami e hanno trovato anche dei recipienti, volevano fare esami del cranio per dimostrare che hanno uno sviluppo mentale differente dal normale, non so in che blocco vi erano questi resti ma quello che ho visto che hanno fatto alcuni giorni prima era questo giovane di cui parlo anche nel libro che gli hanno dato una dose minore e che stava sdraiato e quando passavo vicino tirava il fiato come un pesce fuor d’acqua, non poteva né vivere né morire e non so come sia finito perché l’hanno trasportato con il trasporto di Dachau. Vi erano questi istriani-sloveni non so dove li hanno trovati ed erano destinati al gas e li hanno presi come zingari, poi si sono difesi e hanno detto: “Siamo italiani”, “Zingaro o italiano è lo stesso” hanno risposto.

Uno di loro più intelligente che ha capito che andava a finire male ha detto: “Siamo austriaci”, e questo li ha salvati perché intanto prima a calci hanno cercato di farli tacere e poi finalmente uno ha insistito e diceva che sapeva parlare il tedesco in maniera austriaca, era un tedesco di seconda mano e questo è bastato.

Hanno chiamato un interprete sloveno, non hanno chiamato me perché avrei detto subito che ero dell’Istria. In diversi casi ce l’avevano con gli italiani, come i tedeschi stessi perché nel 1915 avevano lasciato la triplice per andare dagli alleati che offrivano di più e gli alleati volevano prendere un pezzo della Slovenia, l’Istria e gli alleati si interessavano poco di queste regioni e hanno detto: “Dopo la guerra vi diamo questo” …. fatto sta che questo lubianese è arrivato a capire che in sloveno hanno spiegato “Siamo stati soldati austriaci” e allora li hanno cacciati in blocco ma è un po’ strano perché di solito gli zingari li avevano sotto il titolo di zingari, non so perché hanno trovato fuori questi istriani ma si sono salvati.

D: Donne a Natzweiler c’erano?

R: Non ne ho mai vista una, le uniche donne che sono venute e hanno finito i loro giorni a Natzweiler sono quelle che erano in un altro campo e che pare facevano parte dei partigiani o le hanno prese perchè aiutavano i partigiani come hanno fatto gli italiani con Arbe, quelli che erano finiti malamente, paesi interi in questo campo della Dalmazia e potevano anche essere presi come aiuto partigiano, non ricordo il numero giusto ma forse una cinquantina di persone, li hanno portati in campo e mi pare ci fosse anche un prete con loro, a Natzweiler li hanno messi tutti nel blocco della prigione …

D: Nel Bunker

R: Dicevamo Bunker, c’erano delle celle dove non si poteva né alzarsi né sedersi, i medici di notte hanno controllato. Uno a uno dal Bunker attraverso la terrazza un colpo alla nuca, non c’era la possibilità di impiccare, hanno sparato e dopo vi era la seconda, la terza, a uno a uno, e vi era l’unico caso dove vi erano delle giovani che nessuno ha pianto, sapevano dove andavano, non c’era altra maniera di uscire dal campo la notte.

D: Professore, è importante che i giovani di oggi conoscano la storia della deportazione?

R. Ho sempre sottolineato dove mi hanno fatto parlare del mio vissuto che eravamo nei campi dei deportati politici, quindi noi eravamo antinazisti per cui non abbiamo niente a che fare con i campi dove sono finiti gli ebrei, quelli che rimanevano in vita dopo tutti quelli che morivano con il gas. Certi sono rimasti, potevano servire specialmente ingegneri per opere, come Primo Levi, hanno fatto una vita di campo simile al nostro solo che lì non avevano interesse di farli morire presto perché volevano servirsi di loro come al campo di Dora per i missili. Lavoravano ma siccome lavoravano all’interno, il cibo anche scarso, la gente serviva fino a che dopo se facevano sabotaggi finivano anche loro impiccati.

Bisognava sottolineare che vi erano questi campi cominciando da Dachau, Buchenwald, Dora che erano insieme con tutte le dipendenze. Se si pensa che Natzwelier dipendeva da Dachau immaginarsi tutto quell’arcipelago di dipendenze. Ad esempio, Dora era una dipendenza di Buchenwald, che poi aveva alle proprie dipendenze che non si sa quanti campi.

Hanno costruito vicino al campo un centro che chiamano Centro Europeo del Resistente Deportato e questo vale per tutta Europa e si conosce anche questo anche se i francesi non hanno fatto tanta propaganda e molte volte ho scritto di questo. In Francia mi hanno detto il bollettino dei deportati dove pubblicavo molte volte che erano deportati di Dora-Mittelbau, e dicevano “Caro Pahor, caro Boris, questa tua discussione che fai sui campi è una specie di antisemitismo”. Dico: “Dove antisemitismo se parlo parallelamente della gente che è andata all’altro mondo, diventata cenere come gli altri .. il problema ebraico e io sono antisemita?” “Guarda che queste cose come le impianti tu…!” “Come le impianto io, siamo o non siamo stati antinazisti, siamo o non siamo stati in questi campi dove si moriva di malattie. Oltre agli impiccati, abbiamo il diritto o no?”

Bisogna far conoscere, non siamo niente, non avevamo niente a che fare con la gente che è finita con l’olocausto, non c’era niente di olocausto da parte nostra, eravamo semplicemente destinati a morire perché antinazisti e quelli che siamo stati con i francesi, belgi, olandesi e norvegesi. Era semplicemente una vendetta tedesca verso questa parte di Europa che si è messa contro la Germania e speravano che questa parte dell’Europa avrebbe capito che la razza superiore tedesca aveva certi diritti.

Capuzzo Bacio Emilio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Io sono nato nel 1926 ad Anguillara Veneta, un piccolo paese in provincia di Padova.

D: Come ti chiami?

R: Capuzzo Bacio Emilio

D: E sei sempre stato lì ad Anguillara?

R: Ad Anguillara sono rimasto fino al 1938.

D: E poi dopo?

R: Poi dopo la fame, il freddo e la miseria costrinsero mio padre a venire in cerca di lavoro in provincia di Milano.

D: E sei arrivato a Nova Milanese?

R: Siamo arrivati a Nova Milanese nel mese di agosto del 1938.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Io avevo 12 anni.

D: E sei andato a scuola qui?

R: No. Quando ero al mio paese, cioè Anguillara Veneta, si viveva nella miseria totale; ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni.

D: Non avevate i soldi?

R: C’era solo la fame.

D: Il tuo babbo lavorava dove?

R: Mio papà era l’unico metalmeccanico del paese, quando venne convocato dal suo datore di lavoro, il quale gli chiese se aveva fatto la tessera del Partito Fascista, mio padre naturalmente disse di no. Perché era un socialista. Allora il suo datore di lavoro disse: Lei, se vuole continuare a lavorare in questa piccola fabbrica, deve fare la tessera del Partito Fascista, altrimenti da domani lei non può più entrare in questa piccola fabbrica”. Mio padre, da buon socialista, rifiutò questo ricatto. Non solo venne licenziato dal posto di lavoro, ma addirittura sfrattato di casa, perché di proprietà di un fascista, con tre bambini, uno di quattro anni e mezzo, uno di tre anni, uno di uno e mezzo. Io ero ancora nel grembo di mia madre, pertanto posso solo dire che le prime sofferenze le ho subite quando ancora ero nel grembo di mia madre.

D: Quindi dopo avete trovato un’altra casa lì ad Anguillara?

R: Adesso qui bisogna chiarire un momentino i fatti. Con l’aiuto dei diversi parenti che avevamo, cioè con piccoli prestiti, è riuscito a comperare un pezzettino di terreno e costruire una piccola casa comune, avendo poi il peso ed il pensiero di come pagare quei debiti. Infatti quando siamo venuti a Milano, ha potuto vendere quella casa, soprattutto per pagare i debiti che avevamo.

D: Quando tu dici Milano intendi Nova Milanese?

R: Intendo Nova, perché il piccolo appartamento lo trovò qui a Nova.

D: Dove?

R: Nel cortile dei Garlati.

D: A quel tempo non andavi a scuola?

R: Quando sono arrivato a Nova in pratica avevo fatto solo la terza elementare. Ho dovuto abbandonare la scuola che non avevo ancora 10 anni, pertanto quando sono arrivato a Nova, che avevo 12 anni, ho dovuto continuare la scuola e fare la quarta e la quinta elementare.

D: Ti ricordi dove andavi a scuola?

R: In via Roma. L’unica scuola che c’era a Nova era in via Roma.

D: Quindi dal ’38 in avanti tu sei andato a scuola in via Roma?

R: In via Roma. Finita la quinta elementare avevo già qualche mese in più dei 14 anni, allora l’unica cosa era quella di fare il libretto di lavoro. Mi recai in Comune, fatto il libretto di lavoro non ebbi nessunissima difficoltà a trovare il primo lavoro, diciamo, che fu alla SIB di Desio, dove costruivano le casseforti. Però nello stesso tempo io andavo a scuola di apprendistato all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avuto quel piccolo diploma, trovai subito lavoro alla Breda Campovolo.

D: Che dov’era?

R: Era tra Sesto e Bresso.

D: Lì lavoravi dove? In reparto?

R: Sì, lavoravo come apprendista aggiustatore, e posso dire che tutti noi guadagnavamo abbastanza bene, perché c’era un buon cottimo, diciamo, ma tutto questo durò molto poco, circa 2 anni, perché arrivò, come tutti sanno, eravamo già in piena guerra, e arrivò addirittura la caduta del fascismo il 25 luglio 1943.

Da allora le cose si fecero molto, ma molto brutte perché quella fabbrica venne addirittura occupata dai tedeschi perché avevano invaso l’Italia, e occupata quella fabbrica. Abbiamo dovuto addirittura smettere di produrre il nostro caccia bombardiere che all’inizio della guerra era sicuramente uno dei più veloci e forse il migliore in Europa. Abbiamo dovuto, addirittura in poco più di 15 giorni, metterci a produrre un bimotore bombardiere, che si chiamava Cant Z, il nome me lo ricordo, il Cant Z si chiamava.

Si lavorava, però era sparito il cottimo in pratica. Noi lavoravamo tranquilli anche se non molto volentieri fino a quando arrivarono le prime voci che non dovevamo correre quel grosso rischio di sabotare, perché era un grosso rischio, ma di rallentare la produzione perché finiti quei bombardieri lì, sicuramente sarebbero arrivati a bombardare la fabbrica, e così fu.

D: Ascolta un attimo, Bacio, lì in fabbrica, il movimento operaio era abbastanza sensibile, attivo con il discorso legato al movimento della Resistenza?

R: Guarda, quella fabbrica era quasi una fabbrica militare. Basta dire che il direttore ed il vicedirettore erano due alti ufficiali dell’aviazione. Pertanto non bisognava assolutamente pronunciare una parola che andasse contro la guerra o addirittura contro il fascismo. Abbiamo capito che tutto andava per il peggio, bombardamenti, e la guerra si pensava che non potesse finire a breve. Arrivò addirittura il primo sciopero del ’43. Il primissimo, anche se non fu un gran sciopero, però fu sempre uno sciopero per protestare contro la guerra, cioè per la pace, e soprattutto anche per il pane. Perché avevamo le tessere e mi sembra che fossero due etti di pane al giorno, pertanto era soltanto fame.

D: A persona?

R: A persona. Però avevamo solo quello, non è da dire che noi potevamo avere una buona bistecca oppure un piatto di spaghetti, era solo quello.

D: Ma lì, il movimento operaio, dentro in fabbrica, i tuoi compagni di lavoro, quelli più grandi?

R: Quelli più grandi. Avevamo capito che dovevamo prepararci per questo sciopero. Ed in pratica io, oltre che essere un portaordini, con il grosso rischio perché avevamo l’ordine di non allontanarci dal nostro reparto, e questo fu a metà febbraio del ’44, e quando incontrai, per puro caso, il mio capo reparto che lui viaggiava sempre in bicicletta quando faceva gli spostamenti, e lo incontrai, mi fermò e mi disse: “È questo il tuo posto di lavoro?” “Ma sono andato così a salutare un mio amico”, però lui non mi credette, in pratica. Lui non mi credette, tant’è vero che dopo 2 o forse 3 giorni vennero a cercarmi a casa i fascisti ed i tedeschi.

Fortuna volle, era il pomeriggio verso le 17.30, che davanti al mio portone di casa c’era Olivo Favaron, che lavorava insieme a me. Era a casa in malattia da diversi giorni e mi doveva consegnare il certificato della malattia perché noi avevamo la mutua interna, quando vide arrivare i fascisti ed i tedeschi che gli chiesero: “Abita qui un certo Capuzzo Bacio Emilio?” “Sì, abita sopra”. Ma nel frattempo lui prese la bicicletta e mi venne incontro, e mi trovò, perché noi smettevamo più o meno alle cinque e mezza di lavorare, e mi dice: “Guarda che ci sono i fascisti ed i tedeschi a casa a cercarti”. Allora io, alla sera, non andai a casa neanche a dormire, niente, e trovai un piccolo posto sicuro, diciamo. Andai addirittura dal fidanzato di una mia sorella, e lì rimasi per qualche giorno.

D: Scusa Bacio, i fascisti ed i tedeschi che sono venuti a casa tua, di che piazza erano, non lo sai? Non erano di Nova?

R: Non si sa. Venivano chissà da dove.

D: Da fuori?

R: Sì. Da fuori, sicuro.

D: E cosa volevano?

R: Non lo so. Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché oramai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora, allora mi avvicinai ai primi gruppi di partigiani.

D: In fabbrica?

R: No, qui a Nova. Infatti andai, il primo cascinotto fu quello di Felice Beretta, ed il secondo quello di Luigi Erba. Trascorsi dai 15 ai 20 giorni.

D: Scusa Bacio, però tu in fabbrica andavi lo stesso a lavorare?

R: No, niente, adesso ti spiego.

Trascorsi, mi sembra 15 giorni, eravamo verso il 15 marzo, quando la bufera dello sciopero era già superata in pratica, allora io mi presentai all’ufficio del capo reparto. A dire la verità ero anche armato perché il rischio lo avevo già previsto. Mi presentai addirittura armato. Come mi vide, mi disse: “Come mai sei qua?” Ho detto: “Perché, lei non sa niente?”. “A cosa vuoi alludere?” “Non sa che sono venuti i tedeschi ed i fascisti a casa, a cercarmi? E lei ne sa qualcosa. Si ricorda quando mi ha trovato sulla strada e mi aveva chiesto dove ero andato, e che il mio posto doveva essere sul banco del lavoro? Dopo tre giorni sono venuti a casa a cercarmi i fascisti ed i tedeschi.” Mi ha detto: “Cosa vuoi dire con questo?” “Lei mi deve dire cosa posso fare, adesso, io”. E allora lui mi guardò in faccia e mi disse: “Guarda, se tu mi prometti che continuerai a far sempre quello che hai fatto, cioè a non spostarti più dal tuo posto di lavoro, dammi la mano e io ti giuro, come un padre di famiglia, che sarai tranquillo”. Purtroppo questo durò poco più di un mese.

D: Sei ritornato in fabbrica?

R: Sì, sono ritornato. Oh, mi ha dato la parola. E allora quando poi sembrava quasi tutto tranquillo purtroppo, il 24 aprile era di domenica, una domenica mattina verso le 11, arrivarono le super fortezze volanti, a ondate successive, e rasero, diciamo quasi completamente, quella fabbrica. Dopo alcuni giorni mi arrivò una cartolina di presentarmi al comando tedesco per essere mandato a lavorare nella fabbrica della Junker che si trova in Germania. Mi feci subito un’idea diversa e non esitai un solo giorno per fare una scelta, quella di aggregarmi ai gruppi di combattimento partigiani, cioè la GAP.

D: Ma sempre di Nova erano?

R: Sì, sempre qui, la GAP in pratica, le sue azioni non le faceva in montagna, c’era la GAP e la SAP che più o meno facevano le stesse cose. Il nostro compito era quello di tentare i sabotaggi, tagliare i fili del telefono, volantinaggio, scritte sui muri e possibilmente disarmare, perché avevamo assoluto bisogno di armi.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri partigiani novesi?

R: Qui ce n’è diversi.

D: Quelli del tuo gruppo, prima.

R: Sì, quelli del mio gruppo, noi eravamo circa 12. Posso subito fare i nomi. I primi sono andati in montagna. In Valdossola, che furono Olivo Favaron, Giulio Villa, Renato Tagliabue, Attilio Sereni, e Biondi Giorgio.

D: Dove vi trovavate qui a Nova?

R: Il nostro cascinotto era, almeno per gli ultimi giorni, era il cascinotto di Vanzati Emilio, che si trovava nelle vicinanze di Desio. Però quando arrivò l’ordine di prepararsi per partire, perché era la fine di giugno del 1944, come prima cosa dovevamo procurarci un camion, per caricare non solo tutti noi, ma addirittura le armi ed il vestiario e soprattutto una macchina che doveva segnalare il pericolo in caso ci fosse stato.

D: Sapevate dove dovevate andare in montagna?

R: Dovevamo andare verso Dongo, quella era la nostra zona. Però il giorno prima era arrivato un segnale che, almeno dicevano, che noi eravamo segnalati in pratica, allora abbiamo avuto l’ordine di spostarci, e ci siamo spostati al Bosco della Valera, che è un bosco grandissimo. Lì siamo stati due notti in assoluto segreto. Purtroppo dopo due giorni accadde un fatto gravissimo.

D: Ascolta Bacio, quindi voi eravate lì cosa è successo?

R: Eravamo verso le 12.30, dopo pranzo, io ero di guardia, con il mio mitra in spalla, ed arrivò una ragazza in bicicletta. Era ormai troppo tardi per ritirarmi, mi aveva già visto, io la fermai e le chiesi subito: “Come mai ti trovi qui, dove stai andando?” “Ho un appuntamento con il mio fidanzato” “A che ora hai appuntamento?” Mi ha risposto: “Verso la una meno un quarto, dovevamo trovarci qui”. Gli altri, che erano nell’interno del bosco, sentendomi parlare con questa ragazza, vennero fuori e mi chiesero subito: “Chi è questa ragazza?” Io risposi che non lo sapevo, che l’avevo trovata lì e che mi aveva detto che aveva l’appuntamento con il fidanzato. Però passavano i minuti ed il fidanzato non si vedeva, allora Giorgio, che aveva l’arma in mano con il famoso difetto che non teneva la sicurezza, lui forse credeva di non avere il colpo in canna ed in modo scherzoso ha detto: “Guarda che se sei venuta per fare la spia, fai una brutta fine”. Ma lo diceva in modo scherzoso, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte e partì un colpo. Io ho visto il fatto che era sicuramente gravissimo perché veniva fuori addirittura il cervello, e allora io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante.

D: Bacio, lui si era appoggiato la pistola alla sua fronte?

R: Sì, se l’era appoggiata.

D: Alla sua testa?

R: Alla sua testa.

D: Non alla ragazza?

R: No, alla sua testa, ecco quale fu il fatto grave. Io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante, che abitava a Muggiò. Si chiamava Merati Enrico ed io ero l’unico a conoscere l’abitazione del comandante. Arrivato a Muggiò, entrai, era ancora a tavola che pranzava, gli raccontai il fatto, si mise le mani nei capelli. Allora io ed un altro suo amico, che poi è morto nel campo di Mauthausen

D: Robecchi.

R: Ecco, io non sapevo il nome, poi ho saputo che era Robecchi. Prima di entrare nel bosco della Valera, io sono ritornato a questo bosco per sentire le novità, cosa avevano fatto in poche parole e 100 metri prima credo di arrivare al bosco della Valera, dissi a Robecchi: “Tu fermati perché non si sa mai, potrebbe essere pericoloso”. Come io misi piede dentro il bosco della Valera, sentii sparare alcuni colpi per intimarmi di fermarmi. Mi chiesero subito perché ero andato in quel bosco e chi ero e perché ero andato in quel bosco della Valera. Io dissi subito che avevo sentito delle voci che si era ferito un ragazzo, addirittura Biondi Giorgio che abitava nel mio stesso cortile, e che ero venuto per vedere. “Tu non sai niente di tutto quello che c’era qua?” “Io no, perché dovrei sapere qualcosa?”. Allora visto che loro non si decidevano a lasciarmi andare dissi: “Dovete lasciarmi andare, perché i miei genitori saranno preoccupati”. Allora lui ha ordinato a due, perché lui era il comandante, era un brigadiere, ha ordinato a due della Guardia Nazionale Repubblicana: “Portatelo in Caserma, guardate che se fa brutti scherzi o tenta di scappare, non dovete aver paura a sparare”.

D: Bacio scusa, questi erano di Nova o di Desio?

R: Era la Guardia Nazionale Repubblicana di Desio perché lì c’era la caserma.

D: E ti ricordi quando era venuto qui a Nova il Battaglione Azzurro germanico?

R: Ecco, loro in pratica, sono venuti, credo verso la fine del 1944. Perché all’inizio non c’erano, all’inizio.

D: Ma tu te li ricordi questi?

R: Io a dire la verità non li avevo mai visti perché dopo quello che era accaduto io mi allontanai da Nova e rimasi alle cascine di San Fruttuoso.

D: Beh, dopo ci arriviamo. Quindi quelli erano di Desio.

R: Sì, erano della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.

D: Ma c’erano solo italiani, non c’erano tedeschi lì al bosco della Valera?

R: No, no. C’erano solo loro.

D: Ascolta, lì eravate te, Biondi?

R: Eravamo io, Biondi, Attilio Sereni, Macciantelli Maurizio, Erba Luigi.

D: Ma quando è successo il fatto lì di Biondi, della pistola, tu sei andato a Muggiò, gli altri cosa hanno fatto?

R: Gli altri hanno telefonato alla Croce Rossa, perché pensavano, almeno, c’era un filo di speranza per cercare di salvarlo.

D: Biondi lo hanno portato in ospedale?

R: Sì, loro hanno telefonato subito alla Croce Rossa. Lo hanno portato all’ospedale di Desio, gli altri hanno fatto sparire tutto quello che avevamo, era un piccolo accampamento, non è che c’era un granché, le armi e allora dopo in pratica io ho dimostrato di essere tranquillo al massimo, anzi continuavo a dire: “Ma dopo mi lasciate andare a casa, perché io non ho fatto niente, non so niente”.

E allora arrivato sulla via Milano, che è la via della circonvallazione di Desio, uno dei due disse all’altro: “Tu portalo pure in caserma, tanto vedo che è tranquillo”. Come arrivai sulla via Garibaldi, che è quella che ti porta in centro a Desio, c’erano sì e no 200 metri ad arrivare alla caserma, ho detto: “Questo è il momento buono”. Perché io nel frattempo macinavo come fare questa fuga, perché ero deciso a tutto, perché o mi ammazzano oppure dovevo tentare in tutti i modi a scappare. Allora presa la via Garibaldi gli ho dato sicuramente 100 metri di distacco. Arrivai alla Foppa.

D: Eravate in bicicletta?

R: Ero sulla bicicletta di Macciantelli Maurizio che era una bicicletta da donna. Quando arrivai alla Foppa nel fare una curva mi saltarono tutti e due i freni, andai a sbattere contro il marciapiede, ebbi la forza di alzarmi, e in quella arrivava lui con l’arma in pugno e mi intimava ancora l’Alt e mi disse che se tentavo ancora di scappare mi sparava. Ma proprio con l’arma appoggiata.

Però nel frattempo si avvicinarono decine di persone, addirittura c’era uno in borghese, avrà avuto una trentina d’anni, e disse subito: “Ma non vedi che è un ragazzo spaventato, toglili almeno l’arma puntata”. Era un poliziotto in borghese. Pensa un po’. Allora lui disse, “Sì, ma non è necessario tenere l’arma puntata”. Allora lui ritirò l’arma, ma nel frattempo voleva portarmi in caserma. “Io in caserma non voglio venire”, ho detto, “perché io non ho fatto niente, perché devo venire in caserma?” E allora, in pochi minuti, si riempì la strada, perché era domenica, e hanno cominciato a gridare: “Lo lasci stare, non vede che è un ragazzo?”. Sentì che la popolazione era solidale con me, però ha avuto il coraggio di dire: “No, non è un ragazzino, questo qui ha commesso un reato grave”. Io allora gli dissi che non era vero. Allora lui mi rispose: “Perché allora non vuoi venire in caserma, se non hai fatto niente?” Allora io trovai un’altra scusa, e dissi: “Se io vengo in caserma, siccome mi è arrivata una cartolina che dovevo andare in Germania ed ho rifiutato, pertanto potrebbe essere grave venire in caserma, pertanto io non ci verrò mai in caserma”. La popolazione ha iniziato a gridare: “Lo lasci andare, lo lasci andare”.

Nel frattempo si era aperto un varco, io naturalmente sono partito come una freccia, si può dire. Entrai in un cortile, scavalcai un muro, adesso l’altezza precisa non la so, ma ancora oggi stento a credere come io abbia fatto a scavalcare quel muro. Scavalcando quel muro addirittura entrai in un giardino privato dove c’era il negozio della famosa Maddalena che era una merceria, sulla via Garibaldi. Lei in pratica era in strada che guardava anche lei cosa succedeva, allora io le toccai una spalla e dissi: “Adesso lei mi deve nascondere”. “No, io ho paura”. Mi ha aperto il cancello e sono arrivato a Muggiò, dove erano tutti in stato d’allarme, pensando che mi avrebbero torturato, che avrei parlato, chissà che fine avrei fatto. Come mi hanno visto, un respiro di sollievo, in pratica. Mi dissero subito che lì di posto sicuro non ce n’era, partire per la montagna diventava sicuramente più difficile. “Tu non ce l’hai un posto, non dico sicuro, ma almeno tranquillo dove andare?” Io dissi di sì. “Io vado a Borgomisto, lì ho la fidanzatina, e in pratica tenterò almeno di farmi vedere il meno possibile”.

Passarono circa 10 giorni; io avevo cambiato già diversi cascinotti, perché non volevo dare il minimo sospetto, continuavo a spostarmi. Mentre ero su un sentiero che va verso le cascine di San Fruttuoso, arrivarono due persone, che dopo ho saputo chi erano, uno era Enrico Carpani che adesso spiegherò chi era. Come mi vide, mi dice subito: “Non avere paura, siamo dei tuoi”. E allora io presi coraggio, mi dice: “Ma non ti ho mai visto, da che parte arrivi, chi sei, con chi sei…” e gli spiegai il fatto. Allora lui mi ha detto subito chi era. “Io comando un gruppo così e così, alle cascine di San Fruttuoso, della SAP”. Non più della GAP, ma erano squadre di azione partigiana. “Se vuoi venire con me, adesso ti porto dove puoi dormire e se sarà possibile magari trovarti qualche cosa da mangiare”. Allora andò a casa sua, mi prese un pezzo di pane giallo, forse un pezzetto di formaggio, mi spiegò tutto quello che dovevamo fare, e allora tutto sembrava tranquillo, perché addirittura lui aveva il collegamento con la montagna, con la divisione di Moscatelli, figurati un po’.

Il compito della SAP non era solo quello di procurare armi, o di disarmare, per portarle in montagna, ma possibilmente anche di vedere di trovare indumenti. Io sono rimasti lì 4 mesi, a San Fruttuoso. Abbiamo fatto un’azione perché avevamo bisogno assolutamente di un camion per spedire la roba in montagna, avevamo indumenti di prima necessità, diciamo. Io addirittura dovevo segnalare se era possibile fermare il camion o lasciarlo andare. Eravamo sul viale Monza, io ebbi un sospetto, perché aveva il tendone, allora io non lo segnalai. Infatti, lo sai chi c’era su quel camion? Fascisti e tedeschi che sono andati a svaligiare quel magazzino che ci aveva promesso che ci dava un po’ di roba. Allora in pratica il sospetto del proprietario del magazzino cadde sul nostro comandante. Allora noi cercavamo di trovare la verità. Infatti venne un sospetto, perché con i tedeschi ed i fascisti che erano andati a svaligiare il magazzino, sicuramente c’era qualcuno del posto. Solo io non lo sapevo, ma lui sapeva che tre di San Fruttuoso facevano servizio alla caserma dei fascisti di San Fruttuoso. Io addirittura ero andato a trovare la mia fidanzatina, loro tre si avvicinarono ma non sono riusciti a bloccarlo e a disarmarlo. È partito un colpo, in pratica due se la sono cavata bene ed uno riuscirono a prenderlo, lo hanno torturato ed ha fatto tutti i nomi.

Allora io, forse dopo qualche ora, ritornai e vidi addirittura che il cascinotto dove dormivo io, era in fiamme, che era il cascinotto di Enrico Carpani. Non c’era più nessuno, erano scappati tutti. Lui era venuto a Nova, perché aveva dei parenti a Nova, ed a Nova ha subito organizzato il primo gruppo che ha trovato a Nova, che sono stati quelli che poi hanno arrestato, e ti dico subito chi erano, in pratica si arrivò verso la fine di ottobre.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Erano 4 mesi che non andavo a casa.

D: La caserma che tu dicevi dei repubblichini, era quella di San Fruttuoso?

R: Sì, c’era proprio la caserma dei repubblichini.

D: E loro hanno tentato di fare l’assalto alla caserma?

R: No, di prendere uno di questi tre.

D: Che era lì in caserma.

R: Sì, era di sentinella, hai capito?

D: Ho capito. Quindi tu era già 4 mesi e più che non venivi a casa.

R: Sì, che non andavo a casa. Erano tutto luglio, agosto, settembre ed ottobre.

D: Di qua non sapevi niente?

R: Di qua io non ho saputo più niente, perché io mi sono aggregato con la SAP.

D: Che Biondi era morto?

R: Sì, per sentito dire. Biondi era morto dopo 2 o addirittura 3 giorni.

D: E gli hanno fatto il funerale qua?

R: Sì, hanno fatto il funerale.

D: A Nova?

R: Sì.

D: Degli altri invece tu non sapevi?

R: Non ho saputo più niente.

D: Contatti non ne avevi più?

R: No, completamente.

D: Una cosa, a casa tua non era andato nessuno a cercarti?

R: Più volte sono andati, sempre quelli della Guardia Nazionale Repubblicana. Mi cercavano e addirittura il giornale aveva anche esagerato, mi cercavano addirittura per omicidio. Quando io ho testimoniato davanti ai genitori di Biondi e avevo detto come era accaduto il fatto, cioè che si era puntato la rivoltella alla fronte ed era partito il colpo, gli altri avevano testimoniato la verità come ho fatto io, ma loro non mi hanno mai creduto, lo sai perché? Perché il dottor Oglio che era il primario dell’ospedale di Desio, ha dichiarato verbalmente che quello che avevamo detto noi non era vero, e cioè che il colpo lo aveva ricevuto alla nuca, ed era uscito dal davanti. Pertanto loro avevano il dubbio che fossi stato io. Perché lui continuava a dire: “Tu devi dire la verità, anche se ti è partito un colpo involontario.” “Ma la verità è questa”, dicevo. Il mio mandato di cattura, se c’era poi, era questo; l’imputazione era ricercato per omicidio, addirittura.

Allora loro hanno messo sul giornale di presentarsi, mi hanno dato un termine che scadeva, di presentarmi entro 48 ore, altrimenti dovevo essere catturato morto o vivo. Ma io non potevo presentarmi, vado a presentarmi per correre tutto questo rischio?

Allora la burrasca momentaneamente venne superata, diciamo così. In pratica dopo questi 4 mesi, che si era alla fine di ottobre, Benito Mussolini emanò un bando di perdono per tutti, partigiani, sbandati, renitenti, che non avevano commesso reati di sangue, se si presentavo entro 10 giorni venivano perdonati. Io approfittai per andare a casa, per salutare i miei, dopo circa mezz’ora che ero in casa, sarà stato verso le 9 credo, cioè le 21.00, vidi arrivare quelli delle Brigate Nere. Io come li vidi ho detto subito: “Sono venuto a casa per presentarmi”. “No, vieni con noi che c’è da chiarire qualcosa”. Infatti mi portano alle Brigate Nere di Cesano Maderno, e lì ebbi una grossa sorpresa, vidi addirittura Tagliabue Renato, grondante di sangue, perché lo avevano torturato a morte, come? Durante un’azione che andò male, perché si bloccò la macchina addirittura nelle vicinanze della caserma di Cesano Maderno. Lui tentò la fuga, perché erano in quattro, purtroppo rimase chiuso in una via cieca, lo arrestarono, lo torturarono e lui ha fatto tutti i nomi, anche il mio perché loro volevano soprattutto sapere chi era questo Carpani Enrico, e allora: “Chi lo conosce?” “Dov’è la sua abitazione e chi ha collaborato con lui?” Ha fatto anche il mio nome, e allora quando io sono arrivato e l’ho visto conciato così, gli ho detto subito: “Ma chi te l’ha fatto fare a te? Ma come mai hai fatto anche il mio nome?” “Perché io non capivo più niente”. Ma io avevo sempre un filo di speranza, cioè firmare che mi lasciassero, hai capito? E invece no, non fu così. Addirittura ci presero, io, Sironi Mario e Frigerio Mario, ci caricarono su un motocarro e ci portarono a Monza, alla caserma, non so se era delle SS o della Wehrmacht.

D: Alla caserma o al carcere?

R: No, no, alla caserma. Perché loro non potevano, quelli della Brigata Nera, portarmi al carcere. E mi consegnarono ai tedeschi, in una villa, che adesso io non so dov’era questa villa. Mi sembra che mi abbiano tenuto lì sì e no 5,10 minuti. Loro ci hanno consegnati, poi ci hanno caricati su un camion e ci portarono al carcere di Monza. Siamo stati lì più di un mese, sì almeno 40 giorni.

D: In cella?

R: In cella. Eravamo io, Sironi Mario e Frigerio Mario.

D: E loro perché li avevano presi?

R: Perché aveva fatto i loro nomi, prima del mio, aveva fatto i loro nomi. Loro non erano nella macchina che ha fatto l’azione, erano in casa tranquilli che dormivano. Li hanno presi, arrestati, in pratica, anche loro pensavano che forse firmando si sarebbero salvati, no, ci hanno consegnato ai tedeschi. E si salvò proprio Renato Tagliabue. In pratica, lo fecero firmare, rimase nelle Brigate Nere solo lui, solo lui.

D: Ascolta, quando tu eri giù a Monza, nelle carceri di Monza, siete mai stati interrogati, voi?

R: No, niente, il verbale lo hanno fatto le Brigate Nere.

D: E basta?

R: Sì, basta dopo.

D: I tuoi genitori sono venuti a Monza, in carcere?

R: Non potevano, non potevamo parlare né ricevere. Ricevere per esempio un pacco, oppure parlare per un colloquio qualunque e siamo rimasti lì più di 40 giorni. Molto prima di Natale, verso il 20 di dicembre, credo, ci caricarono su di un camion e ci portarono al carcere di San Vittore.

D: Solamente voi tre o c’erano degli altri?

R: C’erano degli altri che noi non conoscevamo. Arrivati al carcere di San Vittore, chiusi in una cella, dopo forse poco più di mezz’ora o un’ora, passò la guardia carceraria e io gli dissi subito: “Ho bisogno di parlare” “Cosa c’è?” “Guardi se io trovo da fare qualsiasi lavoro, non so, pulire i corridoi, distribuire il rancio, basta che ci sia da uscire da questa cella” e dopo un’ora venne e mi disse: “Guarda da domani mattina tu vai a distribuire il rancio, pulisci i corridoi, distribuisci il rancio, ti va bene?” “Sì, ho detto, va benissimo”.

D: Ti ricordi in che raggio eri?

R: Ma adesso non so se era il terzo o il quarto. Perché tu come entri a San Vittore era, tu non puoi immaginare, sì ma forse era il quarto raggio, perché il quinto era quello sopra. Nei cameroni c’erano gli ebrei, me lo ricordo perché andavo a distribuire il rancio, e allora mi hanno detto subito queste prime parole: “Guarda che c’è da distribuire il rancio anche agli ebrei, ci sono famiglie intere, ma tu non devi pronunciare una parola, devi solo dare il rancio”. “Sì” ho detto io.

Infatti quando ho distribuito il rancio uno di questi ebrei si allontanò un momento dalla guardia e mi disse subito, perché lui forse pensava che io fossi un civile, uno di servizio lì, e mi disse: “Non sai se c’è la possibilità di corrompere?” e gli ho risposto “Ma io sono come voi, corrompere cosa?” E loro si sono convinti subito che ero un carcerato come loro, che distribuivo il rancio. Si sono scusati e basta. Allora lì rimanemmo credo fino al 20 o al 21, forse il 20 o il 19 di gennaio,poi ci caricarono.

D: Gennaio di che anno?

R: Del 1945, il 19 o forse il 20, ci caricarono su due pullman, adesso non ricordo bene che pullman erano, ma poi ho saputo…

D: Dell’azienda tranviaria?

R: Ecco, dell’azienda tranviaria, l’ho saputo poi dopo, io. La partenza era sempre verso l’imbrunire, verso sera, perché c’erano i caccia che mitragliavano. Siamo arrivati alle porte di Brescia, si guastò il pullman e allora piano piano ci misero in fila e siamo andati verso il carcere di Brescia, aprirono il portone e ci hanno fatto dormire tutta la notte sul corridoio.

D: Eravate in tanti lì?

R: Sì, un pullman pieno, era.

D: Chi c’era a fare la guardia?

R: La SS. Abbiamo dormito, e alla mattina prestissimo, forse erano le cinque, partenza per Bolzano, si viaggiava su questo pullman, che nel frattempo avevano sistemato; sul pullman c’era un ufficiale delle SS che parlava un italiano perfetto, e allora mi è venuto un dubbio: “Come mai un ufficiale delle SS parla così bene?” Poi venni a sapere che Bolzano e tutto l’Alto Altesino se l’era annesso la Germania e loro si presentavano o con la Wehrmacht o con le SS. Ma poi ho saputo tutto questo.

Beh, siamo arrivati a Bolzano, era quasi mezzogiorno. La prima sorpresa fu un po’ di orzo cotto nell’acqua, neanche il sale c’era, e allora noi per assaporarlo un momentino c’era uno che aveva una scatoletta di estratto di sardine, e mi metteva mezzo cucchiaino, però il sapore non era simpatico. Era una specie di filoncino, di pane nero, sembrava quasi piombo, d’ogni modo queste erano cose normalissime. Allora venne poi la sera. Io mi ricorderò sempre, alla mattina ci svegliavano sempre prestissimo, ho fatto due mattine la conta sul cortile.

D: Ascolta, quando siete entrati a Bolzano vi hanno fatto la spoliazione, vi hanno dato qualcosa?

R: No, niente, solo rasati con la macchinetta, solo i capelli.

D: E basta?

R: Sì che poi li avevo lunghi un dito, perché appena arrivato a San Vittore mi avevano rasato

D: Un numero non te lo hanno dato?

R: No, niente numero, perché forse pensavano già che la partenza era a breve.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Come fai? Avevo fatto due notti lì, in pratica. Perché la terza notte alla sera, verso le cinque mi hanno portato…

D: E con te c’era anche Mario?

R: Sì, Mario Sironi e Frigerio Mario, adesso ti spiego, allora ci prendono, ci portano alla stazione.

D: Questo il terzo giorno.

R: Questo al terzo giorno, di sera, ci chiudono dentro i vagoni, dopo qualche minuto sai cosa ci è venuto in mente? Di cantare “O mia bella Madonnina” guarda che, questo me lo ero dimenticato, questi come ci sentono cantare, “Smettetela di cantare”. Dopo un minuto o due aprono il portellone e ci fanno scendere in due. Ho pensato “Porca miseria!” invece no, era arrivato il camion del pane, dentro i sacchi. Dovevamo svuotarlo dai sacchi e accatastarlo sulla motrice davanti. In due eravamo. Io avevo fatto il mio dovere. Come si finisce, lo sai cosa fa il tedesco? Ci guarda se avevamo il pane. Quello che era insieme a me aveva nascosto un filone di pane, glielo ha portato via e poi gli ha dato quattro calci. “Tu niente?” Il filone che aveva portato via lo ha dato a me. Io come sono arrivato sul vagone l’ho distribuito.

D: Eravate in tanti sul vagone?

R: Guarda, senza esagerare, eravamo minimo una cinquantina.

D: C’era anche gente più anziana di te?

R: C’erano addirittura due o tre, forse anche quattro che avevano sui sessant’anni. C’era un avvocato, un ingegnere, un dottore chimico ed in pratica chiusi su questo vagone, la partenza al rallentatore, poi ci siamo fermati, eravamo quasi sempre fermi tra una stazione e l’altra, non si sa il perché. Lì non potevi tentare la fuga, perché erano lì con i mitra spianati. Come si parte, si mette in moto il treno, sento che c’è un mormorio e ho scoperto che si stavano preparando per tentare la fuga. Un gruppetto, e soprattutto uno di Bovisio, l’ho saputo adesso il nome, perché non si conosceva neanche i nomi in pratica, adesso ho saputo che si chiama Bignami, stavano scassando il lucchetto, perché il lucchetto era quello dello sportello, hai capito? Non quello del portellone grande, quello dello sportello.

Allora io pensavo che forse era una lima a triangolo, non lo so, e invece lui ha detto che era una specie di piede di porco, non so dove l’aveva, che poi lui lo ha confessato qui in Comune, ha detto che lo aveva messo dentro ad una pagnotta di pane, subito dalla partenza da San Vittore, lui così raccontava. Io tutto questo non potevo saperlo. Beh, scassato questo lucchetto, aperto il catenaccio c’era anche da tagliare, ecco perché io avevo pensato ad una lima a triangolo, perché c’era da tagliare anche tutti i reticolati, perché nella parte esterna avevano messo delle file di reticolato, come hanno fatto, so solo che sono riusciti a tagliarlo, e si sono buttati giù i primi due. Questo di Bovisio ed un altro che era di Ferrara.

Poi il treno comincia a viaggiare, io ero in terza posizione, incominciano a dire, “Ma perché ti devi buttare, rischiare la vita, sei giovane, ancora tante speranze”, che poi come hanno visto che io ero deciso a buttarmi giù dal treno, piuttosto che niente hanno detto: “Possono fare la rappresaglia, visto che ne mancano tre”. E allora ho pensato: “Perché non avete proibito anche agli altri due di buttarsi?” Qualcuno ha cominciato a dire: “Se lui ha preso questa decisione, perché noi dobbiamo impedirglielo? Tra due o tre non cambia niente, è volontà sua, lo deve fare e basta”. In pratica oramai eravamo quasi al Brennero, lì ha rallentato un po’ il treno, ma in piena notte, sai com’è, vai a sbattere contro qualcosa, era la morte sicura, ma anche ferirsi era morte sicura, perché poi ti torturavamo anche a morte, anche questo devi dire, però che mi salvò sai cosa fu? Il mezzo metro di neve, e forse anche qualcosa in più. Nel buttarmi sono scivolato giù dalla scarpata, e non mi sono fatto niente, solo un po’ graffiato.

Ho camminato diverse ore. Mi sono accorto di essere in Italia quando ho visto la Fortezza, ho visto un vecchietto, una persona anziana, e ho chiesto se c’erano molti chilometri per arrivare a Bolzano. Adesso non mi ricordo più quanti chilometri saranno una quarantina forse, più o meno. Ma insomma mi aveva detto i chilometri, che adesso non ricordo più, e allora mentre sto camminando arriva un camion tedesco, e si ferma un cento metri davanti a me. Lì c’era forse un bar, un tabaccaio, non mi ricordo più adesso, magari si sono fermati a bere un bicchierino di grappa, e allora mentre loro salgono sul camion, io arrivo proprio lì, ho rallentato un momento perché mi era venuto subito l’idea di saltare, anche se non riuscivo a salire, di saltare sul camion, magari di non farmi vedere per la seconda volta, e invece quando arrivo lì mettono in motto il camion io ho visto che dove c’era la ruota di scorta c’era spazio e allora mi sono infilato sotto, e prima di arrivare alle porte di Bolzano, sai chi ho trovato? Quello di Bovisio che era saltato giù prima di me. Ma molti chilometri prima perché lui l’aveva fatta tutta a piedi.

D: Quindi tu quando eri sul camion hai visto Bignami.

R: Bignami. E allora io gli ho fatto un segno, come a dire, appena posso saltare giù, perché il camion viaggiava, che lo aspettavo in poche parole, ho fatto solo segno così e basta. Come sono arrivato alle porte di Bolzano, il camion rallenta, perché c’erano le strade ghiacciate, non mi sono fatto niente, mi sono buttato giù dal camion, era già forse poco più di mezzogiorno, perché ho visto un gruppetto di operai davanti ad una piccola fabbrica. Parlavano veneto, io mi sono avvicinato, ed ho chiesto, come inizio, se avevano qualche bollino da darmi per comperarmi il pane. Loro mi guardavano in faccia e mi hanno detto: “Ma dove lavori, chi sei?”. Io ho risposto: “Lavoro lungo la ferrovia, sotto i tedeschi, però mi danno poco da mangiare. Se avete un bollino, due, tre, quattro, quello che avete”: Allora loro hanno aperto il borsellino e mi hanno dato forse due bollini mi sembra, ma adesso non lo ricordo bene, e al primo forno del pane, sono entrato e per la prima volta lo sai cosa ho visto? Lo strudel. Allora io gli ho fatto segno, “ma per questo ci vuole?” “No, questo può prenderlo senza bollini”. Nel frattempo avevo atteso sì e no dieci minuti, però mi è venuta un’altra idea, se hanno fatto questo buon gesto, ho pensato, provo a vedere se mi danno un’informazione per vedere come posso arrivare a Milano, e con quale scusa? E allora mi è venuto in mente di dire che mia mamma non stava bene, che però i tedeschi non volevano lasciarmi nessun permesso per andare a casa a Milano, ho chiesto: “Voialtri non sapete per caso se c’è qualche minima possibilità…”

D: Ma questo a chi lo hai detto?

R: Ai ragazzi lì. Sempre ai ragazzi, che sono tornati lì.

D: Della fabbrica?

R: Sì, quella piccola fabbrica, loro erano fuori. E mi hanno detto che sapevano per sicuro che tutte le settimane arrivava un camion della Montecatini da Milano e che poi tornava con un secondo carico, ma che loro non sapevano, di provare ad andare e chiedere informazioni.

Allora nel frattempo, dopo mezz’ora circa arriva il Bignami; per prima cosa gli ho dato il pane e gli ho spiegato il fatto che tutte le settimane partiva un camion della Montecatini che andava a Milano. Ci siamo appostati, più o meno quei ragazzi mi avevano spiegato la strada. “E allora tu vai avanti che non dai sospetto”. Ha suonato un campanello, io sono rimasto in strada; suona il campanello si presenta davanti alle guardie “Ho saputo che parte un camion tutte le settimane, non possiamo avere almeno un passaggio?” “Qui passaggi non ce n’è per nessuno” ha detto. Però il camion partiva la sera dopo, e allora dovevo informarmi come arrivare là. Noi alla sera giravamo, tanto per tirare sera, e all’imbrunire abbiamo visto un tramvai fermo, e siamo saliti. Siamo arrivati ad un piccolo paese, adesso chi è che se lo ricorda, entriamo, là era quasi tutto scritto in tedesco, in una trattoria e chiediamo se avevano qualcosa da darci. “No, non c’è niente”. Allora abbiamo trovato una scusa, “Perché noi vogliamo vedere se troviamo anche un posticino dove dormire, lei qui non ce l’ha?” “No, qui camere per dormire non ce ne sono”. “Perché siamo due camionisti, ci si è guastato il camion, eravamo a Bolzano ed in pratica fino a domani mattina non può consegnarcelo”. Lì c’era uno di loro che ci fa: “Guardate, io posso aiutarvi se vi accontentate, ho una bella stalla, ho dentro un cavallo, vi porto un po’ di paglia e delle coperte, se vi accontentate”. Abbiamo risposto di sì, che bastava riposarsi. Alla mattina addirittura ci hanno portati su in casa e ci hanno dato il caffelatte, pensa un po’. Riprendiamo il tranvai, e andiamo ancora a Bolzano, là eri in mezzo ai tedeschi, perché erano SS e Wehrmacht. Ad un certo punto io ho pensato, perché il mio pallino era Montecatini, o salto su di dietro o salto su in qualche modo io devo andare a Milano, allora sai cosa ho fatto? Ho detto a questo di Bovisio, “Guarda per dare meno sospetto, sai cosa facciamo? Dividiamoci, tu vai per conto tuo, io vado per conto mio”. Mi sono incamminato e sono andato verso la Montecatini. Suono il campanello, era verso mezzogiorno, come mi vede la guardia mi dice: “Ha bisogno?” Io rispondo: “Ho saputo che stasera parte il camion per Milano, se potete darmi un passaggio”. Allora mi guarda in faccia e mi dice: “Però devi dirmi la verità”. “Sì certo.” “Sei scappato dal campo di concentramento?” Io ho detto: “Dal campo di concentramento no, ma sono saltato giù dal treno che non cambia niente. Adesso se volete salvarmi bene, altrimenti me lo dite che troverò qualche altra possibilità”. Lui mi ha detto che ne avevano salvati diversi, e che avrebbero salvato anche me.

Mi chiese se avevo fame, se avevo mangiato, è andato in mensa, mi ha portato un bel piatto di minestrone, e poi mi ha detto che il camion partiva alla sera, verso l’imbrunire, perché viaggiare di giorno era pericolosissimo, perché veniva mitragliato. Là c’erano le brandine delle guardie: “Sdraiati lì, riposati, quando è l’orario giusto, ti chiamiamo”. Verso le cinque e mezza sento alcuni passi, infatti non solo la guardia, ma addirittura cinque o sei in borghese, mi sembra che ci fosse anche una donna, adesso non ricordo bene, ma erano in 5, 6 o 7 non ricordo più. “No, non spaventarti, siamo così e così e vogliamo solo sapere”. Allora mi hanno chiesto come, perché mi avevano arrestato, il treno, e ho spiegato qualcosa. “Noi ne abbiamo già salvati tanti, siamo in contatto con CLN Alta Italia”, adesso io non ho chiesto perché, come mai, e loro mi dissero subito, “Hai qualche soldo in tasca?” “Sì”, ho risposto. Avevo una piccola miseria, hanno fatto una colletta, avevano tirato su circa 400 lire, mi sembra, a quei tempi là non era poco, e in più la guardia mi ha dato una piccola borraccia di grappa, perché diceva che viaggiando su un camion avrei sentito freddo. Perché mi avevano nascosto …

D: Nel cassone?

R: Ecco. “Sul cassone, se senti freddo ti bevi un goccio di grappa”. E allora ogni tanto, “Alt, fermati”, c’erano i controlli, i blocchi, loro guardavano i documenti, e ti lasciavano andare. Quando siamo arrivati alle porte di Usmate, prima di Monza, arrivano i caccia che mitragliavano tutto quello che vedevano in movimento, allora blocca il camion, salta giù, io sono saltato anch’io e ho salutato. “Io me ne vado per conto mio”, ho fatto tutto il giro del parco di Monza, perché passare per Monza poteva essere pericoloso, e nella Piazza di Biassono non trovo, non vedo proprio uno che lavorava insieme a me al Campovolo? Allora lo guardo, sì, è lui, e lui mi chiama e gli spiego tutto. Mi ha portato a casa sua, e alla sera con due biciclette, anzi no, una bicicletta, io in canna, mi ha portato. Come arrivo a casa, verso le sei e mezza, perché siamo partiti verso sera, mia mamma è rimasta, perché mai più lei pensava di vedermi così. Mi dice subito: “Guarda che un’ora fa sono venuti quelli della Guardia Nazionale a cercarti”. “Ma tu non gli hai detto che mi avevano arrestato e mi avevano consegnato ai tedeschi?” Loro agivano tutti in modo autonomo e questo è stato.

D: Ti ricordi quando sei arrivato qui a Nova, che giorno era, più o meno? Quando sei scappato, quando ti hanno lasciato giù dal camion?

R: Guarda, era verso il 26 o il 27 gennaio, del ’45.

D: E poi sei rimasto qui a Nova?

R: No, sono tornato subito là, perché avevo diversi amici.

D: Dove là?

R: A Borgomisto. E infatti qualcosa ho potuto almeno trovare, mi hanno dato un pezzettino di pane, dello stracchino, una cosa e l’altra. In pratica lì si tentava ancora di organizzarsi. E abbiamo fatto una piccola squadra, eravamo in 5. Però diciamo che 3 non erano proprio tranquilli, perché lì a Borgomisto dormiva un ufficiale dei Repubblichini, lui era siciliano, però lì aveva la fidanzata e allora veniva a casa, ma era uno dei nostri, per cui ho detto io: “In montagna non posso andare”, e in pratica ci ha dato le armi e due bombe a mano. Perché lui diceva che era impossibile andare in montagna, perché era arrivata una nevicata, alla fine di gennaio del ’45. “Allora adesso state lì tranquilli, e poi vedremo”, freddo faceva freddo, però verso il 15 di febbraio ho saputo che lì vicino a Cinisello si era avvicinato questo tizio, era un parente di questo mio amico, che poi era venuto anche lui in montagna, si chiamava Bellotti, questo qui aveva uno zio che abitava in una fattoria vicino a Magenta e suo figlio era su in montagna. Allora lui ha fissato un appuntamento, e siamo partiti in tre, questi qui davanti ed io e il mio amico di dietro, con le biciclette, a Rho non ci ferma una squadra di fascisti con il suo comandante? “Fermi. Dove andate?” E allora noi niente, ma proprio sinceri al massimo, ci hanno chiesto i documenti, la carta d’identità, la mia era un po’ falsata, no? Al posto della data 01.02.26 davanti al 2 il mio amico aveva messo 1, perché le carte d’identità si scrivevano tutte a mano a quei tempi. E allora: “Quando sei nato?” “Sono nato l’1 del 12” “E allora perché non ti presenti?” mi ha detto quest’ufficiale. “Perché non mi hanno ancora chiamato, adesso come mi chiamano, vado.” “Ma puoi anche presentarti prima”. “Sì ma siccome siamo in 7 fratelli, e c’è solo mio padre ed una sorella che lavorano, e uno è nell’aviazione e l’altro è nella X MAS per adesso sto a casa per aiutare un po’ la famiglia” “Va bene ha detto, ma dove state andando?” “Stiamo andando da un amico del mio socio, qui, che ha una fattoria e diverse risaie e vogliamo vedere se possiamo avere qualche chilo di riso”. Pensa un po’. Ma ti racconto proprio la verità, eh, qualche chilo di riso. “Sì”,ha detto, “andate pure” E siamo arrivati a questa fattoria, in questa fattoria dopo due giorni arrivò la staffetta a prenderci, sempre a piedi, e la prima tappa l’ho fatta a Suno, lì c’era il comandante di distaccamento, il comandante era Lupo.

E lì ci ha tenuto tre giorni, però ha detto “Io qui non posso tenervi, perché il distaccamento non può superare i 34, 35 uomini, vi devo consegnare al comando di battaglione che si trova a Cavaglio d’Agogna.” E allora alla mattina presto ci siamo incamminati e siamo arrivati al comando di battaglione, il comandante di battaglione si chiamava Scacchi. Alla seconda o terza mattina mi ha detto: “Te la senti di andare giù insieme agli altri che dovete portare su il pane?” Perché ci facevano il pane fresco, eh? Giù al forno, farina requisita ad un mulino dove c’era un presidio fascista, sai chi ti vedo? Carpani Enrico. Come mi vede, mi ha chiesto, e allora gli ho spiegato il fatto, lui andò subito dal comandante di battaglione a spiegare chi ero e chi non ero, come arrivo su mi chiama il comandante di battaglione e mi dice “Guarda è venuto il tuo ex comandante che lo hai visto giù in paese e vuole portarti con sé, io ti terrei, vorrei che tu rimanessi qui, perché ho saputo quello che hai fatto e in pratica siccome adesso ne arrivano moltissimi di nuovi, in montagna, pensiamo di fare un altro distaccamento. Se rimani qui, con la formazione di questo nuovo distaccamento tu farai il vice comandante.” All’inizio io accettai, accettai perché io non ho mai voluto grosse responsabilità, “Si” ho detto, “io rimango”. Però il comandante del distaccamento non c’era mai lì perché era il comandante della Volante che sequestrava gli ufficiali per darli in cambio ai partigiani. Allora in pratica, dopo credo neanche 15 giorni, si pensava ad un grosso rastrellamento, cioè l’allarme era quello, avevamo capito che la responsabilità era troppo grossa, perché io sì potevo rischiare per conto mio, perché con quello che avevo fatto avevo rischiato diverse volte, ma era quel peso lì, la responsabilità degli altri, io non me la sentivo, e allora ho detto “Mi avete fatto vice comandante, ma il comandante non c’è mai? Perché io devo avere tutte queste preoccupazioni e questo peso di essere responsabile anche per gli altri?” E allora mi ha detto: “Sai cosa facciamo? Dobbiamo formare la squadra dei guastatori, aggregata al comando di battaglione”. Uno addirittura, Fieramosca, era un comandante di distaccamento, e durante un’azione aveva lasciato diversi morti, e anche lui non se la sentiva più. Gli altri erano tre capi squadra e in più il Topo che lo avevano dato in cambio, sì, lo avevano fatto prigioniero e dato in cambio. “Se tu accetti di far parte di questa squadra”. “Sì”, ho detto.

E allora lì ho accettato, e sono rimasto con la squadra dei guastatori. Ma in un certo senso potevamo essere in certi casi tra i più fortunati. Adesso ti spiego perché. Quando attaccavamo i presidi, Borgomanero, Cressa, Romagnano, dovevamo noi bloccare la strada in caso di rinforzi. Lo sai come si minava la strada? Con le bombole di ossigeno, si riempivano di dinamite, soprattutto la gelatina e avevamo tritolo, gelatina, miccia detonante, miccia lenta ed i detonatori. Guarda che c’era un grosso rischio, la mettevamo da un lato della strada e con il percussore, eravamo sempre in due, uno tirava il percussore e tirava il filo di là della strada, quando arrivava il rinforzo che poteva essere un autoblindo, e se partiva era un disastro, ma dovevamo sempre scegliere un posto dove potevamo, in caso, difenderci. Hai capito? O attraverso un canale, un fosso o una casa, perché dovevamo stare lì più o meno, per curare, anche un cane poteva avrebbe potuto far saltare.

Perciò il pericolo c’era e in caso se arrivava il camion che erano magari duo o anche tre, saltava sì il primo, ma gli altri due cominciavano a sparare, e in quel caso lì bisognava non scappare ma anche difendersi e avevamo delle armi che erano abbastanza micidiali, perché lo Sten era un grosso rischio perché poteva fare bersaglio a 50 metri, non di più. Lo Sten era un’arma sicurissima perché non si inceppava mai, ma il Bren faceva bersaglio a 200 metri. Era un’arma potentissima. In ogni modo ci andò benissimo, il rischio peggiore lo abbiamo corso al presidio di Arona, quando abbiamo attaccato il Presidio di Arona, io ed un altro dei guastatori, il giorno prima, avevamo lì due prigionieri, un maresciallo ed un tenente; erano due padri di famiglia, e non sapevamo come poterli salvare, perché mandarli a casa, tenerli lì non potevamo, beh è arrivato l’ordine di portarli su al comando di divisione che era su a Bocca, sempre a piedi, allora li consegniamo e nel frattempo però ci viene consegnato il primo bazooka che lo avevano lanciato tre giorni prima.

E con quello abbiamo anche fatto l’attacco del presidio di Arona. Lì ci sono stati solo 14 morti, perché sono arrivati tutti i rinforzi da Meina, che erano più di 100 tedeschi, e quei famosi 100 tedeschi lo sai chi erano? Quelli che quando sono arrivati dopo l’8 settembre e hanno rastrellato, mi sembra più di 200 ebrei, donne, bambini e vecchi, li hanno massacrati e buttati dentro al lago. Allora è successo così, quelli erano animali in pratica, non erano esseri umani, erano animali.

Allora poi è arrivato il rinforzo della Folgore da Novara, abbiamo resistito quasi 3 ore, ma poi abbiamo dovuto ritirarci e ci abbiamo lasciato 14 morti, più 3 civili. Ad ogni modo il rischio peggiore io l’ho avuto alla fine, quando sembrava che tutto fosse finito, non so se era il 23 aprile, perché noi, in pratica al 23 aprile avevamo già in mano i carri armati della Folgore di Borgomanero. E’ riuscito un prete a convincerli alla resa, perché oramai era la fine, era inutile resistere, spargere sangue. Erano i peggiori che c’erano, basta dire che al presidio di Borgomanero tre volte abbiamo tentato e non hanno mai ceduto. L’ultima volta che pensavamo di farcela, lo sai come? D’accordo con gli americani che dovevano gettarci due o tre bombe, e invece era una giornata di vento e le bombe non hanno centrato in pieno il presidio e abbiamo dovuto ritirarci.

Avevamo addirittura i loro carri armati, mi sembra il 23 aprile o forse il 24 arriva un ordine che a Castellazzo di Novara si sono concentrati, allora si diceva, più di 2000 fascisti. C’era la Monte Rosa, la Folgore, le Brigate Nere; noi come guastatori dovevamo perlustrare prima le cascine, prima di arrivare lì. Arriviamo nella prima, non troviamo niente, senza chiedere permesso, un colpo alla porta e si sfondava. Arriviamo alla seconda, io do un colpo alla porta e mi vedo due, avevano la nostra divisa, la divisa cachi che l’avevamo messa su 15 giorni prima. Quelli del Monte Rosa avevano il color cachi come la nostra e io stavo per dire: “Ma sono i nostri” no, invece loro avevano le fiamme bianche, noi invece avevamo le stellette bordeaux, “Ma no questi sono fascisti!” Il Topo lì mi dice di disarmarli, io li disarmo e fuori c’era Mosca, “Voi altri chiedete rinforzi, tentate di accerchiarli, io rimango qua dentro”, però un minuto prima, disarmati questi, al Topo viene in mente di guardare nell’altra stanza, e stavano venendo giù diversi fascisti. Sempre quelli, e allora scarica, si può dire, una raffica di mitra, e allora diciamo ai due che erano rimasti: “Ce ne sono altri?” “Sono sopra che preparano la mitraglia per la difesa”. E quindi loro, Fieramosca, il Topo hanno costeggiato il muro e hanno portato questi due fascisti dove c’era il grosso, per avvertire che bisognava accerchiarli. Io ero in trappola, cosa faccio, cosa non faccio, di là sentivi i lamenti perché qualcuno era ferito, in poche parole, in pochissimi minuti cominci a sentire sparare a destra, a sinistra, e sai cosa è stato il miracolo, diciamo così? Che quelli che erano sopra, come hanno sentito che stavamo per accerchiarli, sono saltati giù, perché erano al piano superiore, li vedo volare dalla finestra, meno male. Lì mi sono salvato.

D: Il 25 aprile come te lo ricordi?

R: Il 25 Aprile poi era una festa, perché oramai la guerra era finita, gioia, qualche piccolo divertimento, era normalissimo.

D: Voi siete entrati a Novara, però?

R: Sì. Dopo è arrivato l’ordine, io per 2 o 3 serate ho dormito con una famiglia privata, dopo il 25 aprile. Due notti mi sembra. Poi è arrivato l’ordine, ho caricato il camion e abbiamo dormito in una caserma a Novara, al 29 mi sembra, siamo saliti su un treno e siamo venuti alla grandissima manifestazione di Milano.

Io però, ti dico la verità, quando sono arrivato in stazione al posto di stare insieme a tutti gli altri, lo sai cosa ho fatto? Mi sono preso il tranvai, la gioia è stata quella, sono venuto a casa. Quando sono sceso, arrivato in piazza, perché io abitavo in quella che chiamavano la piazzetta, quasi in centro, vedo mio padre con mezzo toscanino in bocca, e io non sapevo quello che era successo a Nova, che c’erano state le sparatorie ed i morti. Allora io nella contentezza, mi è venuto in mente di sparare 4 colpi, con lo Sten, perché mio padre era là, indifferente, che si fumava il sigaro. Allora come mi ha visto, dopo 10 minuti arriva Luigi Erba, mi ha detto, “Sì, sei arrivato, pienamente d’accordo, la gioia di essere arrivato, però non dovevi fare quello che hai fatto perché è successo così e così, la gente è ancora spaventata, abbiamo avuto 3 morti…”, o 4 mi sembra, quella del Poldelmengo e 2 civili, minimo. Ecco, ma io cosa ne sapevo? Allora diciamo così sono tornato ancora in Valsesia, mi hanno dato il mio diploma, era verso il 10 maggio, tornai a casa, e purtroppo il lavoro non c’era più. Bisognava ricostruire la Breda Campovolo, e tutti si erano dati da fare per ricostruirla con picche, pale, carriole. Io ho lavorato una quindicina di giorni, poi è arrivato il capo del personale, mi guarda e mi dice: “Tu sei così e così?” “Sì”. Mi ha detto: “Guarda vedo che non è il tuo mestiere, lo fai perché lo fanno tutti gli altri, però in attesa che venga ricostruito il nuovo capannone, se vuoi, io sono amico del comandante della piazza di Como, vai su e per un po’ rimani nella polizia partigiana. Già c’era Luigi Erba, era andato su già 4 o 5 giorni prima, allora a metà o alla fine di giugno, no a metà giugno, sono partito e sono andato là, ho presentato il diploma che mi avevano dato in Valsesia e una cosa e l’altra. “Sì, sì”, mi ha detto, “allora dimmi adesso qui ci sono due posti dove andare. Vuoi andare alla caserma dove sono tutti gli altri, ma visto chi sei, io preferirei che tu rimanessi alla caserma delle finanze, perché lì abbiamo diversi prigionieri fascisti pericolosi, che non abbiamo potuto metterli nel carcere di Sant’Antonino. E siccome tu ci dai la massima fiducia perché lì abbiamo bisogno di gente sicura”. “Sì, ho risposto, per me va bene”.

Lì ho fatto 4 mesi, nella polizia partigiana, fino alla fine di novembre. Ma dopo quando sono venuto via, io non è che ho chiesto il diploma, i documenti, li ho lasciati là e basta.

Brambilla Pesce Onorina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono stata arrestata a Milano il 12 settembre 1944.

D: Il motivo?

R: Il motivo, io facevo parte della terza brigata GAP comandata da Visone, che è Giovanni Pesce. Avevamo un collegamento con un tale che si definiva Arconti, ma poi non era nemmeno il suo vero nome, il quale era riuscito ad arrivare nel comando delle brigate Garibaldi perché, dicendosi partigiano, dicendosi che poteva dare informazioni e armi ai gappisti e il comando delle brigate Garibaldi aveva passato questo individuo, questo collegamento, a Giovanni Pesce, il quale non si fidava molto perché questo qui faceva un sacco di domande. Non era il periodo allora di fare troppe domande, di voler sapere troppe cose. Quindi un giorno, esattamente il 12 settembre, c’era un appuntamento con questo Arconti e avremmo dovuto andare io e Pesce perché appunto lui ci avrebbe dato dei recapiti per avere delle armi. Però all’ultimo momento Pesce non ha potuto venire perché qualche giorno prima, in un’azione nella quale c’ero stata anch’io, era morto un partigiano qui a Milano in Via Ponzio davanti alla piscina e un gappista era stato ferito e arrestato e stavano progettando di liberarlo, era stato portato al Policlinico, e per organizzare questa azione per liberare Antonio, all’ultimo momento Pesce non ha potuto venire. Mi ha detto: “Vai tu e rimandi l’incontro con questo individuo”. Infatti io sono andata in Piazza Argentina davanti al cinema, adesso da un po’ di tempo non c’è più, c’era il cinema, lui era lì, io mi sono avvicinata, ma immediatamente sono arrivati altri e lui mi ha detto: “Non muoverti, siamo circondati”, dopodiché è sparito lui e invece sono venuti altri e quindi sono stata arrestata. Poi, dopo, io mi sono accorta più tardi che c’era tutta la zona circondata, era una vera e propria imboscata per prendere il comandante dei GAP. Per loro sarebbe stato un bel colpo. Certo, forse io non sarei qui a raccontarla come moglie di Pesce.

D: Ci spiega cosa vuole dire GAP e cosa ….

R: Gruppi di Azione Patriottica. Che erano i partigiani che agivano nelle città e anche nelle pianure, cioè non in montagna, ed era una lotta particolare. Perché, piccoli gruppi, distaccamenti di quattro o cinque e qualche volta anche meno, che compivano azioni di disturbo, di sabotaggio e poi di colpire le spie e i collaborazionisti. Una lotta piuttosto dura perché si era soli in mezzo proprio alla città che era occupata con caserme e così via sia dai tedeschi che dai fascisti, dalla Muti e da tutti gli altri gruppi di fascisti, e io sono entrata in questa formazione perché volevo andare in montagna prima ancora di conoscere Pesce. Io, subito dopo l’8 settembre, ho fatto parte dei gruppi di difesa della donna, che è stata una grande organizzazione, che si è collegata, ha mobilitato, proprio è il caso di usare questa parola, centinaia di migliaia di donne in tanti modi di aiuto ai partigiani, per la distribuzione della stampa clandestina, per portare ordini e poi su tutta l’Italia del nord, anche da Firenze, da Firenze in su. E fu un’organizzazione veramente capillare, molto importante, per cui le donne davvero hanno dato un grande aiuto, un grande contributo. Anche se cinquanta anni dopo, però Boldrini l’ha detto, che se non ci fossimo state noi, se non ci fossero state le donne, noi non avremmo combinato niente. E questo è veramente vero.

Io ho fatto parte per diversi mesi e poi avevo altri incarichi di distribuzione della stampa clandestina in alcuni recapiti di Milano. Poi, a un certo punto ho chiesto di entrare in una formazione combattente e di andare in montagna con i partigiani. Mi hanno proposto, invece, di rimanere a Milano perché la GAP si stava ricostituendo dopo tanti arresti che erano stati fatti e quasi tutti sono stati fucilati, prima Rubini poi Campeggi e tanti altri, ed è così che sono entrata nella brigata e ho conosciuto Visone e ho fatto quello che mi si chiedeva di fare insomma. Purtroppo, non per tanto tempo perché dopo sono stata arrestata.

D: Quindi, dopo essere stata arrestata?

R: Dopo sono stata arrestata ed erano le SS di Monza. Perché, questo tipo, questo Arconati, era al servizio delle SS di Monza che agivano in quella che era la sede del fascio, la Casa del Balilla, che avevano requisito proprio per la lotta anti-partigiana. Infatti, parecchi sono morti lì di compagni e di partigiani. Rubini, il primo comandante dei GAP di Milano, dopo grandi torture è stato ucciso proprio lì nel carcere di Monza. Per cui, a un certo punto non mi trovavano nemmeno più i compagni, non sapevano più nemmeno che fine avessi fatto perché mi cercavano a Milano. C’era la Muti, c’erano tutti questi gruppi, invece sono stata portata a Monza alla Casa del Balilla e poi, dopo, lì nel carcere, che hanno chiuso da non molto tempo; un vecchio carcere. E lì sono stata due mesi, sempre isolata, sempre da sola. Questo è stato il periodo forse peggiore. Oh dio, se avessi saputo cosa succedeva in Germania, forse no, ma non lo sapevamo noi che c’erano i campi di sterminio. Anche a me quando mi hanno detto, un po’ scherzando e un po’ sul serio, “Non ti fuciliamo, ti mandiamo a lavorare in Germania”, io ho pensato “Va beh, andrò a lavorare in Germania, pazienza, finirà la guerra, tornerò a casa”. Certo che non sapevo che magari non sarei tornata.

D.: Quanti anni aveva Onorina?

R: Avevo 20 anni; li avevamo tutti. La guerra la fanno sempre i giovani eh! In grande maggioranza eravamo tutti giovani, tutti i partigiani che hanno combattuto e che sono morti eravamo tutti giovani, erano pochi quelli che magari erano già uomini o donne un po’ più mature. Ma, soprattutto chi combatteva in prima linea, diciamo così, erano soprattutto i giovani.

D: Quindi, dopo il carcere di Monza?

R: Dopo Monza, dopo due mesi, un giorno sono uscita, mi hanno tenuto due giorni a San Vittore e poi mi hanno mandata al campo di concentramento. L’avevano detto, destinata al campo di concentramento, però io non sapevo dove, assolutamente. Siamo arrivati a Bolzano esattamente l’11 novembre del ’44, due mesi dopo. E, tutto sommato, il fatto di essere rimasta due mesi in carcere è quello che mi ha salvato la vita. Perché, quando io sono arrivata avevano già grandi difficoltà a far partire i treni. Li hanno mandati lo stesso alcuni, però le donne non le hanno più mandate. Noi eravamo lì in parecchie donne a Bolzano e da altre testimonianze forse lo sapete; siamo arrivate anche a essere in cinquecento in quel capannone che era il blocco F riservato alle donne.

Io ho visto parecchi convogli partire in dicembre e in gennaio; l’ultimo in febbraio, che però tornarono indietro perché non avevano potuto passare il Brennero perché c’erano le ferrovie tutte bombardate dagli alleati. Però di donne.. ho visto qualche donna ebrea, ma erano pochi gli ebrei che sono passati da Bolzano; si parla, mi pare, di un centinaio o poco più, perché gli ebrei venivano subito mandati nei campi di sterminio, non li mandavano al campo di smistamento come era a Bolzano. Però, di donne, l’ultima spedizione, l’ultimo convoglio, credo che sia stato proprio dieci giorni prima che arrivassi io, che erano partite parecchie donne che sono finite a Ravensbrück.

D: Onorina, ci può parlare del suo trasporto da San Vittore a Bolzano? Compreso l’arrivo, l’ingresso.

R: Sì. Noi siamo partiti da Milano di sera. Non ci hanno messo sui carri merci, non siamo andati in treno, ci hanno trasportati su un pullman. Anzi, credo che fosse un autobus di quelli normali, quelli che credo i tedeschi sequestravano, ed eravamo in settantotto di cui sette donne. Abbiamo viaggiato tutta la notte, naturalmente non ci hanno dato niente da mangiare, ci hanno fermato un paio di volte perché qualcuno aveva qualche bisogno, nei posti di campagna e siamo arrivati poi a Bolzano al mattino verso le 7-7,30 ed eravamo naturalmente un po’ stanchi. Anche perché nessuno di noi era riuscito a riposarsi, a dormire. Non solo perché eravamo scomodi, ma poi perché non si sapeva dove andavamo. Allora c’erano naturalmente le opinioni più diverse: “Mah, ci fermiamo a Bolzano, ci mandano direttamente in Germania”, comunque non lo sapevamo. Arrivando lì abbiamo visto .. nessuno di noi, forse specialmente le donne, ma nemmeno gli uomini allora sapevamo cosa fosse un campo di concentramento, non avevamo mai .. anche se sotto il fascismo, va beh, sapevamo che c’era stata gente nelle galere, al confino, ma i campi di concentramento veri e propri perlomeno non lo sapevamo. E allora l’impressione, arrivando lì al mattino che cominciava già a fare freddo, c’era un po’ di nebbiolina, vedere queste baracche, alcuni uomini che giravano un po’ malmessi, la prima impressione di essere in un mondo così che non sapevamo cosa fosse, avevi perfino l’impressione che entrando lì sparivi, nessuno avrebbe saputo più niente di te, sarebbe stata una cosa… completamente divisi dal resto del mondo. Va beh, dopo però un pochino ci si abitua, ci si abitua a tutto. Poi a Bolzano, voi lo sapete, c’era una forte organizzazione clandestina che era stata iniziata e soprattutto sostenuta dai comunisti e dal Partito Comunista, però c’erano anche dei compagni Socialisti e altri e questo naturalmente dava anche coraggio di sopportare.

Poi, siccome avevano il collegamento con l’esterno, venivano a sapere chi erano i partigiani. Perché è chiaro che è arrivata lì anche gente che era rastrellata per le strade e che non aveva fatto proprio niente e poi magari sono finiti … anzi sono finiti senz’altro nei campi di sterminio. Però, per esempio, dopo un po’ di giorni, qualcuno mi ha avvicinato e io ho capito che la mia presenza era stata segnalata dall’organizzazione. Quindi questo mi ha permesso di conoscere i compagni che dirigevano l’organizzazione clandestina, Carlo Milanesi, Ottavio Rapetti che era stato uno di quelli che abita qua vicino, uno di quelli che avrebbe dovuto essere fucilato in Piazzale Loreto. Invece, per la sua giovane età, aveva diciannove anni, era anche più giovane di vent’anni … e allora va beh, dopo è cominciata la vita nel campo insomma.

D: Onorina, lei è stata immatricolata a Bolzano?

R: Siamo state subito immatricolate; ad ognuna hanno dato il numero e il triangolo corrispondente alla propria colpa. Allora noi eravamo considerati politici, quindi rosso; mi hanno dato il 6087. Poi, dopo, ci hanno fatto girare un po’ per il campo dopo avere fatto tutte le registrazioni, che ci hanno dato questa divisa che non era poi nemmeno tanto brutta. Perlomeno, nel senso che erano pantaloni e casacca colore bianco avorio di tela grezza; dietro sulle spalle c’era la croce di prigioniero, però era una cosa che si poteva mettere. Ecco, non è successo come a quelli che andavano nei campi di Germania e che gli davano gli stracci e magari delle scarpe scompagnate. Un paio di zoccoli, però lì potevamo tenere anche i nostri vestiti. Potevamo tenerli e, infatti, in quella fotografia si vede che io ho un mio golf.

D: Ma non era il Suo primo numero di matricola vero?

R: Come?

D: Questo di Bolzano non era il Suo primo numero di matricola.

R: Beh, l’avevo avuto a San Vittore. Sì, a San Vittore. Ce l’ho segnato il numero, però a San Vittore sono rimasta solo due giorni perché ero lì proprio di transito. Mi hanno mandata lì per dopo aggregarmi a quelli che andavano in Germania.

D: Scusa Onorina, due cose. Nel viaggio da San Vittore a Bolzano eravate una settantina dicevi …

R: Settantotto, perché dopo ho fatto ricerche, e sette donne.

D: Poche donne e il resto erano tutti uomini.

R: Tutti uomini, tutti giovani.

D: Ti ricordi qualche nome di uomo o di donna?

R: Ho dimenticato. Mi ricordo solo la compagna Giuseppina Ruga che era una partigiana della Val Sesia, che avevo conosciuto a San Vittore, che dopo la guerra non siamo più riusciti a sapere, sia io che l’altra compagna che l’abbiamo cercata. Lei era già lì nel carcere di San Vittore, era stata arrestata in Val Sesia. Lei diceva di essere una staffetta di Moscatelli. E lì abbiamo fatto amicizia, se così possiamo dire, infatti dopo siamo sempre rimaste insieme anche a Bolzano. Dopo è arrivata anche un’altra compagna che avevo conosciuto a San Vittore, ma che è arrivata dopo di noi, Casati Serafina che è ancora viva. Però non mi è rimasto il ricordo dei visi. Anche perché, come ho detto, finita la guerra io ho cercato un po’ di dimenticare.

D: Degli uomini non ti ricordi?

R: Mah, guardando i nomi, siccome mi hanno dato l’elenco, ho un elenco di quelli che sono usciti perché all’ANED hanno l’elenco di quelli di San Vittore. Che, credo, lo tengono da qualche parte molto al sicuro e un compagno, un paio di anni fa, mi ha dato la fotocopia. Che, fra l’altro, sono stata fortunata ad averlo perché sono proprio una delle ultime, dopo non si è trovato più niente di San Vittore. Perlomeno, quando poi San Vittore è stato liberato, nella documentazione che hanno trovato non hanno trovato gli altri. Perché poi, da novembre a dopo ce ne sono stati ancora tanti, ma arriva proprio a metà novembre del ’44 e io infatti sono una delle ultime insomma.

D: L’altra domanda era: sempre nel Transport da San Vittore a Bolzano chi c’era come guardie su questo pullman?

R: C’erano dei tedeschi. E, forse, anche qualche italiano però. Qualcuno magari si ricorderà più di me di quel trasporto. Chissà, bisognerebbe ricercare qualcuno di quei settantuno uomini.

D: Quindi, arrivati a Bolzano, vi hanno fatto spogliare?

R: Sì, sì. Mi ricordo che prima di scendere dal pullman abbiamo aspettato un po’. E, chissà perché, mi è sempre rimasto il ricordo di un pezzo di pane che c’era per terra. Forse perché avevamo fame! Perché non ci avevano dato niente da mangiare in tutta la notte. Sì, quel pezzo di pane per terra nel fango, sono quei flash, quelle cose strane. Magari poi ci si dimentica di altre cose.

D: Quindi sei entrata, spogliazione …

R: Sì, siamo andate nell’ufficio dove hanno preso tutte le generalità, i dati anagrafici. Ci hanno dato il numero, il triangolo e poi siamo andate in magazzino e ci hanno dato questa tuta, questa divisa del campo. C’è voluta tutta la mattinata, sono state parecchie ore per fare tutto questo lavoro e poi, dopo, ci hanno destinati in quelli che chiamavo i blocchi. Noi, il blocco delle donne, che era quello vicino alla porta di ingresso del campo perché era l’ultimo, si vede dalle fotografie, era il blocco F.

D: In ufficio, al momento dell’immatricolazione, si ricorda ….

R: No, non ho un ricordo di qualche cosa …

D: Una donna, un uomo, non si ricorda?

R: C’era un uomo, c’era un tedesco mi pare. C’era un tedesco. Però non mi ricordo bene se c’era qualcun altro.

D: Quindi siete entrate nel blocco F tutte voi donne.

R: Noi donne, noi sette donne.

D: E lì hai trovato altre donne nel blocco F.

R: No, non subito, solo qualche giorno dopo ho individuato Laura Conti perché mi era stata segnalata dai compagni, però in un secondo tempo. Invece, poi dopo ci eravamo legate, eravamo entrate un po’ in amicizia che ci aiutava con una compagna che è arrivata però una settimana dopo. Poi, più tardi, una compagna di Verona che è morta qualche anno fa, che il marito è morto poi a Mauthausen, Rosetta Meloni. Ecco, lei non era giovane come noi, lei aveva già quarant’anni. Era stata arrestata con il marito che era un comunista, erano tutti e due comunisti; lei è riuscita a fermarsi a Bolzano, è arrivata dopo però. Poi con un gruppo di compagni di Genova. C’era Girelli e la moglie Iolanda; poi un gruppo di compagni che venivano dall’Ansaldo, che erano stati arrestati per gli scioperi. Lì c’erano tutte donne, c’era la moglie di Montanelli, la prima moglie di Montanelli, Margherita Montanelli. Lei è stata liberata anche prima di noi, mi pare che in marzo lei è stata liberata; non è stata fino alla fine. Lei era tedesca, di origine tedesca, ma era una donna che faceva un po’ la vice campo insieme alla ragazza giovane, la Cicci. Questa era una ragazzina in gamba che ci faceva filare, ma in senso buono eh! Perché, per la verità anzi eravamo legate, non era assolutamente una carogna per niente. In questo momento il nome mi sfugge, ma nel libro di Happacher il suo nome c’è, e la Montanelli faceva un po’ la vice campo ed era una donna disponibile anche ad aiutare, una bella donna alta, bionda, proprio il tipo un po’ di tedesca.

D: Mentre la Kapò vera era tedesca?

R: Era tedesca. La Kapò vera era questa che noi avevamo soprannominato La Tigre. Che c’è anche il nome sui libri, il nome adesso a me sfugge, che era veramente una carogna; piccola e brutta fra l’altro. E da quella bisognava girare al largo perché girava sempre con la frusta e per niente… insomma, bisognava stare alla larga, ecco. Era inutile fare gli eroi e farsi picchiare se non era il caso, bisognava girare alla larga. Poi lei però ad un certo punto è andata via. È andata via e ne è venuta un’altra; gli ultimi tempi forse e la chiamavamo La Zigrina. Sì, sì, lo so che si parla poco di questo, ma in realtà, forse l’ho letto da qualche parte, dopo ne è venuta un’altra, ma dovevano essere proprio gli ultimi tempi.

D: Sempre tedesca era?

R: Sempre tedesca, sempre tedesca. E sì eh. Il capo campo, quando sono arrivata io era Maltagliati, sul quale poi, dopo, si erano dette … c’erano stati dei sospetti, ma per quello che posso dire io aiutava, poi lui è andato via ed era Novello il capo campo, questo compagno che è stato poi fino alla fine. Che poi credo abbia sposato la Cicci dopo la guerra.

Ecco, io sono stata cinque mesi e mezzo in questo campo. Dove certo, rispetto alla Germania, lo ripeto, non c’era nemmeno da paragonare, però non è che noi stavamo bene, non è che eravamo in villeggiatura.

D: Ti ricordi come era organizzato il campo?

R: Sì, sì, mi ricordo. C’erano tutti i blocchi da una parte, di fronte noi avevamo le docce, dall’altra parte rispetto dove eravamo noi, poi sulla destra c’erano i servizi fra cui anche la sartoria dove io andavo … erano tanti compagni che avevano detto: “Se ti mettiamo in un lavoro del campo forse si evita la Germania”. Forse però, perché io ho visto tanti che erano addetti ai servizi, che sono compagni e che sono andati soprattutto … Beh, io ho accettato anche se non mi entusiasmava l’idea di stare tutto il giorno in questo ambiente buio, basso, brutto, a cucire che non mi piaceva per niente, non ne avevo mai voluto sapere. Però lì c’erano anche le altre due compagne, Serafina che noi chiamavamo Ina e Giuseppina Ruga, poi c’erano delle altre. E allora eravamo lì a cucire gli indumenti dei deportati che venivano dalla lavanderia per modo di dire e così cucivamo tutta questa roba che erano stracci.

Io, in questo momento mi sono stufata.

D: Ti ricordi chi c’era in lavanderia che comandava un po’ la lavanderia?

R: Accidenti sì, ma non riesco a inquadrare, a mettere a fuoco il nome. Però me lo ricordo. Poi mi ricordo il compagno che era in tipografia; mamma mia il nome, accidenti il nome lo so, che è morto qualche anno fa. Che deve essere lui che ha stampato poi queste tessere. Sì, ma se guardo il libro poi mi vengono in mente.

D: Scusa, ti ricordi il blocco celle?

R: Ah il blocco celle! Il blocco celle era in fondo sulla destra e anche da lì cercavamo di passare un po’ alla larga perché chi entrava lì dentro, lo sapevamo, entravano lì dentro, c’erano i due ucraini giovani che erano veramente bestiali. Chi entrava lì! Ada Buffolini c’è stata venti giorni perché lei teneva i collegamenti con il CLN fuori e le avevano trovato qualche cosa; le è andata ancora bene. Lei era in infermeria perché era dottoressa, era radiologa, insieme a Ferrari che, dopo, è stato Sindaco di Milano. Io me li ricordo bene non solo perché si vedevano e sapevo chi erano, ma anche perché abbiamo avuto bisogno di andare in infermeria perché avevamo sempre raffreddore e tosse naturalmente. A un certo momento io ero diventata sorda, probabilmente mi aveva colpito una forma di otite; sono stata un paio di mesi sorda. E c’era invece l’altra compagna, Ina, che non parlava. La cosa ci faceva anche un po’ ridere, aveva perso la voce. Va beh, siccome avevamo vent’anni, in quelle condizioni qualche volta facevamo anche un po’ di ironia sulle nostre condizioni, però credo che mi abbiano curato con l’aspirina perché era tutta una messa in scena naturalmente, anche se loro si davano da fare. Poi c’era un altro medico, adesso il nome non lo ricordo, però sui libri c’è, ma quello chissà perché non me lo ricordo. Invece, mi ricordo molto bene della Ada e di Ferrari.

D: Poi c’è stato anche quello della casa farmaceutica, Lepetit.

R: No, io non l’ho conosciuto. Penso che però fosse già partito, non ci fosse più al campo quando sono arrivata io a metà novembre.

D: E Piccil, Le dice qualcosa questo nome?

R: No.

D: Era uno dei medici

R: Ah ecco, forse è quello che io non riesco …

D: Un altoatesino, tedesco, Piccil si chiama.

R: Ma cosa faceva?

D: Il medico.

R: Ah beh. No, non me lo ricordo. Io, in infermeria, mi ricordo, mi sono sempre ricordata della Ada e di Ferrari. Forse perché li conoscevo di più, non lo so. Poi mi hanno curata loro… curato! Hanno fatto quello che potevano.

D: Ma, la sartoria, la tipografia… poi c’erano altre …

R: Sì, poi c’era la lavanderia, le cucine.

D: Erano dentro nella recinzione o fuori dalla recinzione del campo?

R: Erano dentro credo. No, eravamo dentro senz’altro. Almeno, in sartoria eravamo dentro nel recinto del campo.

D: Ecco, il recinto era fatto come? In muro, in filo spinato, cos’era?

R: Sì, sì, c’era filo spinato ma c’erano anche dei pezzi di muro mi pare.

D: C’erano delle garitte?

R: Beh sì, la garitta c’era. Anzi, una delle prime cose che avevo visto arrivando è stata la garrita. Ma appunto, siccome ho detto non sapevamo cosa fosse il campo di concentramento, abbiamo visto questa visione e poi la garitta.

D: Nei blocchi, i blocchi erano tutti liberi oppure c’era qualche blocco che era …

R: Il nostro blocco, con quello vicino che era il blocco E dei pericolosi, in alto aveva uno spazio. Tanto è vero che più di una volta anch’io mi sono arrampicata. Mi sono arrampicata perché davamo qualcosa da mangiare a questi poveracci che erano particolarmente isolati. Potevano uscire solo un’ora al giorno, poco, ed erano quelli ai quali gli davano ancor meno da mangiare ed erano veramente compagni … Tanto è vero che quando noi, io e Linda, siamo andate poi fuori alla Caserma, i soldati lì ci davano dei pezzi di pane e tornando glielo davamo a loro e loro ci aspettavano fuori. Perché poi la divisione era una divisione proprio …. anche il muro, io penso che se qualcuno avesse voluto abbatterlo ci riusciva. E in alto c’era questo spazio. Per cui, specialmente quando sapevamo che c’era una spedizione, allora noi cercavamo di dargli qualcosa. Non sapevamo che arrivando in Germania poi gli portavano via tutto. Anzi, se avevamo un golf, se avevamo delle calze di lana, della roba, ci spogliavamo quasi e spesse volte siamo state anche punite per questo, inquadrate fuori davanti al blocco per delle ore senza mangiare; quella era proprio la punizione, non era solo l’appello.

D: Quando chiamavano l’appello …

R: Sì, l’appello era al mattino e alla sera.

D: Vi tenevano lì in attesa …

R: Invece per punizione, hanno visto che noi aiutavamo quelli che partivano e noi donne siamo state fuori parecchie ore inquadrate davanti per punizione proprio. Comunque, più di una volta anch’io mi sono arrampicata e loro si arrampicavano dall’altra parte e oltretutto ci salutavamo anche. Loro ci abbracciavano poveretti perché, insomma, oltretutto erano così isolati, così soli, così … che, vedere anche delle compagne, delle donne … E questo è successo più di una volta, sì.

D: Prima diceva della struttura clandestina del campo; ce ne può parlare?

R: Sì. Comunque ci sono dei libri che ne parlano bene, con tutti i nomi di chi faceva parte. C’è una relazione, ma penso che voi la conosciate, è lì in archivio, che pubblicò sul suo libro Marozin: “Odissea partigiana”. Lì riporta una relazione di qualcuno che lui, per conto del Comitato di Liberazione di Milano, aveva incaricato di fare un’indagine.

D: Qualcuno che aveva incaricato …

R: Incaricato sì. Perché, siccome loro erano lì, la Osoppo era nel padovano, nel Friuli, la famosa Osoppo con Marozin vero. Un individuo molto discusso anche dopo la Liberazione. C’è una relazione e lui aveva dato bene l’idea di come funzionava il campo e ci sono i nomi di tutti quelli che facevano parte del Comitato clandestino. Ho detto appunto c’era Rapetti, c’era Milanesi, c’erano altri. E, come funzionava? Beh, funzionava molto, perché cercavano intanto di aiutare tutti. Io so che dopo la Liberazione ci fu una polemica, soprattutto da parte dei socialisti, che si lamentarono che i comunisti erano più aiutati. Il che poteva anche essere eh! Poteva anche essere avvenuto. Nel senso che noi venivamo individuati, qualcuno informava di chi si trattava e, quindi, c’era anche un problema di sicurezza per loro. Qualcuno può darsi che non siano riusciti ad aiutarlo, anche per timore che dessero delle informazioni ai tedeschi.

Veramente hanno fatto moltissimo questi compagni di aiuto.

D: Del tipo? Ci puoi dare …

R: Per esempio rubavano nelle cucine per darci qualche cosa di più da mangiare. Poi, i collegamenti che riuscivano a tenere con l’esterno.

D: Vi arrivava posta?

R: Sì, noi potevamo scrivere una volta al mese mi pare, o due. No, una volta al mese forse. Io ho ancora qualche … io ho tutte le lettere, che mia mamma ha conservato, che le ho mandato io. Non ho quelle che mi mandava lei perché non le tenevo, anche perché avevamo bisogno di carta. Avevamo bisogno di carta, è buffo ma è così. Invece mia mamma le ha conservate tutte, che io non lo sapevo. Me le ha date diversi anni dopo, si vede che anche lei si era dimenticata. Mia mamma è stata anche lei una partigiana, è stata anche lei nei gruppi di Difesa della donna. Una donna molto coraggiosa, un’antifascista. E a novantacinque anni è ancora viva ed è in gamba. Una donna molto coraggiosa proprio. Però noi riuscivamo a mandare via clandestinamente delle altre lettere da quelli che uscivano a lavorare, i gruppi che uscivano a lavorare. Ce ne sono alcune con il timbro di censura, altre invece che non c’è niente e quindi devono essere quelle che io sono riuscita a mandare fuori senza passare da loro. Però, queste lettere, ora delle fine non facevo altro che chiedere roba da mangiare. Anche di questo mi vergogno un po’. No, ma poi dicevo altre cose, certo che non potevo dire molto sulle condizioni; facevo capire. Ecco, soprattutto dal punto di vista igienico eravamo in mezzo ai pidocchi, eh! Avevamo imparato benissimo ad ammazzarli. Sì perché, oltretutto, quando facevano l’ispezione per i pidocchi, almeno nel blocco delle donne non ne facevano tante, se li trovavano ci punivano. Noi non potevamo, non avevamo modo di pulirci troppo per le condizioni in cui eravamo. Mi ricorderò sempre che nel nostro pagliericcio un giorno abbiamo trovato una nidiata di topolini. Sì, abbiamo trovato dei topolini proprio. Insomma, d’altra parte le condizioni igieniche erano quelle che si può bene immaginare, anche se noi cercavamo molto di stare pulite. Io credo che prendevamo sempre la tosse anche perché andavamo a lavarci a torso nudo, al freddo, con l’acqua gelida. Ma questo era perché non volevamo lasciarci andare. Volevamo resistere anche in questo senso; di essere, nel limite del possibile, di cercare di essere ordinate, pulite. Perché ci sembrava, in questo modo, anche di combattere i tedeschi. Di dire, avete cercato di umiliarci … questo l’ho letto anche per quelli che sono stati in Germania sia pure nelle condizioni terribili. Il libro della Rolfi: le donne di Ravensbrück, come lei descrive proprio. Ed è vero, c’era questo spirito, noi cercavamo …

Io mi ricordo, una volta, non so come, o forse erano dei pezzi delle lettere no, quelle no. Ho trovato comunque dei pezzi di giornale e allora mi sono fatta i bigodini. Perché allora non c’erano i bigodini che ci sono adesso; anche a casa adoperavamo i pezzetti di giornale della sera per Insomma, forse anche perché eravamo giovani, non lo so, però era anche un modo di reagire a quella situazione che voleva degradarti sempre di più. Infatti c’erano alcune donne, che non erano giovani come noi, che si lasciavano molto andare, invece quelle giovani … Fra l’altro, fra di noi ad un certo punto sono arrivate da Genova un bel gruppo di prostitute che avevano rastrellato a Genova, ma erano delle ragazze simpaticissime e generose. Quelle mi pare che sono uscite prima, ma le avevano rastrellate per le strade. Qualcuno nel campo diceva che le avevano anche utilizzate, ma a me non è mai risultato perché erano sempre lì fra di noi ed erano molto allegre. Mi pare che fossero una quarantina, era un bel gruppo. Sì, sì, era un bel gruppo.

D: Allora il blocco F la mattina si svuotava e…

R: Si svuotava e ognuno era destinato a lavorare o nel campo o fuori.

D: E fuori che cosa …

R: Andavano in quella che chiamavano galleria, e sono andate anche delle donne lì, dove producevano le armi; era una fabbrica di armi dei tedeschi che, adesso, mi dicono è un tunnel dove ci si passa sotto ho saputo. Oppure, andavano al campo di Vipiteno. Un po’ le hanno mandate … ma era un campo piccolo, soprattutto uomini, però poi rimanevano là e lavoravano a Vipiteno. Poi, quando io sono stata stufa di stare lì in sartoria, ho detto ai compagni “Vi ringrazio, andrò in Germania, non lo so, ma io qui non resisto più”; mi hanno detto “Va beh, fai come vuoi”, allora ho chiesto di andare fuori a lavorare. Allora siamo andati in diversi posti. Un giorno, per esempio, in un bosco a raccogliere legna, che chiamavano “al fuoco”. Un’altra volta a fare qualche cos’altro. Poi, dopo, alla Caserma della Wehrmacht a fare le pulizie, che è stato l’ultimo lavoro che ho fatto. Perché poi, a un certo punto, mi pare verso il 20 aprile, forse anche un po’ prima, non ci mandavano più fuori. Almeno, non mi hanno più mandata fuori. E, al posto delle SS, erano arrivati a fare i guardiani questi della Wehrmacht. C’erano ancora quelli che comandavano naturalmente, poi anche le SS italiane e gli altoatesini. Però diversi. Per esempio, quando uscivamo dal campo per andare fuori a lavorare c’era uno della Wehrmacht, mentre prima c’era stato l’SS che ci controllava e quello si era messo a farmi la corte.

D: Quando rientravate venivate perquisite?

R: Sì, sì, quando rientravamo venivamo perquisite. Però, in realtà, noi riuscivamo a portare dentro il pane. Quindi vuol dire che era un controllo … anche perché eravamo già in marzo, era verso la fine, era verso quando sono andata fuori a lavorare, infatti il tutto sarà durato un mese e mezzo. Che dopo, il campo, va beh il 30 aprile siamo usciti.

D: Da chi ricevevate il pane?

R: Dai soldati della Wehrmacht. Noi, io e la Linda, quando siamo andate fuori alla Caserma della Wehrmacht, eravamo tutte contente. Intanto perché mangiavamo il rancio dei soldati. Eh sì, ci davano il rancio, il loro rancio. Poi, appunto, ci davano soprattutto del pane, forse glielo avremo anche chiesto noi, non mi ricordo bene, però senza difficoltà, non erano SS, anche se la Wehrmacht nella seconda guerra mondiale ha avuto le sue responsabilità e come con degli eccidi e … Lì dovevano essere tutti piuttosto anziani ormai.

D: Quando uscivi dal campo per andare lì alla Caserma, il tragitto lo facevate a piedi?

R: A piedi, a piedi, sì, sì.

D: Passavate in mezzo …

R: Passavamo in mezzo alle case, in mezzo alla gente che ci guardava con stupore, non sempre con simpatia. Non sempre con simpatia, però, in realtà, nessuno ci ha mai detto niente. Eravamo solo io e lei insieme a questo soldato e per noi era anche un diversivo indubbiamente andare fuori dal campo.

D: Voi sapevate che fuori c’era un gruppo, un’organizzazione che aiutava, che mandava dentro informazioni, bigliettini ..

R: Sì, noi lo sapevamo. Io lo sapevo, le compagne del mio gruppo, eravamo tutte comuniste ..

D: E anche pacchi. Tu hai mai ricevuto …..

R: Mah, io ricevevo pacchi che mi mandava mia mamma. Perché, va beh, qui c’era l’organizzazione gappista, quindi l’organizzazione del Partito Comunista, del Comitato di Liberazione e quindi a me hanno mandato parecchi pacchi. Io credo di averli ricevuti quasi tutti e li dividevo, di solito, con tutte le altre compagne che invece non ricevevano niente. Per cui non durava molti giorni quello che ci arrivava. Noi ci siamo nutrite molto di mele. Per fortuna, dopo la guerra mi sono piaciute ancora e le ho mangiate. C’erano dei giorni che c’erano solo quelle. E meno male! Le pagavamo eh, ce le facevano pagare, le compravamo.

D: Con quali soldi?

R: Beh, io ero riuscita ad avere, mi avevano mandato qualche soldo. Mia mamma era anche riuscita a farmi avere … ho una lettera dove si parla di 2.000 lire.

D: 2.000 lire o 200 lire?

R: 2.000 lire che era lo stipendio di un mese. Poi, magari i compagni stessi ci aiutavano.

D: Ma dove compravate le mele?

R: I tedeschi li lasciavano entrare. Poi c’era qualcuno, non mi ricordo chi, chissà, magari forse Ottavio; lui queste cose le potrebbe dire meglio di me, questi particolari. Lui poi era particolarmente responsabile della cucina, responsabile di queste cose. Avevano incaricato qualcuno, qualche deportato, di venderle. Infatti riuscivamo ad averle, non tutti i giorni.

D: Che tu ti ricordi, c’era anche una moneta che valeva …

R: Sì, c’era qualche cosa all’interno del campo. Che io però… c’è Pirola, Felice Pirola, che è dell’ANED, lui è stato a Buchenwald, è un deportato che è stato in Germania e che da anni raccoglie, ricerca, ha un archivio spaventoso proprio e lui ha uno di questi buoni di Bolzano nella sua collezione.

D: Un’altra cosa. Che tu ricordi, hai visto delle scene violente all’interno del campo?

R: Io personalmente non credo di essere mai stata lì nel momento, come per esempio hanno preso quel ragazzo che aveva tentato di scappare, forse eravamo chiuse dentro, non saprei bene, però lo sapevamo. Mi pare che è stato a Pasqua quando è successo questo fatto. Poi sapevamo delle celle; delle celle, quello lo sapevano tutti. Anche perché non è che la cosa fosse nascosta, ogni tanto si sentivano delle urla. Poi, quell’ebrea di cui si parla, che è morta dentro, che è stata praticamente ammazzata lì dentro le celle, che era una donna già di una certa età, io me la ricordo perché era nel castello sotto il nostro. Noi cercavamo sempre di andare in alto, anche perché eravamo le più giovani e facevamo meno fatica a salire. E mi ricordo di questa donna che piangeva sempre, piangeva sempre, poi un certo giorno non l’abbiamo vista più. Anzi, noi giovani cercavamo di dirle: “Ma dai, piantala di piangere, tanto finirà la guerra”. Cercavamo un po’ di … me la ricordo questa donna.

D: Senta, lei aveva il triangolo rosso; c’erano anche triangoli di altri colori nel campo?

R: Sì, c’erano soprattutto i verdi, che dicevano che erano gli ostaggi. Non c’erano tutti lì. Per esempio, io il rosa degli omosessuali non li ho mai visti lì. C’era la stella, c’erano i gialli degli ebrei ma, ripeto, di ebrei non ne sono passati molti lì. Mi ricordo, le ultime settimane, gli ultimi arrivi di ebrei che si vede non potevano più portare in Germania, che forse si saranno salvati. C’era una donna giovane molto carina con una piccola che si chiamava Nicoletta. Però, chissà perché non mi ricordo se dopo è stata liberata con noi o se è andata via prima. Ho cercato a volte di .. tant’è che qualche volta mi era venuta voglia di andare lì al CDEC per vedere se magari si poteva ricercare, vedere.

D: Si ricorda anche di prigionieri americani?

R: No, io no.

D: O italo-americani.

R: No, no, no. Quando siamo arrivati ci hanno detto che parecchi erano stati uccisi. Quelli che sono stati fucilati era la voce che circolava nel campo, però, lì dentro io .. Bisogna tenere conto anche che noi siamo arrivati… quando eravamo pochi, eravamo tremila o quattromila quando io sono arrivata ce ne erano già. Beh, se non tremila, quattromila, duemila senz’altro. Poi, prima della fine della guerra, prima che il campo si liberasse, eravamo quasi cinquemila perché oramai arrivavano continuamente. Infatti, si vede dagli elenchi gli ultimi numeri che erano 10.000 anzi, un giorno è arrivato lì un gappista, un ragazzo che era con me nella GAP, che purtroppo è morto qualche anno fa, Mauro Borsetti, ma era già quasi la fine di marzo. Infatti si vedono i numeri: 10.000 e qualcosa. Gli ultimi due mesi eravamo lì veramente in parecchie migliaia e noi donne eravamo in tante veramente, accatastate lì in quel blocco dove avevamo veramente poco spazio tra un castello e l’altro.

D: Ti ricordi se c’erano dei bambini?

R: Sto dicendo che ho visto questi bambini ebrei, ma non degli altri. Io ho letto da qualche parte che parlano di bambini, ma lì nel mio blocco non c’erano.

D: Neanche per il campo li hai visti?

R: Nemmeno per il campo. Sì, va beh, c’erano ragazzi molto giovani, anche di quindici, sedici anni che erano stati rastrellati, ma piccoli no. C’era questa Nicoletta, anche perché era lì vicino a noi e naturalmente stavamo insieme a questa bambina, chiacchieravamo. Poi, mi pare che ce ne era un’altra sempre degli ebrei, ma io mi ricordo soprattutto la Nicoletta.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi dentro nel campo?

R: C’erano, ma io francamente non me li ricordo. Beh, c’era Liggeri, ma dopo è andato in Germania; forse è andato via anche prima che io arrivassi. Credo di sì, non era lì nel novembre. Comunque eravamo veramente in tanti. Poi sai, non è che si poteva girare come si voleva eh! Anzi, bisognava stare attenti fuori orario a girare per il campo. Perché, cosa facevi? Ti beccavano, ti mandavano via a calci, non potevi Qualche volta si riusciva a scappare, magari io scappavo per andare nel blocco A dove c’erano i compagni. Eh sì, ero un po’ indisciplinata, sì. Però bisognava stare attenti; noi avevamo la Tigre che era sguinzagliata. Bisogna che chieda alla Ina se si ricorda della Zigrina; bisogna che glielo chieda perché lei poi si ricorda molto.

D: Un’altra cosa. Dicevi prima che hai visto molti trasporti, molti uomini Ecco, come avveniva questo …

R: Avveniva che … intanto, chissà perché circolava sempre la voce il giorno prima che c’era il convoglio, preparavano il convoglio. Poi, in ogni caso, a noi ci rinchiudevano nei blocchi. Il mattino, quando cominciavano a radunare quelli che dovevano partire sulla spianata del campo, ci chiudevano nei blocchi tutti quanti e noi guardavamo fuori arrampicandoci su delle finestrelle che erano in alto e non potevamo uscire finché non era finito tutto. Quindi li vedevamo in questo modo, da qualche buco, però, ripeto, si sapeva anche prima, tanto è vero che noi cercavamo di dare a loro quello che pensavamo avrebbero avuto bisogno in Germania. E ne ho viste almeno tre, tre spedizioni di sicuro, la quarta poi tornarono indietro a metà febbraio. C’è un compagno di La Spezia che è uno di questi, si chiama Botticini, che tornò indietro. Si, ai primi di febbraio, era già la metà di febbraio quasi.

Siamo stati dei mesi che ci davano da mangiare quella sbobba completamente senza sale, perché il sale poi mancava dappertutto, mancava anche alla popolazione.

Io mi ricordo che quando mia mamma è riuscita, nel pacco, a mandarmene un pacchetto, ce lo mangiavamo così come se fosse pane. Ce lo siamo proprio mangiato così io e le altre compagne, eh!

D: Ti ricordi se c’erano molte compagne feltrine? Di Feltre.

R: Sì, feltrine ce n’erano un bel gruppo, anche di uomini. E queste erano le feltrine, le compagne che sono arrivate poco dopo di noi credo. Sono arrivate, forse, verso la fine di novembre ed erano evidentemente state segnalate all’organizzazione clandestina perché dopo, infatti, con Linda ci siamo conosciute.

D: Ti ricordi degli eventi ben precisi all’interno del campo? Per esempio, non so, la notte di Natale adesso io dico, oppure la notte del primo dell’anno.

R: Beh sì, cercavamo noi di ricordarla. Bisogna dire che quel giorno di Natale ci hanno dato una sbobba un po’ migliore del solito. C’era dentro qualche pezzetto di carne, di qualcosa ed effettivamente era migliore del solito. Erano talmente bravi che festeggiavano anche loro il Natale.

C’è qualcuno che ha scritto che hanno messo l’albero; io non me lo ricordo l’albero. Dei poveri uomini che erano costretti a fare cappello giù e cappello su. E li tenevano lì per delle mezz’ore fintanto che non avevano realizzato una sincronia perfetta. Si sentiva il rumore cappello giù, cappello su. Questo me lo ricordo. Ed era un modo per umiliare la gente perché, che bisogno c’era di fare una cosa del genere?

Poi mi ricordo, però non ho trovato ancora qualcuno … no, per esempio la compagna Serafina senz’altro perché eravamo lì insieme, gli ultimi quindici giorni credo, che è venuta la Croce Rossa. Ma questo lo dicono anche altri. Cosa sia venuta a fare nessuno l’ha mai capito. E allora hanno fatto la disinfestazione, per cui noi donne ci hanno mandato tutte una notte nella lavanderia nude, ci hanno dato una coperta, che poi quella coperta lì non era stata sterilizzata, per cui .. e io mi ricordo, quello lo ricordo molto bene, siamo state nella lavanderia per una notte intanto che loro facevano la disinfestazione del blocco. Ed eravamo completamente nude con una coperta. Io mi ricordo che, malgrado tutto, mi sono anche addormentata per terra. Invece le altre non dormivano e mi punzecchiavano per svegliarmi.

D: Scala di Torino parla di questo episodio.

R: Ah ecco.

D: Se la ricorda?

R: Io però mi ricordo anche, non credo di … però non ho trovato ancora nessun compagno che me la confermi, che gli uomini però li hanno messi, li hanno schierati nel cortile e li hanno depilati dappertutto. Io l’ho chiesto a Botticini per esempio, l’ho chiesto a qualcun altro, possibile che … a meno che non l’abbiano fatto a tutti. Io mi ricordo che noi passavamo e vedevamo questi uomini completamente nudi e li depilavano dappertutto. Tutto questo perché, dopo abbiamo saputo. doveva arrivare la Croce Rossa. Fra l’altro, nessuno di noi ha visto, ben pochi hanno visto. Cosa abbiano fatto o dove siano andati non lo so proprio.

D: Prima della Croce Rossa, nel campo erano entrati altri personaggi?

R: Che io mi ricordi no. Poi, la Croce Rossa ormai era quasi la fine.

D: Io dico prima. Per esempio, non so, il giorno di Pasqua del ’45.

R: Ah, c’è qualcuno che dice che è venuto il vescovo. Io non … forse perché io non ho voluto andare alla messa.

D: Ma non ti ricordi di …

R: No, non me lo ricordo. Infatti, io l’ho letto questo, sono stata lì a pensarci, ma francamente non …

D: E anche di altre messe celebrate settimanalmente?

R: No, non credo che ci fossero, non mi risulta. E poi, forse, io non sarei andata, questo è il fatto. E, siccome il campo era piuttosto grande, magari …

D: Ma la voce però l’avresti sentita.

R: Sì, la voce l’avrei sentita.

D: Si cantava dentro nel campo?

R: Noi cercavamo di cantare. Non solo, ma c’era la Rosetta, lei era stata molti anni in Francia in esilio con il marito antifascista e conosceva molte canzoni francesi, aveva una bella voce e ci cantava sempre … Voi non la conoscete, è una bellissima canzone. “J’attendre les jour et la nuit, J’attendre” Cioè: “Tornerai”. In italiano era: “Tornerai”. Che allora la si cantava anche in Italia. “Tornerai da me, j’attendre”, lei con altre parole ce la cantava in francese. La Rosetta aveva una bella voce.

D: Rosetta chi?

R: Meloni. Tosoni, Meloni era il nome del marito che è morto a Mauthausen. Che era un compagno, un dirigente comunista di Verona, che faceva parte del CLN che li presero tutti. Lei si fermò a Bolzano, lui andò a Mauthausen e non è più tornato. Loro non avevano figli e lei è morta cinque o sei anni fa, era anche più anziana di noi. Poi cantavamo, sì, sì, cantavamo.

D: Non ti ricordi se c’era una canzone del campo?

R: No, io no.

D: Non te la ricordi.

R: No.

D: E la famiglia Nulli l’ha conosciuta o sentita nominare?

R: No, non mi ricordo.

D: Le sorelle Nulli?

R: Mah, forse quelle, vagamente. Però, quei nomi no, magari chissà, se fossero persone che vedo magari potrei anche ricordarmeli. Perché lì, in realtà, noi eravamo in tante, ma più o meno ci …

D: Marisa Scala te la ricordi? Di Torino.

R: Macché, non me la ricordo. E magari invece … è ancora viva?

D: Sì, sì.

R: Ah! Marisa Scala. Può darsi che però vedendola …

D: A proposito della Croce Rossa ecc., poi è arrivata la Liberazione.

R: Il 30 aprile. Cioè il 29 sera, o notte, non so, le SS hanno tagliato la corda e se ne sono andati. Abbiamo scoperto che sono ancora vivi, no? Due, recentemente.

D: Tu ti ricordi qualche nome?

R: Oh, altroché, soprattutto Haage. Titho e Haage che vedevamo di più in giro per il campo. Quello era il più cattivo. Sono spariti, però noi avevamo anche saputo che si preparava qualcosa. Noi avevamo saputo, il 27 credo; no, subito il giorno dopo, il 26, che Milano era stata liberata, quindi! È una cosa che, quando la dico, mi prende ancora la commozione di quello che abbiamo provato. Allora lì io ho detto una cosa veramente strana, che me la ricorderò per tutta la vita. Siccome io avevo fatto quel lavoro di distribuzione dell’Unità, della stampa clandestina, che era molto importante, allora quando ho saputo della liberazione di Milano ho detto alla Ina: “Ma pensa che adesso leggono l’Unità sul tram”. La mia reazione e la mia idea è stata questa. Era il massimo di libertà leggere l’Unità, che era il giornale del mio partito, perché io ero comunista e sono comunista. Però, comunque dicevo, il 30 mattina ormai il campo era libero, forse anche il 29, qualcuno dice il 28, può darsi, non mi ricordo bene, che se ne siano andati il 28. Prima di partire, voi lo sapete che hanno dato a tutti il nostro documento, che ce l’ho ancora, che siamo stati nel campo dal/al, con precisione teutonica, che comunque ci è servito. Bisogna dire è stato un documento che ci è anche servito se era il caso di dimostrare quello che ci era capitato perché nel dopoguerra ci sono state anche tante cose e le cose che si dicevano… Qualcuno ci guardava un po’ stupefatto.

Allora si poteva rimanere lì e aspettare che, o il Comitato di Liberazione oppure gli alleati che ormai erano oltre Trento mandassero dei camion a prelevarci, ma noi, Milanesi, suo figlio, i due compagni marito e moglie di Genova, un altro compagno di Genova, la Serafina e la Giuseppina, abbiamo deciso di venire via a piedi e abbiamo camminato cinque giorni. Abbiamo fatto tutta la Valle di Non, mi ricordo era il primo maggio quando siamo venuti via e ci siamo fatti tutta la scalata della Mendola, e nevicava, perché non volevamo rimanere un momento di più. Infatti abbiamo camminato, io mi sono presa una cartina e ho cercato di ricostruire, ma non è facile. Comunque ci fermavamo nelle cascine, allora c’erano ancora i contadini che ci davano … ci guardavano un po’ sospettosi perché poi eravamo anche abbastanza stracciati, eravamo anche abbastanza malmessi, però ci davano da mangiare qualcosa, qualche patata, ci lasciavano passare la notte nella stalla. Poi mi pare, arrivati quasi al Tonale, un po’ prima, abbiamo cominciato a trovare i pullman che mandavano incontro ai deportati, anche a quelli che arrivavano dalla Germania, allora siamo arrivati a Ponte di Legno, poi a Lovere, sempre aiutati, rifocillati. A Lovere ci hanno messi su un treno e il 7 mattina siamo arrivati a Milano. I compagni hanno proseguito per Genova e noi … io sono uscita dalla stazione, ho preso il biglietto, mi sono sempre chiesta come ho fatto a pagare il biglietto, o che mi avessero dato qualche soldo i compagni di Lovere perché sono salita sul 7, io abitavo vicino a Lambrate e sono tornata a casa. Ma abbiamo camminato cinque giorni. Io credo che solo noi abbiamo fatto una cosa del genere. Però, anche Milanesi che era molto più anziano di noi, Carlo Milanesi, quel compagno che è morto a oltre ottanta anni ed è sempre stato attivo nel Partito Comunista, un uomo straordinario proprio, molto aperto, molto tollerante, veramente un uomo straordinario, con una storia antifascista, è stato lui che ce lo ha proposto di tornare.

D: Altra gente invece è partita con dei camion.

R: Beh, altri si sono fermati a Bolzano e dopo hanno preso dei mezzi che c’erano a Bolzano. Ognuno avrà avuto un modo di tornare diverso. E poi, forse, arrivavano … Forse, se avessimo aspettato un paio di giorni, sarebbero arrivati i pullman, i camion mandati dai Comitati di Liberazione della zona. No, noi abbiamo voluto venire via subito. Volevamo allontanarci.

D: Fino a quando tu sei rimasta nel campo, certi deportati sono partiti prima, se ne sono andati prima?

R: C’è stato qualche caso, almeno che sia a mia conoscenza. Per esempio, c’era uno di Brescia che, mi ricordo, si chiamava Venturini, che dieci giorni prima della chiusura del campo è stato liberato. Non mi ricordo nemmeno bene per che cosa fosse… era un triangolo rosso anche lui. Me lo ricordo perché evidentemente avevo modo di conoscerlo e di parlare, forse ci trovavamo fuori, non lo so, non mi ricordo bene. Però, di altri non saprei se altri sono stati liberati prima, ma non credo. Beh, la Montanelli. La Montanelli è andata via prima, ma lei era un caso particolare. Lei era lì come ostaggio. Quando lui è stato arrestato, almeno così si diceva, così dice, perché lui è stato in carcere a San Vittore, Montanelli, lui l’ha detto anche più di una volta, era stato arrestato. Lui dice che addirittura doveva essere fucilato, non lo so. E lei quindi era lì come ostaggio. Lei non la facevano lavorare però.

D: Ah, ecco.

R: Forse perché ha fatto la vice campo; poi era tedesca comunque, quindi aveva un trattamento … per quanto che era lì con noi.

D: La Cicci, invece, è scappata anche lei?

R: Beh, si, siamo usciti tutti il giorno 30. Chi il 30, chi il giorno dopo, perché ormai potevamo anche rimanere lì, ormai eravamo anche liberi. Se volevamo aspettare un paio di giorni … allora eravamo così in tanti, ognuno sarà tornato in un modo diverso. Certo che come noi credo nessuno.

D: A piedi!

R: Beh, avevamo ancora si vede delle forze; avevamo ancora qualche forza. Va beh che eravamo giovani, quindi!

D: I collegamenti con il Comitato di Liberazione esterno. Voi sapevate che tipo di ordini si passavano? Cioè, non lo so, le formazioni, vi davano indicazioni delle formazioni? Oppure, non vi siete mai chiesti perché i partigiani esterni a Bolzano, al campo, non hanno mai fatto un’incursione, un’azione.

R: Allora no. Noi speravamo che ci bombardassero perché tutti i giorni passavano i bombardieri che andavano soprattutto .. andavano in Germania e poi bombardavano il Brennero, le linee ferroviarie. Noi speravamo che ci bombardassero, ma anche questo… Va beh che gli inglesi dopo la guerra hanno detto non potevano uccidere … Per noi poteva anche passare l’idea perché comunque eravamo ancora in Italia, ma l’avessero fatto sui campi di Germania, anche se moriva qualcuno per i bombardamenti! Va beh che dopo avrebbero avuto il problema di dove andare, dove scappare.

D: Quindi, rispetto al Comitato di Liberazione di Bolzano, non ti ricordi …

R: No, io so che sapevo che c’era, ricevevamo le notizie soprattutto di informazione sull’andamento della guerra, i compagni ce le passavano perché questo ci dava anche entusiasmo, coraggio insomma. E poi sapevamo che aiutavano, aiutavano noi e aiutavano tutti. Sapevamo chi erano.

D: Come è avvenuta, per esempio, all’interno del campo la tessera del Partito.

R: È avvenuto che un giorno, credo che sia stato Milanesi stesso a consegnarcela. Ci hanno detto: “A tutti i comunisti diamo una tessera”. Io, la prima tessera del Partito Comunista l’ho avuta in campo di concentramento. La Serafina ce l’ha ancora anche lei, l’ha conservata. Eravamo tutti contenti. Che è un’azione abbastanza rischiosa eh! Anche perché oramai eravamo alla fine e rischiavamo proprio di …

Io devo dire una cosa e l’ho sempre detta. Io, naturalmente non è che quei cinque mesi siano stati allegri. Poi, privati della libertà, senza sapere … nelle mani delle SS che non sapevi bene mai che cosa sarebbe successo di lì all’ora dopo, non il giorno dopo, poi comunque sotto la paura, il rischio di essere picchiati, di essere mandati in cella per qualsiasi cosa che a loro non andava. Sono stati cinque mesi e mezzo certo non allegri, anche se … almeno, io ne ho visti anche altri, essere lì per una motivazione di lotta, noi avevamo fatto la Resistenza, avevamo fatto i partigiani, eravamo antifascisti, va beh, sapevamo che eravamo lì non perché eravamo dei ladri o dei malfattori, quindi c’era indubbiamente una differenza e quindi questo ci dava anche un certo non dico orgoglio, ma certo una nostra forza ecco. Però, insomma, cinque mesi e mezzo non sono stati nemmeno corti, giorno dopo giorno e quindi abbiamo anche sofferto, non solo la fame … no, l’acqua noi l’avevamo. È quello che mancava, poi la salute e tutto quanto. Certo che quando io sono tornata, che ho saputo da quelli che tornavano dalla Germania quello che là era successo, io per un po’ di tempo non ho avuto nemmeno il coraggio di dire che ero stata a Bolzano. Mi aveva talmente colpita, scioccata, che li ho visti macilenti, che raccontavano … poi, quando abbiamo cominciato a vedere … no, quello l’abbiamo visto qualche anno dopo quando c’era la televisione, comunque abbiamo cominciato a saperlo, certo che è stato una cosa, anche per noi che eravamo stati comunque lì prigionieri, carcerati e deportati, però abbiamo capito che noi ce la siamo cavata; rimanendo a Bolzano abbiamo comunque salvato la vita. Poi le condizioni fisiche. va beh, avevamo vent’anni, quindi … però l’ho detto, avevamo sempre la tosse. Adesso, riguardando le lettere che scrivevo a mia mamma, ho visto che le chiedevo continuamente degli sciroppi per la tosse e le dicevo che avevamo sempre la tosse.

Poi noi, noi donne, avevamo avuto il problema della scomparsa, non completa, magari a cicli, del ciclo. Infatti ho una lettera dove dico a mia mamma di mandarmi un farmaco per questo. E le dico: guarda però che non sono incinta, non pensare che sono incinta, perché qui è una cosa, il ritardo nel ciclo, che colpiva tutte, tutte le donne giovani. Io, dopo la guerra, ho avuto anche dei problemi di carattere ginecologico, ho dovuto curarmi per una forma di infiammazione ecc. Che, non è escluso che sia stato per quel fatto, su cui si è poco indagato effettivamente, si è poco approfondito. Anche alcuni medici interpellati, ho letto da qualche parte, hanno detto che poteva essere, che poi è capitato anche a quelle in Germania, quelle peggio di noi, lo stress, la paura degli arresti, di quello che avevamo passato. Io sono stata picchiata quando mi hanno arrestata, sono stata duramente picchiata. Non lo so, però era capitato a tutte, anche a quelle che erano lì per ostaggio. Va beh, era sempre un arresto che subivano, quindi era sempre uno choc. Non lo so se invece mettessero qualche cosa nel cibo che ci davano. Non lo so, però questo fatto riguardava tutte. Forse è anche per questo che eravamo gonfie, per tutto un metabolismo, un ciclo tutto sconvolto dall’irregolarità del ciclo mensile probabilmente. E tutte quante, tutte quante avevamo avuto questo problema.

D: Per una donna che cosa è stato il campo di concentramento?

R: Per una donna è stato una cosa prima di tutto diversa da quella degli uomini e certo più pesante, più brutta proprio. Non solo perché le condizioni per noi erano più dure, non potevamo lavarci, non potevamo tenerci in ordine, vivere in mezzo ai pidocchi. Ma poi anche tornando. A un uomo non avrebbero mai detto cosa hai fatto nel campo di concentramento, non avrebbero mai avuto il sospetto di qualcos’altro. A una donna sì. A me personalmente non è capitato. Non è capitato perché quando sono tornata c’era la mia famiglia, mi sono sposata, l’ambiente dei compagni e così via, quindi nessuno pensava che io avessi fatto chissà che cosa nel campo. Però c’è stato anche questo aspetto. E magari le stesse famiglie. Le stesse famiglie che non erano state d’accordo con l’attività svolta magari da quella che aveva fatto la partigiana, da quella che aveva fatto qualche cosa e per questo motivo era stata arrestata. E che, quindi, le stesse famiglie chiedevano alle ragazze: “Cosa hai fatto, cos’hai fatto là?” Quindi, a un uomo credo che nessuno abbia mai chiesto. Quindi anche questo aspetto. È forse per questo che noi per un po’ di anni, ancora più degli uomini, non abbiamo parlato, specialmente quelle che tornavano dalla Germania; specialmente quelle povere compagne, le poche sopravvissute.

Io sono stata recentemente, alla fine di giugno, a Ravensbrück, c’ero già stata un po’ di anni fa, perché si è inaugurata la lapide … perché hanno fatto tutta una ricerca dell’ANED e pare che siano state un migliaio le donne italiane, quasi tutte antifasciste e partigiane, restate o passate da Ravensbrück, e lì hanno messo una lapide nuova con un maggior numero nel memoriale dell’Italia. E lì c’è un bellissimo lago. Adesso poi è tutto ben tenuto, ridente come si usa dire, e lì c’è la cenere di novantamila persone in fondo a quel lago. In novantamila morirono lì a Ravensbrück, tutte donne e bambini. Sì, anche qualche uomo, pochi però. E non solo italiane, ma anche francesi, tedesche, cecoslovacche, russe. Quindi, quelle che tornavano dalla Germania, le compagne veramente, quelle donne …

D: Onorina, secondo te è importante che i giovani conoscano queste storie?

R: Beh, io credo di sì. Purtroppo, per molti anni … intanto è mancata la scuola. Io mi sono molto arrabbiata con le dichiarazioni di Violante quando è diventato presidente della Camera perché proprio in quell’occasione lui ha detto una cosa che io ritengo sbagliata. Anche se l’ha detto con altre intenzioni, però in realtà metteva tutti sullo stesso piano. Allora dopo mi hanno chiesto una mia opinione sul giornale dell’Associazione dei perseguitati politici antifascisti, “L’antifascista” si chiama, e io naturalmente ho detto il mio parere. Poi ho proprio sottolineato che, in realtà, se c’è qualcuno a cui bisognerebbe fare qualche critica, è la scuola che è mancata. È mancata la scuola. Però qui il discorso sarebbe lungo. Perché noi che uscivamo dalla Resistenza, che eravamo felici e contenti che fosse finita, che il giorno più bello della nostra vita, io l’ho detto una volta e ho constatato che poi l’hanno detto anche altri compagni, è stato il Giorno della Pace, però abbiamo vissuto degli anni duri. Che è un altro ragionamento: la guerra fredda, la persecuzione contro i comunisti. Quindi, anche questo ha rallentato indubbiamente un certo … non potevano certo insegnare nelle scuole la storia. A parte che poi c’è sempre qualcuno che dice che bisogna aspettare tanti anni prima di insegnare la storia contemporanea, va beh! Però, certo è mancata l’informazione giusta. Per cui a volte ci dicono: “Eh ma voi avete fatto i martiri, avete fatto dell’apologia, avete parlato solo degli aspetti belli della Resistenza e invece ci sono stati anche delle pagine” … c’era la guerra però e non l’avevamo voluta noi. E la guerra è brutta. In guerra si ammazza e si è ammazzati, quindi … Questo può anche essere vero. Per quello che se, invece, la scuola avesse dato un’informazione storica, scientifica, questo non sarebbe forse avvenuto. Ammesso che sia anche avvenuto che qualche volta, qualche 25 aprile è stato celebrato in modo retorico, questo è anche avvenuto e mi ero un po’ arrabbiata anch’io, però, in realtà, è perché è mancata l’informazione a scuola. Per cui praticamente quasi due generazioni hanno saputo poco. E non è che adesso sappiano poi tanto di più; forse un po’ di più sì. Noi dell’ANPI e anche dell’ANED andiamo, quando ci chiedono, nelle scuole, in questi incontri con i ragazzi, anche delle elementari eh, e in generale sono simpatici, ci ascoltano. Di solito, questi incontri avvengono per l’interesse dell’insegnate. Perché, chi non ha questo interesse, che se ne frega, è difficile. Noi non possiamo mica imporci, noi andiamo dove siamo richiesti; se ce lo chiedono andiamo, altrimenti no. Quindi è un lavoro un po’ frammentario, così, qua e là, non certo su tutta la superficie scolastica in modo anche più scientifico. Beh, noi raccontiamo la nostra esperienza, diciamo le nostre cose. Io faccio sempre la premessa di dire che io non sono lì a dirvi: “Ah come sono stata brava, come sono stata …” No, io in quel momento, in quella situazione mi sono sentita di non restare estranea alle sorti del mio Paese e l’ho fatto. Adesso scopro che sono entrata nella storia; non io, ma tutti quanti. Se ce l’avessero detto a noi quarant’anni fa, ci avremmo fatto una risata. Però è storia, questo è vero.

D: Accennavi a Ravensbrück Lager femminile. Secondo te è importante che i giovani vadano a vedere questi luoghi della storia? I campi di concentramento.

R: Beh, io credo di sì, anche se è triste, c’è qualcuno che ha delle remore a portare i giovani a vedere cose così brutte. Credo di sì perché vedono che è vero. Vedono che è vero, ecco. È vero, il protagonista ti racconta la storia, questo è già molto, va beh che io l’ho vissuta, non sono qui a raccontarvi storie, però vedere il posto mi pare che è quello il punto insomma. Del resto non so, a volte si portano ai monumenti patriottici nelle ricorrenze, lì è un monumento di un pezzo di storia. E non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, quasi di tutto il mondo.

Che poi la Resistenza abbia avuto anche qualche pagina oscura come si dice adesso, capirai! Può anche essere. Però, chi lo dice, io lo avrei voluto vedere in quel momento cosa avrebbe fatto magari. Poi, insomma, noi eravamo volontari, nessuno ci aveva … dall’altra parte no invece. Dall’altra parte ricevevano la cartolina di precetto e per paura magari andavano, poi erano anche pagati.

D: Un’altra cosa. Ritornando nel campo di concentramento, un atto di solidarietà.

R: Beh, ce ne erano molti atti di solidarietà. Io credo che è stato un momento di grande solidarietà. Non solo, ma anche nella Resistenza, anche nella lotta. Anche lì io ricevevo i miei pacchi, ero quasi l’unica del nostro gruppo, e subito lo distribuivamo fra tutti. Avrei potuto anche magari mangiarmela solo io.

Poi, appunto l’aiuto ai compagni che partivano, quelli che andavano in Germania, che sapevamo che andavano a stare peggio di noi, anche se non in quel modo. Quindi c’era la solidarietà, c’era senz’altro. Direi che era anche un fatto che ci permetteva di affrontare la situazione la solidarietà, perché non ti sentivi sola. Tu aiutavi un compagno, però magari saresti stata aiutata. Anche questo fatto. E’ stato un momento indubbiamente di solidarietà sì.

Mi pare che anche in Germania, sia pure nelle condizioni peggiori da quello che ho letto, nei campi di sterminio, almeno la Rolfi racconta questi episodi. Certo, poi potevi trovare anche quello che pensava solo a se stesso, l’egoista. In mezzo a migliaia di persone c’è, non è questo il punto. Però, in realtà… E la solidarietà, secondo me partiva soprattutto da quelli che erano deportati perché avevano fatto la Resistenza, avevano fatto comunque la lotta, sia pure in tanti modi.

D: A proposito di lotta, per esempio voi qui a Milano, nella tua formazione di gappista ecc., in quanti eravate …

R: Ah guarda, nella brigata c’erano dei momenti che si poteva anche essere in quaranta o cinquanta, non di più, Pesce l’ha anche scritto nei suoi libri.

D: Quaranta o cinquanta. Eravate armati?

R: Beh, le armi c’erano abbastanza. Per fare quello che dovevamo fare c’erano. Poi le armi sai si riducevano all’esplosivo per fare gli atti di sabotaggio e alle rivoltelle. Eh, non potevi portare altro, nemmeno lo sten anche se non era troppo lungo perché in città non potevi assolutamente, si riducevano a quello. Però, in generale, al massimo eravamo una ventina, la media. Sai, era una lotta che in parecchi sono passati nella brigata GAP, ma sono durati anche poco, però si capiva. Se non se la sentivano di affrontare quella lotta non venivano certo perseguitati, gli si diceva “Vai in montagna”. Fra l’altro, parecchi si sono comportati proprio coraggiosamente e sono morti in montagna.

D: Il tuo nome di battaglia qual è?

R: Sandra.

D: Chi te l’ha dato.

R: Io, mi piaceva. Sai, poi anche questo fatto, le donne …

Addomine Renato

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono di Feltre, la mia famiglia è di Feltre da generazioni e generazioni. La caratteristica di Feltre, essendo provincia di Belluno, storicamente è sempre stata la bella stagione di Goldoni, il retroterra dell’estate per i veneziani, come educazione, come tutto. A un bel momento mi trovo senza sapere perché nella situazione della Seconda Guerra Mondiale, la capitolazione e tutte queste cose. Nelle tre province, sia di Trento che di Bolzano che di Belluno, ci sono dei villaggi e delle zone in cui si parla tedesco, basti pensare a Cima Sappada, su nell’alta provincia di Belluno, tanto quanto Trento. Caduto il fascismo, si è formato il fascio repubblicano anche a Feltre, un po’ dappertutto. A un bel momento sono venuti i…

Noi chiamiamo tedeschi nel senso generale tutto ciò che è aldilà del Brennero, non andiamo mica tanto per il sottile. Quello che noi chiamiamo tedesco non distinguiamo se è prussiano, se è di altre parti. Sono venuti i tedeschi, ci hanno occupati. A un bel momento hanno dato ventiquattro ore di tempo perché i fascisti abbandonino le tre province di Trento, Bolzano e Belluno, cosa che non tutti sanno. Questi signori hanno fatto le consegne di tutta la loro situazione politica delle varie famiglie, di chi era e di chi non era, consegnati ai tedeschi e sono andati via.

I fascisti sono stati mandati via. Non era più questione di fascisti o non fascisti, era soltanto l’ennesima occupazione che noi avevamo, cosa che non abbiamo mai fatto noi. C’era una piccola storia piuttosto interessante che ricordo, che mio padre quand’era ragazzino, parliamo dell’ottocento ancora, sentiva da mio nonno una frase di cui non ho mai saputo chi sia l’autore, probabilmente qualcuno lo saprà. Mio nonno diceva: “E poiché gli Alemanni in casa avete, serviteli bene e fatevi mostrare le spade loro con che vi hanno fesso i visi e padri e figli uccisi”.

Mio papà diceva: “Ma no, ormai sono finiti quei tempi”. Si è beccato tutta la Prima Guerra Mondiale, sette anni di servizio militare, Feltre è stata invasa per l’ennesima volta. Mio padre quando è successo che siamo entrati in guerra nella Seconda Guerra mi ripeteva questa frase: “E poiché gli Alemanni…”. E io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati i tempi”. Per l’ennesima volta è successa la stessa cosa.

Quindi nel sangue noi non è tanto con le persone, io ho degli amici tedeschi singoli. Addirittura c’era un ufficiale delle SS, lui viveva in America, che eravamo amici intimi, però lui sapeva e io gli dicevo: “Guarda che se tu metti la divisa, tu mi fai fuori”. E lui mi diceva: “Cosa vuoi che ti dica? Così è”. Per dire l’abisso mentale che c’è, questa è quindi la cattiva disposizione.

D: Addomine, Lei dice che i fascisti sono andati via…

R: Sono stati mandati via. Tanta gente non lo sa.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Glielo dico subito, forse non esattamente, verso l’agosto, settembre del 1944.

D: 1944?

R: 1944. Sono stati mandati via. E cosa che non tanti sanno, il capo un po’ dei fascisti repubblichini che era quello che faceva arrestare e consegnavano ai tedeschi il Tizio, Caio e Sempronio, perché venivano consegnati soprattutto da questi, a un bel momento sono stati mandati via. Però hanno lasciato tutto un dossier di dichiarazioni. Aspetti, ho detto agosto? No, il 19 giugno c’è stata una grande retata a Feltre, quindi ai primi di giugno sono stati mandati via con l’occasione di quella retata.

D: Voi quanti anni avevate allora?

R: Io ho compiuto vent’anni in campo di concentramento, perché sono del 1924, quindi avevo diciannove anni. Mio fratello ne aveva sedici, quindici e mezzo, sedici e due sorelle maggiori, perché siamo stati deportati in quattro. Io mi ero appena diplomato a Vicenza e a Feltre c’era la direzione della costruzione della diga del Trabignolo su in Val di Fiemme.

Io lavoravo dentro in quest’impresa svizzera. Circolavo coi documenti Schuetzbetrieb, cioè stabilimento protetto e venivo anche a Milano ai collaudi delle turbine, delle centrali allora sotto i tedeschi, sempre con questi documenti. Quando c’è stato il grande rastrellamento, i documenti stracciati, buttato via tutto, portato via tutto quello che avevamo addosso.

D: Voi siete stato fermato in un rastrellamento?

R: No, al mattino alla cinque tutta Feltre è stata occupata da un’azione militare e hanno portato via duemila e tante persone su una cittadina come Feltre. duemila circa concentrate tutte in uno stabilimento e mandate poi alla Todt, a lavorare alla Todt. Centodiciassette selezionati, fra i quali io, un fratello e due sorelle tirati fuori. Questi centodiciassette, ci hanno portati tutti su un teatro, chiusi dentro senza mangiare né niente né bere là, sulle sedie di questo teatro. Il giorno dopo sono andati su sul palco, tutte le porte picchettate.

In questo non c’entrano né fascisti né niente, perché ormai erano stati mandati via. Avanti una famiglia. Questa famiglia, nome? Avevano tutti i foglietti consegnati dai fascisti. Posso dire che quando è toccato a me, eravamo io, mio padre, mia sorella, altre due sorelle e un fratello, sei persone, quando siamo arrivati: famiglia Addomine. Allora uno fa con la mano così, metà da una parte e metà dall’altra. Un gruppo concentrato così, dov’è la metà?

Un po’ qua, un po’ là. Hanno fatto così e ci hanno sbattuti quattro da una parte e due dall’altra senza stare là a contare. Poi questi qua fucilati e gli altri no non si sa niente, là il momento era così, perché fuori intanto avevano fatto l’ira di Dio, avevano impiccato delle persone. Ci siamo trovati in quattro e gli altri mandati via.

D: Le volevo chiedere: che giorno era questo?

R: Questo era il 3 ottobre 1944. Ci hanno separati in questa maniera, né mangiare né niente, privati di tutto quello che avevamo addosso, portati via ori, anelli, orologi, tutto, spogliati di tutto, messo dentro tutto in un sacco, portato via tutto. Al mattino presto chi poteva dormire là tra un seggiolino e l’altro di un cinema? Ci sono dei camion fuori, si sente che sparano, l’ira di Dio.

Veniamo fuori, incolonnati e messi su dei camion. Attraversando tutto il centro di Feltre tutta la gente che piangeva, noi ci sentivamo che è finita, volavano dalle finestre le coperte per cercare di ripararci. C’è stato quel senso che senza guardare in faccia chi fosse bisognava aiutare questa povera gente. Col camion dove andiamo?

Erano cinque o sei camion, eravamo stretti come sardine. Un piccolo particolare: quelli che hanno mandato via, sono tornati a casa e quelli che siamo rimasti, siamo stati in centodiciassette, cento uomini e diciassette donne. Questi che poi siamo stati deportati.

D: E la Vostra famiglia era?

R: Io, due sorelle e un fratello, quattro. Invece che fare tre e tre, che siamo rimasti lì hanno fatto quattro e due. Poteva essere.. Non lo sapevo se così o così, che andavano a casa. Il babbo e una sorella a casa. Quattro ci siamo trovati così. Con questi camion coperti di teloni cercando di guardare fuori abbiamo passato Primolano, siamo arrivati a Grigno. Hanno fermato i camion, dentro in una scuola. Scendere tutti, ci hanno fatto dormire dentro nelle scuole elementari di Grigno, un paesetto per andare in Valsugana, per andare a Trento.

Al mattino presto: “Su, Aussen, tutti su, tutti in piedi, tutti allineati contro il muro”. Dico: “E’ finita qua”. Altra volta, qua adesso ci hanno messi al muro. Invece no, ci hanno tenuti là fermi finché arrivava sulla ferrovia della Valsugana un treno merci che si è fermato non in stazione e ci hanno fatto montare su, su dei vagoni come bestie. Bombardavano la linea del Brennero allora. Siamo arrivati alla sera del 5 ottobre a Bolzano. Guardano fuori, chi conosceva: “Sì, siamo a Bolzano”. Poi a un bel momento davanti a un grande cancello eravamo all’entrata del campo di Gries a Bolzano.

D: Siete arrivati in treno a Bolzano dove?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: Alla stazione.

R: Alla stazione ci hanno fatto scendere, caricato con dei camion ancora e portati davanti al portone del campo. Guardando fuori ho visto reticolati, mi sa tanto di campo di concentramento, ma noi non sapevamo dove eravamo, dove andavamo.

D: Lì cos’è successo?

R: Lì ci hanno fatto entrare, tutti fermi. Vedo certa gente, tutti con una tuta addosso, pelati a zero. Era pomeriggio e ci mettono dentro divisi in baracche. C’erano baracche con castelli di tre piani di legno, pagliericcio per modo di dire, era una specie di coperta straccia e segature. In questo grande capannone, uno dei due o tre, ci siamo tirati su e vedevamo questi qua che venivano su al buio come anime morte e noi: “Dove siamo?”. “Siete in campo. Siamo destinati ad andare tutti in Germania”; le prime informazioni che correvano.

Al mattino giù tutti, hanno diviso le femmine da una parte, gli uomini dall’altra, spogliati, un grande getto con la manichetta per fare la doccia davanti al cortile con la manichetta dei pompieri. I cani addestrati che ci mordevano se uno si curvava, anche questa è una cosa nota, cosa che è molto bella. Il nervo di bue è l’unica cosa, a frustate, ci hanno dato una tuta che erano le tute di fatica, allora, quella che ho avuto io, dell’aviazione nostra, quelle tute bianco grezzo. Quella mi ha accompagnato. Spogliato di tutto il resto, solo la tuta.

Hanno fatto il primo discorsetto: “Da questo momento siete sotto il controllo del vostro capo campo”, che era un certo Maltagliati, fratello della Evi Maltagliati attrice. In gamba, perché con un assembramento di gente così eterogenea se non c’è un capo succede l’ira di Dio, perché le donne, gli uomini erano dagli avanzi di galera Il professor Ferrari, primo Sindaco di Milano del dopoguerra dormiva vicino a me. Mi ricordo, una mattina mi sono svegliato, avevo un mal di gola tremendo, avevamo il terrore di cose del genere perché non c’erano condizioni igieniche.

Mi fa: “Dopo ti guardo io”. “Ma te ne intendi un po’?” mi ha detto lui, mi ha guardato… “No, no, è un angina semplicemente”. Dico: “Ma chi sei tu?”. “Sono Ferrari di Milano”, poi è diventato il primo Sindaco del dopoguerra di Milano, professor Ferrari.

Mi ha guardato in gola, era anche lui con la tuta come me, con gli zoccoli, eravamo tutti uguali, tutti “Banditen”, eravamo banditi e basta.

D: Lei ha subito un interrogatorio?

R: No.

D: Niente?

R: Una cosa posso dire, c’è una storia pregressa. Nessun interrogatorio perché era già tutto predisposto e deciso, era la lezione che dovevano dare a Feltre. Perché con l’occupazione delle tre province a un bel momento i giovani di leva, come ero io, come altri, io ero iscritto al corso ufficiale di stato maggiore di Marina, perché avevo fatto radiotecnica come specialità, ma che poi è finita la guerra l’8 settembre

Ci avevano dato la possibilità di scegliere, scegliere volontari delle SS o delle SD, di vestire in ogni caso la divisa tedesca. Un bel mattino corre la voce che sono arrivati giù i partigiani e hanno portato via tutto… Certo, non hanno potuto fare la chiamata ufficialmente e questa è stata la grande lezione che ci hanno dato. Duemila portati a lavorare in fortificazioni alla Tod e centodiciassette deportati, che eravamo destinati all’eliminazione. Come siamo entrati in campo di concentramento ci hanno dato un triangolo rosa, che vuol dire rastrellato.

I triangoli erano il giallo, ebrei, rosa, rastrellati, rosso, politico pericoloso e azzurro che era qualche inglese, qualche svedese, straniero ma non militare, senza significato politico. Questi erano i triangoli. La cosa è durata poco, perché a un bel momento hanno cominciato a fare le prime partenze, a mandare via qualcuno di noi, poi non è tornato nessuno. Sono andati in Germania, il campo di Bolzano era un campo di smistamento, era un Durchgangslager, un campo di attraversamento. Sotto SS, soltanto controllato da SS.

Noi non potevamo neanche salutare qualcuno della Wermacht. In pieno inverno ci avevano dato una specie di berretto fatto con un pezzo di coperta, a passare davanti a uno della SS bisognava tirare giù il berretto e stare fermi, fermi, fermi finché c’era il consenso di proseguire. Al mattino era una beffa. Alle cinque del mattino, sei, che era notte, quando ci facevano l’adunata, ci contavano tutti. Davanti ad ogni blocco c’era il capo blocco, ci contavano e allora uno diceva: “Siamo in tanti più tre che sono magari morti dentro”.

Dovevano quadrare i conti, sennò là era fame, botte, acqua mai vista, fuoco: chi ha mai visto il fuoco? Sa cosa vuol dire? Passare un inverno, lavorare, poi le squadre. O portavi i feriti che scaricavano dai treni all’ospedale di Bolzano, c’erano degli ospedali, mi ricordo, grandissimi che ricoveravano i feriti che venivano dal fronte, e li portavamo con le barelle su. O a cavare granito.

D: Ma fuori dal campo?

R: Sì, sì, fuori dal campo. Al mattino c’era un certo numero di squadre che uscivano. Andavamo a Gries, andavamo a Appiano, andavamo di qua e di là a fare qualunque lavoro, pulire tutti gli ospedali. In ogni caso la cosa più frequente era cavare pietre in cava.

D: In cava?

R: Sì, le cave di granito, ci sono su, di porfido.

D: E dove, si ricorda?

R: Esattamente no. Sa che non mi ricordo esattamente? Poi c’era un distaccamento a Merano, aspetti. C’era un distaccamento del campo di Bolzano a Merano perché tutta la roba che portavano su con l’avanzata degli alleati dall’Italia veniva messa dentro, i vari castelli della Val Venosta, tutti i castelli che ci sono là. Io mi ricordo una volta un certo maresciallo Kek, allora io avevo studiato tedesco, tedesco e francese, l’inglese era proibito ai miei tempi, io avevo studiato tedesco e allora ero comodo, qualche volta potevano rivolgermi la parola per certe cose.

Una volta chiedevano uno Spezialist Tecknik degli orologi, dico: “Se si tratta di mangiare un pezzo di pane in più, mi intendo anche di orologi”. Avevano migliaia di orologi che avevano sequestrato, allora li avevo tutti classificati, mi ero fatto gli attrezzi, quelli che lavoravano come forgiatori mi avevano fatto le pinzette, degli amici dentro. Tanto per darLe un’idea, ero diventato uno Spezialist, mi era comodo in un certo senso. Ecco perché dico se vado a Merano non c’è l’aria di Bolzano, Merano è un altro clima d’inverno di Bolzano, a Merano si sta molto meglio come temperatura.

Là a Merano qualche grado di più voleva dire tanto per sopravvivere, veramente. Là mi ricordo siamo entrati in un castello accompagnati da un signore con questi della SS sempre, perché c’erano dei quadri. Eravamo io, un certo dottore, che è morto adesso, Nino Paoletti, Bepi D’Antoni che era direttore, è stato direttore della Dalmine Acciai Speciali, che era prigioniero anche lui con me. Avevamo una certa cultura, per chiederci se potevamo classificare in ordine di valore un certo numero di tele.

Erano tele che credo fossero state portate su da Bologna, Modena, non so dove, ma delle tele meravigliose. Allora noi mettevamo a seconda dell’ordine d’importanza, classificate così. E’ venuto dentro un signore che parlava tedesco perfettamente e mi ha chiamato in disparte. Mi ha detto: “Come vi trattano qua?”. Come si fa a dire a uno che me lo porta la SS che mi trattano male? Per prenderle? Ho detto: “Così”. “Abbi pazienza, ci vedremo presto”.

Ed era quello stesso signore, era il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, svizzero di Merano che è venuto dentro lui a portarci il foglio di scarcerazione. Questo che era un esperto di pittura, d’antichità, che viveva a Merano, che è venuto dentro con la scusa dei quadri per fare la valutazione di queste tele che avevano portato via, a Castello… Non mi ricordo più quale, li conoscevo tutti.

D: Ma in città o fuori città?

R: Fuori città. A Merano eravamo alla caserma di Maiabassa, prigionieri. Però eravamo sempre fuori. Per cui ho visto dei capolavori passare via, cosa ci potevo fare? Questo signore che avevano invitato per fare la stima in franchi svizzeri, l’aveva fatta lui la stima di questi quadri, è stato quel tale che è venuto dentro ufficialmente. Al 30 aprile è finita e sono arrivati gli americani.

Al 2 o 3 maggio eravamo ancora prigionieri dentro e non si sapeva cosa succedeva, è capitato dentro accompagnato dagli ufficiali con i fogli di scarcerazione di tutti noi. Per cui tutte le cose impensate, chi lo sa. Questa è un po’ la mia strana storia. Posso dire una cosa, però. Quella notte, dopo che ci hanno lasciati dentro, chiusi dentro quei centodiciassette, mi sono arrampicato su sul palcoscenico dove avevano le loro scrivanie, eravamo in due o tre, a raccogliere i bigliettini che avevano stracciato, dove avevano preso gli appunti.

Nel caso mio, cosa straordinaria, mi è capitato proprio “famiglia Addomine, composta di sei elementi, favoreggiatori e collaboratori di banditi”. Questa era la mia accusa. “Dichiarazione Recalchi”. Storia premessa: mio padre aveva uno studio fotografico, questo Recalchi era venuto su perché parente di un certo Rovali da Ferrara, io non ero neanche nato allora. Aveva uno studio fotografico, in un certo senso c’era la concorrenza professionale. I ricordi più lontani della mia infanzia, quindi parliamo del 1926, 1927, ho visto mio padre piangere perché il Recalchi aveva mandato i figli che erano tutti fascisti, mio padre invece non era fascista, era socialista, a spaccare tutti i vetri delle finestre di casa nostra.

Non potevamo fare niente, perché mio padre era socialista e quegli altri erano fascisti. Questi naturalmente erano tutti fascisti, tant’è vero che uno di questi Recalchi sono andati a prelevarlo in prigione e l’hanno fatto fuori, perché ha fatto quella cosa orribile. Una cosa strana che succede: la guerra finisce, sono venuti su con dei camion da Feltre a portarci giù, noi sopravvissuti. Arriviamo giù e ormai eravamo ai primi di maggio. Mi dicono che mio padre è impazzito, dico: “Perché?”. “Pensa che avevano preso Recalchi e messo su in una nicchia che c’è nella porta imperiale a Feltre per fucilarlo, mio padre gli ha fatto scudo e ha detto: “Questo mai”.

Pur essendo lui che ci ha deportati, ci ha fatto deportare lui e la sua famiglia, ha detto: “Ci sarà una giustizia, non facciamo queste cose”. Questo è un ricordo meraviglioso che ho di mio padre. Lei non sa niente perché ci siamo conosciuti e sposati in America con lei, poi era di Rovereto, però soltanto sentito dire. Però testimonio che quando mio padre è morto, vent’anni fa, io da Milano sono andato a Feltre naturalmente perché c’era il funerale di mio padre e vedo uno lontano, ricordo, dico: “Quello è Recalchi”.

Un figlio, il più giovane di questa famiglia era venuto con il motorino da La Spezia a Feltre per rendere scusa e omaggio alla tomba di mio padre. Guardi se non è un po’ un dramma impressionante. Questa è la mia storia. Eccola qua. Io non sono un eroe, non ho meriti particolari, ringrazio il Padre Eterno che mi ha fatto uscire in qualche maniera ed essere qui a raccontare, non posso neanche dire “Io sono un eroe”. No.

D: Una cosa, quando eravate lì a Merano a Maiabassa nella caserma, Vi ricordate la caserma qual’era? Era vicino a una stazione, a un albergo?

R: La caserma me la ricordo sì. Dunque, c’era la strada, uscivo qualche volta che mi facevano tirare fuori i cavalli. Fra me e i cavalli… Con il carretto… Una volta mi è scappato il cavallo, anzi no, ho preso il cavallo. La cavalla, la chiamavano la Fittoria… Questa ha aperto la porta, ha preso la corsa, le si sono fermate le stanghe e io sono volato fuori… Un disastro, fra me e i cavalli proprio non… Si costeggiava un fiume. Comunque la caserma di Maiabassa per me era notissima.

R: Addirittura a Feltre devo avere una delle fotografie del grande cortile interno, perché c’era un grande cortile interno.

D: Della caserma?

R: Sì. Proprio fatte il giorno che ci avevano liberati, devo avere una o due fotografie con le mie sorelle. Poi il triangolo me l’hanno cambiato in rosso. Senza sapere perché, non era più rosa, sono diventato rosso, politico pericoloso, ma non so perché.

D: Una cosa, oltre al triangolo Le hanno dato anche un numero?

R: 4.972.

D: Le Sue due sorelle erano con voi a Maiabassa?

R: Sì.

D: Anche loro?

R: Anche loro.

D: Ma qui non avete però la tuta bianca?

R: No, quella era a Bolzano, questo è Merano. Quella è la foto che si deve vedere il cortile, mi pare, è il cortile della caserma di Maiabassa quello là.

D: Allora, rimaniamo un attimo a Bolzano.

R: Sì.

D: Allora, Vi hanno dato il numero, la tuta e il triangolo.

R: Sì.

D: Poi il capo campo vi ha fatto il discorso.

R: Ha fatto il discorsetto il capo campo che si chiamava Maltagliati, che poi è stato sostituito da altri che adesso mi sfugge il nome, ma a cui posso risalire.

D: In che baracca Vi hanno messo?

R: Io sono entrato nella H.

D: Nella H?

R: Sì.

D: Vi ricordate il capo blocco chi era?

R: Sì, Musi, tenente dei carabinieri.

D: Qualche altro Vostro compagno Ve lo ricordate, oltre al professor Ferrari?

R: Compagni?

D: Dentro in baracca.

R: Dentro in baracca? Giuseppe D’Antoni… Ah no, questo poi era a Merano, poi ci siamo trovati là. E’ un gruppo diverso. Tutto il gruppo di Feltre, me li ricordo… Ci deve essere qualche elenco…

D: Se Le viene in mente qualche nome così.

R: Perbacco, il dottor Nino Paoletti, Antonio Paoletti che era il mio vicino di casa.

D: Vostro fratello era con voi?

R: Sì.

D: Invece le Vostre sorelle dove le hanno messe?

R: Nel blocco a fianco, che era delle donne.

D: Vi ricordate se avete visto che dentro nel campo c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì.

D: Lì avete visti?

R: Sì, perché il giorno di Natale a un bel momento uno di questi prigionieri si è messo su uno straccio sopra, ha fatto la messa per tutti, ha dato un pezzettino di pane secco, ha detto: “Questo è il simbolo…”, senza confessione né niente, “fate la comunione tutti perché qui è finita”.

D: Il nome non Ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Ma era un feltrino?

R: No, non era un feltrino perché li conoscevo.

D: La messa di Natale.

R: La messa di Natale. Non ricordo chi fosse. Ha detto: “Questa è la confessione generale a tutti, perché avete pagato tutte le vostre colpe”, senza confessione né niente, un pezzo di pane che sia simbolo della comunione.

D: Vi ricordate i capi invece tedeschi?

R: Sì.

D: Questi nomi Vi ricordano qualcosa?

R: Haage, il maresciallo Haage, il tenente Thito, che quando veniva fuori lui era perché c’erano delle spedizioni, organizzava le spedizioni, le partenze, Thito poi il maresciallo Kek.

D: A Bolzano questo maresciallo?

R: No, Kek era a Merano, invece Haage e Thito erano a Bolzano. Ricordo benissimo che c’erano due o tre ucraini che erano i capi celle che pestavano la gente, poi li impiccavano con le mani sul palo così, sollevati da terra a morire dal freddo.

D: Nel campo?

R: Nel campo. Alla mattina si usciva e si vedeva sul palo uno là e non si poteva toccare, stava morendo servito da questi signori ucraini.

D: Lei a Bolzano quanto tempo è rimasto prima di partire per Merano?

R: Tre mesi e mezzo, quattro mesi.

D: Quindi ha visto numerose partenze?

R: Altroché.

D: Quegli ucraini, Ve li ricordate i nomi degli ucraini?

R: No, però in uno dei libri che ho ricevuto, ho letto, ho trovato, non so che, ci sono.

D: Otto e Lischa?

R: Esatto.

D: Vi ricordate se c’era anche una donna?

R: Sì. Era la iena, era tremenda, la chiamavano “la iena”. C’era questa donna, sì.

D: Una cosa, il campo aveva un muro di recinzione?

R: Sì.

D: Sopra il muro c’era del filo elettrificato, del filo spinato?

R: Filo spinato tutto attorno, elettrificato lo ritenevamo, ma non lo sapevamo. C’erano però ogni tot metri delle torrette con le guardie armate.

D: Delle garitte quindi?

R: Delle garitte proprio sopra il muro.

D: Senta, l’appello come avveniva?

R: Mai fatto appello. Noi dal momento che si entrava, che ci hanno dato il numero, il nostro nome era sparito, soltanto il numero, eravamo solo il numero.

D: Ma alla mattina non vi chiamavano fuori dalle baracche?

R: Certo, tutti in fila e ci contavano, ogni blocco. Questo ne ha centoventicinque, centoventitre, allora il Kapò del blocco veniva avanti, due sono morti dentro, oppure non so, uno è moribondo. Il papà di Gianfranco Grabuio per esempio una volta era pronto per la spedizione, portato via, hanno detto: “E’ morto, lascialo qua”, invece poi è sopravvissuto. Il papà di Gianfranco Grabuio era…

D: A proposito di morti, diceva prima di violenze. Quindi Voi avete assistito a delle violenze?

R: Io ad esempio, siccome lavarsi niente, avevo un’infezione di barba tremenda, siccome non c’era barbiere, altro che per tagliare i capelli con la forbice, i capelli a zero, un’infezione di barba tremenda, mi ricordo. Un mattino col freddo passo via e il maresciallo Kek mi chiama, grida, mi giro, fermo, duro, siccome non ho tirato giù il berretto sperando che non mi vedesse mi ha dato delle nervate in viso.

Avendo tutte le croste dell’infezione di barba sono entrato in blocco che ero tutto sanguinante, sembrava chissà che, però era superficiale, perché erano croste. A vedere i miei compagni che piangevano mi è venuto un male al collo, loro piangevano e per me e io dicevo: “Va beh, insomma, mi ha dato delle nervate”.

Non mi ero visto allo specchio che avevo tutto il sangue dell’infezione di barba. Così si viveva, in queste condizioni. Col terrore. Poi i cani poliziotti sempre addestrati, sguinzagliavano i cani con l’istruzione precisa di saltare addosso se uno si muoveva fuori dalla riga, mordevano. Anche questa era una cosa piuttosto antipatica.

D: Nel periodo che Voi siete rimasto a Bolzano uscivate a lavorare, costituivano delle squadre di lavoro?

R: Sissignore.

D: Quindi uscivate dal campo?

R: Si usciva dal campo comandati da un plotone tedesco, sempre accompagnati da un plotone armato e ci portavano, non so, ad un ospedale o in cava o a scaricare vagoni.

Oh, una cosa che mi sono dimenticato, molto carina anche quella, con i bombardamenti che c’erano nel Brennero le varie stazioni, tutti i vari binari venivano smantellati per ricostruire le linee su cui poter passare. Quella di cavare su rotaie era una cosa spaventosa.

D: Quindi vi mandavano a lavorare sulle massicciate anche?

R: Certo, anche molto grazioso era scaricare le bombe inesplose con un bel martello di gomma, le istruzioni, poi si mettevano di dietro e ti facevano segno così. Quando davi il colpo così slittava la spoletta, facevi così, sono qua o sono… Anche quella era una cosa molto graziosa.

D: E sotto la galleria del Virgolo?

R: Il Virgolo l’abbiamo fatto noi, la galleria del Virgolo era galleria per la strada, ma è diventata una fabbrica di cuscinetti a sfera che era necessaria e dentro al Virgolo a fare le massicciate, a portare i muri… Il Virgolo è stato fatto con tutti i prigionieri. La fabbrica di cuscinetti a sfera.

D: La Imi, Imi si chiamava.

R: Non lo so, non ricordo.

D: La Imi. Quindi Voi siete stato anche lì?

R: Certo. Altroché.

D: A proposito di questa cava, può dirmi qualcosa di più? Perché di questa non avevo mai sentito. Non so assolutamente dove collocarla, era vicino al campo o andavate a piedi?

R: Era lunghetta. Per …. era un altro, subito prima di Bolzano per andare su, cosa c’è? Laives?

D: Laives Bronzolo.

R: Da quelle parti là.

D: Porfido quindi?

R: Porfido, il granito.

D: Estraevate il porfido e lo mettevate sul camion?

R: Sul camion i blocchi venivano caricati…

D: Quindi una cava all’aperto?

R: All’aperto. … Quello era un altro, poveretto.

D: Cioè, hanno ammazzato qualcuno?

R: E’ successo dentro, quando l’hanno portato in Germania, un mio amico.

D: A Bolzano?

R: No.

D: A Merano?

R: No, in Germania, non mi ricordo più, erano tre o quattro campi, erano sempre quelli.

D: Allora, lì siete rimasti tre mesi?

R: Tre mesi circa, sì. Poi sono stato liberato a Merano ed è stata a Merano la storia dei quadri. Di quello che era il funzionario della Croce Rossa Internazionale, che nessuno lo sapeva, che faceva l’antiquario di Merano, loro credevano che fosse un antiquario, era uno svizzero.

D: Il nome non lo sa?

R: No.

D: E questi quadri erano dentro a questo castello?

R: Sì.

D: Però diceva che il castello è fuori Merano.

R: Fuori, fuori. Tutti quei castelli lì attorno, Annaturno, Sluderno…

D: Se io Le dico un nome, Le dice qualcosa San Leonardo in Passiria?

R: San Leonardo anche, sì.

D: Ma non è quello dei quadri?

R: No, non è quello dei quadri questo.

D: Lì a Merano la sua occupazione qual è stata? Quella dei quadri sempre?

R: No, quella è stata incidentale. A Merano era caricare e scaricare i vagoni, tutto quello che portavano su, dai sacchi di caffè, che allora il caffè era una cosa rarissima. Caricare e scaricare vagoni.

D: In stazione?

R: In stazione.

D: Maiabassa?

R: Maiabassa, sì. Ma tante volte non si fermavano in stazione i vagoni, perché con la storia dei bombardamenti venivano spostati in rami ferroviari tirati fuori, secondari. E cavare su rotaie per ripristinare la linea ferroviaria, il ponte di Bodi, quante volte l’hanno bombardato.

D: Siete andati anche lì?

R: Anche lì, perbacco.

D: Sai dov’è? Prima di Trento?

R: Fra Trento e Bolzano. Il ponte di Bodi. Coi bombardamenti di allora buttavano giù tante di quelle bombe che facevano spavento, tant’è vero che la montagna per un certo periodo aveva tutte le buche delle bombe. Anche là, prendere e ripristinare almeno una linea che potesse tirare dritto per poter proseguire.

D: E uscivate con le zebrate, con le tute?

R: Sì, sì. Non esisteva altro per cambiarsi. A Merano avevo quell’altra tuta, due pezzi, a Bolzano quella bianca. Non ho mai avuto altro.

D: Quando eravate lì a Bolzano o anche a Merano avete potuto scrivere a casa?

R: Sì, qualche volta sì. Perché quando ci mandavano fuori con le squadre c’era qualche paesano che salutava così e allora avevamo sempre nascosto un pezzettino di carta, qualche cosa. “Tò, consegnalo”, si poteva comunicare in questa maniera.

D: Però voi potevate ricevere lettere o pacchi?

R: No, mai ricevuto.

D: Avete mai ricevuto niente?

R: Io non ho mai ricevuto pacchi, però c’è stato qualcuno che riceveva dei pacchi. Come non lo so.

D: All’interno del campo c’era chiamiamolo un movimento resistenziale, c’era qualcuno che si dava da fare?

R: No, no. Ho visto delle cose meravigliose, delle cose orribili, però là era proprio la sopravvivenza e basta.

D: Vi ricordate qualche cosa meravigliosa?

R: Una cosa meravigliosa sì. Quando hanno scavato quella galleria nel silenzio per uscire dal blocco, per poter scappare, li hanno sorpresi all’ultimo momento perché hanno fatto la spia. Eravamo 15, 20 gradi sotto zero, tutti inquadrati fuori al freddo. “Se non salta fuori chi è stato non vi muovete”.

Le solite guardie, i cani, ecc.

Non è saltato fuori per un giorno, il giorno dopo si è fatto avanti uno che era un ex ufficiale, non mi ricordo più se degli alpini o di dove fosse. Si è costituito lui, in realtà erano più, erano parecchi. Però con questo hanno liberato le squadre. Ho visto un gesto di uno che ha dato la propria, ha offerto la propria vita per gli altri, sì. Anche questo ho visto. Era nel blocco…l’ultimo del capannone su, non mi ricordo più come si chiamasse. Che roba!

D: Voi dicevate prima dei triangoli azzurri che erano degli inglesi.

R: Sì.

D: Cioè nel campo c’erano anche…

R: Sa che con la guerra, ancora quando c’era l’esercito italiano, un certo numero per esempio di inglesi erano stati catturati in Africa e portati qua. A quelli sbandati, i tedeschi hanno attribuito questo triangolo che non erano né italiani né niente, militari ma non catturati da loro. Questo era il triangolo azzurro.

D: Erano lì a Bolzano, nel campo di Bolzano?

R: Sì, c’erano questi, c’erano i gialli che erano gli ebrei, i rosa che erano i rastrellati e gli ostaggi.

D: Gli ostaggi?

R: Bambini di cinque o sei anni col nonno di sessanta, settanta.

D: Bambini c’erano?

R: Bambini di pochi anni, certo.

D: Dov’erano questi?

R: Qua e là, messi nel blocco. Magari cercavano uno che era, non so, ufficiale degli alpini, avevano preso il padre e il figlio. Allora praticamente nonno e nipote messi in campo di concentramento e tenuti dentro. Che fine abbiano fatto non lo so, però c’erano sì.

D: Non Vi ricordate che c’era una famiglia dentro nel blocco celle che avevano un bambino appunto piccolo di quattro anni, c’erano due sorelle?

R: Ho un vago ricordo. Però quello delle celle era proprio in mezzo al campo, messo di traverso così.

D: In mezzo al campo?

R: Sì, sì. Non era un blocco, le celle erano proprio in mezzo al campo.

D: Non erano in fondo?

R: O in fondo, ma comunque non facevano parte dei capannoni. No.

D: Questa famiglia che erano mamma, due figlie di vent’anni…

R: Ho vaghi ricordi di tutte queste mostruosità, però… C’erano anche quelli, sì.

D: Ci raccontate un’altra cosa bella del campo che avete visto? Oltre a quella del tentativo di fuga.

R: Quella è stata una cosa che non dimenticherò mai.

D: Un altro fatto, un altro episodio a cui avete assistito di questi belli?

R: Non saprei.

D: Allora uno brutto. Quello più brutto a cui avete assistito.

R: C’era uno messo dentro in cella con le gambe e le braccia rotte. Dopo una settimana tirarlo fuori proprio con gli arti spezzati e pestarlo ancora, a questo ho assistito, fatto da quei due ucraini maledetti.

D: Lui chi era?

R: Un italiano sicuramente. Queste sono cose terribili.

D: Su quando Vi hanno chiamato per andare a Maiabassa, cosa Vi hanno detto?

R: Che c’era bisogno di uno Spezialist. Siccome io servivo per fare l’elettricista… Una cosa molto graziosa: nella caserma di Maiabassa nel distaccamento delle SS di Merano, nel distaccamento di Merano verso la fine della guerra erano un po’ tutti abbacchiati, sentivano che stava per finire anche questi signori della SS. E bevevano.

Avevano preso l’abitudine, siccome avevano tutte le villette attorno, vivevano dentro nelle villette questi ufficiali, avevano preso la mania di spararsi un colpo di pistola nella serratura dopo essersi ubriacati, così non vai a letto, uno con l’altro.

Alla mattina lo Spezialist, che ero io, doveva andare ad aprire le porte, per cui io facendo il giro avevo tolto tutte le combinazioni dentro, in maniera che bastava anche un chiodo piegato per aprire, perché sennò dovevo stare là a diventare matto. Come Spezialist ogni tanto mi davano magari una mela o mi davano…

D: Cioè gli avete tolto un nottolino?

R: Sì, sì. Sa che c’è la combinazione? Ho tolto quel nottolino per non stare a diventare matto. Anche queste cose…correre dietro a…

D: Il campo di Merano era anche quello sotto le SS, non c’era Wermacht?

R: Solo SS. E non solo, noi eravamo consegnati con tutti i numeri da un distaccamento all’altro e se ne assumevano la responsabilità di questi numeri.

D: Quanti eravate più o meno lì a Merano?

R: A Merano trenta o quaranta.

D: Arrivavano ogni tanto delle persone in più oppure siete…

R: No, perché eravamo già verso la fine e quindi non arrivavano più.

D: Neanche se ne tornavano?

R: Neanche andavano indietro. Per me è stato un bel rifugio, un bello scappare, Merano per me è stato un bel passo avanti. Anche perché avevo cominciato, sia pure ad andare ad aprire le porte, ma almeno sentivo un ambiente caldo per scaldarmi le mani.

D: Cos’era, marzo, aprile?

R: Fine aprile.

D: A Merano?

R: A Merano io sono andato tra febbraio ed aprile, sono stato a Merano.

D: Il 30 aprile del ’45 Voi eravate a Merano?

R: Prigioniero ancora. Sapendo la gente che gridava per le strade, questo e quell’altro, eppure…finché non sono venuti dentro ufficialmente a scarcerarci. Avevo però da buon Spezialist fatto le chiavi false dell’armeria. Eravamo in tre o quattro pronti a vendere cara la pelle se per caso capita.

D: Anche Vostro fratello?

R: No, mio fratello non è venuto con me.

D: Ah no? E’ rimasto giù?

R: E’ stato scarcerato lui. Un certo numero dopo due mesi o tre li hanno scarcerati, triangolo rosa ancora. E’ stato allora che hanno mandato là quelli rosa e poi quelli dentro sono diventati rossi.

D: E le Vostre sorelle invece sono venute su?

R: Rosse anche loro, triangolo rosso, sempre con me, sempre.

D: Il 30 aprile a Merano, attorno al 30 Aprile, è successo un fatto di sangue, Ve lo ricordate?

R: Sì. Sparavano dalle strade, ci hanno sparato dietro anche a noi.

D: Come vi hanno sparato dietro?

R: Dalle case, le infermiere degli ospedali. Sa che gli alberghi erano ospedali, quasi tutti. Ci hanno sparato dietro. Quando sono uscito per la strada ci sparavano gli infermieri, dicevano, perché chi poteva essere che rimaneva là ormai?

D: Sono state uccise anche delle persone?

R: Certo.

D: Altre due cose importanti. Nel campo di Bolzano, quando siete arrivati nel campo di Bolzano all’ingresso c’era su una targa, c’era qualcosa?

R: Sissignore. Polizeilisches Durchgangslager.

D: Era sul cancello?

R: Sul cancello.

D: Sopra il cancello?

R: Sopra il cancello e i reticolati, sopra c’era questo cartello e poi c’era il cancello.

D: E a Merano cosa c’era scritto?

R: Niente. C’era il cartello che diceva “Amministrazione delle SS del distaccamento di Merano”.

D: La vita nel campo di Merano era un po’ sul ritmo di quello di Bolzano?

R: Mille volte meglio. Eravamo pochi, ci conoscevamo e anche qualche maresciallo o con le denominazioni delle SS che erano completamente diverse di gradi, qualcuno diceva: “Presto finisce”. Sentire confidenze di questo genere dalle SS per me sembrava di toccare il settimo cielo, sta proprio per finire.

D: E a Merano c’erano anche ebrei o eravate solo triangoli rossi pericolosi?

R: Nessun ebreo a Merano.

D: Donne?

R: Donne sì.

D: Le sorelle. Più uomini o più donne?

R: Più o meno metà e metà. Perché le facevano cucire, confezionare sacchi, sempre per queste spedizioni, sa?

D: Quando eravate a Bolzano nel campo avevate sentito di questi altri campi? Avevate sentito parlare prima di Maiabassa o di altri posti?

R: No, però ho sentito il capo blocco Maltagliati che aveva detto: “Occorre un certo numero di persone per Merano”. Un mio carissimo amico che è morto adesso purtroppo, proprio nati e cresciuti insieme, Nino Paoletti che conosceva, era andato tanto tempo, diceva: “Potessimo andare a Merano, è tutta un’altra aria”. Si è fatto avanti, allora per me lo stimolo, dice: “Se non altro, non moriamo dal freddo in queste condizioni”, perché il freddo è stata una cosa tremenda.

Arrivare bagnati con una sola tuta e fare il bilancio scientifico: conviene tenerla visto che non è calda l’acqua che ho addosso o toglierla? Qual è il bilancio termico che conviene tra questi due ragionamenti? Comunque con tutto questo sono arrivato a casa che pesavo quarantadue chili io, uno di ottanta chili.

D: Avevate vent’anni?

R: Sì. Vent’anni giusti. Sono del ’24.

D: Per quello che riguarda le funzioni religiose, Lei si ricorda di questa di Natale e si ricorda magari di qualche altra funzione oppure è l’unico episodio?

R: L’unico episodio che ricordo è questo, però c’erano dei preti. C’erano dei preti perché so che quando ci hanno portato via tutti gli indumenti, i vestiti e ci hanno dato questo berretto, alla mattina c’era la famosa adunata, tutti inquadrati con i numeri, “berretti su” traducevano, “berretti giù”, finché non sentivano il colpo secco tutti insieme non si diceva: “Fuori le squadre”.

Ce n’erano uno o due che avevano tagliato il cappello da prete che avevano e avevano fatto il berretto un po’ più consistente con la cupola che poteva stare addosso. Sapevo che erano preti insomma.

D: Glielo ho chiesto perché alcuni si ricordano di un sacerdote che entrava che non era prigioniero, ma che veniva apposta il sabato o la domenica a celebrare messa.

R: Mai visto.

D: E poi usciva, era un esterno.

R: No, non lo ricordo assolutamente.

D: Neanche a Pasqua?

R: Io ero a Merano a Pasqua.

D: Magari era venuto qualcuno nel campo di Bolzano.

R: A Pasqua ero a Merano.

D: Il Monsignore però, Monsignore Bontignon.

R: Il Vescovo?

D: Il Vescovo, sì.

R: Io non ero…

D: Era su a Merano. Lì a Merano Vi ricordate, a proposito di questo personaggio della Croce Rossa, che c’era un italiano che poi è scappato alla Liberazione e che ha riparato in Svizzera? Non Ve lo ricordate?

R: Non esattamente.

D: Edgardo Sogno? Non Ve lo ricordate?

R: Mi suona il nome, ma non ricordo assolutamente.

D: E’ andato su a Merano Sogno, scappando. La Liberazione, ce la raccontate?

R: La Liberazione è stata un sogno.

D: Dove eravate Voi in quel momento?

R: Già la sera prima avevamo visto dei movimenti strani e avevo distribuito le mie chiavi dell’armeria, perché dico: “Questi qua ci fanno fuori”. Al mattino chi dorme? Nessuno. Affacciarsi con la testa così a guardare giù, vedo tutto uno strano movimento.

Ci hanno riuniti tutti insieme ed è venuto avanti questo signore che era quello che giorni prima era venuto per i quadri, questo svizzero. Ha detto: “La guerra è finita”, c’è stato un urlo generale per noi. Quando abbiamo varcato la porta e abbiamo visto le jeep americane, erano già arrivati gli americani, delle jeep americane, ci sembrava un sogno. Mi ricordo che si sono avvicinati e ci hanno detto se eravamo prigionieri. Mi hanno offerto le Chesterfield. Un sogno sembrava.

D: Poi cos’è successo?

R: Poi da Feltre sono venuti su con dei camion, l’impresa locale Dalla Corte, questi Dalla Corte avevano avuto anche loro dei figli prigionieri come me, a raccoglierci, a portarci giù. Ci hanno portati giù a Feltre coi camion.

D: Quindi direttamente da Merano?

R: Da Merano.

D: Non siete più ritornati a Bolzano?

R: No, perché eravamo un certo numero, ci siamo riuniti e siamo venuti giù da Merano direttamente.

D: Lei a Merano ha ricevuto il foglio di rilascio?

R: Sì.

D: Proprio quello firmato da Titho?

R: No, Titho non c’entrava, dalla Croce Rossa Internazionale.

D: Ce l’ha ancora questa carta?

R: No, non sono riuscito a farmela dare, perché quando è finita la guerra mi hanno chiamato al servizio militare. Allora ho dovuto allegarla come documento al distretto militare di Belluno. In altre occasioni successivamente sono andato per farmelo ridare indietro, mi hanno detto che non c’era più.

D: Ma dopo avete dovuto fare il militare, il servizio militare?

R: No. Perché avevo questo documento di scarcerazione dal campo di concentramento.

D: Neanche le Vostre sorelle hanno quel documento?

R: Sono morte ormai da anni. Probabilmente sì.

R: Mi ricordo che ci hanno fatto la lunga presentazione del mondo che avremmo trovato fuori, dice: “Guardate che trovate per tornare a casa un percorso duro e tremendo. La guerra è stata spaventosa”. Ci raccontava tutti questi particolari questo svizzero. E’ stata una sorpresa, io non avrei mai immaginato.

D: Cos’era, uno svizzero che parlava italiano?

R: Parlava italiano, tedesco, parlava benissimo.

D: Ma lui era svizzero tedesco, italiano? Che svizzero era?

R: Parlava italiano benissimo, però parlava tedesco benissimo perché era lui il consulente per i quadri della SS.

D: Che età poteva avere più o meno?

R: Allora avrà avuto sui quarant’anni.

D: Con divisa da SS?

R: No, no, in borghese.

D: Ah, in borghese?

R: Era un cittadino che era stato preso per stimare dei quadri.

D: Un esperto?

R: Un esperto di quadri. Però mi ha chiamato in disparte quando mi ha detto: “Come vi trattano?” Io gli ho detto: “Zitto, per l’amor del cielo, guai, si sbaglia tutto”.

D: E’ importante secondo Voi che i giovani di oggi conoscano questa storia?

R: Le ho premesso prima: “E poiché gli Alemanni in casa avete…”. Mio nonno garibaldino lo diceva, mio papà: “Ma dai che sono cambiati…”, mio papà lo diceva a me e io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati…”. Io l’ho ripetuta cento volte alle mie due figlie, che non mi vengano a dire che i tempi sono cambiati perché può succedere ancora.

Ecco perché è importante, perché è un niente che un gruppo di violenti col potere in mano… Non c’è più né destra né sinistra, non c’entra, sono tutte balle. Io ho girato il mondo con molto piacere e ho visto due cose che si assomigliavano spaventosamente: la Spagna di Franco, che più fascista non poteva essere, e la Russia di Breznev, che più comunista non poteva essere. La stessa roba, da una parte a Barcellona dicevano sottovoce: “Stamattina ne hanno fucilati due ancora”, a Mosca mi dicevano: “Stamattina ne hanno mandato quattro in Siberia dei nostri” sottovoce. Poi in confidenza dicevano: “Che speranza c’è per il mio popolo?” I russi.

Mi ricordo che una volta ho detto: “Guardate, io stamattina sono entrato al Cremlino. Voi da cinquanta anni non ci entrate, se non settanta anni. Vuol dire che siete sulla buona strada, visto da me evoluzione, non rivoluzione, perché sennò vanno su quelli più cattivi di voi, secondo me”. Allora sentire queste famiglie a Mosca che volevano sentire il “Kapitalist”, che ero io secondo loro, come la pensavo, è successo così.

Io ho portato mia moglie ed è entrata tranquillamente al Cremlino, ma loro per due generazioni o tre non sono mai entrati. Evoluzione, non rivoluzione. La rivoluzione non fa niente.

D: Prima raccontavate di quell’episodio quando eravate a Caracas se non mi sbaglio, che è venuta questa…

R: Zoppoli, sì.

D: Chi era questo?

R: Quello era un prigioniero che lavorava nell’officina delle automobili, di riparazione automobili dentro nel campo di Bolzano. L’officina era dietro il muro, là facevo l’orologiaio io.

D: Allora, se questo è il campo, questo è l’ingresso…

R: L’ingresso, l’officina era qua, da questa parte.

D: Si usciva come? Da qui oppure c’era una porta nel muro?

R: No, no, la porta è sempre stata interna, dal muro.

D: C’era una porta dal muro?

R: Sì, sì.

D: C’era questo garage, c’era questa officina meccanica, poi c’erano altre officine?

R: Sì, forgiare, ferro, fare catenacci…

D: C’era anche una tipografia?

R: Sì, ho un vago ricordo che c’era anche una tipografia, sì. Con delle macchinette.

D: Voi a Bolzano avevate delle monete interne del campo?

R: No, io no. Avevo sentito parlare, però io non le ho mai avute monete interne del campo.

D: C’era anche una falegnameria che Lei sappia?

R: Non ricordo.

D: Una lavanderia?

R: Sì, lavanderia sì.

D: Vi ricordate, visto che facevate un po’ l’elettricista anche, se c’era un elettricista di Milano?

R: Non ricordo.

D: Che aveva nascosto una radio, un apparecchio radio.

R: Io non ho mai detto che ero radiotecnico, perché quella era una condanna a morte per me, per paura di spionaggio, sa? Mai, per questo che da buon radiotecnico sono andato a fare l’orologiaio, perché solamente a parlare di radio era finita, paura di comunicazione col nemico. Mai detto.

D: Quando partivano i deportati per la Germania, cosa succedeva lì?

R: Succedeva questo: al mattino era una mattina come un’altra, però si vedeva il tenente Tito con tutte le scartoffie. Adesso qua le liste. Cominciava l’appello dei numeri, tirava fuori e durava un’ora, un’ora e mezza, ripetere il numero…

A un bel momento questi venivano messi da parte, gli altri rientravano nei blocchi, questi venivano portati alla stazione che c’erano già i treni di solito, perché gli stessi prigionieri dovevano sigillare i vagoni. C’era Beppi Grisotto e altri che conoscevo che tornavano indietro dopo aver sigillato i vagoni con questa gente che veniva spedita via dalla stazione.

D: Dalla stazione? Non da altre parti?

R: Non lo so, perché io non sono mai andato.

D: Li facevano sigillare?

R: Sì.

D: Adesso una cosa, questa fotografia qui…

R: Questo sono io e le mie due sorelle, questa è proprio dentro nel cortile di Maiabassa di Merano. In fondo questi erano capannoni dove si imballava roba.

D: Che tuta avete su lì?

R: Questa ormai eravamo liberi, perché potevamo fare le fotografie. Ci siamo messi su una maglia per uno. Avevamo la tuta in due pezzi.

D: C’è il triangolo però?

R: Sì, non è una tuta, avevamo due pezzi qua. Tutti, era a Bolzano che avevamo la tuta unica.

D: Chi vi ha fatto questa foto?

R: Uno che era venuto su, perché dentro veniva anche a lavorare della gente fuori di Merano, venivano a lavorare anche loro. Non ricordo più chi me l’abbia fatta, so che mi ha fatto un rullino. Ho detto: “Dammelo che poi penso io”. E questa eccola qua. Vede, il triangolo e il numero.

D: Certo.

R: Io avevo il 4.972.

D: Vi siete ricordati il numero, eh?

R: Già mi crescevano i capelli, vede già lunghi due dita. Eravamo sempre rapati a zero. Qualche volta anche le donne. Se non c’erano cimici, c’erano pidocchi, piccole cose che si dimenticano. Le assicuro che la scabbia, grattarsi fra le dita qua, non avere acqua, non avere niente, cose che non si credono. Qui è stato il ritorno alla vita.

D: C’era un’altra foto. C’è un’altra informazione molto preziosa perché una memoria così viva sui motivi della presenza a Merano non l’avevo mai sentita.

R: Questa è stata così. A Merano occorrevano dei prigionieri un po’ da fidarsi, perché c’era da trattare della roba bella, non solamente mani da cava, capisce? Bisognava tirare fuori qualcuno che sapesse come si tiene un quadro, per dare un’idea.

D: Certo. E di quella roba non si sa poi che fine…?

R: Hanno detto che parte è stata recuperata. Sono tutte voci che ho sentito dopo, perché io non ho voluto più saperne niente, sa, la ripulsa di dire che è il mondo passato, la vita comincia domani, guardiamo davanti.

D: Sa che c’è una via a Merano che si chiama Via trenta aprile?

R: Non lo sapevo. Allora bisogna che si torni a Merano.

D: Questa foto invece?

R: Questa è in Piazza Alta, però me la sono trovata a casa. Era la foto della resa di Feltre, così mi hanno detto, la presentazione dei documenti della resa agli americani, doveva essere.

D: Quindi questo è il ’45?

R: Il ’45 questa.

D: In che zona della città questa?

R: Piazza Vittorio Emanuele, sulla Piazza Alta, questo è il palazzo Guarnieri a sinistra, che non si vede, quello tutto settecentesco, bello. Ricordo benissimo dov’è. Qui a destra c’è il teatro del Palladio.

Forse l’ha fatta mio padre di sfuggita.

D: Allora Vi piace Merano e Bolzano?

R: Sì, molto.

D: Non siete più ritornato?

R: Ogni tanto. Mia figlia appunto per l’ospedale che ci è andata su, diverse volte ho detto: “Vengo su anch’io magari in giro”. Ma non è neanche più l’ombra di quella triste cosa. Guardi che era brutto, perché…

D: Non Vi andrebbe di raccontare la vostra storia a degli studenti?

R: Quali studenti?

D: Ragazzi delle scuole medie o delle medie superiori. Di Bolzano e di Merano. Italiani o tedeschi.

R: Io non ho niente, assolutamente niente in contrario.

D: Raccontare la Vostra storia come ce l’avete raccontata a noi?

R: Certo, perché no? Io ho visto una cosa molto simpatica che mi ha fatto impressione, vedere dei ragazzi giovani che uno parla italiano, l’altro risponde correttamente in tedesco o viceversa, senza problemi. Io sono un internazionalista, sono cittadino del mondo io, a me piace la libertà. Quando ricordo che fuori per le squadre magari ci fermavano in centro…

R: Dicevo che passeggiando era normale che venissero dei bambini e vedevano queste bestie rare vestite con la tuta. Mi ricordo uno che veniva: “Bist du ein Zigeuner?”, “Sei uno zingaro?” Perché eravamo confusi come degli zingari, come della sottospecie. Guarda caso, magari con me c’era il professor Ferrari, però eravamo ridotti in quelle condizioni.

Un’altra cosa che mi ha fatto molto dispiacere, una volta a Bolzano, c’era la Lancia a Bolzano, sì, lo stabilimento della Lancia, erano tutti italiani. Quando passavano le squadre c’era dietro qualche angolo qualcuno con dei pezzi di pane che cercava di darci un pezzo di pane, perché era fame. Vedere magari una bella signora molto elegante avvicinarsi, buttarlo per terra e schiacciarlo sotto i piedi. Questo è capitato anche a me. Non è bello questo.

D: Cioè gli operai vi davano…?

R: Certo, se potevano. Qualcuno cercava di dare un pezzo di pane a questi prigionieri che passavano al mattino e poi scappavano via, perché era proibito avvicinarsi. Mi ricordo di questa donna molto fine, si è avvicinata, avevo il pane così in mano, me l’ha buttato per terra e schiacciato sotto i piedi.

Questo non deve essere una ragione per creare sette e odi, però dire che gente che c’è dappertutto. Io sono razzista perché il mondo si divide in due razze, persone per bene e persone non per bene. Non c’entra il colore della pelle. Guardi, io ho vissuto in mezzo ai sanguemisti. Meglio un negro onesto, in gamba che un ciarlatano di quelli pieni e presuntuosi nostri bianchi. E viceversa.

R: Una cosa bellissima, come siamo arrivati, un gruppo di una ventina, quindici o venti, da Bolzano che ci hanno portato a Merano, ci hanno portati tutti nelle cantine a spidocchiarci. Eravamo pieni di pidocchi e di scabbia, ecc. Per poi portarci nella caserma di Maiabassa. Ci hanno spidocchiati tutti. Sa che sollievo. Era normale che venissero fuori i pidocchi dalle maniche, che roba. Non eravamo esseri umani.

D: Vi fate un giro su a Bolzano e a Merano.

R: Volentieri.

D: Vi chiamo come testimone.

R: Sì.

D: Sai cosa sarebbe bello? Sarebbe bello… assieme all’ingegnere Bettion.

R: Di … mi ha detto?

D: No, di Belluno.

R: Anche a Belluno con la storia là di Piazza dei Martiri, ne hanno impiccato uno per ogni palo. Che vergogna.

D: Invece l’ingegnere Bettion era a Certosa Val Senales e scendeva a Giuderno anche lui alla stazione per caricare…

R: Ecco, vede.

D: Anche lui mi ha parlato di questo, però per un’altra zona. Per la zona di Merano Lei me ne parla.

R: La zona di Merano, sì, sì.

D: Bettion era anche a Maiabassa, penso. Lui andava in un castello solo, si chiama Castel di Nova, dice che portavano dei tappeti e loro dovevano trasportare questi rotoli di tappeti dentro al castello.

R: Sì, sì.

D: L’abbiamo trovato questo castello, abbiamo fatto un giro con l’ingegnere, un giorno un giro a Merano e poi l’abbiamo trovato. Ovviamente il nome non lo conosceva.

R: Che nome ha?

D: Castel di Nova in italiano.

R: Sì, ma mi pare di saperlo che aveva tutti i tappeti dentro.

D: Lui dice che lì portavano i rotoli di tappeti.

R: Perbacco.

D: Lui dice che questo castello…

R: Ingegner Bettion, non lo ricordo.

D: Tullio Bettion si chiama, ma lui è scappato a marzo del ’45, è scappato dal campo di Certosa Val Senales.

R: Ce l’ha fatta?

D: In due sono scappati.

R: Querincig, anche lui è scappato.

D: E’ scappato da dove?

R: Dal treno per andare in Germania.

D: Allora lui è scappato che stava andando… E di dov’è lui?

R: Non lo so, lui era venuto a Feltre, ma non era feltrino. E’ stato catturato a Feltre. Doveva essere sloveno, da quelle parti là.

D: Quindi è arrivato a Bolzano?

R: E’ stato a Bolzano, poi tra gli imbarcati per portare…ed è riuscito a scappare dal treno.

D: Vi siete visti dopo la guerra?

R: Sì, perbacco.

R: Comunque il rastrellamento di Feltre e la deportazione di Feltrini quel 3 ottobre sono significativi perché erano tutti gruppi, pezzi di famiglia. Molti erano in due, tre, unici in quattro noi, io, un fratello e due sorelle. Gli altri due o tre, i Dallacorci, i Palminteri, ecc. Se tu guardi nella lista…

D: Sono passati con gli elenchi.

R: Uno faceva così col mitra, da una parte e dall’altra, nessuno ha mai saputo se quelli di qua vivi e gli altri morti o viceversa. Certo è che era avvenuta la divisione. Poi ho visto che quelli che erano di qua, compreso mio padre e una mia sorella, hanno aperto le porte e li hanno accompagnati fuori e siamo rimasti noi là di notte, può pensare che allegria.

D: Quando è finito tutto avete rivisto Vostro padre?

R: Io ho detto una cosa, è una cosa che sembra mostruosa, ma bisogna provare. Solo una gioia così grande si prova soltanto con un dolore così grande. Questa è la verità. Ero padrone del mondo.

D: …. E’ un professore di Verona che era già laureato in lettere e filosofia quando è stato preso, è stato mandato a Bolzano, Flossenburg, ….., è vissuto a ….. Poi è andato in Sud America a cercare fortuna, perché poi è stato anche picchiato quando è tornato a casa, non solo picchiato in campo, ma quando è uscito si è accorto che la lotta non era finita. Forse non era neanche cominciata. Poi dal Sud America è passato in Nord America e lì è stato in un’università del posto a Chicago. Adesso sono cinque o sei anni che è tornato in Italia. E’ a Verona.

R: E’ così. Tredici anni sono stato io in Venezuela. Dal ’47 al ’60. Siamo stati fra i fondatori della Casa d’Italia ai tempi a Caracas, poi ha portato un angolo di cultura musicale. Facevo le trasmissioni alla radio nazionale della presentazione della musica italiana tutte le domeniche al pomeriggio, la presentazione delle opere, della musica classica. Lo facevo per hobby così mi divertivo un mondo. Senso di libertà. Io sono nato e cresciuto in un ambiente musicale per la verità, quindi questo ha contribuito. Tintinnio e musica.

D: Anche Vittore, Vittore poi è un pittore. Poi si è innamorato, Vittore quando racconta la sua storia, viene con noi nelle scuole a raccontare la sua testimonianza…

R: C’era una certa Marianne Menius e una certa… due tedesche di Ulma, prigioniere, giovani. Anche zingari c’erano.

D: A Merano anche gli zingari?

R: A Merano no.

D: A Bolzano?

R: Sì, a Merano sì, c’era la Maria Ferrari si chiamava che era zingara, sì.

D: Che triangolo aveva?

R: Come il nostro, italiana.

D: Rosso?

R: Rosso.

D: E queste due tedesche?

R: Monica Cloz e Marianne Menius si chiamavano. Non sono mai riuscito a sapere cosa facessero là, avevo sempre paura che fossero spie dentro. Poi scarcerate, sparite, così. Di Ulma.

D: Lavoravano come voi?

R: Sì.

D: Prigioniere?

R: Prigioniere. Io credo che probabilmente avevano seguito qualche militare ai tempi e le hanno prese e messe dentro. Probabilmente erano fidanzate di qualche italiano prima, forse è successo questo. Là non guardavano in faccia a nessuno.

Le zingare, la Maria e sua sorella. C’era la cosa strana, proprio gli ultimi giorni un certo maresciallo Kek che era un archeologo della SS, era una persona coltissima, uno specialista in scavi, nel Nord Africa era stato. Maresciallo Kek. Aveva un certo cuore, almeno con me mi chiamava: “Renato, Spezialist, komm”.

Cosa strane, non era di quelli che si sparavano dentro le serrature, erano gli altri disgraziati. Questo maresciallo Kek una volta mi ha detto: “Renato, vieni che andiamo a caricare della roba là”. Poi mi ha portato all’ospedale, “Andiamo a trovare Maria”, era questa zingara che stava morendo. Un gesto di umanità di questo maresciallo della SS.

D: Questo a Merano?

R: A Merano.

D: All’ospedale c’era una zingara deportata?

R: Deportata che stava per morire, però mentre a Bolzano l’avrebbero lasciata morire nella baracca, a Merano l’hanno fatta ricoverare e sono andato a salutare Maria che era tubercolosa.

D: Di dov’era questa?

R: Non lo so, so che si chiamava Maria, Ferrari di cognome. Parlava italiano, so che era zingara. Siccome questo maresciallo Kek era tubercoloso, allora non c’era ancora la penicillina né antibiotici… Guarda come saltano fuori tutti questi ricordi. Incredibile

Ratti Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

Io mi chiamo Angelo Ratti. Sono nato a Cernusco sul Naviglio il 2-5-1926. Sono stato arrestato il 12 dicembre 1943. Il 18 dicembre esattamente.

D: Dove sei stato arrestato?

R: Siamo arrestati a Cernusco.

D: Da chi?

R: Siamo arrestati dalle SS.

D: Italiane o germaniche?

R: C’erano gli italiani e i tedeschi perché, diciamo, che la scoperta di quello che stavamo facendo noi è stata fatta da quelli della Muti che nel motivo dell’arresto che noi eravamo sei studenti e dopo il coprifuoco noi andavamo fuori a strappare i manifesti fascisti. Uno di questi della Muti ha individuato uno di noi e una mattina l’hanno preso e lo hanno portato in una caserma e l’hanno fatto parlare. Questo è stato costretto a parlare e ha dovuto dare i nomi. Il 18 dicembre del ’43 arrivano a Cernusco un camioncino di SS con dei fascisti che erano quelli che sapevano gli indirizzi di tutti noi e ad uno a uno ci hanno preso tutti.

D: Tu eri in casa?

R: Io ero in casa. Di lì quando ci hanno preso tutti ci hanno portato nella caserma dei carabinieri di Cernusco e c’era un furgone. Ci hanno messo su e ci hanno portato a San Vittore, quella sera stessa lì. Il 18 dicembre del ’43 è stata la sera che hanno ucciso Resega a Milano, il famoso federale, quindi non ti dico che atmosfera appena entrati a San Vittore. C’erano questi qui della Muti che picchiavano, urlavano, quindi è stata una serata indescrivibile dallo spavento, perché noi avevamo diciassette anni, diciassette e mezzo, diciotto, il più anziano aveva ventuno anni e lì ci buttano nelle celle, isolati. Siamo rimasti lì per quaranta giorni isolati. Abbiamo subito un interrogatorio in viale Monte Rosa, però, devo dire che ci hanno spaventati, nel senso che durante l’interrogatorio avevano in mano la pistola per dire “Vi facciamo fuori, eccetera, eccetera”; però non ci hanno picchiati. Dopo di questo interrogatorio ci hanno riportati a San Vittore e ognuno nelle sue celle. Arriva il 3 marzo del ’44; si sentivano già le voci di una spedizione in Germania, però noi non sapevamo dove si doveva andare e dove si doveva finire. Alla sera verso le undici e mezza, mezzanotte, in ogni cella arriva la guardia carceraria con uno della Muti che andava a prelevare il detenuto, chiamiamolo così, e li portavano giù nel sotterraneo. Insomma, alla fine eravamo un gruppo di cento. Ci hanno caricato su questo camion e qualcheduno è riuscito a scrivere dei bigliettini buttarli giù, dicendo: “Siamo qui, destinazione ignota, eccetera”. Qualcheduno è riuscito a trovare dei biglietti e a recapitarli poi ai genitori. Questo però l’abbiamo saputo dopo la liberazione, quando siamo rientrati in Italia. Va beh di lì ci portano alla stazione Centrale, sotterraneo. Erano circa le 5 del mattino ed eravamo in cento. Cinquanta per vagone. Naturalmente il vagone non era completamente libero, c’erano dei cassoni delle SS. Non so cosa avevano dentro, probabilmente delle cose che portavano via dall’Italia, probabilmente quadri, non lo so, cose di un certo valore. Di conseguenza il vagone per un quarto era ristretto, quindi noi eravamo costretti a stare in piedi perché non c’era la possibilità di stare seduti oppure facevamo dei turni. E arriviamo alla sera circa alle 20 a Innsbruck. E ci portano in una località chiamata Reichenau. che credo che sia una periferia di Innsbruck e lì c’era un campo strano. Ci portano lì. Ci mettono dentro, anche lì, in due baracche chiuse. Cinquanta da una parte, cinquanta dall’altra, però anche lì eravamo stretti, non c’era la possibilità di sdraiarsi. E facevamo dei turni. Prova ne sia che noi eravamo i più giovani di questa deportazione qui. Non c’era posto da dormire e qualcheduno di noi, per esempio il mio amico Camerani, è andato a dormire sulle travi della baracca per lasciare il posto agli altri. E lì siamo stati chiusi circa otto giorni. Quindi immaginate chiusi senza una finestra. Bisognava fare i bisogni in un mastello di legno. Ti portavano da mangiare una volta al giorno. E quando ti portavano da mangiare, la prima cosa era di portare fuori questi bidoni di… puzze, eccetera, eccetera. Naturalmente siccome era pieno, uno si sporcava anche le mani ma non è che c’era la possibilità di lavarsi. Quindi bisognava ritornare in baracca e stare lì. Qualcheduno cominciava un po’ a… c’era qualche anziano che cominciava a disperarsi. Passano otto giorni e di mattina del 13 marzo del ’44, sempre alla mattina al buio, verso le quattro e mezza, cinque, ci caricano su un treno, carrozza vagone bestiame, destinazione ignota sempre anche lì. Noi non sappiamo dove andiamo. Arriviamo verso le 19 di sera, mi ricordo che era una serata triste, pioveva. Stazione Mauthausen. E cos’è questo Mauthausen? Con noi c’era un anziano che nel ’15-’18 era stato prigioniero a Mauthausen. Però non era quello il campo, era un altro. Però, si è ricordato. Ma dice “Ma questo qui, io ci sono già stato”. E mi ricordo che questo qui era un ex-comunista, cioè un ex-comunista, era un attivista del partito comunista e aveva il tatuaggio di falce e martello sul braccio. Era proprio un comunista convinto, un combattente, un antifascista al 100%. Arriviamo a questa stazione di Mauthausen. Un buio, un silenzio, quando arriviamo. Ad un certo punto ci scaricano e allora sentiamo i cani che gridano, le SS che con il frustino … “Fate presto, incolonnatevi, state zitti”. E i cani che abbaiavano. Ci incolonnano a cinque per cinque. E dalla stazione ad arrivare su al campo erano circa quattro chilometri. E arriviamo alla sera circa… siamo arrivati alle 19, saremo arrivati su circa alle otto e mezza, nove, di sera. E lì, prima di arrivare, vediamo una muraglia, una cosa, “Ma cos’è questa cosa?”, impressionante. Queste mura, nere, di pietra, scure. Era un’ossessione. “Ma dove andiamo?” Alla fine ci fanno salire e vediamo l’entrata, con le croci. Una cosa spaventosa. Aprono il portone e ci mettono appena dentro e ci lasciano lì. Ed eravamo sempre cento. Con noi c’era un anziano che aveva una gamba di legno e poi c’era un tenente degli alpini, che era stato con i partigiani, che l’hanno preso. Come hanno fatto a saperlo i tedeschi non si sa. Questo aveva la scabbia. A un certo momento ci mettono lì in fila. Via, lasciate giù tutti i vostri vestiti, anelli, orologi. E tirano fuori questi due qui. Non so dove sono andati a finire in quel momento. Comunque questo è stato uno dei momenti della, diciamo, della umiliazione che può avere un uomo, cioè nudi, completamente. E ci buttano sotto un sotterraneo dove c’erano gente strana in quel momento, vestiti con delle divise a righe, conciati, però anche abbastanza, in quel momento cattivi perché noi eravamo italiani e quelli erano i famosi Friseurs, cioè i barbieri, quelli che tagliavano i capelli, i peli, insomma, ti rasavano completamente. “Ah, siete italiani, siete dei fascisti”. Gli spagnoli con gli italiani non è che avevano molta simpatia perché ricordiamoci che i nostri italiani sono andati ad affiancare il Franco. Questi qui, però, erano oppositori di Franco e hanno combattuto contro Franco. Franco ha vinto, diciamo, la guerra in quel momento di Spagna e sono stati costretti a scappare in Francia. La Francia è stata presa dai tedeschi. I tedeschi hanno preso questi spagnoli e sono stati i primi, cioè nel ’42 gli spagnoli, ’41, erano già a Mauthausen. Vi voglio ricordare che Mauthausen è stato aperto nel 1938 e i primi detenuti erano gli oppositori di Hitler erano la maggior parte tedeschi ed austriaci. E il campo ha cominciato a funzionare con questa gente qui. Inoltre per riorganizzare il campo cosa hanno fatto i tedeschi? Hanno preso la maggior parte dei detenuti criminali comuni, li hanno levati dalle galere e li hanno messi lì ad organizzare il campo e a fare il Kapò. Di conseguenza il campo lo avevano in mano loro. Beh, torniamo diciamo a questa rasatura. “Ah, siete italiani, siete fascisti”. Dico: “No, non siamo fascisti. Abbiamo combattuto. Siamo contro”. “Allora siete Badoglio”. Quindi, se eri fascista non andava bene; se eri Badoglio non andava bene perché c’erano anche i russi lì. Insomma, di conseguenza ci hanno trattato un po’ male questi spagnoli qui. Finito questo tipo di disinfezione ci portano in un’altra camera e lì vediamo un mucchio di vestiti, di abiti a strisce grigie, blu; con degli zoccoli, uno a destra, uno a sinistra. E ci dicono “Prendete una giacca, un paio di zoccoli, pantaloni e una camicia e una mutandona lunga”. E lì era un problema perché lì bisognava fare in fretta e non è che c’erano le misure, quello che capitava, capitava. Insomma, non ti dico che ad un certo punto ci siamo guardati in faccia, uno lo vedevi con lo zoccolo di destra più lungo di quello di sinistra, oppure due destre. E cominciava già il tormento. E di lì ci portano su e ci fanno attraversare la piazza dell’appello del campo, e ci portano in una zona di quarantena. La quarantena cos’era? Erano dei blocchi dove i primi arrivati li mettevano lì in attesa che in un secondo tempo i campi dove avevano bisogno di manodopera li prelevavano e li mandavano a destinazione. Il primo impatto. Arriviamo lì, a uno a uno “Come ti chiami?” nome, cognome, eccetera. “Ecco, da questo momento tu non sei più Ratti Angelo. Il tuo nome è questo”. E mi danno una targhetta. Il mio passaporto. La mia carta d’identità. 57616. Loro naturalmente lo dicono in tedesco. Questo numero qui era la cosa più importante perché quando ti chiamavano, ti chiamavano per il numero. Se non rispondevi, erano botte. Di conseguenza io ho avuto la fortuna di avere sempre con me un carissimo amico che poi è morto che lui è stato, ha fatto la campagna russa, era un sottotenente, è ritornato dalla Russia, ha fatto un po’ il partigiano, l’hanno preso. Però questo sapeva benissimo il tedesco e di conseguenza con lui, mi aiutava a parlare, “Guarda che questo numero te lo devi memorizzare”. Era un po’ più anziano di me, però era un po’ il fratello maggiore e mi ha aiutato in parecchie cose. Allora, dopo averci dato questo numero di matricola ci danno un ago e un filo per cinque. Sempre le cose per cinque. Ci danno questo numero di targa. Sul numero di targa c’era scritto il tuo numero, uno che andava sulla giacca a sinistra, e sulla coscia sinistra. Bisognava cucirlo e, cavolo, io non so cosa voleva dire cucire. E’ una cosa… come faccio? Però questo mio amico Franco, lui ha fatto il militare “Ci penso io, vieni qua che ti faccio” E ci ha messo, diciamo, il nome. Di conseguenza però prima di darti volevano sapere la professione, eccetera, ti guardavano le mani, se avevi i calli, se avevi le belle mani. E lì cominciavano a fare delle selezioni. Chi aveva le mani grosse aveva un certo tipo di lavoro. Il laureato che aveva le belle manine era destinato ad altre destinazioni. Lì ci buttano in quarantena. E c’è ancora adesso, si chiama Campo due. Però ai tempi che siamo stati noi lì, il campo della quarantena era alla baracca 16. La baracca 16, come tutte le altre, era divisa in due, blocco A e blocco B. e ci buttano dentro. E lì entriamo e vediamo questa gente strana, spaventata. La maggior parte erano dei russi e c’erano anche dei bambini. Tutti stravolti. Ed erano già come le sardine a dormire; abbiamo capito che avevano fame e volevano da mangiare. Ma avevamo lasciato quel poco pane che avevamo all’entrata del campo. e lì bisognava entrare per dormire. Insomma non ce la facevamo. Alla fine il Kapò ha incominciato, col tubo di gomma, a picchiare a picchiare finché siamo riusciti ad entrare. Magari avevi i piedi in bocca dell’altro. E abbiamo cercato di dormire. Era un dormire per modo di dire. Poi avevi il gomito dell’altro e il piede che picchiava. Era una tortura che andare… non c’era bisogno delle botte.

D: Scusa Angelo, oltre al numero ti hanno dato anche il triangolo?

R: Sì, il numero era già, se vuoi adesso ti faccio vedere. C’era una striscia di stoffa. Triangolo rosso con dentro IT, che voleva dire italiano. Cioè noi avevamo IT, i russi avevano UR, i francesi avevano la F, i polacchi avevano la P. Allora, triangolo rosso, IT, e il numero di matricola. Questo sempre sul petto e sulla coscia sinistra.

E alla mattina arriva il Kapò … e lì continua a gridare. Ma cosa c’è da gridare? E con questo bastone ci picchiano e ci buttano fuori. Alla mattina alle cinque fuori in un cortiletto tra la parete della baracca e il muro dove poi c’erano i fili di alta tensione per evitare che qualcheduno potesse evadere. Una cosa impossibile. Poi ne riparleremo di un’evasione che hanno fatto i russi. E lì ci buttano fuori. Un freddo cane. Per scaldarci cominciamo uno a mettersi vicino all’altro, con la schiena, farsi i massaggi. Poi arriva una specie di caffè. Arriva il Kapò. Ci chiama tutti e ci dà delle scodelle e ci dà circa un mezzo litro di, noi lo chiamavamo caffè ma chissà cos’era; era una cosa impossibile. Dopo del caffè, arriva l’appello. C’è l’appello, ci mettono sempre in fila a cinque a cinque e aspettiamo lì in piedi che arriva il guardiano delle SS. Ci hanno detto “Mettete su il berretto. Quando entra la SS, il kapò dice “Giù il cappello”, cioè a un dato momento dicevano: “Cappello giù, cappello su”. Allora il capo-baracca, che era diciamo il contabile di chi entrava e chi usciva e gli dà il numero dei detenuti della baracca. Questo qui glielo dice in tedesco e poi fanno il conteggio per vedere se effettivamente da quello che gli ha detto era giusto. Capitava magari che l’appello durava anche mezz’ora, ed era una meraviglia. E capitava invece che chissà perché ti lasciavano lì due o tre ore, all’appello, sempre in piedi. E arriva. Beh, finito l’appello ci lasciano sempre in quel cortile lì perché era un cortiletto piccolino. Eravamo cinquanta di qui, cinquanta di là noi italiani e in più c’erano anche i russi. Quindi eravamo già circa un quattrocento persone in quel raggio lì. A mezzogiorno dicono che arriva la zuppa. Allora arrivano due detenuti con delle… e queste facce qui, strane, con queste divise. Nessuno sorrideva. Avevano tutti una faccia strana, spaventati. E ci portano questi.. li chiamavano bidoni di zuppa. E viene fuori un Kapò che era addetto a distribuire la zuppa. Naturalmente a uno a uno in fila ci danno questa Miska e andiamo a prendere. Senza il cucchiaio. Non c’era il cucchiaio. Appena che te la metti in bocca, una cosa terribile. Noi avevamo ancora delle riserve da San Vittore, dall’Italia, quindi non eravamo proprio dei morti di fame e allora questi russi qui che già erano prigionieri da parecchio tempo venivano lì: “Italiano, italiano”. E gli davamo la zuppa a questi russi e polacchi. E però vedere questa gente che mangiava con la Miska in mano, come i cani. Poi dopo con il dito a prendere il fondo. “Ma dove siamo arrivati? Questi qui sono proprio morti di fame. E’ possibile che mangino in quella maniera lì”. Ad un certo punto dico: “Ma sono proprio degli incivili. Come si fa?” La giornata praticamente era quasi finita. La sera sempre la stessa storia. Nella baracca, parte nella Stube A e parte nella Stube B. Allora il Kapò si presenta nella nostra Stube e dice: “Fate attenzione che quando dovete andare a fare i vostri bisogni, assolutamente silenzio, non dovete farvi sentire perché se il capo-blocco sente un rumore sono venticinque legnate che prendete. Naturalmente quando veniva il Kapò a parlare veniva fuori l’interprete italiano. E noi, combinazione, avevamo il Franco Ferrante, un magistrato anche lui deportato a Mauthausen nello stesso trasporto, poi lui è andato a finire a Ebensee. Comunque, in ogni baracca c’era sempre l’interprete, o che era italiano per gli italiani, russo per i russi. Quando dovevi alzarti e andare a fare il tuo bisogno, era un problema perché dovevi passare sulla testa di uno, sulla pancia dell’altro ed era impossibile anche non fare rumori. Insomma, sono cose abbastanza… Alla mattina arriva una SS. Dentro alla nostra baracca c’erano degli ebrei. Allora tutti contro la baracca, contro le pareti della baracca, e questi cinque, sei ebrei in mezzo alla baracca. E lì vediamo questa SS che ride, scherza, e fa sdraiare questi ebrei e gli fa fare quella famosa ginnastica che noi l’abbiamo fatta anche a San Vittore con il maresciallo, che era il comandante di San Vittore. Allora, bisognava camminare con i gomiti e la punta dei piedi, avanti e indietro. La SS controllava che se uno cedeva, lui aveva il suo frustino e frustava. Da quel momento lì noi, dico “Ma noi dove siamo arrivati?” impauriti e vedendo queste cose qui dico “Ma dove siamo?” mi facevo la domanda. Però nessuno parlava. E questa cosa qui succedeva ogni due o tre giorni. Ogni due o tre giorni capitava il fatto che la mattina entrava la SS e pigliava qualcheduno e si divertiva a picchiare i prigionieri. Ogni tanto, lì era quarantena, alla mattina arrivava uno della SS e chiedeva allo Schreiber che aveva bisogno di cinque, sei uomini. A me è capitato tre volte, sfortunatamente. “Fuori andate a lavorare”. A lavorare ci mandavano alla cava. Alla cava di Mauthausen è stato un cimitero per i detenuti. C’era una scalinata di 149 gradini. Uno sconnesso, non erano tutti uguali. Ci portavano giù in questa cava e ci davano una pietra da portare. Dalla cava bisognava fare questi gradini, attraversare tutto l’esterno del campo, lasciare giù la pietra perché dovevano costruire delle mura e fare un altro campo, cioè il campo due. Poi ritornare. Questa era veramente una cosa paurosa. Quando te salivi questa scala, il Kapò che picchiava, il cane che ti abbaiava, se combinazione uno doveva cadere, ne cadeva uno ma ne cadevano altri dieci. Quindi era una tragedia questa, che poi fu chiamata la scala della morte dove sono morti parecchi prigionieri. Adesso arriviamo alla partenza, perché Mauthausen era un campo di smistamento dove…

D: Prima della partenza scusa Angelo, tu con i tuoi amici di Cernusco che siete stati arrestati lì a Mauthausen eravate ancora assieme?

R: Eravamo ancora assieme. Sì, però, combinazione tre in un blocco. Blocco A e blocco B. Comunque eravamo sempre insieme.

Alla mattina del giorno di Pasqua che era il, mi pare circa il 15 aprile, circa settanta del nostro trasporto vengono chiamati per una destinazione, diciamola ignota, però era una destinazione di un campo di lavoro. E questi partono. E poi abbiamo saputo che dove sono andati si chiamava campo di Ebensee, ed era uno dei sottocampi di Mauthausen, perché Mauthausen aveva quarantanove sottocampi. E praticamente settanta sono partiti e siamo rimasti in trenta. E di questi trenta qui noi eravamo un po’ delusi… “Perché non siamo andati con loro, perché loro sono andati e noi siamo qui? Non era meglio che andavamo tutti insieme?” e lì cominciava la tristezza. “Noi qui cosa faremo?” comunque sia loro sono partiti e non ci siamo più rivisti. Con qualcheduno che è ritornato ci siamo rivisti dopo la liberazione a Milano; a Milano o in altri paesi. Dopo una settimana arriva il nostro turno e mi ricordo che quella partenza lì da Mauthausen eravamo circa duemila, duemila prigionieri di Mauthausen tirati fuori dalla quarantena pronti per andare in un altro campo però, il campo era più vicino e si chiamava Gusen. Era a circa otto chilometri da Mauthausen e a piedi ci fanno attraversare il campo, si esce dal campo, si scende e si arriva a Gusen. Ed eravamo circa duemila, sempre attraverso la strada che abbiamo fatto… e lì cominciamo a vedere un campo strano anche quello. A Mauthausen le baracche avevano un senso quasi di pulizia, tenuto bene, no? Lì invece una cosa obbrobriosa, scura, nera, le cose basse. Era una cosa più spaventosa, più rudimentale. Ci buttano lì. Anche lì, destinazione, chi in una baracca, chi in un’altra. E andiamo sempre a finire parte in una baracca, parte in un’altra; però alla mattina successiva c’è già il posto di lavoro. E da Gusen 1 si andava a costruire Gusen 2. questo era verso la fine di aprile. Si andava alla mattina e si ritornava la sera. C’è un particolare: a Mauthausen la sveglia era alle cinque del mattino. A Gusen 1, era alle quattro e mezza. Non si sa il perché. E lì andiamo a costruire il campo di Gusen. Era già quasi fatto perché avevano già cominciato i polacchi, eccetera, eccetera. Però non era ancora funzionale. Diciamo che erano gli ultimi lavori di rifinitura alle baracche, i gabinetti, eccetera, eccetera. E lì una sera io non lo conoscevo, con noi c’era un certo professor Carpi, e poi mi è venuto in mente era il preside di Brera ed era già anziano ed era in fondo al gruppo e ad un certo momento questo professore cade per terra perché non ce la faceva più. Allora io e il mio amico Franco, quello famoso di cui parlavo prima, e un altro che non ricordo il nome “E guarda qui il prufessur”, in dialetto, “è caduto per terra, andiamo a prenderlo perché questo qui non ce la fa”. E sottobraccio lo portiamo al campo, al rientro al campo, perché lì si andava solo a lavorare. Nel rientrare lì c’era un Kapò polacco e gli abbiamo detto, perché quel mio amico qui parlava il tedesco, il polacco parlava il tedesco, “Guarda che questo è un pittore di grido, non c’è la possibilità di sistemarlo perché non ce la fa più”. Combinazione, lì a Gusen 1 c’era un sergente maggiore delle SS, adesso non ricordo il nome esattamente, ed era di padre austriaco e di madre italiana e parlava perfettamente l’italiano ed era un amante della pittura. Quando ha saputo che c’era questo professore Carpi, naturalmente il polacco per farsi vedere bello dice “Guarda che c’è”. Allora questo qua va da Carpi e lo sistema. Però lui cosa doveva fare? Faceva i quadri delle sue amanti. Li dipingeva e faceva tutte le cose che gli ordinava. Di conseguenza lui, o bene o male, la vita del campo non l’ha conosciuta. Lui aveva una baracchina. Stava lì. Aveva qualche cosetta in più da mangiare rispetto agli altri. E se l’è cavata così. Arriva però, questa è una parentesi anche per citare il nome di Aldo Carpi, arriva però il giorno di andare a Gusen 2. Era il 7 maggio del ’44 e la solita storia. Il campo era vicinissima a circa cinquecento, seicento metri. Si attraversava un campo di patate e si entrava. E questo campo qui aveva solo due baracche, però sempre la baracca era grandissima. Stube A e Stube B, numero 1 e numero 2, 3 e 4. C’erano solo due baracche. Dietro alle baracche c’erano le latrine. Chissà perché con più si cambiava con più si peggiorava. Gusen 2, la sveglia non era alle quattro e mezza ma alle quattro. Cioè a Mauthausen alle cinque; a Gusen 1 alle quattro e mezza e lì alle quattro. E le latrine erano una cosa veramente puzzolente per dire profumo, no? Praticamente era una buca con una traversa di legno e lì ognuno faceva i bisogni. La differenza è questa, che se te ci stavi cinque minuti in più, c’era il Kapò con la gomma in mano e ti picchiava, ma maledettamente. Se poi se ne accorgeva che uno aveva la dissenteria, allora erano veramente dei momenti… ti picchiava e tanti li buttava nel… di fuori c’era una botte, li buttava dentro lì. Un mio amico, partendo da Milano anche lui nello stesso trasporto, è morto nella botte. Si chiamava Tufin. Partito anche lui da San Vittore con me. Morto lì nella… questo l’ho visto io con i miei occhi. E anche lì la cosa comincia a diventare dura. Però, adesso devo dire una cosa, che per esempio, noi che eravamo giovani eravamo un po’ incoscienti anche. Forse è stata un po’ la nostra fortuna. Incoscienti perché? Perché non si vedeva il pericolo, cioè una persona di una certa età vede il pericolo, non rischia. Noi giovani che eravamo abbastanza numerosi, si rischiava di più. E il morale era più alto del papà che aveva a casa la famiglia, i figli, eccetera. Io non ho mai pensato a casa, all’Italia, ai genitori. Dico: “Io di qui ne voglio venire fuori. Non mi interessa cosa succede in Italia, quello che succede a casa mia. Sicuramente, male che stiano, stanno sempre meglio di noi. Quindi devo cercare di combattere e di venirne fuori”. Allora, questo lo abbiamo saputo dai comitati antifascisti, perché nel campo c’erano i comitati antifascisti, per esempio russi, spagnoli; sapevano l’andamento di come andava la guerra, eccetera. Allora, il Gusen 2, il motivo per cui deve nascere Gusen 2, l’apertura di Gusen 2 fu nel 6 maggio del ’44. Allora, su ordine di Hitler presi Speer, che era il Ministro degli armamenti e dissi “Qui bisogna prendere le nostre fabbriche e cercare di metterle ai ripari perché stanno bombardando tutte le nostre industrie”. Speer era il Ministro degli armamenti, era uomo di fiducia di Hitler. Hanno scoperto St Georgen. E praticamente lì c’era la collina, qui bisogna fare dei tunnel e salvare le industrie perché i bombardamenti nelle grandi città sfasciano tutta l’industria. Allora il progetto era già pronto. Speer era lui che aveva fatto questo progetto su idea di Hitler e scoprono questa montagna e il motivo qual’era? Scavare la montagna e tutte le officine della Messerschmitt e della Stayer dovevano andare lì sotto per continuare l’industria bellica, eccetera. Allora, queste gallerie che dovevano fare erano nella località di St Georgen, era una collina. Noi quando arriviamo a Gusen 2, il lavoro era perforare la montagna. Perforare la montagna perché una volta terminata, in questa montagna qui andavano sotto le officine della Messerschmitt e della Stayer; cioè la Messerschmitt faceva le carlinghe dei Messerschmitt e la Stayer, piston-machine, eccetera. La galleria era nove metri di altezza e undici metri di base, perché lì dovevano passare macchinari. Insomma, nel giro di quindici mesi sono stati fatti diciassette chilometri di tunnel. Terminati. Allora, non vi dico le tragedie in queste gallerie perché bisognava perforare a mano questo materiale. A mano nel senso che c’era la chiamavano bora, un martello pneumatico con delle punte, che io dopo ve la farò vedere, e bisognava perforare questa montagna.

D: Ecco, Angelo, scusa. Voi da Gusen 2 raggiungevate St Georgen, come?

R: Con un treno, cioè erano dei vagoni scoperti. Era un tragitto di circa quattro chilometri. C’era un giro strano da fare, però si arrivava lì.

D: Ecco, vi caricavano lì vicino al campo di Gusen?

R: Nel campo di Gusen 2 entrava il treno e ognuno doveva salire su questi vagoni qui. E a distanza di circa quattro, cinque kilometri in linea d’aria non era distante ma bisognava fare un giro strano per arrivare al posto di lavoro. E naturalmente questi treni qui erano scoperti. Pioveva, non pioveva, non c’era problema per loro. Il problema era sempre nostro. Arrivavi la mattina bagnato. Ritornavi la sera bagnato. E non c’era possibilità di asciugarsi.

D: Ecco, una volta arrivati St Georgen, raggiungevate questa zona per fare gli scavi, eravate organizzati in squadre?

RISPOSTA: In squadre. Allora, si partiva col treno da Gusen 2 e c’era un tragitto di circa quattro, cinque chilometri, però in linea d’aria non erano quattro o cinque chilometri; in linea d’aria saranno stati un chilometro, un chilometro e mezzo. Si arrivava lì c’era una specie di scivolo e ci buttavano giù. Ognuno doveva trovare la propria squadra perché se sbagliavi erano veramente dei dolori, cioè ognuno doveva trovarsi in un dato punto con la stessa squadra. Quando tutto era organizzato si entrava in questo campo di lavoro, che praticamente erano le gallerie dove venivano fatte, dove c’erano le officine della Messeschmitt e della Stayer.

D: Tu eri addetto agli scavi?

R: Io ero addetto agli scavi.

D: Ecco, com’è che avveniva, parlavi prima del martello pneumatico, ma andava ad aria compressa?

R: Andava ad aria compressa. Io qui ho una punta che l’ho portata a casa. E questo materiale qui era anche friabile, abbastanza no, quindi bisognava stare attento perché ogni tanto c’erano delle vene, delle crepe che crollavano. Quindi era un lavoro anche pericoloso.

D: Ecco, poi il materiale che voi scavavate veniva caricato.

R: Il materiale veniva caricato su dei vagoncini, portati all’esterno della galleria, circa quasi ad un mezzo chilometro fuori dalle gallerie. E il comando lì si chiamava Libenaua, il comando che prendeva il materiale e lo portava fuori. E lì bisognava spianarlo, tanto è vero che dopo la guerra hanno trovato una montagna di questo materiale qui perché scavando diciassette chilometri di montagna figuriamoci. Ed era lì nelle vicinanze della stazione di St Georgen.

D: Ecco, scusa tu ti ricordi, oltre ai vagoncini, nelle gallerie c’erano anche dei nastri trasportatori?

R: Sì. Dopo, in un secondo tempo, siccome con il vagoncino si impiegava troppo tempo, hanno inventato i nastri trasportatori. Il materiale appena veniva perforato, sciolto, si buttava su questi nastri trasportatori e usciva fuori dalla galleria e lì c’erano dei vagoni che li portavano direttamente a smistare, che poi alla fine è diventata una montagna quella roba lì.

D: Il turno di lavoro di quante ore era?

R: Il turno di lavoro era dodici ore e dodici ore.

D: Cioè?

R: Dalle sei del mattino alle sei di sera. L’altro turno, dalle sei di sera alle sei di mattina.

D: Ecco, chiamiamolo il pasto a mezzogiorno, dove lo consumavate?

R: Sul posto di lavoro, cioè ci chiamavano fuori. Ogni comando veniva chiamato fuori dalla galleria. Loro sapevano che c’era un comando, ipotesi ti faccio un nome “Petsgruppe”, dove era il mio comando, eravamo quasi duemila, e lì c’era da mangiare per duemila. C’era circa un’ora di pausa. Ti davano questa, che poi il cucchiaio non c’era, non esisteva, però noi o col pezzo di legno o col pezzo di alluminio si faceva il cucchiaio di nascosto e si mangiava questa zuppa con il cucchiaio fatto da noi.

D: E poi, dopo la pausa dentro ancora?

R: Dopo la pausa si tornava in galleria a lavorare.

D: Fino al termine del lavoro?

R: Fino al termine del lavoro. Noi alle sei dovevamo essere fuori e alle sei c’era già l’altro turno, che erano dodici ore di lavoro. Se ne uscivano quattromila ne entravano quattromila. Di conseguenza il lavoro era continuato, ventiquattro ore su ventiquattro.

D: Quando terminavate il lavoro riprendevate il trenino?

R: L’appello, un tormento, prima di uscire. Se c’erano dei morti bisognava metterli sulla barella. Ogni nazionalità doveva portare il suo morto perché tanti morti capitavano ogni tanto che crollavano le gallerie cioè si entrava in cinquemila bisognava uscire in cinquemila. Non interessava se ce n’erano quattromila morti. L’importante era che il numero quadrava. Cinque entrati e cinque usciti. Morti o vivi non gliene fregava niente alle SS.

D: Prendevate il trenino?

R: Prendevamo ancora il trenino lì a San Gorge e si ritornava al campo.

D: E una volta ritornati al campo cosa succedeva?

R: Una volta ritornati al campo, sempre l’appello giù dal treno. L’appello. Poi ti lasciavano nel cortile. Alle volte magari quattro o cinque appelli, non si sa il perché, fino al momento in cui distribuivano la zuppa. Però, alla sera non c’era la zuppa, c’era il pezzettino di pane che inizialmente era per tre, una specie, un chilo di pane in tre; poi in quattro, poi in cinque, poi in sei. Il problema era come dividerlo questo pane perché quando era per sei, ogni sei davano il pezzo di pane. E come si fa a dividerlo? Lì c’era sempre il marchingegno dell’uomo. Il pezzettino di lamiera a fare il coltello, tagliare il pane con due bilancini, si divideva il pane o con i russi o con i cecoslovacchi o i francesi e si pigliava un pezzo di corda, si faceva la bilancina e si guardavano proprio, si mettevano su le briciole in modo che il pane doveva essere uguale per tutti. Quando poi lo mangiavi prendevi il pezzo di carta di cemento sotto per recuperare la briciola. Quindi praticamente siamo partiti in tre, in quattro, in cinque ad arrivare a sei. Un chilo di pane in sei.

D: E oltre al pane cosa vi davano la sera?

R: Alla sera ogni tanto c’era il pezzo di margarina. La chiamavano margarina, cos’era non si sa. O se non c’era la margarina c’era un cucchiaio di marmellata, ma non di marmellata nostra, chissà cos’era, oppure il salame, che era una cosa scivolosa. Era, non so, come mettere in bocca l’anguilla viva. Comunque era sempre buono perché la fame, amico mio, era troppo arretrata. Era una cosa indescrivibile la fame che noi abbiamo sofferto perché non è ipotesi il militare al fronte che soffre la fame. Giusto, però, arrivano i rifornimenti e si riempie la pancia. Noi più di quel tanto non ti davano da mangiare. Quindi la fame era arretrata. Bere era difficile perché l’acqua era inquinata. Di conseguenza le malattie, la dissenteria era una cosa allucinante. Gente che moriva, che andava al gabinetto, perdeva… Queste cose qui ti rendevano ancora la vita ancora più disastrosa del campo…

D: Ecco, il lavoro su sette giorni, sull’arco della settimana, voi andavate a St Gorgen quando? Tutti i giorni, anche la domenica?

R: Tutti i giorni; una domenica ogni quindici c’era riposo.

D: E lì cosa facevate?

R: Stavamo nel campo. Si pigliavano i nostri vestiti. Si guardavano i pidocchi. E si cercava di ucciderli, insomma, perché eravamo pieni di pidocchi. E la nostra giornata era quella di stare lì ad uccidere i pidocchi.

D: Un’altra cosa: tu hai raccontato che quando siete arrivati a Mauthausen, la prima volta vi hanno portato al Wäscheraum c’erano i Friseurs, vi hanno tagliato i capelli, eccetera. Poi all’interno del campo il taglio dei capelli o gli uomini che avevano la barba?

R: Questa è una cosa importante che mi dici. Allora, il taglio dei capelli veniva fatto circa una volta al mese. Una volta al mese, magari ti svegliavano di notte e in più ti facevano una riga di cinque centimetri, che la chiamavano la Strasse, cioè ti rasavano, però anche lì era una tortura perché questi Friseurs qui quando ti dovevano rasare non è che limavano. Finivi la tosatura che ognuno sanguinava perché dovevano fare in fretta ed era un tortura anche tagliare i capelli.

D: E anche la barba veniva fatta?

R: Sì, veniva fatta anche la barba. Io ero giovane e la barba non ce l’avevo. Combinazione. Veniva fatta anche la barba. Figuriamoci i rasoi, per modo di dire, perché magari il rasoio veniva usato per trenta, quaranta persone. Non è che per ogni barba quello che era addetto a fare la barba stava lì a…

D: Ecco, questo circa una volta al mese veniva fatto? Capelli…

R: Capelli, e sempre la Strasse. La Strasse bisognava sempre averla, guai se non ce l’avevi.

D: Se ti ricordi, anche a Gusen questo no?

R: Sì. Ma qui siamo sempre a Gusen, Gusen 2, questo è.

D: Se ti ricordi, tu hai potuto scrivere, comunicare o ricevere dei pacchi?

R: No.

D: C’erano dei deportati invece…

R: Allora io ti posso dire una cosa. Il mio carissimo amico, quello che abbiamo fatto, diciamo, da Mauthausen siamo arrivati alla liberazione. Questo aveva fatto il partigiano, era un tenente degli alpini. Si chiamava Rigamonti Franco, che abbiamo fatto tutta la deportazione insieme. Questo per me è stato veramente più di un fratello. Combinazione lui parlava bene anche il tedesco. E tante cose si riusciva a farle. Chi non riusciva a parlare non riusciva ad ottenere diverse cose. E stavamo dicendo? Adesso mi è sfuggito.

D: Il ricevere dei pacchi o scrivere.

R: Ecco, noi italiani, pacchi niente. Pare che chi riusciva ad ottenere dei pacchi erano dei polacchi. Ma raramente. Però, venivano selezionati diciamo. La maggior parte se c’era qualcosa di buono se lo portavano via loro. Ti devo dire che il fatto dello scrivere, ecco questo mio amico qui, Franco Rigamonti, è riuscito con un Meister. Sai che nelle gallerie, nei posti di lavoro, c’erano i Meister che erano i cosiddetti lavoratori volontari, costretti, però a loro era proibito parlare con i detenuti. Lui sapeva bene il tedesco. Ha conosciuto un Meister, era un veneto, ed è riuscito tramite questo qui ad avere i contatti con i genitori. Questo ha rischiato perché diventava una cosa… ti fucilavano, non c’era niente. Eppure questo Meister qui è riuscito a mettere il contatto, dare notizie ai genitori di questo Franco Rigamonti, mio carissimo amico, e riusciva a parlare.

D: E un’altra cosa, visto che tu che conosci bene sia Gusen 1 che Gusen 2, oltre a quel trenino che dicevi che vi portava a St Gorgen, lì a Gusen 1 c’erano degli altri treni? Tu ti ricordi se c’erano altri treni? C’era una stazione?

R: Ma, guarda, io sinceramente di Gusen 1 non ti so dire niente. Mi pare che c’era un treno. Però non è che lo so… mi pare che c’era un qualche cosa, però siccome io ci sono stato poco a Gusen 1, il treno era solo Gusen 2 – St Georgen dove era questo cantiere che era il massacro delle vite umane.

D: Un’altra cosa, fra i deportati tu ti ricordi sia a Mauthausen che a Gusen 1 e Gusen 2 se hai trovato anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì. Per esempio mi ricordo don Sordo. Il fratello del dottor Sordo.

D: E questo dove te lo ricordi?

R: Questo me lo ricordo a Gusen. Però, sai, lì di persone ne conoscevi parecchie. Magari le vedevi due, tre giorni, poi non le vedevi più. Poi ne riconoscevi una. Era tutta una…ed era molto difficile. In effetti noi che siamo partiti da Mauthausen, siamo rimasti in pochi, perché morivano però arrivavano sempre i nuovi. E te quando facevi parte di un gruppo di lavoro era difficile che cambiavi e, piano piano, ti facevi la amicizie; noi abbiamo avuto delle amicizie veramente da fratelli con gli spagnoli. Gli spagnoli sono stati per noi dei salvatori perché il primo momento gli spagnoli ci maltrattavano perché dicevano “Voialtri siete dei fascisti che siete venuti in casa nostra”. E allora questi qui erano antifranchisti ed hanno dovuto scappare. L’Italia era fascista, e noi ci hanno presi per fascisti. Poi invece hanno capito quale era la posizione politica e allora ti dirò che gli spagnoli avevano, sono riusciti ad avere in mano delle cose importanti nel campo, o chi faceva il capo-blocco, o chi faceva il capogruppo di lavoro e devo dire che ci hanno anche aiutati anche parecchio. Anche perché poi come lingua eravamo abbastanza vicini, si capiva. E ti devo dire un fatto personale con uno spagnolo. Dunque, io lavoravo con un gruppo a St Georgen e il comando si chiamava Petsgruppe. Questo era uno dei gruppi che erano i primi a sfondare la montagna proprio il primo gruppo che doveva perforare la montagna. Sai che dopo la montagna finita entravano le officine della Messerschmitt. E il capogruppo di questo qui era un delinquente tedesco, un delinquente comune. Tu non sai con le labbra sottili e quando parlava che lo vedevi ti faceva paura veramente ed era un pazzo. Questo comandava duemila uomini. Duemila ne comandava. E io sono capitato proprio nel suo gruppo ed era uno che bisognava stare lontani perché era un pericolo. Era un pericolo. E io mi ricordo un giorno cosa facevo. Io portavo gli spiz. Adesso te lo faccio vedere. Io ero addetto a portare questi spiz. Che cos’erano. La punta del perforatore della montagna. Questa ormai è consumata ma era lunga quaranta, cinquanta centimetri. Poi si consumava e io dovevo fare il giro del gruppo delle gallerie, quando erano consumate, ritirarle e portarle allo Smit perché c’erano un gruppo di fabbri che facevano le nuove punte. E un giorno porto questi spiz a fare il mio giro perché dovevo essere preciso, in ogni turno dovevo fare il cambio quattro volte. Però ci voleva del tempo perché dovevo andare dal fabbro, aspettare che mi faceva la punta. Quando arrivava così, te la cambiava, però bisognava dare il pezzo vecchio. Insomma, fatto sta che un giorno io avevo la febbre. Ho la febbre e non ce la faccio più. Dovevo portare questi spiz qui a fare il giro. E gli dico al mio amico Rigamonti: “Senti io non ce la faccio più”. Allora quando perforavi la galleria, quando era finita la perforazione si faceva una intercapedine di legno e di lì entrava il bitume e poi la galleria veniva finita. Allora, quel giorno cosa succede? Io avevo la febbre e gli dico: “Franco, io non ce la faccio più. Mi butto là e vado là a riposarmi. Controlla”. Naturalmente devo dire che i polacchi erano tremendi. Devo dire che i polacchi sono stati degli eroi anche, ma la maggior parte dei polacchi ci ha fatto soffrire. Erano veramente la vergogna del campo. Cattivi. La maggior parte dei capi erano polacchi, capi-blocco erano polacchi. Ce l’avevano a morte con gli italiani. Il polacco per noi era.. dopo il tedesco, era il polacco. Veramente, guarda, una cosa. che poi i polacchi hanno lasciato tanti morti, hanno avuto degli eroi, però per noi italiani siamo stati massacrati dai polacchi perché i Kapò polacchi erano peggio dei tedeschi. Mi dispiace dirlo ma questa è la mia realtà, dove l’ho vissuta io. Allora cosa succede. Ho la febbre. Gli dico: “Senti Franco, io vado su a cercare di dormire non ce la faccio più a stare in piedi”. Sai che un polacco mi ha visto andare su ed è andato dall’Oberkapò, cioè l’Oberkapò era il delinquente comune messo lì a fare il Kapò e aveva duemila prigionieri sotto di lui, con i diversi Kapò suddivisi in diverse squadre. Ad un certo punto questo qui era uno che quando prendeva un prigioniero per qualunque ragione lui se non vedeva il sangue non era soddisfatto. Guarda che ti strappava le orecchie, non è che lo dico tanto per dire. L’ho visto io. Lui voleva vedere il sangue, altrimenti non era soddisfatto. Ad un certo momento mi sento dire “Italieno …. vieni giù”. Dico: “Orca, malora, è finita. Questo qui è il Filip, io sono finito.” Vengo giù ed è stato un polacco ad avvisare questo, perché se te facevi la spia allora stavi bene in quel comando lì. Il ruffiano veniva protetto. Io sento “Italieno, italieno”. Dico: “O porco cane, questo qui è il Filip, qui sono finito.” Allora, mi chiama giù “Tu italiano adesso ti impicco. Kaput, assieme a quei quattro là”. Là c’erano quattro impiccati perché il Kapò poteva fare qualunque roba. Te eri nelle sue mani. Se ne fregava la SS. “Questo non ha lavorato l’ho impiccato, l’ho ammazzato”. “Va bene così. Bravo”. Anzi, gli davano il premio. Allora, questo qui mi chiama “Italiano, … tu, detto in italiano, non lavorare, tu delinquente, tu sabotatore”, perché non lavoravo. Allora, mi dice: “Per adesso mettiti là col sedere per aria”. Sedere per aria, come minimo erano venticinque … lui aveva la gomma con dentro un filo di alluminio o di piombo. E mi metto là e me ne dà venticinque. E devi contarle, fino ad un certo punto che svieni e vai per terra. E ad un certo punto io grido. E arriva uno spagnolo che mi conosceva, con il quale avevo lavorato. Proprio ci conoscevamo da quando siamo partiti da Gusen 1 con questo spagnolo qui siamo sempre stati insieme. Mi sente gridare, mi riconosce, perché lui era un sottocapo di questo Oberkapò e dice “Senti questo qui lascialo stare. A te ucciderne un altro cosa te ne frega. Uccidere uno, uccidere un altro, cosa te ne frega. Dammelo a me che lo metto a posto io”. Lo ha convinto. Allora mi prende con lui, questo spagnolo. Si chiamava Cardona. Mi ricordo il nome perché ormai quelle cose lì sono memorizzate nel cervello. Sono momenti della vita in cui non te le puoi dimenticare, cioè è un salvatore di una vita umana. Allora non ti dico il mio sedere cos’era. Era un pallone nero. Viene il momento di ritornare in baracca. Allora mi dice: “Italiano, viene con me”. Ci portano sui vagoni perché il tragitto da Gusen 2 al cantiere St Georgen era di circa quattro chilometri e lo facevamo su questi vagoni scoperti. E mi mette là in un angolo per dire “Italiano, Angelo, culo, stai attento”, perché avevo il culo che era nero, e dice: “Tu domani non devi più tornare a lavorare perché Filip, il Kapò, ti fa fuori”, perché lui lo conosceva. Quello era un delinquente comune, uno dei peggiori del campo, era uno che se lui non vedeva il sangue non era soddisfatto. “Allora te domani devi cambiare comando”. Entriamo nella baracca. Va a parlare con lo Schreiber. Da quella baracca lì mi porta in un’altra baracca. Quindi, praticamente, io sono stato allontanato da quello là. Dall’altra baracca ne è venuto un altro. L’importante era che i numeri funzionavano, cioè nella baracca ce ne erano mille, devono essere mille. Quindi, lui è riuscito a farmi fare lo scambio. Quindi io sono andato in un’altra baracca e sono andato a finire in un altro gruppo di lavoro, in modo che questo non l’ho più visto, perché mi ha detto: “Se io non ti cambio, quello lì domani ti fa fuori”. Qui devo dire che gli spagnoli con l’andare del tempo sono stati dei fratelli, sono stati quelli che ci hanno aiutati, veramente.

D: E nel nuovo comando cosa facevi?

R: Nel nuovo comando andavo a spalare la sabbia fuori, che era un altro comando rispetto a questo. Cosa succedeva? Succedeva che il materiale che usciva dalla galleria veniva con dei vagoncini, li buttavano lì e diventava una montagna e di conseguenza bisognava spalarla. Lì c’era il Meister, c’era il Kapò, e facevo quel lavoro lì. Però era un lavoro che almeno non vedevo quella persona lì. Quello se non vedeva il sangue lui non era soddisfatto.

D: E, Angelo, lì una cosa è importante. Tu citavi due fabbriche, la Messerschmitt e la Stayer. Ti ricordi se c’erano altre ditte?

R: Sì, ce n’erano altre però non le ricordo. Le più grosse erano queste. Le più grosse.

D: E tu sei rimasto lì a spalare fino a quando?

R: Sono rimasto lì fino quasi alla liberazione però ti devo dire una cosa. La mia salvezza è stata l’incoscienza della giovinezza. Perché non vedevamo il pericolo, affrontavamo certe situazioni, che uno anziano non rischiava. Per esempio, quando si andava a scavare le buche e c’è ancora a St Georgen un muro dove stavamo facendo un depuratore, c’era da fare un depuratore per diecimila prigionieri perché lì non c’era niente, c’era una latrina e bisognava gettarla nei campi. Allora stavamo facendo questo depuratore qui. Era un depuratore per diecimila persone.

D: Stavi dicendo che la tua salvezza è stata … poi il depuratore…

R: Sì e poi cosa succede? Dicevo l’incoscienza della gioventù che non vedevi il pericolo. Poi sprovveduti anche, te vedevi la morte ma te ne fregavi un cavolo proprio, eri diventato proprio peggio di una bestia.

D: Quando stavi scavando le buche per fare il depuratore cosa è successo?

R: Quando scavavo le buche per il depuratore, io guardavo il Kapò. Se il Kapò era girato io smettevo di lavorare, cioè qui bisogna preservare le forze. E gli italiani mi dicevano “Ratti stai attento che qualche giorno ti ammazza quello lì”. E io dicevo “Senti io finché posso devo far sì che le mie forze resistano, cioè sfido quello là, però dall’altra parte mi salvo le mie forze”. E di fatto ho sempre fatto così finché è andata bene. Difatti tanti che erano lì con noi sono morti sfiniti di lavoro perché la paura… erano più anziani di noi, la paura, la paura. Comunque, lì è stato un momento che il giovane praticamente non vede il pericolo però ha la forza di reagire perché io ho detto “Io qui ci devo ritornare, o in una maniera o nell’altra io ci devo ritornare”. Poi con questo mio amico qui Franco, abbiamo escogitato diciamo un sistema per guadagnarci qualche zuppa in più. Cosa succedeva? Che il Kapò nella baracca, lui aveva magari dei pezzi di carne, cioè il capo-blocco, aveva tutto però non aveva la legna per cucinarli. Allora questo cosa fa? Dice: “Angelo facciamo una bella cosa. Siccome questi Kapò qui, questi capiblocchi, non riescono ad accendere la stufa, perché non portiamo a casa dei pezzi di legna da St Georgen”, che lì ce n’erano di.. e allora cosa abbiamo fatto? Pezzettini di legno, facevamo una specie di fascinetta e la mettevamo sotto la giacca e quando c’era il controllo del conteggio, te eri così e nessuno immaginava che sotto avevi la legna. Quando rientravamo nel campo, questo andava dai capiblocchi e diceva: “Sentite, io vi do la legna così voi altri cucinate ma a me cosa mi date?” Allora lui contrattava, siccome lui parlava bene anche il tedesco riusciva tante volta a dare anche tre o quattro zuppe, ma di quelle zuppe caro mio che ci hanno salvato la vita. Allora io magari ne mangiavo una e l’altra la davo all’amico, al vicino. E lì siamo andati avanti per un bel po’ di tempo però poi ad un certo momento i russi ci hanno tenuti d’occhio e dicono: “Ma questi qui come mai riescono ad avere tutte queste zuppe qui?” E ci hanno controllato per vedere cosa facevamo.

Allora, questi russi qui dicono: “Ma come mai questi qui vengono a casa e prendono le zuppe e mangiano come dei maialini?” E noi con quelle zuppe lì abbiamo salvato diverse persone. Per esempio c’è un mio amico di Cernusco, è morto dopo la liberazione però con queste zuppe qui siamo riusciti a tenerlo in piedi. Che poi magari lì si faceva il commercio, io ti do la zuppa però tu mi dai un pezzo di pane, o viceversa. Allora i russi ci controllavano come facevamo. Allora cosa succede? Che un giorno incominciano a fare il lavoro che facevamo noi. Noi ce ne siamo accorti. E il mio amico qui era un sottotenente degli alpini, era più… lasciamoli fare. Portano via i pezzettini di legno fanno la fascinetta e poi quando arrivano al campo a chi glieli danno? Non sapevano a chi darli, quindi, praticamente loro hanno portato dentro la legna ma non sanno a chi darla. Quindi, uno dei russi viene dal mio amico qui e dice: “Ma la legna a chi la dai?” “Arrangiati, se vuoi te la metto a posto io. Mi dà due zuppe, una per me e una per te”. E allora lui cosa faceva? Loro portavano dentro la legna e il rischio era loro. Si faceva dare le zuppe, erano metà loro e metà nostre. E così noi siamo andati avanti per un bel po’ di tempo e vuol dire salvarsi la vita perché oramai cominciavamo a crollare. Fatto sta che poi questa cosa qui finisce perché ormai era incontrollabile, ti controllavano e quindi è finito anche quel lavoro lì. Allora il mio amico Franco dice: “Qui bisogna escogitare qualche cosa d’altro perché qui, adesso caro mio, mancano le zuppe e noi dobbiamo tirare avanti, cosa facciamo? Un lavoro pericoloso, rubiamo le lampadine dalla galleria e le portiamo dentro.” E facciamo così. Soltanto che se ti vedono con una lampadina te sei un sabotatore e quindi vai sicuramente all’impiccagione. Però noi abbiamo rischiato. Dalla galleria si pigliavano le lampadine, si mettevano sotto la giacca, si davano ai capi-blocchi. E i capi-blocchi ce le pagavano bene perché là le lampadine non c’erano. E loro, sai, volevano la luce, perché loro avevano la loro camera. Ed è stato il periodo in cui ci siamo rinvigoriti. Però ad un certo momento… adesso basta perché qui se ci beccano, noi non ritorniamo. E difatti abbiamo smesso perché era diventato un pericolo. Intanto tra la legna, tra le lampadine arriviamo verso la fine dell’anno. Quindi, siamo stati in grado ancora di stare in piedi. Ma ti devo dire che il momento più brutto della deportazione di Gusen 2 è stata la disinfezione del campo. Ora io mi meraviglio perché tanti libri parlano di disinfezione ma non entrano nei particolari come adesso io vi racconterò. Perché questo? Perché in Gusen 2 c’era il pericolo del tifo petecchiale. Sporcizia. Non c’era la possibilità di lavarsi. Si tornava a casa dal lavoro pieni di terra. Quindi, non ti lavavi. E le SS cominciano a preoccuparsi di questo tifo qui, perché se ti prende il tifo petecchiale non è che prende solo il campo ma bensì va oltre, a dieci chilometri all’esterno. E allora cosa decidono i comandanti del campo? Di disinfettarlo. Allora viene il momento della disinfezione. Questo è stato uno dei momenti più tristi e cruciali di Gusen 2. Questo succede il 5 gennaio 1945. La mattina, noi non sapevamo niente, quattro e mezza, tutti fuori dalla baracca. “Svestitevi”. Faceva un freddo cane. Nudi completamente. Ci danno una coperta in quattro. I vestiti vengono raccolti da un carro e li portano via. E ci hanno lasciati lì, dalla mattina alle quattro e mezza fino alla sera alle sei. Quindi io non ti dico i morti che vedevo vicino a me. Uno crollava, l’altro… era una cosa indescrivibile. Era un campo di battaglia, mitragliato completamente. E quei pochi rimasti lì con questa coperta, aspettare alla sera che da Gusen 1 che c’erano i macchinari, arrivavano i vestiti già disinfettati. Non ti dico la tragedia per trovare la tua, perché la tua giacca dove avere il tuo numero. Quindi, anche lì è stata una disperazione. Lasciamo perdere il momento di quando arrivano i vestiti. Il momento triste è quando noi entriamo nella baracca. La baracca era mezza vuota e ci guardiamo in giro; e degli amici che non trovavano più gli amici. E tanta gente che piangeva dalla disperazione perché diceva: “Ma dove sono andati a finire?” Erano là tutti nel cortile morti. Quello è stato uno dei momenti veramente… Quando te entri, come dire, entri in casa, hai la famiglia, hai i figli, hai la moglie. Entri il giorno dopo, non c’è più nessuno. Quindi medita un attimo cosa puoi provare. Gente che piangeva disperata perché non trovava più… ecco, io devo dire che questa disinfezione qui è stato l’inferno di Gusen 2. Pare in linea di massima che siano morte circa 5.000 persone. Tanto è vero che il giorno dopo squadre apposite per portare via i morti; il crematorio di Gusen non ce la faceva più e neanche quello di Mauthausen. Pare che oltre a questi due siano andati a finire nei crematoi di Hartheim. Per dire il massacro che c’è stato. Quando ti guardavi indietro ti sembrava di vedere non so come in Russia che congelavano lì. E’ stato un quadro, non so come descriverlo, proprio una cosa mostruosa. Per me quella lì è stata proprio la tragedia di St Georgen. E’ stato, gira e rigira, in ventiquattro ore è successo questo.

D: Angelo, come te la ricordi la liberazione?

R: Io della liberazione ho poco da dire, però c’è stato il momento del pianto, del pianto di gioia e c’è stato il momento che dico: “Finalmente ce l’abbiamo fatta”. Noi abbiamo promesso ai nostri cari amici che hanno lasciato qui la pelle che dovevamo testimoniare e da questo momento il nostro giuramento è di far conoscere al mondo cos’è stato il Lager, cos’è stato Mauthausen,… ed Auschwitz. Per noi è stata la vittoria.

D: Ecco, ma tu dove eri al momento della liberazione?

R: Ero lì a Gusen 2. Ero sempre lì a Gusen 2.

D: Eri nel campo?

R: Ero nel campo. Però ti devo dire che ci sono stato poco nel campo lì durante la liberazione perché avevamo fame. Allora eravamo già d’accordo in cinque o sei. “Ragazzi, quando arrivano le truppe di liberazione ci troviamo qui e scappiamo”. Perché guarda eravamo così stufi di sentire quegli odori, di vedere i cadaveri, di vedere quelle facce stravolte, di vedere delle facce che ti dicevano: “Aiutami perché non sto più in piedi”; gli odori, queste divise, e dico :”Qui bisogna scappare”. E allora eravamo cinque o sei e abbiamo deciso di uscire. Difatti non ti dico cosa è successo quella sera lì alle cinque quando è arrivato…

D: Allora, arriva il momento della liberazione, dicevi? Tu sei a Gusen 2 e in quattro o cinque dovete scappare.

R: Diciamo noi qui bisogna… cioè eravamo d’accordo di uscire perché l’odore del campo, i morti, le disperazioni, dico: “Fuggiamo e diciamo di andare a trovare qualcosa”.

E con me c’era un altro amico di Cernusco che è stato deportato con me e gli dico: “Allora Pierino vieni con noi”. E lui è morto là dopo la guerra, dopo quindici giorni è morto. Dico :”Vieni con me”.

D: Pierino come?

R: Colombo si chiamava. Era uno dei deportati di Cernusco. E gli dico: “Ti trovi qui e andiamo fuori insieme”. Ad un certo punto si presenta, si mette a piangere e dice: “No, io Angelo non ce la faccio più. Non me la sento. Andate voi”. Difatti noi cosa facciamo? Usciamo dal campo. usciamo dal campo, facciamo circa duecento, trecento metri e troviamo degli ex- militari italiani, prigionieri anche loro, ma prigionieri di guerra e ci vedono lì, sai, magri, qualcheduno era come mussulmano sai che in campo mussulmano voleva dire che ormai stava morendo, era alla fine. E questi militari italiani ci vedono e dicono :”Ma chi siete voi? Da dove venite? Cosa avete fatto?” E lì gli raccontiamo la nostra storia. Veniamo da un campo, eccetera. “Ma come siete conciati. Avete fame?” “Sì”. “Venite con noi”. Ci fanno fare circa trecento, quattrocento metri. Loro avevano perquisito una baracca dove c’erano dentro le SS e lì avevano tutto: riso, margarina… alla fine ci buttano lì in questa baracca e si cucina. Insomma, io quella sera lì ho mangiato un catino di riso così, un catino. Il giorno dopo a momenti crepo. Allora questi militari qui cosa hanno fatto. “Stai qui nella branda, riposati che ci pensiamo noi”. Sono andati fuori nelle cascine. Andavano nelle cascine. Si sono fatti dare dello zucchero, della marmellata e mi hanno tirato su. Mi hanno tirato su piano, piano. Praticamente mi hanno salvato la vita perché poi tanti alla fine sono morti per lo stomaco che ormai non ce la faceva più. E difatti siamo stati lì circa una settimana e dopo ci siamo rifugiati in un luogo dove c’erano delle piccole baracche, dove c’erano degli ufficiali della Wermacht che stavano lì, non so perché. Erano delle baracche piccoline però c’era la cucina con tutta la batteria e siamo rimasti lì per un quattro, cinque giorni. E andavamo fuori ad arrangiarci per mangiare. Un bel giorno chi è che mi trovo? Aldo Rovelli. E’ venuto lì con noi e lì abbiamo parlato: “Finalmente siamo liberi”. Andavamo nelle cascine a rubare. Abbiamo rubato anche delle caprette. E poi questi austriaci qui andavano al comando a lamentarsi che noi rubavamo il bestiame, le galline, eccetera. Fatto sta che gli americani un bel giorno arrivano, ci prendono e ci riportano al campo. Ci dicono: “Dovete ritornare perché stiamo organizzando di farvi rimpatriare per l’Italia”. Io ritorno al campo e vado a cercare il mio amico Pierino, questo qui di Cernusco, che avevo lasciato.

Cosa si è messo in testa questo qui e altri tre o quattro? Dopo che siamo andati via hanno detto: “Andiamo via anche noi”. Volevano andare verso Linz. Ad un certo punto gli americani li hanno visti e li hanno presi e li hanno portati dentro al campo. Vado a cercarlo. Non c’è, non c’è. Vado in infermeria e me lo trovo là disteso. Dico: “Pierino come stai?” “Io non vengo a casa, guarda questa è la mia cintura, questo…, non so cosa aveva, il numero di matricola, portalo a casa ai miei genitori”. “Su, su, Pierino, dai che ormai la guerra è finita. Torniamo”. “No, io non ce la faccio”. Lui era più vecchio di noi. Fatto sta che rimane lì in infermeria. Poi alla sera prima di andare via vado lì dall’addetto all’infermeria, perché c’erano delle donne volontarie americane che facevano le infermiere e anche dei prigionieri che erano lì, erano dei romani, gli ho detto: “Questo è un mio amico, se succede qualcosa venite ad avvisarmi che sono alla baracca là di fronte. Se succede qualche cosa”. Vado là la mattina alle cinque, è già morto. Questo è stato uno dei momenti tristi del campo. Abbiamo salvato la vita e dopo quindici giorni mi muori qui. E purtroppo io ho dovuto dare notizia ai suoi genitori. Quindi momenti veramente tristi quando vai da un genitore e gli dici che suo figlio è morto in quelle condizioni. E purtroppo ho dovuto farlo.

D: E tu sei rimasto lì al campo fino a quando?

R: Io sono rimasto lì al campo fino, diciamo… aspetta perché esattamente noi siamo tornati… fino aspetta… ai primi di giugno. Poi viene il momento in cui c’è il rimpatrio. E di lì ci portano a Linz, in un campo di smistamento che è grandissimo; era un campo grandissimo veramente. Pronti per preparare i convogli per… e lì purtroppo nel campo c’era un mio carissimo amico, era un napoletano, forse magari l’hai sentito nominare. Si chiamava Sapone, era un meridionale, era già più anziano di me ma un furbacchione di uno. Il vero napoletano, appena che poteva cercava di arrangiarsi in tutte le maniere. E siccome eravamo nello stesso campo, un giorno ci mettiamo a parlare io e lui. Da allora siamo diventati… era il vero tipo di napoletano, el gratava, el faceva de tut. Arriviamo in questo campo di smistamento, ma grandissimo a Linz e lui sente che arrivano dei prigionieri dalla Grecia. Grecia, Samus, e li hanno portati in Germania anche loro; però erano lì per rimpatriare. E questo qui va in giro a fermare tutti questi ex militari. Ad un certo punto, guarda caso, ferma mio fratello, uno di Gorgonzola, uno di Melzo e uno di Milano. E gli dice: “Voi da dove venite?” Noi veniamo dalla Grecia, Samus e poi ci hanno portati qui. “Te come ti chiami?” Uno dice il suo nome, poi ad un certo punto mio fratello dice: “Io mi chiamo Ratti”. “E di dove sei?” “Di Cernusco”. “Ma qui c’è un Ratti di Cernusco”. Mio fratello credeva che era mio padre, perché mio padre era un antifascista già dal 1922; gli hanno tagliato le orecchie i fascisti a mio padre. E allora siccome mio fratello sapeva che quando arrivava Mussolini a Milano, mio padre lo pigliavano, lo portavano in caserma e doveva restare lì. E allora questo qui gli dice: “Ma te come ti chiami?” “Ratti”. “Ma di dove sei?” “Di Cernusco”. “Ma sì, ma c’è un Ratti qui con me che è di Cernusco”. Mio fratello credeva che era mio padre perché lui è andato via che io avevo ancora i pantaloncini corti, cioè lui era del 1910 e io ero del 1926, quindi c’erano sedici anni di differenza. “Come si chiama?” “Ratti, sì, ma Angelo”. Mio fratello si è messo a tremare, dice: “Ma come mai mio fratello, io credevo che era mio padre”. “Adesso te lo trovo io”. Guarda il destino, questi quattro ex-militari qui, compreso mio fratello, hanno messo lo zaino a dieci metri dalla baracca dove eravamo lì noi pronti per partire. Ad un certo punto questo Sapone qui, questo napoletano, entra in baracca. C’erano da fare sette, otto gradini, e io ero là che dormivo. “Angelino vieni qua che ti faccio vedere tuo fratello”. “Senti Sapone, perché si chiamava Sapone, non rompere i cosiddetti perché tu sei pieno i palle”. “No, no, stavolta ti dico la verità. Io sono stato padre per te”. Quante palle che raccontava. Viene là e mi prende. Dice: “Vieni che ti faccio vedere tuo fratello”. Allora io comincio a dire: “Questo qui non racconta palle, questa volta dice la verità”. Vado fuori e me lo vedo. E lì ci siamo abbracciati. Io avevo diciannove anni. Mio fratello piangeva come un bambino e io neanche una lacrima, neanche una lacrima; cioè questo è quello che ci hanno lasciato i tedeschi nell’animo nostro, proprio niente. E lui era tutto preoccupato “Chissà a casa” e una balla e l’altra, “Come staranno e te come fai ad essere qui?” E io gli ho raccontato un po’ la storia. Poi viene il giorno della partenza. Siccome la precedenza era per i reduci dei campi di sterminio e lui doveva partire dopo, io sono andato dal comandante della spedizione e gli dico: “Senti, d’accordo la precedenza è nostra però io ho qui un fratello che è un ex-militare, lo devi caricare con noi”. Difatti è venuto a casa con noi. Te pensa quando noi arriviamo a casa.

D: Ma che percorso avete fatto, Linz?

R: Sempre in tradotta, Linz-Bolzano, Bolzano ci siamo fermati lì un… pensa che mio padre a Bolzano è andato su tre volte a portare a casa i prigionieri e ha portato a casa Calloni che è stato uno deportato con me. E gli ha chiesto: “Ma il mio Angelo dov’è?” Fa: “Mì al so no in due l’è, a un dato moment ci hanno divisi”. E lo ha portato a casa. E non ha trovato me. Fatto sta che dopo due o tre giorni arriviamo noi a Cernusco. Te figurati a casa nostra la mamma che vede due figli, non ti dico il pianto a non finire. Sai che i cortili una volta nei paesi erano grandi. Quando hanno saputo che siamo ritornati non ci stava più una mosca nel cortile. Tutti lì che volevano sapere se si conosceva qualcheduno. Poi alla fine è arrivata una signora di Cassano d’Adda, combinazione lo conoscevo questo qui, che chiedeva di suo padre e io così proprio col cuore duro, mi chiede, e dico: “Sì, sì, è morto”. Come dire è morta una pulce. Mi ricordo che poi mia mamma ad un dato momento mi dice: “Ma ti viene a chiedere del padre e te gli dici che è morto come fosse…” E gli dico: “Mamma, purtroppo io di morti ne ho visti a migliaia, a migliaia, e ancora adesso la mia testa non è qui ma è a quello che ho visto là”. E questo è stato un momento di crepacuore per i genitori.

D: Scusa Angelo a Bolzano vi hanno fermato un paio di giorni? Ma dove vi hanno messo?

R: Sì. adesso non mi ricordo. Era un campo di smistamento che mi ricordo dove tutti i prigionieri della Germania dovevano passare per quel campo lì. Prima di tutto per vedere, c’erano le visite mediche, se avevi delle malattie infettive. Ci volevano le generalità. E difatti ci hanno rilasciato un documento.

D: Ascolta, era un campo o una caserma?

R: Ma guarda…

D: Erano baracche di legno?

R: Erano baracche di legno grandi. Adesso non ricordo esattamente il particolare perché nel momento in cui sei libero pensi di tornare, non vai a guardare il particolare. Comunque ci controllavano soprattutto delle malattie. Noi avevamo ancora della scabbia, gente ancora con la scabbia, tifo. E allora se uno era malato, lo fermavano e lo mandavano per guarire.

D: E dopo da là in treno sei venuto?

R: No. Dopo di lì siamo venuti a casa col pullman perché mio padre veniva su con dei camion a portare, e ne ha portati a casa di prigionieri, ma parecchi. Purtroppo suo figlio non lo ha portato a casa.

D: E questo quando era? Quand’è che tu sei tornato?

R: No, dunque, io sono arrivato a Cernusco il 19 giugno del 1945. Sono stato ancora uno dei fortunati.

D: Senti Angelo hai nominato due commandi di Gusen 2, Libenaue e Petsgruppe, ti ricordi altri nomi di commandi?

R: Dunque, Libenaue, Petsgruppe che erano i commandi bastardi; Mekelgruppe, Betongruppe.

D: E cosa faceva questo Mekelgruppe?

R: Il Petsgruppe era il commando dove perforava la galleria. Anche il Mekelgruppe. Erano due commandi grossi. Poi c’era il Betongruppe che, quando la galleria era finita nella perforazione, bisognava bitumarla, allora questo commando qui facevano le impalcature e mettevano il bitume per finirla. E di questi gruppi qui c’erano tanti altri sottocomandi, per esempio c’era il Transportcomand, poi c’era che mi ricordo, adesso il nome esattamente, era quello che guidavano i locomotori per trasportare il materiale, poi ce n’era uno particolarmente che era solo una persona, si chiamava Dante Dovera, forse l’avete sentito nominare ed era uno del ’43. era uno delle Commissioni interne della Breda di Sesto. L’hanno preso a Sesto.

Dante Dovera. Era già un sindacalista ai tempi del ’43. E questo era l’unico commando con una persona sola. Allora quando si entrava per il controllo, allora i capi dicevano Mekelgruppe, duemila persone. Petsgruppe altre. Questo qui diceva che era lui addetto alle pompe dell’acqua del cantiere ed era l’unico.

Sì, ma di commandi ce ne erano tanti. Adesso esattamente… Poi c’era il comando del Transport.

D: Per quanto riguarda il campo di Reichenau, lì non sei stato immatricolato?

R: No. Lì è stato solo un campo di deposito, siamo restati chiusi.

D: Quindi non siete neanche potuti circolare…

R: No, noi vedevamo in giro delle facce ancora come li abbiamo visti a Mauthausen ma non era un…

D: Vestiti civili o…

R: No, vestiti a righe ma la maggior parte erano russi. Nessuno parlava. Non sentivi niente.

D: E invece a Mauthausen l‘immatricolazione te l’hanno fatta nel campo di quarantena dentro nella tua baracca?

R: Sì, cioè dopo la…

D: Dopo la rasatura.

R: La rasatura e la vestizione. Prima di entrare nel blocco dove dormire, hanno dato il numero.

D: E ti hanno fatto tutte le domande che dicevi?

R: Sì, che mestiere facevi.

D: Ma cos’era? Un uomo con un tavolino?

R: Sì, perché ogni baracca aveva il suo Schreiber. Lo Schreiber era quello che aveva in mano, diciamo, l’ufficio di amministrazione. E lui doveva sapere tutto: chi eri, che professione avevi, perché eri lì, eccetera. Dopodiché loro dalle cartelle che questo qui… magari ti destinavano ad un dato tipo di lavoro. Ma siccome in quel momento lì la manodopera era la maggior parte voluta proprio per il lavoro grosso della galleria, non c’erano dei lavori… E qualcheduno invece andava a finire, quando la galleria era finita andavano a fare il meccanico, cioè lì c’erano le officine dove facevano le carlinghe per i Messeschmitt e le Maschinenpistolen della Stayer. E allora qualcheduno andava a finire nel cantiere, qualche meccanico andava a fare il meccanico.

D: Quindi era lo Schreiber che ti ha dato il numero di matricola?

R: Sì, era lo Schreiber.

D: E poi un’ultima cosa su San Vittore. Dicevi che sei stato quaranta giorni in isolamento. Più o meno allora se sei stato portato a San Vittore al 18 di dicembre, fino alla fine di gennaio. E poi sei partito da lì il 3 di marzo?

R: Sì.

D: Allora il mese di febbraio ti hanno messo in una cella comune?

R: No, mi hanno messo insieme ad un altro, che combinazione, guarda caso, questo qui aveva una paura, non parlava, non riusciva a dialogare. L’ho saputo alla fine della guerra chi era questo. Era un ex-tramviere che ha fatto il partigiano. Noi siamo partiti. Lui non è partito. Sono riuscito a sapere attraverso l’azienda tranviaria, lui lavorava all’azienda tranviaria di Milano, lo hanno fucilato.

D: Ascolta, i sei di Cernusco in quanti siete tornati del vostro gruppo?

R: Quattro. Uno però è morto subito appena a casa, dopo. Quindi, in totale tre.

D: Tutti più o meno sui diciotto, diciannove anni? Te, Roberto…

R: E Calloni. Calloni è conciato in questo momento poverino. Conciato, fa fatica a camminare, gli hanno già scavato il braccio un po’ di volte. E’ martoriato poverino.

D: Ascolta tu Angelo quando sei ritornato su per la prima volta?

R: Dunque io sono ritornato una prima volta se non sbaglio nel ’49 o ’50 che siamo andati col treno, non con i pullman. E mi ricordo quella volta lì al crematorio di Gusen, io non so come ho fatto, ma ad un certo punto io scavo e mi sono trovato due gamelle ancora. Due gamelle e le ho portate a casa. Erano dei cimeli da conservare. E ormai ero sposato. Ad un certo punto facciamo il trasloco e mia moglie mi dice: “Ma queste due gamelle qui. Ma sì buttale vie, ma vada via il cuore ma cosa te ne fai qui?” Mi piange il cuore parlare di quelle cose, sarebbero dei cimeli da mettere in vetrine e li ho buttati via. L’unica cosa che ho tenuto è questo e il numero di matricola e basta.

D: Angelo, tu quando sei tornato hai raccontato quello che avevi visto?

R: No, io quando sono tornato non ho mai parlato perché ho tentato di parlare anche con i genitori ma nessuno ci credeva. Quindi non trovavi un dialogo comprensivo di poter emergere…

D: Tu te la saresti sentita comunque di raccontare?

R: Sì me la sentivo però non trovavi il riscontro di chi ti voleva sentire e dava la sensazione che raccontavi delle gran balle. Di conseguenza dico: “Lasciamo perdere perché tanto non ci credono”. Però, dopo, con l’andare degli anni, qualche libro ha cominciato ad uscire, e allora abbiamo cominciato a riprendere. E forse il nostro errore è stato quello che i primi anni non abbiamo parlato. Questo è stato un grosso errore da parte nostra ma d’altra parte dobbiamo dire non ci credevano.

D: Ascolta, tu eri studente, hai proseguito i tuoi studi?

R: Sì, ma dopo un po’ di tempo.

D: Cosa studiavi?

R: Perito grafico, sono riuscito ad avere poi il diploma.

D: Non subito?

R: No, perché c’è voluto anche del tempo a rimettersi. Se vuoi ti posso raccontare un fatto come posto di lavoro; adesso qui usciamo dal campo. non vorrei, perché vorrei raccontare quella storia lì della galleria.

D: Racconta quella lì.

R: Io mi trovavo, vuoi che porto qui la…

D: Te la porto io.

R: Allora qui si vede un vagoncino dove la montagna veniva perforata, si riempiva il vagoncino e si portava fuori dalla galleria. Qui eravamo proprio all’inizio del perforamento. C’erano diversi punti, cioè iniziavi a perforare, poi dovevi armare perché crollava. E qui eravamo proprio un gruppo di sette o otto proprio alla testa della galleria e ad un certo punto mi viene da fare il bisogno e allora devi chiedere al Kapò: “Posso?”, quello là ti dice di sì però erano cinque minuti. Ma pensare che da qui già andare ce ne volevano cinque. Fatto sta che vado di corsa, ritorno. A trenta, quaranta metri prima di dove lavoravo c’era un gruppo di lavoro qui che stava caricando della sabbia. E lì un italiano mi dice: “Ratti come mai? E’ tanto tempo che non ci vediamo. Come va? Come non va?” e gli dico: “Senti, siamo qui. Però lasciami andare se io ritardo lo sai che come minimo sono venticinque”. Io sto per andare e quello là mi prende per la giacca e mi dice:”Allora come va? Quando finisce la guerra?” Nel frattempo è crollata la galleria. Sono rimasti sotto tutti. Se in quel momento quello non mi prendeva io rimanevo sotto. Ecco, da quel momento lì devo dire che quella è stata forse l’unica volta che io ho pianto perché vedere i compagni a morire in quel momento lì proprio eri diventato peggio di una bestia feroce, non ti fregava più niente. Bastava sopravvivere. Te ne fregava anche, adesso non voglio esagerare o tuo fratello… ormai il tuo cervello era fuso, eri una bestia feroce. E ad un certo punto crolla questa roba e io sono rimasto lì come un cretino e mi sono messo a piangere disperatamente. Allora, squadre di soccorso, abbiamo dovuto aspettare di tirare fuori i cadaveri, farli su con la carta di cemento e poi riportarli al campo.

Bruni Eugenio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego.

R: Mi chiamo Eugenio Bruni, sono nato a Bergamo, l’11 luglio del 1918 e …

D: Prego, prego, vai.

R: Dimmi quello che …, vado avanti nella mia vita anche?

D: Esatto, ad un certo punto voi avete fatto una scelta di resistenza …

R: No, aspetta allora, in una famiglia antifascista, mio padre era combattente della guerra 1915-1918, pluridecorato, ed era stato licenziato dal Comune per scarsi sentimenti nazionali, perché non era iscritto al Partito Fascista, questo aveva incominciato a farmi pensare e con me fare pensare mio fratello.

Quando abbiamo visto che una volta veniva messo in carcere perché arrivava il Duce a Bergamo, un’altra volta veniva licenziato perché era di scarsi sentimenti nazionali, perché nostro padre lo avevamo sempre visto come persona non soltanto coraggiosa ma ben voluta in città, quando è stato licenziato, tutta una gran parte della città che contava gli ha dimostrato la sua solidarietà, perché allora un atto di coraggio era possibile quanto meno, e questo rincuorava.

Tutto questo ha fatto pensare a noi che la libertà era una qualche cosa a cui non si poteva rinunciare, e siamo cresciuti proprio con questo spirito di ribellione di fronte a tutte le imposizioni che il fascismo faceva, dalle imposizioni di carattere ideologico, alle quali era facile dire di no, alle imposizioni di carattere formale, alle quali era più difficile dire di no, divise, adunate e cose di questo tipo.

Ci siamo ritrovati alcuni compagni e abbiamo incominciato a pensare che dovevamo fare qualcosa, e quel qualcosa si è tramutato in scritte sui muri, nel pubblicare una rivistina da distribuire, in cui esprimevamo quello che sentivamo, i nostri pensieri, fino a che abbiamo creduto di dover richiamare l’attenzione della città con un’azione un po’ eclatante, e cioè nel centro di Bergamo i fascisti avevano fatto un monumento nel quale era effigiato con maggior evidenza il Duce.

Noi abbiamo sporcato la faccia di questo Duce con una vernice studiata apposta, resinosa, che si staccava a mala pena, e che aveva un colore che la assimilava ad un prodotto organico. Hanno incominciato a parlare nei palazzi, c’è stato qualche d’uno che ha parlato, preso dalla paura evidentemente, siamo stati arrestati, e siamo stati portati nelle carceri di Bergamo.

D: questo quando Eugenio, quando è successo?

R: 11 ottobre 1941. Dopo qualche giorno, senza essere stati interrogati naturalmente, siamo stati portati a San Vittore a Roma, portati attraverso trasporto speciale, perché mio padre era terrorizzato dall’idea che noi potessimo andare in un vagone per detenuti …

D: San Vittore a Roma o …?

R: No San Vittore, Regina Coeli, si può correggere?

D: Sì, sì prego.

R: Là si è rimasti, direi, un paio di mesi in perfetto isolamento, che non auguro a nessuno.

D: Vi hanno arrestati, chi?

R: Hanno arrestato me, mio fratello, il dottor Taino e un certo Virginio Caffi, cantante lirico.

D: Tutti di Bergamo?

R: Tutti di Bergamo. Sto pensando, anche il dottor Antonucci. Il processo nel marzo del 1942, abbiamo saputo per vie particolari che la sentenza era stata già segnata sul fascicolo dallo stesso Mussolini, e la condanna era di anni tre di reclusione per me, di anni quattro per il dottor Taino, mentre mio fratello, che non aveva partecipato a quest’azione, anche perché in condizioni di salute non felici, e il dottor Antonucci, che evidentemente non era emerso nelle sommarie indagini che allora venivano fatte, venivano assolti per insufficienza di prove.

Quindi venivamo portati nel braccio famoso per i politici di Regina Coeli, e da lì poi partivamo per andare a Castelfranco Emilia, io, a Castelfranco Emilia e Taino, ma in un altro braccio perché là c’erano due bracci per i politici, mentre il Caffi andava al reclusorio di San Geminiano. Sono rimasto in carcere dalla fine del processo fino al 25 luglio 1943, e dirò che la vita nel carcere è stata rasserenata dal fatto di essere assieme a tutti i politici, si studiava, si pativa la fame, perché ci dividevamo tutto quello che arrivava, soldi e pacchi, ma era bello perché ci si sentiva anche molto uniti.

Fino a che è avvenuta la caduta del fascismo e ci siamo trovati in mezzo a Bergamo a vedere passare i carri armati, vedere tutti i soldati scappare, non avere neanche un punto d’ancoraggio, cercare di andare in qualche caserma per richiamare gli ufficiali superiori ad un minimo di senso del dovere e di fedeltà al giuramento, cosa che è riuscita assolutamente vana, e quindi soli di fronte alla nostra coscienza, vedere che la via della libertà era la via della montagna, e lì ci siamo avviati.

Mio fratello è rimasto a casa perché, come dicevo, non poteva affrontare una fatica di questo tipo, mentre io sono andato ad unirmi ai partigiani. Purtroppo il carcere aveva lasciato dei segni nella mia salute e quindi sono andato a Milano per vedere di farmi curare, naturalmente con tutti i sotterfugi delle carte d’identità e di quanto altro, dopo di che sono ritornato e ho preso contatti tramite mio padre con il comandante Buttero, e sono stato mandato in Val Canobina.

D: La vostra formazione partigiana quale era?

R: Qui non c’era un nome preciso perché eravamo proprio agli inizi, e la Val Canobina non sono neanche riuscito a sapere esattamente che cosa era, perché abbiamo preso un treno a Milano, ci siamo avviati sul lago Maggiore, poi lì uno ci ha ricevuto alla stazione, ci ha avviato su una strada, ci ha detto di andare su, poi abbiamo dormito una sera nell’accampamento dei partigiani, poi dovevamo raggiungere un altro distaccamento e siamo stati affidati quindi ad un partigiano.

Non so che cosa sia successo lì, fatto sta che in questo cammino, in questo percorso per raggiungere questa nostra nuova destinazione, ad un certo punto il partigiano è sparito e invece sono sbucati dei militi forestali, i quali ci hanno subito preso, ci hanno spianato le armi contro e noi non abbiamo potuto fare atro che dire di sì.

D: Lì c’era anche Roberto, no, il fratello?

R: Certo, ovviamente c’era il problema Roberto da risolvere, ed è sembrato giusto che questo problema lo risolvesse con me, perché restare in città, non potevamo sottrarre mio padre a quelle che erano le sue normali occupazioni, mia madre e mia sorella non erano assolutamente adatte, e quindi l’unico adatto a stargli vicino ero io, ed allora a questo punto non c’era altro da dire. “Andiamo e vediamo di poter risolvere il problema là”.

Siamo stati presi, i partigiani sono venuti e hanno fatto un attacco alla casermetta di questi militi, una battaglia che non finiva più, dopo di che non sono riusciti assolutamente a sfondare, e quindi abbiamo dovuto subire l’umiliazione dell’attacco di gerarchi fascisti, poi lungo la strada essere consegnati ai nazisti, alle SS, e andare lungo la strada dove questi giovani fascisti sputacchiavano, insolentivano, picchiavano, era gente alla quale ci avevano affidati perché facessero tutto quello che volevano, che era suggerito dai loro istinti più bassi, più volgari e più violenti.

Poi siamo stati portati, perché siamo arrivati a …, come si chiama lì, sul Lago in fondo, la patria di Chiara …

R: Luino.

D: Luino, lì che periodo era quando vi hanno arrestati?

R: Dunque, vediamo un po’, marzo, febbraio, 4 marzo …

D: Del ’44?

R: 1944. Da Luino saliamo su un motoscafo, anzi ci pigliano con un motoscafo lì, non so quale era la base di partenza, ci accompagnano a Luino. A Luino le SS ci fanno un piccolo interrogatorio, puramente formale, dopo di che ci caricano su questo motoscafo e scendiamo la prima volta una terra, ci spianano i fucili addosso, dopo di che rinunciano, saliamo ancora sul motoscafo, seconda fermata e poi terza fermata, poi capiamo che siamo di fronte a sadici che vogliono vedere le reazioni di gente che è posta di fronte ad un plotone d’esecuzione.

Arriviamo ad un’oasi di riposo a San Donnino. A San Donnino, restiamo lì parecchi giorni insieme a tutti i politici, mio padre aveva interessato della nostra sorte un certo Eugenio Rosasco di Como, che faceva parte anche del CLN, il quale organizza dei partigiani, che vengono e danno l’assalto a San Donnino …

D: Scusa Eugenio, siete stati arrestati te e Roberto e basta, o anche insieme ad altri?

R: Io e Roberto e basta. Il terzo, che era con noi, poi è scappato.

D: Poi vi hanno portato al carcere di Como a San Donnino?

R: Lì dicevo, c’è stato quest’assalto, dopo di che c’è stato l’ingresso a San Vittore

D: Vi hanno trasferiti a Milano?

R: Trasferiti a Milano a San Vittore. La vita a San Vittore è stata una vita si può dire abbastanza tranquilla, per quanto era possibile e per quanto avevamo intravisto in queste prime vicende. C’era questo maresciallo tedesco, si chiamava Franz, che era una cosa spaventosa, lanciava urla terribili, veniva con quel cane che abbaiava, e noi sentivamo il terrore che ti scorreva un pochettino addosso. Eravamo sempre in tensione, poteva succedere di tutto, ma anche dall’altro braccio si sentiva arrivare urla, certe volte, e noi immaginavamo che fosse qualche d’uno dei nostri che veniva trattato in modo non certo complimentoso.

Così è stata un po’ la vicenda a San Vittore, ricordo che una volta sono riuscito ad avere per vie traverse, erano i preti in genere, forse c’era anche qualche SS cattolica non so, erano venute mia madre e mia sorella, e siccome avevano delle caratteristiche somatiche, mia sorella è molto riccia e mia madre con un naso piuttosto pronunciato, le hanno tenute per tre ore all’entrata di San Vittore dicendo che loro dovevano dimostrare di essere ariane, perché davano tutta la sensazione di essere ebree, questo è per dire il clima nel quale noi si viveva.

Fino a che un giorno sono arrivati dei pullman, ci hanno fatto uscire, e ci hanno mandati, passando attraverso le nostre contrade, che oramai conoscevamo a mena dito, perché ci avevamo passato la nostra giovinezza, siamo andati verso Bolzano. Scappare sarebbe stato forse possibile, forse, infatti c’è stato l’avvocato Luciano Elmo per esempio che è scappato, si è rotto il naso, e Luciano era su a Bolzano con me, non era però del mio trasporto, mi sembra.

Fatto sta che siamo arrivati a Bolzano e a Bolzano abbiamo visto cose brutte. Abbiamo visto per esempio un palo in mezzo a questa grande distesa e abbiamo visto attaccato uno che veniva percosso perché aveva tentato di scappare, e quindi veniva castigato in questo modo, almeno la voce correva che fosse questa la ragione, ma non poteva avere commesso niente che meritasse un castigo di questo tipo.

D: Eugenio scusa, nel carcere di San Vittore ti ricordi qualche nome di altri arrestati che c’erano, perché voi siete rimasti fino a giugno?

R: C’era un certo ragioniere Castelli, che era di Bergamo, che dopo non l’ho più visto, c’era Mike Bongiorno come ho detto, c’era don Gagino …

D: Leggeri?

R: Don Liggeri, direi di sì, perché mi ricordo che a San Vittore ho avvicinato un prete per parlare di temi di religione con lui, ero in un momento che non è che avessi bisogno di vincere i miei dubbi, perché i miei dubbi erano già risolti, ma con un religioso certe volte si può parlare di valori morali che possono interessare anche al laico, come ero io, come mi ritenevo io, questo lo ricordo. Non ricordo se c’era Indro Montanelli, a me sembra, io ho la sensazione che lo avessi visto o che l’ho avessi sentito nominare, però francamente altri non li ricordo.

Sai si viveva in una specie di nebbia, perché non era facile vivere. Non era facile vivere perché, io avevo alle spalle tutto il carcere, un anno e mezzo di carcere, insomma non è poco per riprenderti e per acquistare tutta la tua lucidità, tutta la capacità e tutta la forza di reagire a quello che stava succedendo. Era una nuova tappa che si apriva per uno che aveva già preso le sue brave mazzolate. Quindi i nomi, io avrò parlato con Tizio, Caio e Sempronio, però che i nomi mi siano rimasti incisi, può darsi che per esempio lo chiamassi Paolo, lo chiamassi Carlo, chi lo sa? Però non ricordo.

D: Di Bolzano, del campo di Bolzano per esempio cosa ti ricordi, i blocchi, ti ricordi qualcosa oltre alla piazza dell’appello?

R: Ricordo che noi avevamo un blocco che era sulla sinistra entrando, a Gries eravamo, io il resto non lo ricordo.

D: Neanche il numero del tuo blocco, la sigla del tuo blocco?

R: No, no, per me francamente, ricordo il mio blocco a Dachau.

D: Lì a Bolzano siete rimasti quanto tempo?

R: Dunque a Bolzano siamo rimasti penso, ho il certificato della Croce Rossa e caso mai te lo posso dire, penso un mesetto, un mesetto e mezzo.

D: E lì cosa facevate tutto il giorno?

R: Niente. Siamo andati a lavorare con dei territoriali tedeschi in una galleria, che era sotto il vecchio ospedale di Bolzano, questi due territoriali erano Enrico Fucilone… Anche lì, a mio avviso era facile scappare, però scappare in due, tirare dietro mio fratello il quale aveva sempre perplessità, dubbi, poverino …

D: Era più giovane di te?

R: Più vecchio.

D: Ah, più vecchio di te?

R: Più vecchio di me.

D: Lì a Bolzano vi hanno dato una divisa?

R: No, siamo rimasti con i nostri vestiti.

D: Avevate un numero?

R: Neanche, io non lo ricordo, ricordo il numero a Dachau, 113157, l’ho visto adesso, ma l’ho riconosciuto perché ho lì …

D: Quindi uscivate per lavorare in questa …

R: Poi venivamo riaccompagnati dentro.

D: E cosa facevate in questa galleria?

R: Ma, gli sciocchi! Raccoglievamo del materiale della migliore qualità possibile, lo caricavamo su dei carrelli, che poi spingevamo e giocavamo su questi carrelli, perché ci mettevamo su e ci spingevamo a vicenda, fino a che in fondo c’erano questi soldati che dicevano “Ferma, ferma, ferma” e gridavano, tutto lì insomma.

Poi una volta siamo andati a cogliere le mele, con delle strane scale, fatte con un bastone in mezzo e i pioli che uscivano a lato, una sacca in spalla, potevamo mangiare le mele, e questi contadini non parlavano, non dicevano niente …

D: E di personaggi diciamo così?

R: Io ricordo che sono scappati da lì due toscani, uno si chiamava Giorgio, io avevo portato con me da San Vittore, perché nessuno mi aveva perquisito, avevo della simpamina, e allora non potendo andare con loro sempre per la stessa ragione, gli ho dato queste pastigliette di simpamina e gli ho detto “Queste vi tira su, vi dà la carica e andate” erano dopati insomma. È stato un dopaggio ante litteram. Avevo questa simpamina perché avevo fatto atletica leggera, c’era chi mi aveva suggerito di doparmi, non lo avevo fatto, però quando ho dovuto affrontare i passaggi, le camminate, ecc, io venivo dal carcere ed ero indebolito al massimo, mi ero ricordato e allora avevo comperato questa simpamina.

D: Ti ricordi Eugenio di Titho, Haage lì a Bolzano, dei comandanti del campo?

R: Li ricordo, ma non li ricordo di nome.

D: E neanche del blocco celle ti ricordi?

R: Il blocco celle sì, era spostato più in fondo, esatto.

D: Dove c’erano gli ucraini …

R: Ecco.

D: Otto e Misha?

R: Adesso i nomi non domandarmeli.

D: Non te li ricordi. Ti ricordi lì a Bolzano di avere incontrato altri sacerdoti, deportati dentro nel campo?

R: No.

D: E donne ne hai viste?

R: No.

D: Non hai visto donne nel campo, deportate?

R: No.

D: Si arriva al giorno che vi chiamano …

R: … E ci caricano sul vagone bestiame.

D: Ti ricordi da dove siete partiti, da dove vi hanno caricati sul Transport?

R: Alla stazione, allo scalo ferroviario. Ci hanno messo lì e poi siamo saliti su questo vagone.

D: Vi hanno dato qualcosa da mangiare, da bere?

R: Non lo ricordo, ho la sensazione di sì, pochissimo, ma sì, però questo non lo ricordo, so che avevamo qualche cosina di nostro, che c’eravamo portati dietro fino da Milano, un po’ di zucchero, due biscotti, roba del genere, non ricordo neanche come li avessi avuti, non mi ricordo.

Ricordo che a San Vittore, tu adesso stai scavando nella mia memoria, cosa che io ho sempre cercato di non fare, e mi ricordo per esempio che a San Vittore avevo fame, e avevo tanta fame che una volta, mi ricordo, c’è stata una vicenda di pane che è arrivato dentro, che chi lo aveva preso, chi non lo aveva preso, Franz gridava l’ira di Dio.

Deve essere successo invece che, a Bolzano, vi era un commerciante di legname, si chiamava Amati, e aveva delle ragazze, di Bolzano, che cercavano di fare qualche cosa, ed erano riuscite a fare entrare un pacchetto con queste piccole cose, evidentemente non era niente, che poi mi aveva aiutato un pochettino durante questo viaggio.

D: Questo viaggio era iniziato i primi di ottobre del ’44?

R: Sì.

D: Ed è durato quanti giorni?

R: Ho la sensazione che sia durato un giorno, una notte, ed un altro giorno, però ho il dubbio che siano state una o due le notti che noi abbiamo passato su questo … cosa risulta a voi?

D: E no, adesso bisogna recuperare le date, durante il percorso si è mai fermato il treno, il Transport?

R: Può darsi.

D: Non so, per i bisogni fisiologici …

R: No, no, no, mai, mai, perché avevamo questo grosso problema, questo grosso problema. Qui poi succede questo che poi i ricordi si sommano ai ricordi che io ho sentito da altri, per cui per esempio avevamo recuperato delle latte, queste latte servivano per l’acqua, ma io pensavo che era per fare la pipì, altri mi avevano detto che avevano sollevato un asse del vagone, questo ha creato in me, non so se suggestione o ricordo autentico, che anche noi avessimo sollevato questo asse, in modo tale da poter …

Ricordo le fermate, questo sì, perché ricordo le urla, le urla delle SS, erano urla di “State indietro”, o parlavano fra loro ad una certa distanza per cui era necessario urlare, però lo ricordo esattamente, avvertivamo qualche cosa che c’era fuori del nostro carro bestiame.

D: E quando vi hanno fatto scendere?

R: A Dachau.

D: Direttamente lì vicino …

R: Davanti al portale.

D: Del campo, e poi lì cosa è successo?

R: Lì si è aperta la porta. Oltre tutto non ricordo, vedo adesso, tu mi dici che c’erano parecchi che erano partiti quel giorno, io ricordo soltanto quelli che sono partiti con noi, saremo stati una cinquantina penso, siamo andati nel magazzino a destra, ci hanno portato via tutto, ci hanno fatto spogliare, ci hanno vestito con una camicia, una giacca, ci hanno tagliato i capelli e poi ci hanno fatto la riga in mezzo, ci hanno dato i sabot.

L’unica cosa che ho visto, ecco c’era un prete, perché ho visto un prete spogliato nudo con un tricorno in testa, era là, tu sai che c’era l’Antreten lì, con tutti i fari, la mattina presto venivano, lì un registro doveva esserci stato per creare proprio il senso l’ossessione, e ricordo che era lì, lo avevano lasciato lì quasi per derisione. Dopo di che siamo andati nel blocco …

D: Quale blocco, te lo ricordi?

R: 25, io direi 25, siamo entrati sulla sinistra, sulla destra c’era la parete chiusa, ci hanno detto “Pigliate posto” e siamo entrati in tre in una, erano a tre piani, ognuna era in tre, e lì è incominciata.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Non me lo ricordo, so che sulla giacca c’era scritto 113157, il 113 lo ricordavo, il 157 l’ho visto adesso ma ho quello della Croce Rossa che segna, il triangolo con la “I”, e sopra il coso bianco con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso.

D: Lì nella baracca 25, nel Block 25, fino a quando sei rimasto?

R: Fino a che non sono andato in infermeria.

D: Al Revier?

R: Sì, perché ho dovuto lasciare mio fratello, perché ero …, c’era un tifo petecchiale in giro, intanto noi eravamo afflitti dai pidocchi, a manciate li tiravamo via, ogni tanto andavano a farci la disinfezione all’aperto con dei grossi pennelli, li intridevano nella …, cosa è quel disinfettante biancastro …

D: Creolina?

R: … Creolina, lì ci pitturavano tutti, non serviva a niente. Dopo di che mi è venuta la febbre e sono dovuto entrare in infermeria, avevo 38 e mezzo circa di febbre. Lì è stato brutto perché intanto il passaggio delle docce, ricordo che nevicava, ci hanno fatto spogliare nudi, ci hanno fatto entrare e l’acqua era in alternanza, fredda e calda, e qualcuno quando sono passato io è morto. Dopo di che siamo andati avanti con questi passaggi, aperto, chiuso, aperto, chiuso, fino a che sono arrivato nel mio posto.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Niente, niente. L’unica cura che io ho avuto, intanto c’era un cibo che davano invece delle carote e delle rape, davano una specie di riso, con un colore biancastro che doveva essere latte.

Siccome eravamo in due, non ho mai parlato con quello vicino, e quello vicino non ha mai parlato con me, perché eravamo esausti primo, in secondo luogo la lingua non si conosceva, ricordo che due volte è capitato che ho tenuto quello lì morto, e ho preso la sua scodella per poterne mangiare due.

Quando si andava giù al gabinetto, che era vicino alla porta che dava all’aperto, si vedevano fuori mucchi di cadaveri, di venti persone, trenta persone, in fondo dall’altra parte c’era il crematorio.

Dopo sono uscito, ad un certo punto si è stabilito che ero guarito, e quindi sono uscito, sono andato a pigliarmi un altro blocco, perché ad un certo punto sono stato abbandonato un po’ a me stesso, sono andato prima di tutto a chiedere notizie di mio fratello ed ho appreso che era morto, c’era un padre domenicano nel blocco, che teneva nota di tutti quelli che erano morti, l’ho chiamato e mi ha detto “È morto il 13 di febbraio, l’altro giorno” così quando poi sono arrivati gli americani …

D: Scusa Eugenio, quindi tu sei andato in un altro blocco, quando sei uscito da lì?

R: Sì.

D: Non ti ricordi che blocco fosse?

R: Non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Cosa facevi durante il giorno?

R: Niente.

D: Dentro nel blocco eri?

R: Dentro nel blocco o nel cortiletto che intercorreva tra un blocco e l’altro, si camminava sotto l’acqua, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto il sole.

D: Non sei mai stato chiamato in un commando di lavoro?

R: No sono stato qualche giorno con don Angelo. Con don Angelo è lui che me lo ha detto, mi ha detto “Vieni con me”, don Vismara che era di Bergamo, aveva presentato anche don Angelo, e don Angelo era un galletto per quanto consentiva il posto. Mi ha detto “Vieni con me che si mangia a metà mattina, ti danno qualche cosina ancora” e cosa si doveva fare? Si doveva stracciare vecchi indumenti dei tedeschi, mutande, ecc, ecc, e poi dovevi fare la treccia, poi veniva lì ogni tanto se era fatta bene o se non era fatta bene, e se non era fatta bene la rompeva magari e te la faceva rifare, poi questa roba qui non l’ho …

D: Non l’hai più fatta?

R: … Non l’ho più fatta perché, intanto volevo stare vicino a mio fratello, perché questo era avvenuto prima, in secondo luogo bisognava andare all’appello la mattina ed era una cosa terribile, perché lì ti picchiavano con i calci dei fucili, e poi questa specie d’asfissia lì dentro, per un pezzettino di cosa che non serviva assolutamente a niente.

Ho provato anche, questo non con don Angelo, alla ferrovia, ma era pazzesco. Era pazzesco perché dovevi alzarti di mattina, prestissimo, entravi e passavi attraverso questo piazzale d’adunata, attraverso le urla di questi signori che urlavano “Scnell! Los!”.

Poi si aprivano queste porte, si saliva su un carro bestiame dove gente aveva fatto lì i propri bisogni, l’ira di Dio, si arrivava ai binari della ferrovia di Monaco, là scendevi, eravamo in dicembre, gennaio, vestiti com’eravamo vestiti, ti davano un piccone di quelli che hanno una parte un po’ a paletta, e dovevamo, sotto il comando di un operaio di Monaco, rincalzare i sassi sotto le traversine, quindi comandava “Hanz, vai, hanz, vai, hanz, vai” e tu dovevi seguire quel ritmo, se non seguivi quel ritmo c’era una botta.

Tutto questo per avere poi un piccolo scampolo di riposo, nel quale potevi pigliare mezza fettina di pane e una fettina di margarina, se tutto questo valeva quel dispendio d’energie che ci obbligavano a fare, per poi arrivare meglio a cercare di chiacchierare con qualcuno se era possibile. Infatti avevo conosciuto un certo Andrè Romer dei Vosgi, un ragazzo bravo che è venuto poi a Bergamo a trovarmi, e lì si camminava per cercare di avere un pochettino di caldo, ci si stancava e quindi ci si fermava per avere un po’ di freddo, ma intanto si chiacchierava, lui mi parlava del suo paese, io parlavo della mia città, ci scambiavamo il conforto di ricordare un pochettino qualche cosa.

D: Questo fino alla Liberazione?

R: Fino alla liberazione.

D: E come te la ricordi la liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo, ero in questo famoso blocco nel quale ero entrato dopo essere uscito dal Reviere, ad un certo punto si sono incominciati a sentire i duelli aerei sopra, poi abbiamo visto due o tre volte degli aerei che cadevano, che fossero tedeschi o che fossero inglesi, erano il segno di una battaglia che si svolgeva proprio sopra di noi.

Dopo di che ci hanno portato tutti sul piazzale, e lì ci hanno dato mezzo pane, una scatola di flaisch, li chiamavano flaisch non so cosa sia, una specie di impasto di carni animali, e poi siamo stati lì ad aspettare. Io ho mangiato subito tutto, ho detto “Qui è meglio mettere giù, piuttosto che …”

Poi una parte, sono partiti, un certo numero, e noi invece siamo rientrati, eravamo lì, i nervi tesi, dicevamo “Ci siamo, ci siamo, ci siamo” e, infatti, si è affacciata al campo una giornalista americana con la pistola in pugno, le SS hanno sparato qualche colpo sul piazzale dove c’erano ancora i nostri, ma sono state immediatamente fatte fuori dalle truppe americane che erano arrivate, quindi poi è cominciata la festa. È cominciato questo senso di ricominciare a guardare avanti a noi, di incominciare a dire adesso si apre qualche cosa che è diverso.

D:Voi italiani vi siete subito organizzati?

R: Noi italiani ci siamo organizzati in un gruppo, ed è saltata fuori la fantasia italiana, perché in un gruppo …, non so, ogni tanto ci penso “Ma come è successo?”, socialista, comunista, si sono divisi e hanno formato quasi il CLN.

Poi si andava fuori, mi ero procurato un piccolo biglietto che c’eravamo fatti a vicenda, lo facevamo vedere agli americani e uscivamo, io sono uscito un due o tre volte.

Una volta, la penultima volta, ho visto un treno con tutti i morti, francesi, e c’era un ometto lì vicino al quale dico “Dubish doich” “Nein italijenick” “Italiano? Di dove?” “Sono di Bergamo” “Sono di Bergamo anche io” “Ma dove?” “Borgo Canale”, che è un borgo di Bergamo, “Anche io sono nato in Borgo Canale” “Come ti chiami?” mi dice lui, “Bruni” “Ma ti sei figlio del professor Bruni?” “Sì”. Si è messo a piangere, ad abbracciarmi, ecc.

Lui era lì con la Todt, era da un fornaio, allora io sono rientrato un momento, sono riuscito, sano andato da lui, ho mangiato a crepapelle e ho dormito ventiquattro ore. Dopo di che ho rubato una bicicletta, senza nessun rimorso, lui aveva un carrettino, se lo era già preparato, dove aveva su il suo bottino di guerra, pelli per fare scarpe, ecc, ecc, e siamo partiti.

D: E siete arrivati dove?

R: Siamo arrivati a Garmish-Partenkirchen.

D: In quanti giorni?

R: Abbiamo dormito in fienili, ecc, ecc.

D: Tutto a piedi, in bicicletta …

R: A piedi, in bicicletta.

D: E non vi ha fermato nessuno?

R: Sì, i francesi ci hanno portato via tutto.

D: Cioè?

R: Ci hanno portato via tutto, carrettino, bicicletta, tutto, e ci siamo avviati a piedi. Ci hanno lasciato qualche cosa da mangiare che aveva lui.

D: Eugenio tu avevi ancora la zebrata?

R: Certo non avevo altri vestiti, io.

D: E dopo Garmish cosa è successo?

R: E dopo Garmish c’erano ancora gli americani, gli inglesi non so chi. Lì c’era un gruppo d’italiani, militari, li vediamo bene in carne, uno ha addirittura una forma di groviera, e ci da un bel pezzettone di groviera.

Ci organizziamo un po’ anche, si nomina un organismo di disciplina, di cui faccio parte anche io, saputo che ero studente di legge, è vero fino a che ad un certo punto ci hanno detto: “Salite sulle nostre camionette e andiamo”, e ci fanno attraversare il Brennero, e arriviamo …

D: E siete arrivati?

R: Non a Bolzano, dunque no, a Bolzano mi sono fermato perché c’era quel tale Amati, e allora sono sceso, ho lasciato andare avanti gli altri e ho detto “Io vorrei andare …” lui mi ha detto “Guarda pronti, qui c’è un camion che parte adesso per Milano, ferma a Treviglio, poi a Treviglio qualche d’uno ti aiuterà”

Difatti a Treviglio mi sono fermato, si era formato già il CLN, ecc, ecc, tutta gente che poi magari è ritornata ad essere fascista. …

Lì mi ricordo che c’era uno che conoscevo, un certo Tombini, il quale ha procurato una macchina, ma il mio grosso cruccio era sapere se i miei sapevano di mio fratello, perché portare quella notizia lì era una cosa tragica, invece lo sapevano.

Lo sapevano me lo hanno detto lì a Treviglio, era già tornato uno prima di me, un italiano, che era un certo Americano Italo, che era venuto a cercarmi, ma era uno che aveva una certa libertà, perciò mi puzzava di qualche cosa che non andava, è venuto a cercarmi, mi aveva pescato lì, non lo so, non mi ricordo, e mi aveva regalato una bottiglia di olio di fegato di merluzzo, che io avevo messo via per partire.

Poi visto che dovevo partire l’avevo regalata ad un prete, non faccio il nome, che l’aveva messa via “Tieni, io guarda parto, ormai chissà cosa fanno qui, mi sbattono, mi fucilano o roba del genere, pigliala”, quando ho visto che non si partiva, io sono andato là e gli ho detto “Guarda che non sono partito, tornamela”, tornamela, non tornamela è caduta e si è rotta.

Quindi a Treviglio mi hanno dato queste notizie e sono ritornato.

D: Quindi i genitori, mamma e babbo, sapevano già di Roberto?

R: Sì, sì.

D: Tu quando sei uscito dal Reviere, e che hai appreso la notizia di Roberto, ti sei messo a cercare dove era stato messo, sepolto?

R: Ma che mai sepolto? Cremato. Perché me lo hanno detto, poi sapevo, vedevo passare i carri con su tutti i cadaveri che andavano a finire al crematorio. Io il crematorio dentro non l’ho mai visto, perché c’erano i beccamorti che andavano là a fare questo mestiere, ma sapevo benissimo.

D: Eugenio, alla Liberazione di Dachau, voi deportati vi organizzate in comitato con Melodia, con altri, e l’autorità italiana c’era?

R: Assente.

D: Voi non l’avete mai incontrata, neanche quando sei tornato?

R: Mai, niente. No, dopo qui hanno detto che si doveva andare all’ARC, in Via Borgo Palazzo, che era organizzata mi sembra dalla Croce Rossa, lì tanto è vero che c’è il certificato della Croce Rossa Internazionale, che ha raccolto tutti i dati, poi li aveva già raccolti non so come, e hanno preso nota di un po’ di tutto, ma altrimenti …

D: Cioè sul piano della salute, voglio dire?

R: Niente.

D: Perché quando siete tornati non è che…?

R: Io pesavo 35 chili.

D: Sì, poi con malattie?

R: Ero piagato. Avevo tutte le gambe piagate.

D: Ecco, questa attenzione sanitaria, la cura sanitaria, è stata tutta a carico tuo voglio dire?

R: Sì, a carico mio, ma è consistito nel fare una vita normale, quindi forse non ricordo se sulle gambe ho spalmato qualche cosa, qualche crema …

D: L’autorità non si è interessata?

R: No, no, no, non è che mi abbiano detto “Lei poverino è tornato, adesso venga qui”. C’è un mio amico che mi ha fatto una visita, il dottor Leidi, che ricordo sempre con molto affetto, il dottor Paolo Leidi, il quale mi ha chiamato, siccome era medico polmonare, e c’era pericolo soprattutto per i polmoni, mi ha fatto una visita scrupolosa e mi ha detto “No, stai bene”, anche perché il tifo non lascia tracce se si guarisce, almeno credo, non me ne intendo.

D: Di Bergamo oltre a te e tuo fratello, sono state deportate …

R: C’era, io avevo visto un certo Battagion, che poi è sparito, ma non ha lasciato traccia questo tale. Questo tale io lo conoscevo a Bergamo, e là, non lo so, quando sono entrato così, ho visto, ho intravisto, della gente che giocava a pallone cosa che mi ha … “Ma siamo diventati matti?”, ed era anche lui che giocava a pallone.

D: Questo a Dachau?

R: A Dachau, dopo non ho visto più niente di tutto questo. Ma se tu sapessi come si affollano i ricordi, proprio si intrecciano, uno si sovrappone all’altro e viene fuori qualche cosa che probabilmente ha un po’ dell’uno un po’ dell’altro, però inquina tutti e due i ricordi.

D: C’è un altro tipo di ricordo, gli odori di Dachau te li ricordi?

R: Gli odori di Dachau li ricordo benissimo, mi ricordo certi episodi, per esempio tu sai cosa si mangiava? La mattina davano un certo caffè che era poi dell’acqua tinta, ma anche tinta male, poi ti davano le carote con le rape, e la sera ti davano il pane a fette con un po’ di margarina o un salsicciotto, una roba che …

Ci mettevamo tutti in fila, e le fette non le potevano tagliare tutte uguali, tu guardavi, contavi e dicevi “L’ottava fetta è più grossa” allora cercavi di contare a che punto eri della fila, e cercavi di sgattaiolare o fare qualche cosa del genere, o passare facendo finta di andare al gabinetto, che era la cosa migliore, rientrare appena vedevi che la fila aveva sedici posti e tu avevi adocchiato al diciassettesimo una cosa più grossa, tacchete dentro e arrivavi, ed erano 3 grammi di più. Ecco, questa è stata la nostra vita.

D: Eugenio un’ultima domanda, la babele delle lingue, delle urla, dei rumori del campo, come te lo ricordi?

R: Le urla no, mica tante, gli impiccati sì, nel viale. Le urla no. Dicevano che i russi rubavano, che passavano sopra il tetto dei blocchi, facevano il buco e poi entravano dentro, dicevano. Guardavamo con invidia i danesi, perché avevano il pacchetto della Croce Rossa, e c’erano i polacchi, che io ho sempre visto di una dignità straordinaria. Mi ricordo che c’era un ingegnere polacco che era là fermo, sempre così, non è morto, praticamente così, guardando nel vuoto, una testa a uovo, per cui non erano riusciti neanche a raparlo, ed era sempre là così che guardava.

Degli italiani ricordo un avvocato Bruni, si chiamava Alessandro Bruni di Torino, che era l’avvocato dell’UTET, della casa editrice, è morto nella merda, è morto sotto di me, siccome c’era questo tifo petecchiale, questa diarrea, non riusciva più a muoversi assolutamente, fino a che un giorno lo abbiamo trovato lì morto, abbiamo portato fuori un pagliericcio intriso di …, marcito, una cosa terribile, Alessandro era buono, erano tutti buoni.

Visintini Ermes

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Tutti presenti?

R: Si, Visintini Ermes, nato il 10.7.1927 a Tricesimo.

D: Che è in provincia?

R: Di Udine.

D: Ermes, quando sei stato arrestato?

R: Il mese di dicembre del ’44.

D: Dove, perché e da chi?

R: Dove, perché? Lei mi domanda una cosa che è un po’ lunga. Di fatti io sono stato arrestato nel bivio di Buia per una delazione fatta da una signora di Magnano in Riviera, alla quale era successo nel suo ambiente che sono entrati dei partigiani. Hanno trovato dei tedeschi nel suo ambiente. Questi tedeschi, vedendo arrivare questi partigiani, sono andati per prendere le armi che avevano appoggiato al muro. I partigiani hanno falciato uno e uno ferito. Poi sono andati, non so io, non so chi erano. Di fatti lei per poter mantenere l’ambiente aperto ha fatto una delazione che mi conosceva. Non so perché. Un giorno mi incontra venendo giù da Bilerio, mi incontrano lei e sua figlia. Vorrebbe parlare con me. Io mi fermo e le dico: Cosa ha?”. Mi dice: “Lei sa che io ho due figli a Tolmino, della Repubblica di Salò. Vorrebbero venire a casa, certamente hanno paura dei partigiani. Cosa potrebbero fare per poter rimanere tranquilli a casa?” Le ho detto: “Cosa posso dire io?”. “Ma lei è delle forze partigiane, potrebbe anche insegnarci qualcosa”. Di fatti io come un beone gli insegno cosa dovrebbero fare, gli insegno che quando scappano dalla Repubblica di Salò, scappino con delle armi, un poco di armi, e che vadano a un qualche comando partigiano per poter consegnare queste armi e farsi rilasciare un documento che hanno collaborato con le forze partigiane. Mi dice: “Non potrebbe venire lei?”. Ma io? Mica sono un comandante io! “Mi faccia una cortesia, ci porti lei in qualche comando”. Insiste, insiste, insiste. “Si”, le dico dopo, “cercherò di far qualcosa, però i suoi figli quando vengono giù portino tante armi”. “Quando può venire?” “Non so io”, le ho detto, “un giorno verrò”. Insisteva per sapere il giorno che potevo andare da lei. Io le dico: “Verrò mercoledì da lei, cercherò di vedere cosa hanno portato almeno. Poi vi indicherò dove potete andare”. “Mercoledì a che ora?” “A che ora? Come, mi domandate anche l’ora?”. Insiste questa qua. Io come un beone, come ho detto prima, le dico: “Verrò verso le nove”. “D’accordo, verso le nove.” Il mercoledì vengo giù da Bilerio dalla montagna, vengo qua dalla strada di Tarcento, vengo giù dalla strada diretta che va a Buia e al crocevia c’è Buia, Tarcento, Tarvisio e Udine. Nell’incrocio c’era un comando tedesco. Pensavo che avevo i documenti rilasciati da un’impresa di Tricesimo che lavoravo con l’impresa. Ho pensato che con i documenti potevo passare. Invece passando, arrivando a quell’incrocio ho visto dei tedeschi fermi che aspettavano. Ho detto: “Dio mio, aspettano me quelli lì, garantito”. Non sapevo se andare avanti o ritornare indietro. Ma ritornando indietro potevano falciarmi. Proseguo, ho i documenti. Quando sono all’incrocio mi puntano le armi, mi fanno scendere dalla bicicletta e mi portano dentro al comando. E lì legnate da orbi. Ad un certo punto io non capivo più niente, botte da orbi. Mi buttavano da un angolo all’altro. Io non sentivo più niente, se mi ammazzavano era meglio. Mandano a chiamare un’interprete, ho la fotografia in tasca. Mandano a chiamare un’interprete a Magnano in Riviera che gestiva un forno. Viene giù. Vedendo come mi trattavano questi tedeschi, s’è buttata contro il comandante per potermi salvare dalle legnate che mi davano. Io non sentivo più le botte. L’interprete ha cercato di difendermi, veramente. Di lì dopo mi hanno portato nella Villa Spezzotti, mi hanno portato là. Erano dieci tedeschi in bicicletta con cani lupo. Sul cancello trovo un compagno già arrestato su un carro della Repubblica di Salò. Michi Runi, Giacomer Alessandro, lo trovo sul carretto pieno di botte anche lui e lo portano via. Adesso questo qua, mi mettono di fronte a questo qua. Ragionavo con la testa, ma avevo tante di quelle botte. Mi portano dentro e mi dicono: “Tu conoscere partigiano, questo qua?”. “Nicht partigiano, nicht partigiano”. Mi portano su, mi legano per il dietro così e mi portano su nella torata, c’è una torata di due e mezzo per due e mezzo sopra questa villa. Mi hanno legato su un letto di tavole per didietro, per fare i bisogni: tutto addosso. Mi hanno fatto due interrogatori ancora sotto, ma sui due interrogatori quando andavo giù io venivo su dopo, chiamavano l’altro, Giacomer Alessandro. Giacomer Alessandro quando andava su ha detto: “Io ho visto una signora sotto, chi era?”. Era la vedova allegra, la chiamavano, la Revelan di Magnano in Riviera, quella del bar. Allora ho capito chi era che ha fatto questa delazione. Lì sono stato un cinque giorni, mi hanno fatto due o tre interrogatori. Mi hanno portato in via Spalato, ho fatto trentatré giorni in via Spalato. In via Spalato poi si aspettava sempre di partire, partire per la Germania. Quelli che andavano fuori, andavano fuori fucilati. Ho visto uno che era di Binduno, Grafitti Gino, che non voleva andare a morire. Sono venuti su i tedeschi e lui si teneva per la scala, non voleva andare giù per le scale. Sono venuti su i tedeschi col calcio della Mauser, gli davano giù nelle mani per poter tirarlo fuori. Interrogatori nessuno, una sera ci hanno detto: “Domani partite”. Difatti l’indomani mattina siamo partiti. Per farla corta, sennò viene troppo lunga la cosa, l’indomani mattina due di Pordenone, siccome ero giovane, mi hanno detto: “Tu porti fuori un ferro dietro la schiena per poter aprire il vagone, un coltello e una borraccia”. Mi hanno attaccato una borraccia piena di acqua e un coltello dentro per tagliare, in caso che mettono il lucchetto. Nelle perquisizioni che ci hanno fatto prima di partire, mi hanno perquisito, ho fatto vedere l’acqua, dietro ho fatto così che vedevano il ferro che avevo dietro la schiena e mi hanno lasciato passare. Quella sera ci hanno messo cento per vagone, in piedi, da non poter neanche muoversi. Si stava su uno con l’altro, ci si teneva su come dei pali. Sui cento l’indomani ci hanno divisi, cinquanta per vagone. Abbiamo pensato subito di scappare durante il viaggio. Hanno incominciato a tagliare il vagone col coltello che si aveva nella borraccia e di fatti tac, tac, tac, tac, un paio d’ore e l’intagliatore bravo ha fatto l’intaglio e durante la notte ha spaccato il lucchetto col ferro. Ha tirato su il gancio. E’ arrivato un altro convoglio di vagoni, di prigionieri da Gorizia e Trieste. Nell’agganciare i vagoni si era tirato via il gancio e si è aperto il portellone. I tedeschi quando hanno visto così hanno cominciato a gridare e hanno preso una sedia, un seggiolone, quelli che mettono nei giardini, doppi, le panche doppie. L’hanno infilato a metà vagone e hanno messo due cosacchi di qua e due cosacchi di là col Parabel che ci guardavano. Ci hanno divisi metà da una parte, metà dall’altra e via fino a Mauthausen. Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Scusa un attimo, Ermes. Quand’è che ti hanno portato alla stazione per partire? Che mese era?

R: Il mese di febbraio. Il 2 febbraio.

D: Del? Di che anno?

R: Del ’45, il 2 febbraio del ’45.

D: L’arrivo a Mauthausen come te lo ricordi?

R: Brutto. Partendo in quella forma lì coi cosacchi dentro, sa com’è, è una cosa orribile. Non si poteva muoversi né fare i bisogni lì, niente. Sempre col Parabel contro di noi. Si voleva assalire questi cosacchi, ma si aveva due gioppi dentro a cui hanno detto: “No, non potete farlo, noi rimaniamo qua e dopo ci ammazzano a noi”. C’era un certo Venini di Paderno. Insistevano, “Non fatelo, non fatelo sennò ci ammazzano a noi”. Noi siamo rimasti fermi e siamo arrivati a Mauthausen. Arrivati nel campo, dalla stazione ferroviaria abbiamo fatto il giro su fino al campo. Avevamo visto questo cancello. Abbiamo detto: “Qua non si esce più”. Ci hanno messo contro il muro, gli spagnoli venivano a vedere. “Se avete qualcosa, mangiate tutto e questi anelli dateceli a noi, non vi servono”. Nessuno aveva da mangiare sul vagone prima. Là sono usciti fuori salami, formaggio. Per un pezzo di formaggio loro ci davano un bicchiere d’acqua. E ancora calda. Quelli che avevano la refurtiva, perché avevano nascosto tutto, credevano di vivere con quello che avevano in valigia. Arrivati poi nel punto che mandano dentro venti alla volta, venti, venticinque nella scalinata del bagno, si vedevano uscire questi prigionieri nudi, via nelle neve che andavano al blocco. Chi sono quelli lì? Non si conoscevano più questi qua. Forse erano prima insieme con noi. Arriva il nostro turno, andiamo giù nel bagno. Si comincia a svestirsi, a buttare la roba di qua, scarpe di là. Cominciano i cosiddetti barbieri, cominciano a rasarti dappertutto. Ti tagliavano dappertutto, sangue dappertutto. Pregavi il Signore di andare sotto l’acqua per poter lavare fuori il sangue. Viene il punto di andare al bagno, prima ti lasciano correre l’acqua calda. Si stava da Dio. Si lavava il sangue, anche se si era tagliati. In giro a questo bagno c’era un piccolo muretto da sessanta centimetri tutto in giro e sopra questo muretto erano i capi blocchi con gomme da un metro, sessanta centimetri, che ti aspettavano. Tutto ad un momento dall’acqua calda ti lasciavano l’acqua fredda, tutti cercavano di evitare quest’acqua fredda, cercavano di andare sul muretto. Vedevi come nella gabbia dei leoni, colpi nella testa, vedevi per terra cadere i prigionieri, cose adesso anch’io non arrivo a raccontarle bene come dovrei raccontarle. Usciti fuori da questo bagno di corsa, nudi, su alla quarantena. A piedi, nudi, di corsa, su in quarantena. Siamo stati lì un po’ di tempo. Dopo tre giorni, quattro, ci hanno dato i vestiti. Una camicia che arrivava qua, non arrivava proprio neanche… Una giacca di quelle lì che non arrivava neanche… Zoccoli che forse erano grandi o piccoli che non si arrivava a star dentro. Sono qui a raccontare adesso. Quando si aveva da fare i bisogni si doveva uscire fuori dalla baracca. C’era un pozzo al di fuori. Tutti uscivano, pieni di dissenteria. Tutti uscivano per andare a prendere il posto con il sedere su questo pozzo. Li hanno chiusi adesso, ho visto che li hanno chiusi. Non si sa neanche dove sono. Ognuno che faceva un movimento lì, uno cadeva dentro. E chi lo andava a prendere? Nessuno. Rimaneva dentro.

D: L’immatricolazione a Mauthausen quando te l’hanno fatta?

R: Quando mi hanno dato il vestito.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: 726000… Ce l’ho a casa, non mi ricordo… 900 e qualcosa.

D: E il blocco te lo ricordi che numero era?

R: Il blocco della quarantena dove poi ci hanno mandati, pochi qua, pochi là, la prima uscita che ho fatto l’ho fatta a Wels, a levare macerie. Da Wels sono andato ad Ebensee.

D: Da Wels ti hanno mandato a Ebensee. Questo in che periodo? Te lo ricordi?

R: Non mi ricordo.

D: Non ti ricordi quando sei arrivato a Ebensee?

R: Non mi ricordo. Ho fatto poco a Wels, avrò fatto un mese a Wels, neanche: venticinque giorni, un mese. Mi ricordo un fatto strano a Ebensee, che il mio amico Barnaba, eravamo sempre vicini io e il mio amico Barnaba Alfredo, siamo lì vicini uno all’altro e mi consiglia… Perché andando di notte a lavorare nella stazione ferroviaria di Wels si aveva freddo. La camicia che non arrivava ai calzoni. Mi ha detto: “Sai cosa fai? Metti su una coperta, te la piego io dietro la schiena, te la piego io bene e te la metto su nella schiena. Così durante la notte nella stazione ferroviaria non sentirai freddo”. “Fammi, fammi quel lavoro lì”. Allora mi ha messo questa coperta e al rientro dalla stazione c’erano i tedeschi sulla scalinata di questo grande… Si voltavano e ci guardavano, ci contavano e ci guardavano. Al rientro io ero mezzo addormentato, vedo un maresciallo tedesco che vede la coperta uscire dal didietro della mia schiena, qua. Mi fa così, mi chiama e mi dice, non so come si dice in tedesco, di levare la giacca. La coperta cade. Chiama due prigionieri, prendono uno scagnetto, prendono due prigionieri, quelli più ruffiani che avevano solo voglia di mangiare una minestra in più, mi mettono sullo scagnetto e lì venticinque frustate. Uno con un affare così e l’altro con una tavola. Io ho sentito tre, quattro. Poi sono svenuto. Mi sono ripreso che ero sul braccio del mio amico Barnaba Alfredo che mi bagnava le labbra e i timpani. Non sapevo cosa fare, certamente credevo di essere morto. So che il mio amico mi ha salvato, non una volta, mi ha salvato tre, quattro volte questo mio amico. Barnaba Alfredo. A Ebensee è morto sul braccio a me. Chiuda, chiuda.

D: Ermes, no, stai tranquillo. Ermes, quello che tu hai raccontato della coperta, è successo a Wels o…?

R: A Wels, a Wels.

D: Dopo ti hanno trasferito a Ebensee?

R: A Ebensee, sì.

D: Eravate in tanti italiani?

R: Eravamo pochi.

D: Ascolta, a Ebensee ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: No, non mi ricordo.

D: A Ebensee eri lì a lavorare anche a Ebensee?

R: Sì, alla galleria. Alla galleria lavoravo. Lì un ebreo mi aveva consigliato, mi aveva fatto capire che nel carbone, questa macchina che stava fuori, i carrelli pieni di materiale, c’era un carbone che era come quella sedia là, un marroncino chiaro. Quello lì era buono. I tedeschi facevano della margarina con quello. L’ebreo mi aveva consigliato, mi ha detto: “Mangia di quello, non avere paura, vedrai che quello ti salverà la vita”. Di fatti io mangiavo tre quarti di chilo, un chilo al giorno. Rubavo, andavo su alla macchinetta quando si fermavano e lo mettevo via nel seno per poter mangiare continuamente, quando avevo bisogno di mangiare.

D: Ma tu nella galleria cosa facevi?

R: Non so neanche cosa facevo. Ero nella galleria, facevo il manovale. Non so cosa facevo, cosa ero addetto a fare, i lavori, scaricare, non saprei neanche più cosa dire, cosa facevo là. Essendo in questa galleria, mi ricordo ancora che erano robe pazzesche, perché là pioveva di sopra. Era la morte sicura sopra, morte sicura. Si faceva a turni, turni di notte e turni di giorno.

D: E il tuo amico era sempre con te?

R: Non voleva mangiare il carbone il mio amico.

D: Ascolta un attimo, ritorniamo indietro un attimo alla stazione di Wels. Lì c’era un campo a Wels oppure vi portavano lì alla stazione?

R: No, era un campo fatto provvisorio sembra. Sembra che sia stato provvisorio, un grande palazzo era, con delle scalinate enormi. Ci buttavano là, ci mettevano là in questo camerone, ci mettevano in piedi così e si doveva dormire così, ci buttavano giù. Così a taglio si dormiva, ci buttavano una coperta sopra. Per quello quella coperta che dicevo.

D: Questo palazzo adibito a campo era vicino alla stazione, era nel centro della cittadina?

R: Si passava, si faceva un chilometro, un chilometro e mezzo per la città. E’ per questo che odio gli austriaci.

D: A piedi?

R: A piedi. Eravamo otto per otto, ci si teneva su per non cadere, eravamo già allo stremo. Si passava otto per otto e di dietro c’erano le portantine, quelli che portavano i cadaveri che cadevano per strada. Erano con bastoni, un bastone qua e un bastone di là, uno davanti e uno di dietro. Quando cadevano, buttavano su. Portavano i cadaveri.

D: Quindi attraversavi la cittadina?

R: La cittadina.

D: E i civili vi vedevano?

R: I cittadini ci vedevano e mi ricordo bene che, è per questo che odio gli austriaci, quando ci vedevano passare cadaveri viventi aprivano la porta di casa o la finestra e ci sputavano. Non sapendo che eravamo prigionieri di guerra. Non eravamo dei delinquenti. Ci sputavano. Io ho un ricordo brutto sugli austriaci ed è per questo che li odio, li odio veramente.

D: A Ebensee tu lavoravi in galleria, non ti ricordi il blocco?

R: Non mi ricordo, il diciannove mi pare, non so, il diciannove, il ventuno, il ventidue… Non mi ricordo.

D: Ti hanno cambiato il numero o ti hanno lasciato il numero?

R: Sempre il mio numero.

D: Quello di Mauthausen?

R: Quello di Mauthausen, sì.

D: Lì, mentre tu mangiavi il carbone, il tuo amico ti ha aiutato ancora?

R: Sì, sì. Mi ha aiutato più volte. L’unica volta veramente che mi è restato nel cuore il mio amico è quando mi hanno dato queste venticinque frustate, io non sapevo dov’ero, mi trovo sul braccio suo che mi bagnava la fronte, le labbra per farmi rinvenire. Un ricordo che non posso dimenticare.

D: Ascolta, lì a Ebensee fino a quando sei rimasto tu?

R: Sono rimasto lì un dieci giorni dopo arrivati gli americani.

D: Dov’eri tu al momento della Liberazione?

R: Nel campo.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Una cosa stupenda, veramente. Quando prima che mi morisse il mio amico ci chiamano tutti nella grande piazza e lì nella grande piazza avevano fatto un palco i tedeschi. Lì in tutte le lingue ci hanno detto: “Adesso arriveranno gli americani, vi daranno da mangiare di più”. Vedevi che tutti i prigionieri, uno che rideva, uno che piangeva, l’altro che cadeva, quell’altro che moriva, cadeva, moriva. Per la contentezza. Io ridevo dalla contentezza. Ero mezzo impazzito. La sera prima il mio amico doveva andare a lavorare e non si sentiva di andare a lavorare. Uno di Spilimberg mi pare che gli abbia detto: “Buttati giù per terra, fai finta che hai male. Se ti senti male, fai finta che hai male”. Doveva andare a fare il turno di notte. Lui si butta per terra. L’hanno portato dentro in quattro, l’hanno pestato fuori, calci nel ventre, calci nello stomaco, nella testa. Robe da non ricordare. L’hanno portato dentro, l’ho fatto mettere io nel mio castello, ero ancora io nel castello lì che aspettavo. Gli dicevo: “Alfredo, dimmi un po’ cosa hai. Cosa ti hanno fatto?”. Non rispondeva. “Alfredo, dimmi, dimmi, dimmi per favore, dimmi cosa hai”. Niente da fare. L’indomani mattina che sono arrivati gli americani hanno voluto tutti al campo nella grande piazza. Abbiamo portato fuori questo Alfredo, anche lui. L’abbiamo portato là, lui è caduto ed è morto lì. L’abbiamo portato nella baracca, io gli fregavo la testa. “Alfredo, dimmi un po’, dimmi, rispondimi. Cosa devo dire a casa se arrivo prima di te?”. Per non fargli capire che era dietro a morire. Gli fregavo la testa e lui non mi dava risposta. Mi è morto lì.

D: Dopo sono arrivati gli americani?

R: Sono arrivati gli americani e hanno dato quarantotto ore di carta bianca. Chi aveva la forza? Io non avevo la forza. C’erano certi russi che avevano la forza, cercavano i capi blocchi. Tutti erano già travestiti al pari di noi, ma c’erano quelli che li conoscevano. Vedere correre dietro a questi capi blocchi era una soddisfazione per me. Era stata una gran soddisfazione, gli correvano dietro e giù botte. Ho visto uno ammazzarlo di legnate e poi l’hanno buttato dentro nella piscina. Lui cercava di nuotare e io non avevo forza di vederlo morire. Sono andato dentro con la testa in mezzo a tutte queste gambe che volevano vederlo morire. L’ho visto che annaspava nell’acqua, ho visto che gli buttavano dentro dei sassi fin quando è rimasto dentro con un sasso sopra la testa, questo capo blocco. Ho visto uno ucciderlo con la Miska, l’affare in cui si mangiava dentro, con quella là. E’ morto quello lì sul rivale, lo hanno lasciato lì due o tre giorni prima che morisse. Sono successe certe cose che è bello raccontare, ma fa male oggi la fine com’è stata. La fine doveva essere non so come io, doveva essere guidata da qualcuno, perché quarantotto ore di carta bianca… E’ successo quello che non doveva succedere. Anche per le case andavano a Ebensee i prigionieri. Chi aveva la forza, la grande forza l’avevano i russi, non noi italiani.

D: Tu a Ebensee dopo la Liberazione sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto lì dieci giorni. Quelli che mi avevano fatto portare fuori il coltello a Pordenone e il ferro dietro la schiena mi hanno preso e mi hanno detto: “Vieni, vieni con noi”. Ma non arrivavo a camminare io. Allora si sono messi d’accordo in quattro di portarmi uno di qua e uno di là con loro, si davano il cambio. Pesavo vent’otto chili. Sono andato a finire a Hanau, mi ricordo ancora, a piedi a Hanau, io e un ragioniere. Non so gli altri, sono spariti, sono rimasto io e Sergio si chiamava, un ragioniere era. Eravamo rimasti io e lui. All’inizio del paese io non arrivavo più a camminare, mi tenevo su per il muro di una casa. Sono venuti fuori gli austriaci a vedere cosa… A vedermi così hanno detto: “Qua bisogna chiamare qualcuno”. Hanno chiamato quest’infermiera di vicino a Orciano, un paese vicino a Orciano. Era infermiera italiana. Quando sono venuti fuori mi hanno detto: “Di dove sono?”. Italiani, allora hanno chiamato un’infermiera, quella di Orciano. E’ venuta vicino: “Di dove siete?”. “Di Udine”. “Oh, di Udine”. Ci ha parlato in friulano. Questa mi ha preso, non potevo camminare, perché io ho evitato la Croce Rossa Internazionale sei volte, volevano mettermi nell’ospedale. Io avevo paura più di entrare nell’ospedale che di camminare e morire per strada. La signorina mi ha detto: “Stai fermo che io non ti porto in ospedale, ti porto con due italiani che sono qui in piazza a Hanau”. Io e questo mio amico, Sergio. Ha chiamato questi due italiani, prigionieri militari. Gli ha detto: “Dovete fare un posto a questi due.” Erano titubanti ancora, hanno cercato di darci il posto in questa casa. Ci hanno fatto il letto, uno di qua e uno di là. Siamo stati lì un paio di giorni, non so quanti giorni siamo stati lì. Durante la notte avevo il tifo pitecchiale, mi grattavo, mi grattavo. Mi vergognavo a farmi vedere grattare, aspettavo che loro si addormentassero per poter grattarmi durante la notte. E giù, giù, giù a grattarmi fin quando loro si sono accorti e hanno detto a questa signorina: “Vedete, noi non possiamo tenerlo perché è così, così e così, bisogna farlo vedere ad un dottore”. L’indomani l’infermiera mi ha portato da un dottore,. Mi ha detto: “Tira giù i calzoni”. Andavano giù da soli i calzoni, avevano uno spago legato al ventre. Slegato lo spago, giù i calzoni. Quando mi ha visto, ha detto “Aaaah” il dottore, si è spaventato. Mi ha preso, mi ha messo in una vasca di cemento, mi ha messo non so cosa dentro, mi ha messo dentro fino a qua. Non so quanto tempo sono stato dentro in questa vasca. L’ho fatta per tre volte questa roba. Obbligo eh. Mi cadevano non so cosa, uscivano fuori. Facevo così alla testa, usciva una bestiolina con le gambe così. Facevo sul ventre così e uscivano le bestie, erano i pidocchi penetrati. Passata questa storia dei pidocchi, del tifo pitecchiale, arrivano gli americani in piazza. Io vado là, gli americani a vedermi in quelle condizioni cercavano di farmi mille feste. Mi avevano messo come capo della cucina e io guardavo il mangiare, ma non potevo mangiare, non arrivavo a mangiare. Stavo lì a fare il capo della cucina. Quello che rimaneva nei grandi recipienti della cucina, mi avevano dato l’ordine di farne quello che volevo. A vedere gli austriaci che venivano a domandare da mangiare, con l’odio che avevo buttavo giù tutto nel canale, facevo buttar giù tutto nel canale. Non davo niente agli austriaci. Non so se facevo bene o male, avevo un odio tremendo.

D: Ermes, ti ricordi il giorno della Liberazione che giorno era? Quando eri lì a Ebensee che sono arrivati gli americani?

R: Il 5 maggio. Mi ricordo, quello sì. Perché il 4 ci avevano chiamato nella grande piazza, può dirlo anche Tibaldi.

D: Ascolta, lì gli americani ti hanno nominato capo cuciniere.

R: Sì.

D: Dopo quando sei rientrato in Italia?

R: Sono rientrato in Italia…da lì mi hanno portato a Klausenbach, in un campo di smistamento, là erano tutti prigionieri militari, prigionieri politici e via discorrendo. Mi hanno portato là gli americani, mi hanno portato in questo campo a Klausenbach. Lì nessuno ci guardava, se avevi male, se avevi bisogno di qualcosa, nessuno c’era. Eravamo come all’arrembaggio. Siamo stati lì non so quanto tempo a Klausenbach. Ero andato al secondo piano, terzo con prigionieri militari, dormivo sopra. Un giorno siamo andati a rubare il latte nella cucina dell’infermeria. Con un alpino sono andato, un alpino mi ha preso, siccome avevo bisogno di latte, sapevo che avevo bisogno di latte. Gli domando all’alpino: “Fammi una cortesia. Prendimi un po’ di latte”. E’ andato nel grande bidone e mi ha preso una gavetta di latte. Me la sono bevuta tutta, ma durante la notte dissenteria. Infatti, avevo paura di disturbare i vicini che avevo lì, non sapevo cosa fare. Andavo giù, dovevo andare giù per le scale. Non sapevo se dovevo fare ancora uno scalino o fermarmi, fin quando ho detto: “Faccio lo scalino”. Avevo gli scarponi, avevo pieni gli scarponi perché andava giù dritta. Non sapevo cosa fare dopo. Cosa dovevo fare? Sono andato sotto nelle cantine a cercare qualcosa per potermi cambiare e lavarmi con quella forza che avevo. Nelle cantine ho trovato qualcosa. Latte lasciarlo, ho detto, non si può bere più latte qua. Da lì mi hanno portato ad Innsbruck. Si doveva fare la quarantena entrando in Italia. Mi hanno detto che se trovavo una persona che mi accompagna in Italia, io sarei andato via direttamente senza far la quarantena. Difatti ho trovato uno di Treppo, un certo De Luca Ivano. Trovo questo qua, gli dico: “Se vieni con me non fai la quarantena”. Lui “Magari” dice, e mi ha accompagnato lui. Almeno non mi avesse accompagnato. Ho fatto venti scale, nessuno poteva rientrare in Italia, era tutto interrotto. Dicevano che sul Tagliamento c’erano i fascisti che ci aspettavano, era un casino hanno detto in Italia. Sono arrivato il 16 giugno in Italia.

D: Dove sei arrivato?

R: A Udine. Siamo arrivati col treno fino a Basiliano. A Basiliano io e questo De Luca la polizia partigiana ci ha fatto smontare, perché non si poteva andare coi macchinari che avevano sopra. Ci hanno fatto smontare giù a piedi, io non potevo camminare. Ogni venti metri, ogni venticinque dovevo sedermi, perché non arrivavo. Siamo arrivati in quel paese dopo Basiliano, come si chiama… Campoformido. A Campoformido è venuto fuori un vecchietto e ci dice: “Dove andate?”. “A Udine”. “Aspettate, aspettate che vado a prendere io il mulo”. E’ andato dentro nel suo cortile, ha preso il mulo con la carretta e ci ha portati fino in Piazza Vittorio a Udine. Quando sono arrivato là, abbiamo ringraziato questo vecchietto e via a casa. A Udine, in Piazza Vittorio. L’elettricista di Tricesimo Mansutti, lo chiamo “Mansutti!”. “Chi sei tu?”. Ha cambiato vagone, non è venuto sul nostro vagone dopo, ha preso paura. Ero in condizioni che facevo proprio… Gli inglesi a Treviso mi hanno fatto smontare, levare la camicia e mi hanno ripreso con la cinepresa, mi hanno fatto delle fotografie, di qua, di là, almeno che avessi un ricordo di quelle robe. Per aver concesso loro di fare queste fotografie sulla mia personalità mi hanno regalato cioccolata e lire. Credevo che fossero dollari, gli dicevo: “Prendi, prendi tu” al mio amico Ivano. Aveva un sacco Ivano e le metteva dentro. Siamo diventati signori. Non valevano niente, robe da pazzi.

Cosmar Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Cosmar Franco nato a Remanzacco in provincia di Udine, il 28.05.1927 e adesso sono residente qui a Bologna da tanti anni, una quarantina di anni.

Io sono stato deportato perché sono stato preso in combattimento.

Ero nella formazione partigiani della divisione Valnatisone, Brigata Piccelli, io sono stato preso in combattimento in Jugoslavia, a Barcis, in Jugoslavia. Dovevamo attraversare il fiume e la vecchia ferrovia.

Sembrava sul momento, come dicevano i nostri ufficiali che erano essi d’accordo con i repubblichini. Poi però cosa successe da noi? Da noi è venuto a mancare un uomo, un uomo che abbiamo cercato tutto il giorno e non l’abbiamo trovato.

Alla notte, quando siamo partiti, sarà stata mezzanotte, abbiamo disceso questo paese, attraversando questa ferrovia. C’era un chiaro di luna e il prato sembrava una tavola da biliardo quanto era bello…

Allora, davanti a noi c’era la pattuglia, le mitragliere e subito dietro a noi la seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione…

Arrivati quasi in fondo, si sentì uno sparo o due perché la pattuglia era riuscita a sparare perché era un’imboscata dei tedeschi, tedeschi, repubblichini e anche alpini come loro si sono definiti. Fatto sta, che lì ci hanno fatto prigionieri.

D: Franco, scusa, quando questo è accaduto?

R: Io sono stato preso il 2 gennaio del 1945…, sono stato fatto prigioniero. Abbiamo avuto l’assalto sul campo con trentuno o trentatre morti, tutto il resto, gli altri tre battaglioni si sono ritirati, non hanno accettato il combattimento perché erano tutti allo scoperto. Per noi è stata un’improvvisata questo tradimento e nessuno se lo aspettava.

Ci hanno portato su i tedeschi, prima hanno cominciato a venire con il mitra attorno a noi…, ci volevano ammazzare, poi c’erano anche i repubblichini, i fascisti jugoslavi, i cernisi che sono gente cattiva quelli.

Ci hanno portato giù in una casa, c’erano tre o quattro case, ci hanno messo al muro per fucilarci i tedeschi.

Poi, hanno detto: No, questa è zona nostra, voi non li fucilate, perché abbiamo avuto abbastanza morti, voi non li fucilate”.

Allora mandavano di là la staffetta tedesca, per avere l’ordine dal comando tedesco di sapere cosa dovevano fare di noi. Ci hanno legati dentro, e poi io avevo il vestito di un soldato tedesco, hanno cominciato a dire: “Tu, kaput”.

Poi giù botte, ci hanno legato con le mani di dietro e lì aspetta per delle ore, finché arrivò la staffetta e ci dissero: “Via”, ci hanno fatto camminare fino a Tolmino a piedi, con un buio terribile.

Ci hanno messo dentro le carceri a Tolmino, arrivammo in quindici, c’era un ufficiale con noi, Paride, fatto sta che ci hanno messo a dormire per terra, senza una coperta, senza niente, sul cemento così, un freddo, un freddo, roba da matti. E ogni tanto entravano dei fascisti con la baionetta in canna che ci volevano ammazzare. I tedeschi ci proteggevano. Gli italiani ci volevano uccidere, gli jugoslavi ci volevano uccidere, i fascisti… Siamo stati senza mangiare.

Quando entravano a fare i compiti gli ufficiali, prima entrava la truppa con il mitra spianato e poi piano, piano entrava l’ufficiale, e diceva: “Ragazzi, mi dispiace per voi, però non posso darvi da mangiare”. Senza mangiare, io non so niente. “In ogni caso, stasera”, disse, “quando arriverò, se riuscirò a racimolare qualcosa”.

Questo qui è venuto alla sera, tutti i soldati, ci ha portato una pagnotta, quelle nere che si è diviso in quindici persone. Poi disse: “Ho lasciato ordine a tutti gli alberghi di qua, di Tolmino che le cose che a loro avanzano, di non gettarle via, ma di tenerle a parte per voi altri”.

Siamo stati cinque giorni, tra fame e freddo, non riesco a descriverlo. Una sera è arrivato lì l’ufficiale tedesco, e ci ha detto: “Preparatevi, mettetevi in fila”; ci hanno legato, ci hanno messo in fila, in mezzo alla fila con questa gente che ci voleva ammazzare. E io pensavo: “Ci vogliono ammazzare tutti”. Ci proteggevano però i tedeschi. Fatto sta che ci hanno buttato sul camion allo scoperto e in ogni camion, sopra alla tettoia dell’autista c’era un uomo con il mitragliatore, e di dietro c’era un soldato con il fucile.

Io avevo le mani slegate e giravano su e giù e nel convoglio di prima avevano caricato dei piselli secchi e io volevo prendere dei piselli per mangiare, con la fame che c’era. Non si vedeva l’ora di partire, siamo partiti, altrimenti ci scoppiava il cuore con quella gente che ci voleva massacrare, da un momento all’altro potevano dire: “Salta su”, e ti ammazzavano che per loro era tutto regolare.

Allora partimmo, e loro avevano paura che i partigiani per strada, nella zona partigiana succedesse qualcosa come un’imboscata ecc.

Speravo anch’io, ma niente da fare. Allora dissi a un mio amico: “Ho le mani ghiacciate, ho un freddo da matti. Come facciamo?” “Sei solo te slegato, anzi tu prendi quello di dietro, e quello davanti si gira, ci spara e ci ammazza”.

Fatto sta che arrivammo a Cividale, posto di blocco dei cosacchi, dopo Cividale siamo passati al mio paese di Arnazacco, da Arnazacco fino a Gorizia. A Gorizia ci hanno messo nelle carceri, e nelle carceri era pieno di pidocchi. Tutta la gente che gridava, cantava canzoni slave, patriottiche, tutti i giorni e notte a cantare perché erano i giorni che arrivavano i tedeschi e prendevano a secondo la gente che volevano ammazzare e dicevano: “Tu, tu fuori”. E uno pensava che si andasse a casa, chissà dove, invece li portavano al castello e li fucilavano.

Ogni tedesco che i partigiani uccidevano lì attorno, uccidevano un soldato, dieci partigiani e un ufficiale.

Fatto sta che ci hanno interrogato e come sono entrato io dalla SS, vestito così da soldato tedesco e poi era una divisa estiva, di quelle di tela.

Hanno fatto tante di quelle domande e non ne potevo più.

Allora non mi hanno picchiato.

Hanno provato a mandarmi in carcere, poi in carcere ci davano quella sbrodaglia regolare, tutti i giorni, tutte le mattine arrivavano con quel martello nelle sbarre, finché un giorno si dormiva sul fieno, sulla paglia, il gabinetto era un secchio, finché un giorno mi sono sentito chiamare: “Cosmar, si prepari, deve venire giù con me”. Pensai: “Questi qui mi fanno fuori, mi chiamano per nome”, forse perché ero vestito da tedesco… Invece quando sono arrivato giù, mi dissero: “Guarda che c’è un signore che ti vuole vedere.”

“Come mi vuole vedere?” Non davano loro a un partigiano preso con le armi in mano, la possibilità di avere un colloquio con qualcuno.

Mio padre avevo lavorato sempre in Germania, aveva anche conosciuto mia madre in Germania e sapeva la lingua. Si vede che lui ha incastrato questo tedesco… , e mi ha fatto avere il colloquio con mio padre.

Mio padre mi disse: “Ti ho portato una valigia”, quelle di cartone legate con le corde perché in Germania è freddo. “Da domani partirai per la Germania a lavorare”. Come sapeva mio padre che partivo l’indomani? Perché aveva parlato con l’ufficiale tedesco. Fatto sta che quando sono arrivato dentro alla cella sono rimasti tutti di stucco, e mi hanno detto: “Non ti hanno fatto niente?” “Sono qua…”

L’indomani mattina, tutti fuori dalle celle in fila per quattro, fuori tutti.

E ci hanno portato alla stazione di Gorizia.

Lì in stazione c’erano tutti i vagoni aperti. Lì ci hanno incastrato sopra questi vagoni e poi quando era pieno chiudevano… Allora aspettavamo che partisse il treno, passò un giorno, passò il secondo, passò il terzo… e il treno non partiva. E la gente del paese, ogni tanto, quando un tedesco o un italiano lasciava un po’ passare, buttavano giù qualcosa da mangiare, però lo prendevano sempre quelli che erano davanti, quelli che erano di dietro non prendevano niente. Lì l’egoismo dell’italiano era quello di tenersi tutto per sé.

Io non avevo niente, anche quello di dietro a me non aveva niente.

D: Posso chiederti? Dicevi che avevi addosso una divisa da tedesco…

R: Sì, perché avevano bloccato un convoglio tedesco. I convogli andavano a prendere i generi alimentari, da Gorizia andavano a Tolmino, Caporetto.

Allora, noi facevamo così, quando c’era da prendere qualcosa, perché il mangiare non arrivava …, ho mangiato tante di quelle rape…

D: Non avevate aiuti?

R: Sì, c’erano gli aiuti, ma non lasciavano passare. In Friuli c’erano trentanovemila uomini tra cosacchi, Repubblica di Salò, Jugoslavi. C’erano trentanovemila uomini…, poi qualcosa mi sfugge sempre. Lì non riuscivano a passare. Noi avevamo una zona molto dura lì.

Noi, tutti i giorni, era chiamata anche divisione d’assalto, tutti i giorni noi avevamo un rastrellamento perché noi partigiani, la linea di Tarcento che andava in Austria era l’unica che andava, le altre linee erano saltate tutte. Lì non sono riusciti la linea a farla saltare dietro ai monti perché i tedeschi hanno messo una grande contraerea che li disturbava e quando si alzava su alta quota, buttavano giù le bombe, con il vuoto d’aria le bombe si spostavano, non andavamo mai a colpire il bersaglio.

Allora il Generale Alexander, comandava il generale Alexander, diceva: “Domani passano due divisioni di tedeschi, dovete fare saltare la linea, disturbare, ritardare”.

Questi qua poi che cosa facevano? Si fermavano sì, ma venivano contro di noi a combattere.

E noi avevamo sempre il combattimento…

Ecco perché era chiamata divisione d’assalto.

D: In quanti eravate, più o meno, in questa divisione?

R: Eravamo seimila credo.

D: Quindi si può dire che sei stato preso a Barcis, o vicino a Barcis.

R: Sì, c’è un ponte di legno e mi mandò la fotografia quell’ufficiale che lui ha detto che è un alpino, che è repubblichino, che sparavano contro di me. Due ne ho trovate.

D: Dopo…

R: Sì, su in montagna le ho trovate.

E’ un caso. Io non ho odiato quella gente perché lui cos’ha fatto? Lui ha scelto una via e io ho scelto quell’altra. Se a me andava male, se andava bene a lui, cosa succedeva? La stessa cosa. Non si può odiare per questo, come odiavi sul fronte nemico non si può odiare, dopo la guerra non si può odiare perché ognuno combatte per il suo paese, per il suo ideale e tutto il resto.

Per quello dico che non si può odiare.

Perché loro, spiego questo famoso… repubblichino, lui non vuole essere chiamato Repubblica di Salò, repubblichino, alpino che anche lui, dopo la Liberazione, ha avuto delle cose che non trovava mai lavoro perché era dei repubblichini.

Ha dovuto girare tutta l’Italia per trovare lavoro.

Era come per il Friuli.

Nel Friuli, quando uno era stato partigiano, secondo loro era stato comunista e non trovava lavoro.

Era la stessa cosa.

D: Accennavi prima a Porzius?

R: Sì.

D: Cioè?

R: Io ho conosciuto tutti quelli di Porzius, perché tutti i giorni io passavo di lì per andare a prendere i medicinali o per andare a prendere armi e munizioni. I lanci che facemmo sulla valle di Porzius, gli inglesi di Pippo, di notte,buttavano giù questi qua e buttavano giù anche gli ufficiali, buttavano giù gli inglesi. E io andavo sempre lassù.

Queste donne che loro dicono, l’avevano condannata come spia, le donne che avevano quelle di Porzius e le altre c’erano quando io andavo su, ma io non sapevo che erano ricercate.

D: Siamo rimasti quando eravate alla stazione di Gorizia nei treni.

R: Siamo stati lì tre giorni fermi e per fare i bisogni, ogni tanto aprivano lì fuori ai vagoni, davanti al pubblico che era fuori, poi dentro Roma, lì in piedi senza potersi neanche sedersi, ma neanche voltarsi. Ci avevano talmente incastrati dentro che non passava neanche l’aria.

Finché un pomeriggio, verso sera, il treno andò avanti, andò avanti, ma non molto, si fermò a Pradamano, è un paesino prima di Udine, su un binario morto perché c’erano i bombardieri che andavano su e giù e allora avevano paura dei bombardamenti.

Il giorno dopo, di notte, ci hanno portato alla stazione di Udine e ci hanno collegati insieme a quelli della Risiera di San Sabba, e noi di Udine, di Gorizia e poi quelli di Udine sul treno. Hanno collegato tutti i vagoni, senza mai uscire, e siamo andati via.

Ogni galleria, se c’era un allarme, dovevamo stare dentro alle gallerie con quel fumo, che non si respirava. Anche un giorno si stava là dentro.

Infatti per arrivare a Mauthausen ci abbiamo messo una settimana, sempre chiusi nei vagoni e lì era venti gradi, anche ventidue a Tarvisio.

Quando siamo arrivati a Mauthausen, siamo arrivati a Mauthausen verso sera.

D: Che periodo era più o meno?

Sai il giorno in cui siete arrivati a Mauthausen?

R: Il giorno, con precisione, non lo so.

D: Era sempre gennaio?

R: All’inizio di gennaio.

Fatto sta che di lì ci hanno aperto tutti i vagoni, la prima cosa che ho guardato quando ci hanno fatto scendere, il nome della stazione dove eravamo: Mauthausen e ho detto: “Guarda dove sono arrivato?”

Pensate mio padre che era uno della guerra del 1914 – 1918 è stato prigioniero a Mauthausen e mi raccontava che mangiava le ortiche per sfamarsi e sono arrivato qui anch’io.

Dopo, messi in riga, siamo andati un bel po’ avanti, non abbiamo attraversato il paese di Mauthausen, ci hanno fatto prendere le mulattiere, di notte, al buio e cammina, cammina non si arrivava mai in fondo.

Ad un certo punto si videro delle luci, tutto un chiarore.

Man mano che si andava avanti si vede che si ingrandiva questo colosso di campo.

In una parte Mauthausen è tutta di cemento armato.

Lì si vide questo portone alto, a fianco c’era una piscina… questi riflettori che sparavano addosso. Si è aperto il portone e ci hanno fatto entrare, dentro ci hanno fatto mettere in fila e sulla destra venne fuori un uomo dicendo che era il capo del campo, su un balcone, parlava in tedesco, io il tedesco non lo capivo.

Dopo un po’, quelli del campo, i tedeschi hanno detto: “Via tutte le valigie…”, si è messo via prosciutto, salame, e in tutto il viaggio noi siamo rimasti senza mangiare.

I tedeschi hanno sequestrato via tutto.

Di lì ci hanno fatto andare su a destra, un’altra decina di gradini, poi un gran portone di nuovo qui, si è aperto ancora il portone, e subito dopo il portone a destra, una scalinata dove c’erano i bagni, le docce.

Ci hanno fatto spogliare tutti nudi, un freddo…, fuori c’era il ghiaccio e la neve, tutti nudi, e lì a fare la doccia, calda, fredda, calda, fredda, ghiacciata.

Di lì i tedeschi, la SS ci ha fatto togliere tutto…, chi aveva la fede, chi aveva l’orologio d’oro, tutte quelle cose lì.

C’era da noi un prete jugoslavo, di Lubiana, lui sapeva il tedesco. Aveva una catenina, ha detto in tedesco: “Per piacere, non me la portate via, è un ricordo di mia mamma”. Questo tedesco l’ha guardato in faccia e ha cominciato a offendere, hanno fatto un girotondo e l’hanno pestato. Non l’abbiamo più visto, non so dov’è andato a finire, se l’hanno ammazzato, non l’abbiamo più visto.

Di lì nudi, ci hanno detto: “Fuori in baracca“. Fuori, con il ghiaccio, tutti nudi, e via camminare scalzi fino alla baracca, in quarantena, ho saputo dopo che era quarantena, perché ho saputo dopo che la quarantena era distaccata dalle altre baracche, la quarantena era dall’altra parte, dicevano che si stava lì quaranta giorni e poi ti mandavano a lavorare.

Siamo andati in quarantena, lì ci hanno dato i vestiti, non quei vestiti rigati, erano dei pantaloncini, messa una pezza con la riga e il numero di matricola e poi ci hanno dato il bracciale con il filo di ferro, la placchettina e si doveva dire il numero in tedesco perché se non sapevi dire il numero in tedesco non mangiavi.

Poi siamo arrivati dentro lì. Adesso, disse, andate a dormire… Ma dove a dormire? Che non c’era neanche un letto, niente.

“Vedete lì in fondo? C’è un mucchio di sacchi”, erano di carta fatta attorcigliata con dentro della segatura, avevano sdraiato tutti questi materassi e ci avevano messo a dormire come le sardine. Così, io i piedi in bocca a lui, lui i piedi in bocca a me.

Camminava sui nostri corpi… e dava tante di quelle botte…, non potei neanche muovermi tutta la notte. Finché è giunto da noi un ebreo nella nostra baracca, che l’ebreo non poteva venire dentro, eravamo solo italiani.

Questo capo della baracca è venuto lì dicendo: “Sei italiano?”

Prende uno zoccolo da uno lì, lo getta lui questo zoccolo, ma lui prende questo ebreo e gli spacca la scatola cranica, l’ha ammazzato.

Al mattino arrivavano lì i barbieri, lì tutti nudi ci hanno rapato fino all’ultima pelle.

Avevano dei rasoi …, non gliene fregava niente perché per un lavoro che facevano prendevano una minestra in più.

Ci hanno rapato, e poi c’era un secchio come quella colla che va sui manifesti, con un pennello te la mettevano di qui, di là, per paura dei pidocchi.

Dopo di lì ci hanno mandato fuori, a un freddo, tutti rannicchiati uno vicino all’altro, saremo stati lì tre o quattro ore.

Ad un certo punto arrivò il capo blocco e disse: “Tutti in riga, guai se uno di voi sgarra e che stia fuori riga”.

Fatto sta che ci metteva in riga in quella maniera e se sgarravi prendevi tante di quelle botte da matti. Perché passava quello delle SS, si doveva pazientare e tutto il suo gruppo doveva essere a posto e tutti presenti. Bisognava avere il cappello così, altrimenti erano botte.

Di lì, rotte le file, ci portarono il caffè secondo loro, il caffè arrivò in un bidone, era tutto foglie di tiglio e ci hanno dato un pezzettino di pane, sarà stato 50 grammi e un po’ di margarina quella minerale, arancione carica. Meno male pensammo, qui ci danno da mangiare…

Quando arrivò la minestra…, a mezzogiorno pensammo ci daranno qualcosa! A mezzogiorno arrivarono lì e dissero: “Chi è volontario e vuole andare a prendere i bidoni di minestra?”…. ti davano una minestra in più. Noi non abbiamo visto la realtà del campo, quello che succedeva niente. Dopo fatto la quarantena si vedeva veramente quello che era il campo, ma non eravamo convinti neanche con questo, vedevamo della gente portare dei morti sulla coperta e poi buttarle là a mucchi, ma non pensavi che fosse…

Fatto sta che sono andato a prendere la minestra, sono tornato indietro. Molti di loro quando ci hanno dato la minestra non l’hanno mangiata.

Sulla porta che era di metallo in fondo della quarantena, c’erano quei poveretti che erano magri, malmessi, che venivano ad elemosinare questa minestra e il primo giorno dicevano che faceva schifo e non la mangiavano.

Fatto sta che molti di loro non la mangiavano… Di lì ci portarono,qualche giorno dopo, a fare le fotografie in due o tre pose con il numero di matricola.

Avevamo la riga qua in mezzo

Poi ci hanno dato un paio di guanti di feltro…

D: Ti ricordi il numero di matricola?

R: 126691.

Fatto sta che, la mattina, siamo andati a lavorare prima a Gusen e poi da Gusen siamo andati alla stazione ferroviaria, non avevo mai visto quella stazione ferroviaria, avevo visto che c’erano i vagoni, però non era la stazione. Erano dei binari che passavano così. Fatto sta che ci hanno fatto caricare tutti sui vagoni aperti, in ogni vagone c’era un tedesco, e lì ci hanno portato alla stazione di Linz, tutta bombardata, massacrata, vagoni in alto, a destra, a sinistra, tutta roba che arrivava dall’Italia, pane, pasta, miele, tabacco, guai se toccavi qualcosa.

Il primo giorno che si lavorava un freddo cane. Nessuno si rende conto di quello che fa lo spostamento d’aria sui binari, distrugge come se fosse un cappello…, da non crederci.

C’era un maresciallo dei tedeschi cattivo, con il cane lupo… e pretendeva di più di quello che noi potevamo fare.

Fatto sta che alla sera, dopo dodici ore di lavoro, ci hanno portato a Gusen a dormire.

Dovevamo aspettare, perché a Gusen facevamo i turni a lavorare nelle miniere sotto e poi c’erano le fabbriche di armi,… facevano dei pezzi… quando andavano al lavoro loro,noi andavamo a dormire nelle loro cuccette.

Al mattino mi alzai, e quando mi svegliai il Kapò, il Kapò era uno senza un braccio, cattivo come una bestia……, cominciava a dire…., fatto sta che i miei zoccoli non c’erano più. Mi avevano rubato gli zoccoli.

Come facevo adesso a camminare sui binari, se c’erano dei vetri e con il freddo che c’era?

Io ho guardato, ho preso un paio di zoccoli di quelli che dormivano, li misi, e avevo le dita così, sono andato a lavorare in quella maniera lì e so che mi ha fatto un’infezione lì dietro.

Mi venne fuori un’infezione, un bozzo lì…, e si doveva lavorare lo stesso.

Io dicevo… c’era la gioventù italiana, non ne avevano più di anziani, c’era qualcuno che comandava, però erano tutti giovani italiani. “Tu, italiano kaput crematorio”. Non sapevo neanche crematorio cosa volesse dire, ancora perché non avevo avuto il tempo di vedere queste cose.

Fatto sta… “crematorio” diceva.

Era questo il fatto. Mi era rimasto un po’ impresso. Ognuno di noi, con il freddo e la fame sveniva non è che dicesse: “Prendilo, rimettilo là che poi rinviene”. No, in due si doveva prendere, uno per i piedi e uno per le mani, vivo e buttarlo dentro alla buca, dai uno, dai due, dai tre, dai tre, dai quattro e seppellirli, buttando sopra la terra, vivi.

Mi sono preso anche paura io, … crematorio, camera a gas.

Ritorniamo a Gusen, alla sera, io scoppio dalla febbre, non stavo neanche diritto dal male che mi faceva e lavorare sempre con quel male, finché ho detto al Kapò di Gusen, dissi… “Le faccio vedere…”, mi ha dato un manganello sulla schiena che sono rimasto secco e sono dovuto andare a lavorare lo stesso. I miei amici mi guardavano.

Sono andato a lavorare e lì piangevo dal dolore e non c’è stato niente da fare.

Allora, alla sera, invece di andare a dormire a Gusen, siamo andati al campo n. 2 di Linz, c’è la caserma delle SS che gli americani hanno bombardato, la caserma, hanno fatto saltare un mucchio di gente del campo e hanno ammazzato un mucchio di deportati.

Allora, di lì siamo andati a dormire, solo che ci hanno messi e da varie ore eravamo già lì.

Dopo dodici ore di lavoro chiamarci e stare lì delle ore, aspettare per mandarci in baracca e darci quel po’ di minestra calda, io sentivo urlare a destra, a sinistra.

Io stavo male e mi faceva male. Passò di dietro questo tedesco, quando mi ha visto curvo mi ha dato tante di quelle botte, ecco perché ci avevano mandato in baracca, perché secondo loro mancava una persona, non mi vedevano e lì sono stati fuori … per colpa mia.

Un’altra sera siamo andati a dormire a Gusen, a Gusen non c’era posto quella sera lì e dove si dormiva? Fuori delle baracche.

Ci hanno dato una coperta e basta… C’era il fango. Io ho messo la coperta sopra e sotto niente. Di notte ghiaccia e più o meno il corpo scalda un po’. Alla mattina staccarsi dal ghiaccio per non rovinare anche il vestito, se lo rovinavi eri rovinato del tutto.

Strappai un po’ alla volta, e via a lavorare di nuovo.

Allora dissi al tedesco, alle SS … e l’altro: “Tu italiano… kaput”.

Come kaput?

Solo che poi è arrivata un’anima buona, dietro di me, uno vestito da SS e disse: “Vieni con me…”, era un italiano, “e non ti meravigliare che sono delle SS, ho dovuto accettare anch’io queste cose qui perché altrimenti facevo la fine che dovresti fare te adesso. Vieni qua, metti sotto quel … che nessuno ti tocca”.

Fatto sta che nessuno mi ha toccato.

Alla mattina, a Gusen di nuovo, … a Mauthausen ci hanno portato quelli che eravamo ammalati.

D: Franco, scusa un attimo, quando tu parli di Gusen, ti riferisci a quale Gusen?Gusen 1 o Gusen 2 ?

R: Sai che non l’ho mai capito. Per me era tutto Gusen, che era schifoso Gusen.

Non lo so che Gusen era.

D: Allora, quelli ammalati lì a Gusen li prendono…

R: No, gli ammalati hanno chiesto la visita medica…

Li prendono e li portano a Mauthausen…

D: A Mauthausen dove? Dentro al campo di Mauthausen o in fondo…

R: No, dentro il campo di Mauthausen perché doveva essere la Commissione Medica a dire se eravamo recuperabili o no. Ci hanno fatto fare la doccia, fuori, nudi, in attesa del responso della Commissione Medica. Fatto sta che siamo stati lì quattro o cinque ore, un freddo, e mai preso un raffreddore.

Pensavamo tutti: “E’ meglio che ci ammazzano, altrimenti qua…,” invece è stato contrario… Poi all’ospedale, anzi era un’infermeria, sono arrivato là, giù…, non sono andato dentro alla baracca, mi hanno messo subito in sala operatoria, mi hanno disteso su un tavolaccio, mi hanno mezzo legato, mi hanno tagliato con un po’ di tintura e c’era il pus che schizzava da tutte le parti.

Poi sono andati con le forbici a tagliare e poi hanno messo una stecca di legno, c’era un barattolo con dentro una cosa nera, come una pomata, me l’hanno messa sulla ferita, senza cucire niente e la fasciatura non con la garza, con i rotoli di carta igienica li adoperavano per fasciarci. Poi mi portarono in baracca.

Quella lì non era una baracca, quando ho visto questa gente, tutta aperta, che mi guardava…, sono morti viventi! Ma quella gente lì è ancora viva?

Si vedeva solo gli occhi e i denti, le mani scarne, si vedevano le ossa, e mi guardavano e io guardavo loro.

Poi mi hanno assegnato un posto, eravamo in sei, era a tre piani, tre alla testa e tre ai piedi, il materasso sempre così stretto, con un asse di legno e una coperta in sei.

Di lì, dopo, mi venne la febbre a 41.

Cominciai a tossire sangue…, non sapevo cos’era. Passò un dottore, un dottore che andò da un russo, questo russo lavorava alla cava delle pietre, era un colosso, gli usciva l’acqua dalla pancia, chissà cos’era. Fatto sta che gli fa questa puntura, al petto, non ricordo più, so che appena fatta la puntura, questo russo ha cominciato… hai visto le bolle dei bambini di sapone?…

Poi io dissi: “Dottore…, guardi qui”, avevo rotto un lembo della coperta, dove c’era tutto il sangue. Allora mi ha visitato. Io ho ascoltato, non ha detto: “Dategli una camicia”, niente… Ha detto: “Guarda, ragazzo, vuoi vivere? Se vuoi vivere, se arrivano i miei colleghi quel sangue non glielo devi fare vedere perché qui la tubercolosi…”, non disse tubercolosi, non sapevo neanche che era tubercolosi io. Questo qui disse: “Se i miei colleghi ti vedono, ti fanno fuori. Hai visto cosa hanno fatto al russo? Toccherà a te”.

Io camminavo per cercare qualcosa da mangiare. Davano un mestolo di minestra al giorno, senza pane, senza niente, all’ospedale.

Andavo in giro a vedere, fuori l’erba era rasata tutta.

Si tirava su tutto, quello che c’era di commestibile, con le patate dei fiori, delle piante, non era rimasto niente fuori.

Qualcuno fuggiva, di notte, dalle finestre, andava nei rifugi delle SS e qualche volta gli davano una buccia di patata, e sembrava avere risolto chissà che cosa. E lì, tutti a destra, sinistra, fuori e poi arrivò la dissenteria.

La dissenteria, cinque giorni, se dura cinque giorni muori.

Fatto sta che uno con la dissenteria in cinque giorni diventa pelle e ossa perché va in continuazione al gabinetto.

Dov’era il gabinetto? In fondo dove a destra c’era il mucchio di cadaveri, e a sinistra c’era un asse per traverso e lì si facevano i propri bisogni, due o tre alla volta, tutta roba liquida, che di consistente non c’era niente.

Fatto sta che la dissenteria…, non si arrivava mai al gabinetto e te la facevi addosso.

Infatti tutto per terra, pieno di liquido. Era una cosa brutta.

Chi cadeva giù, pur di arrivare, cadeva giù già sfinito, morto.

Chi, mentre faceva i bisogni, cadeva e moriva lì, chi arrivava gli dava uno spintone e cadeva dentro tutto questo liquido che era lì, si affogava anche di liquido.

Non eravamo più degli esseri umani, eravamo delle bestie. Ma neanche delle bestie, le bestie…

Tutti al gabinetto, su e giù…, cosa succede dopo? Che quello che ho avuto io all’inguine, mi venne dall’altra parte.

Lì facevano molti esperimenti, c’era della gente che aveva aperta tutta la muscolatura dei piedi, la schiena…, facevano gli interventi e poi c’era tutta questa carne aperta.

Andai lì, mi portarono giù di nuovo in infermeria, stavolta svenni perché ero molto più debole.

Però guarivo presto anche…, c’era uno di fianco che disse: “Partigiano tu di dove sei? Sei di Olzano?” Olzano, il mio paese. Dissi: “Non sto bene”. E lui mi ha detto: “Ti aiuto io a letto, ti aiuto io a portare …” Ma quando sono tornato, un giorno non c’era più, si vede che era morto.

Però, con tutto questo, un giorno successe il patatrac. Arrivarono i tedeschi dentro le baracche e pensai: “Ci ammazzano tutti”.

“Fuori, fuori, lasciate tutto lì, a mani vuote”, eravamo sempre nudi a 24 gradi sotto zero, broncopolmoniti… Fatto sta che dissero: “Fuori tutti”.

Non sapevo cosa era successo, però non pensavo che fosse qualcosa che qualcuno avesse fatto la spia.

Noi avevamo qualcuno con i cucchiai di ferro e cosa facevano? Battevano come il contadino batte la falce,è dura la lama, si indurisce la lama e fa una lama tagliente per l’erba, e per tutto. Anche le assi di legno, sai quanto carbone delle assi di legno ho mangiato io per fermare la dissenteria che me le dettero i francesi? Poi dopo un po’ ci mandarono tutti dentro di nuovo. Era successo che lì da noi mangiavano i cadaveri, aprivano la pancia dei cadaveri, pelle e ossa, cos’era più commestibile? Secondo lei cos’è di più commestibile? Secondo lei cos’è? Il fegato. E litigarsi i pezzi di fegato, e poi andarsi a nascondersi sotto i letti a castello che gli altri ti assalivano.

Qualcuno è andato a riferire ai tedeschi…, e avevano paura che venisse la peste. Così portarono via tutto, anche quello. Che brutta…

D: Franco, quando tu parli dell’infermeria di Mauthausen quale intendi, quella dentro nel campo?

R: Quella giù nell’ospedale.

Quel dottore lì mi salvò la vita anche quello, due volte. La prima volta per la selezione degli ammalati mise fuori la chiacchiera che erano tutti ammalati gravi e ci portarono su al campo, dicendo che nel campo avevano fatto un ospedale per i più gravi. Io sono andato nella fila di quel dottore. Quando sono andato là mi ha scartato e mi sono messo a piangere.

Siamo andati in baracca, passò la giornata, alla sera successe che arrivò uno lì e disse: “Sapete chi sono io? Sono quello che è scappato da quel convoglio che oggi hanno fatto”.

“Cosa hanno fatto?” “Hanno mandato tutti alla camera a gas”.

“Non vi presentate più, altrimenti vi gasano tutti”.

Il dottore lo sapeva.

Poi di lì, poiché io ho vissuto in Francia, ho fatto scuole in Francia, parlavo poco l’italiano, ho conosciuto dei francesi lì dentro e ai francesi davano il pacco della Croce Rossa, solo ai francesi. E noi chi eravamo? I figli di nessuno?

E lì era l’ultima fila dove c’erano i cadaveri.

E di lì, ho detto al francese: “Per domani ti danno il pacco, sei fortunato, per domani ti danno il pacco così ti rimetti in carne, ti tiri un po’ su.”

E disse: “Spero che domani ci diano il pacco, di mangiare e stare meglio”.

Dissi: “Te lo auguro”.

La mattina mi alzai e dissi: “Vado a salutare il francese, così faccio amicizia che salta sempre fuori qualcosa”.

Andai là, questo qua aveva già la bava alla bocca.

E pensai: “Oh Dio, questo qua ha già la bava alla bocca”. Le bestialità di un uomo quando è alla disperazione: io scambiai il mio numero di matricola con il suo.

Quando chiamarono lui, presi il pacco io. Mi sono mangiato due scatolette di carne in scatola americana, qualche galletta, la sigaretta e il tabacco le tenevo per fare gli scambi con la minestra. Chi era ammalato di fumo…, io non voglio morire di fumo, volevo morire di mangiare e faceva lo scambio.

Il giorno dopo hanno fatto la spia…, venne l’interprete della SS, in fondo alla baracca, qui disse: “Qualcuno ieri ha ritirato il pacco francese ecc., salti fuori, lo consegni”. Era un furto, lì impiccavano, o in forno crematorio, o gli sparavano in testa.

Allora io zitto, sotto la baracca, di nuovo sotto ai letti castelli, per fortuna che hanno lasciato andare dopo. Hanno visto che nessuno si presentava…, meno male ho detto.

Poi, tutta la notte a stare attento, con dei dolori alla pancia, avevo mangiato la carne dura, mi rotolavo dal dolore, dal male, anche l’egoismo per mangiare…. Fatto sta, a vedere gli altri che mentre mangiavo, quello zoppo moriva dal letto, veniva fuori blocco di sangue, portarli via con tutto sangue, urine e quel po’ di grasso che erano di calorie intorno…

E’ una cosa indescrivibile, pazzesca.

Il giorno dopo dissero: “Da domani tutti i francesi si devono presentare, verrà consegnato un pacco e partiranno per il sanatorio in Svizzera…”. Quando questi due pullman della Croce Rossa erano pieni, partivano e se ne andavano. Al mattino c’erano sempre gli stessi pullman, altri due pullman. Pensavo che veramente andassero là in sanatorio, altri due pullman e così, fin quando sono finiti i francesi. Non si è saputo più nulla. Dissi a questo francese: “Se tu vai a casa, telefona a mio fratello che lui è ufficiale dell’esercito di De Grulle”.

Fatto sta che finisce la guerra, arrivano gli americani, non è che arrivano gli americani, perché era successo, secondo la storia che mi raccontavano loro che come c’è stata la fuga dei russi, che si è saputo di Mauthausen, qualcuno aveva raggiunto, passato il fiume, il Danubio, la zona dei russi. Allora hanno detto: “Là stanno uccidendo sempre, ogni giorno di più”. Tutti quelli che arrivavano dagli altri Lager, là non c’era posto e li hanno tutti gasati, tutti uccisi, chi moriva ghiacciato, morto, al mattino, li avevano uccisi tutti, ma era parecchio tempo che arrivavano dagli altri Lager, Dachau e tutto il resto. Fatto sta che i russi hanno detto agli americani: “Guardate o voi andate avanti o noi non guardiamo più niente, attraversiamo il Danubio e andiamo noi …” Fatto sta che è arrivata una pattuglia americana con due autoblindo, non c’era più un tedesco…, ne hanno beccati parecchi. Sono arrivati lì, hanno tirato giù la svastica… , con le autoblindo, hanno parlato e poi cosa hanno fatto? Hanno armato la gente, i deportati e li hanno messi…

Hanno dato l’ordine che nessuno doveva uscire dal campo fin quando non fosse arrivato il grosso della truppa.

Siamo stati quasi una settimana, perché avevano paura che noi andassimo fuori, ci hanno maltrattato, pestato questi austriaci. Avevano paura che andassimo fuori a fare qualcosa contro il popolo austriaco.

Qualcuno è scappato, fatto sta che di lì sono arrivati gli americani dopo tre giorni, tutta la truppa. E cosa ci davano da mangiare? Latte e verdure per dilatare un po’ lo stomaco.

Ci hanno messo su delle barelle. In quel momento hanno portato una catasta di casse da morto, fatte di quattro assi, ma visto che le casse da morto occupavano molto posto, li buttavano dentro alle fosse comuni.

Poi di lì li hanno portati in ospedale loro, da campo, su una barella, i più gravi e lì tutte le mattine facevano l’ispettorato, guardavano come stavi, e in fondo a questa baracca c’era adibita un’infermeria e tutte le sere mi facevano una puntura di un calmante che avevo dei dolori enormi e vicino a me c’era un italiano, che lui era un partigiano piemontese, uno che ha fatto l’università, sapeva l’americano. E mi raccontò, era gonfio, mi raccontò che lui aveva nascosto dei documenti molto importanti della casa reale, che lo sapeva solo lui, li ha nascosti, murati in montagna, e lo sapeva solo lui. Fatto sta che lui ne parlò con gli americani e quando hanno saputo che documenti erano, gli americani li hanno messi da parte lì e gli hanno fatto il plasma, delle trasfusioni ecc., e niente da fare.

Lui è morto, nessuno ha saputo niente e lui ha detto: “Se mi salvate lo dico, se non mi salvate non dico niente”. Tutto è andato così, è morto. Lì siamo stati lì un bel po’. Ci portarono all’ospedale a fare dei lavaggi, non so se era luglio, in radiologia e lì mi trovarono la TBC bilaterale attiva. Tornai sull’autoambulanza, mi avvicinai ad altri italiani, e dissero: “Tu sei tubercoloso, sei tisico…”, non sapete la paura che avevo di questa malattia, facevo dei chilometri per non andare vicino ad uno quando era stato ammalato.

Mi faceva tanta paura. E dissi: “Non posso tornare a casa”.

I miei, quando sapranno che ho la tubercolosi, che sono tisico, non mi vorranno neanche a casa…

Dicevano: “Non scherzerai mica… con le tecniche nuove, con una puntura di calcio guarisci”.

Così, dai oggi, dai domani, mi hanno convinto.

Di lì mi hanno portato distaccato nelle baracche delle SS dove ci stanno i vari monumenti. Sei stato a Mauthausen? E’ subito dietro al nostro monumento, c’è la baracca delle SS, dove c’è il numero in italiano c’era la cucina americana e tedesca.

Lì, alla baracca delle SS, mi hanno messo in questa baracca, su un castello, tutti erano a bassa quota, non erano sul letto a castello, su un letto normale. Ho pensato: “Cosa ci sarà qui dentro?” Ho aperto, i materassi erano tutti fatti con capelli di donne, dormivi sui capelli delle donne. E ti davano da mangiare scatolette di fagioli…, allora abbiamo reclamato e abbiamo detto: “Come mai voi mangiate uova, mangiate… e a noi date questa porcheria con la febbre…?” Abbiamo reclamato, ma non c’è stato niente da fare. Ci davano quello e dovevamo mangiare quello. I mesi passarono finché un giorno vidi che stavo in piedi a camminare, mi sono alzato piano piano, al secondo portone che ho detto io, in fondo a sinistra c’è una garitta in fondo, per le scale dove c’è il monumento…, c’è un portone, in fondo a sinistra c’è una garitta, lì c’erano i militari americani, che noi eravamo in isolamento, ma non sapevo il perché, dopo si è saputo. Allora ho cominciato a camminare trascinando i piedi e quando sono arrivato vicino a questa garitta che ho girato a destra, c’è ancora il filo spinato largo tre metri… e in mezzo arrotolato così. Sentì che uno mi disse: … “Ma sei proprio tu che sei ridotto così? Cosa fai di là?” “Sono in ospedale risposi”. “Come in ospedale…? Sai che noi partiamo domani mattina? Si è riunita la Commissione medica del Vaticano e ha detto che i primi a partire devono essere gli ammalati”.

“E voi partite e noi rimaniamo qua? E’ una schifezza…”

Allora disse: “Sai cosa fai? Stasera, vieni qua alle sette, che loro quando scambiano stanno dieci minuti e anche di più, a chiacchierare e ridere anche di là e noi prendiamo delle assi di legno, e quando si addormentano tutti, andiamo di qua…”

Allora, piano, piano, presi una coperta, ma era pesante, che se cadevo…, fatto sta che sono arrivato là e gli americani parlavano tra di loro…, sono andati via loro, in quattro e quattro otto abbiamo girato… Siamo andati di là e c’era un rebus quando siamo andati in baracca. Non c’entravo io, ero l’ultimo, non sapevano da dove venivano…. , tutti hanno reclamato. Allora dissero: “Facciamo così, scrivete la vostra data in cui siete stati qui a Mauthausen”. Io ho scritto la data e sono risultato il più vecchio.

Alla mattina siamo partiti, abbiamo lavorato due mesi…, giorno e notte…, morivano anche dopo, abbiamo fatto il saluto a tutti i nostri morti. C’erano delle donne che hanno avuto dei bambini con le SS per salvarsi.

Ci hanno caricato sui carri bestiame.

Idem quando siamo arrivati… su ogni vagone c’era un americano con baionetta in canna.

Tutti questi austriaci prima ci sputavano in faccia, con la bandiera sembra che piangessero, piangevano perché eravamo ancora vivi, questi disgraziati! Vedi il mondo come gira!

Quando il treno è partito, al mattino è partito presto, verso mezzogiorno fermarono il treno vicino a due, tre case contadine e sulla sinistra c’erano dei binari morti dove c’erano dei vagoni letto con della gente dentro.

Lo fermarono lì e c’erano prigionieri politici, militari e civili.

I civili erano ben messi.

Allora questa gente, fermato il treno a mezzogiorno, sparpagliati un po’ qua e un po’ là… Poi c’erano le patate che erano nate così, un campo di patate… Hanno cominciato ad accendere il fuoco, con le patate… , quella disgraziata di contadina là ha cominciato a urlare e quando sono arrivati gli americani hanno detto: “Cosa succede?” E lei ha risposto: “Guardi il campo, uccidono le galline…”

Ha sparato in aria questo americano.

Arrivato sui vagoni, cosa è successo? Vennero dentro due ragazzi tedeschi, austriaci… lì hanno preso questi ragazzi e li ammazzavano. Se non arrivava l’americano ammazzavano, ha cominciato a dare ordine di sparare in aria altrimenti li ammazzavano sul serio.

Da lì, verso sera siamo arrivati in un altro campo, anche lì un campo di concentramento, di lì ci hanno fatto scendere piano, piano e la prima cosa che ho cercato, ho cercato un letto. “Stasera, italiani”, dissero, “facciamo i maccheroni”.

Dopo un po’ che ero lì sdraiato, sentii: “Vieni…” Risposi: “Cosa è successo? Cosa c’è?” “Vieni”, mi dissero.

Allora mi alzai piano piano e quando sono arrivato a metà strada, vidi un gruppo di gente americana. “Cosa è successo?” dissi.

“Ti ricordi quello che ti ha spaccato la schiena? E’ un italiano”.

“Cosa dici?” risposi. “Ha avuto il coraggio di venire con noi. Mi ha aperto le valigie: orologi, collane d’oro… mi hanno ammazzato di botte”.

Sono arrivati gli americani…, ma penso…ha avuto un bel coraggio a venire via con me…. Come faceva questo a sapere che lui mi ha massacrato di botte?

Arrivati a Bolzano, il treno camminava piano piano, la gente a baciare la terra…, arrivati a Bolzano, tutti questi signori con le fotografie dei figli e dicevano: “Questo lo conosci? Lo hai visto?” E’ difficile ricordarsi.

Oltretutto dove lavoravo io…., senza niente, si cambia fisionomia e cambia tutto. E mi hanno dato un uovo con un panino, mia madre mi dava dei soldi…, ho aperto l’uovo e lo mangiavo con il pane.

Poi hanno detto: “Venite, ragazzi che vi diamo dei vestiti civili, venite che buttate via quelli lì”. Dicemmo: “Va bene”.

Mi hanno dato i vestiti civili, sono arrivato lì e mi hanno detto: “Mi dispiace, abbiamo solo una camicia”. Rigata anche quella. “Mi dia pure la camicia” dissi.

Dopo un po’ mi dissero: “Vai all’ospedale”.

Ma io risposi: “Non mi prendono neanche vedendo che io sono tubercolotico”.

“Ma dai”, mi dissero, “cosa dici?”

Dissi:” No, non ci vado”, finché la febbre mi ha convinto e sono andato dentro all’infermeria in ospedale, avevo il pus che mi colava…, avevo tutto sangue marcio. Volevano operarmi. Ma io dissi: “No, mi hanno già operato due volte, quel cane là”.

Fatto sta che in ospedale mi misero in un letto con lenzuola bianche, coperte bianche, dormivo un po’ di qua e un po’ di là…, mi hanno fatto delle punture e dormii tutta la notte. Alla mattina dormivo ancora e sentii: “Quelli di Udine si presentino che stamattina si parte e si va a casa”. Così pian piano mi sono svegliato, mi hanno preso mi hanno portato sulla corriera e siamo partiti.

Dove c’erano dei punti che non erano sicuri, facevano scendere tutti e passava l’autista. Dove si mangiava, nei posti in cui loro avevano già preparato per mangiare, sempre dalle suore o dai preti, mangiavo, ma appena mangiavo mi facevo tutto addosso, non tenevo più.

Avevo talmente la pelle che non tenevo più niente, avevo fatto tutto addosso. Allora mentre andavano a mangiare, io andavo al gabinetto…. “Dai, vieni a mangiare” e io dicevo “No, non ho fame”. Non potevo dire all’autista: “Fermati” a metà strada, per me.

Siamo arrivati a Pordenone e … mi ha convinto a medicarmi. Sono andato con lei, mi ha medicato e tutto, e poi da lì siamo arrivati a Udine alla sera.

Ha avuto un bel cuore di dire: chi vuole andare a casa, lo portiamo a casa.

E lì sono andato alle scuole IV Novembre che erano le scuole apposta per gli ammalati, IV Novembre ad Udine. Lì c’era il dott. De Bellis, con le suore lì dentro. Il dottore mi disse: “Avvisiamo tutte le vostre famiglie”.

Dissi: “Dott. Bellis, mi faccia un piacere, non lo dica a nessuno dei miei”.

“Perché?” mi disse. “Se mi vedono così…, sono pelle e ossa”.

“Va bene”, mi rispose.

Andai a letto, mi medicavano, mi misero una zanzariera contro le mosche per tutto il pus che mi colava giù, finché un giorno un pomeriggio dopo mangiato, sentivo parlare, dopo un po’ sento che uno mi scuote. Dissi: “Cosa c’è?” E’ venuto un signore con il dott. De Bellis, e lui ha detto: “Questo è Cosmar”.

“Ma non è mio figlio questo qui, ho visto mio figlio prima di partire per la Germania, non sarà mica ridotto così. No… Poi, vede che ho la lettera che mio figlio è morto a Mauthausen.”

Poi allargarono la zanzariera e parlava con questo dottore che mi voltava la schiena, parlava con il dottore. Allora mi sono affacciato alla porta e dissi: “Papà”!

Quando si è girato, quel che si è sentito lui non lo so dentro di sé, ma so che non è riuscito a parlare per un bel po’.

Disse: “Sei proprio te?”

Dissi: “Sono proprio io, sono arrivato”.

Di quelli che arrivavano della Croce Rossa Internazionale del Vaticano, gli ammalati arrivavano lì e dopo due o tre giorni morivano tutti. Erano già alla fine, senza avere neanche la soddisfazione di vedere i propri familiari.

E’ quello che mi fa rabbia.

D: Quando sei entrato lì quand’era?

R: Era il 26 o 28 giugno.

D: Del 1945?

R: Sì.

Montefiori Aldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Montefiori Aldo, nato il 03.04.1921 a Valeriano di La Spezia. Ero un ex militare di marina. L’8 settembre sbandato mi sono ritirato al mio paese, a casa. Ad un certo momento hanno attaccato dei manifesti: “O con noi o contro di noi”, di ripresentarsi di nuovo a militare. Se non che una ristretta compagnia, compreso un mio caro amico, Ameglio, che poi divenne comandante della Giustizia e Libertà, abbiamo deciso di non presentarci più sotto alle armi dell’esercito della repubblica. Allora abbiamo deciso di allontanarci e andare ai monti.

Se non che dopo un lungo lavoro io, il sottoscritto, venne arrestato nello stesso paese verso i primi di luglio 1944. Mi prendono, un certo Oreglio Gallo, che allora era una persona forte in quell’ambiente, molto cattivo, e un maresciallo della Feld/gendarmeria, è un certo Vacarezza di La Spezia. Mi portano alle carceri di Villa Andreini a La Spezia, in cui sono stato imputato di avere partecipato nelle zone partigiane, aver portato su dei ragazzi, ecc. Insieme a me hanno arrestato, che è tuttora la mia presidente, Paganini, sua mamma, sua sorella, suo fratello, un po’ quasi tutta la famiglia.

Lì hanno fatto un po’ l’interrogatorio a tutti. A un certo momento dopo una settimana, dieci giorni, una buona parte, compreso la Paganini, sono partiti per Marassi di Genova, per andare a Genova e io e altri due o tre siamo rimasti a Villa Andreini. Se non che la Paganini e altri, a quanto abbiamo saputo dopo la Liberazione, era stata attaccata dai partigiani e di conseguenza a noi a Genova per via terra non ci hanno più portato. Lì ho dovuto subire oltre tre mesi di carcere a Villa Anfreini.

Dopo tre mesi circa mi prendono e mi portano insieme con quelli che erano presi da poco tempo, cioè il famoso campo di concentramento di Ventunesimo. Ci hanno portato a San Bartolomeo in un cantiere navale, ci hanno trasferito al carcere di Genova. Quando sono stato nel carcere di Genova, eravamo in tanti, centinaia che siamo stati lì, hanno fatto una scelta: questi qua che siamo.

E hanno tirato fuori nomi, venti, quelli che avevano vent’anni, i giovani. Io mi sono fatto fuori, avevo vent’anni. Mi hanno messo a fare lo scopino. Da una parte cercavano i barbieri per fare la barba, hanno cercato il barbiere, hanno cercato i falegnami per fare le casse da morto, elettricisti. Io in qualità di scopino ritengo di essere stato un po’ fortunato, in quanto ho avuto la possibilità di camminare di più nei corridoi e ho avuto la fortuna anche di conoscere tutti i miei compagni di cella, di Migliarina, di La Spezia e tutto quanto, dei preti. Tutto nell’insieme sono stato soddisfatto di avere fatto quello che ho fatto, perché ho cercato di aiutare tutti. Lì dentro ho conosciuto un certo Morelli Vittorio fra tutti questi, che era un sergente, un sottufficiale, ferito ad un braccio già in guerra. Lui mi ha raccontato che era sfollato su vicino al mio paese.

Ci siamo fatti amici, però lui era già interrogato da questo Gallo, ecc. A forza di torture e botte è diventato cieco, non vedeva più. Se non che allora io ho pensato di prendermelo a cuore, di starci più vicino per aiutarlo e ho cominciato dalla biancheria intima, spidocchiare, levare i pidocchi, perché lui non poteva vedere, non poteva farci niente. Dopo essere stato lì, dopo due o tre mesi circa, ci hanno portato al campo di Bolzano.

D: Scusa un attimo, quando tu parli delle carceri di Spezia e delle carceri di Marassi, di Genova, sempre gestite da fascisti?

R: Sempre gestite da tedeschi e fascisti. Tedeschi e fascisti.

D: Tu sei mai stato interrogato?

R: Sì, più volte. Anzi, devo dire questo, che ho subito un interrogatorio a Genova in cui mi hanno accusato di aver partecipato a delle azioni che io assolutamente non ho fatto, perché ero già in galera a La Spezia. Quindi era assurdo che io dovevo fare e sono stato accusato di aver fatto degli attacchi a queste colonne di tedeschi, in quanto io non c’entro.

Gli ho detto: “Ma se ero già sotto di voi, come faccio ad aver fatto queste azioni? E’ impossibile”. Però dopo nei corridoi, dopo i primi interrogatori, incontrai un certo dottor Valenti, che anche lui non aveva confessato perché diceva di no, però a forza di torture e botte è morto.

E’ morto dentro il carcere di Sarzana, dentro al carcere vicino. Ho avuto la sfortuna purtroppo di metterlo dentro la cassa io. Lui prima di morire mi dice: “Guarda di firmare e di’ ai compagni di firmare, perché tanto è meglio firmare tutto quello che dicono, perché altrimenti ti fucilano.

E’ meglio morire fucilati che per la tortura”. Allora io ho sparso la voce, firmate, non dite niente. Abbiamo firmato tutti i verbali, queste condanne a morte, fucilazione non eseguita. Poi ci hanno portato su al campo di Bolzano. Al campo di Bolzano…

D: Scusami se ti interrompo, ma da Genova al campo di Bolzano con cosa sei andato?

R: Con dei pullman, ammanettati uno con l’altro. Abbiamo fatto la tappa nel carcere di San Vittore a Milano, poi siamo arrivati a Bolzano al mattino verso le sei mi sembra, era d’inverno. Lì hanno cominciato a fare le pulizie, hanno tagliato i capelli, hanno messo tutto a posto, queste cose qua. Ci hanno messo al muro e tutto il giorno nudi contro al muro con quel freddo che c’era, con una coperta. Tutti contro il muro e tutti snudati, perché hanno portato a disinfettare i…

D: Ti ricordi che giorno era? O il mese?

R: Più o meno era forse febbraio, non so, verso il mese di febbraio.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: Tutti, nudi completamente. Siamo rimasti attaccati ai muri nudi e siamo rimasti là tutto il giorno così. Allora io ero giovane e ho resistito di più, ma qualcuno che era anziano andava anche in terra e non ce la faceva.

Erano pensieri brutti da pensare, anche per questi vecchi che proprio non ce la facevano a stare in piedi e crollavano, andavano in terra. Lì con questo mio amico, questo Morelli che me lo sono preso a cuore, l’avevo sempre vicino a me, ci hanno messo a dormire proprio vicino, a tu per tu.

Ho continuato sempre a dargli quella brodaglia che ci davano e a tenerlo lì, spidocchiarlo, a fare tutte queste cose. Se non che si parlava di queste cose. Venne però un giorno, quasi alla fine, il venerdì Santo. Però correva già la voce, qualche cosa, la Croce Rossa Internazionale, qualche cosa di cambiamento ci doveva essere in questo campo.

Questo mio amico mi dice: “Stai a sentire, c’è un cappellano che vuole fare la comunione domani mattina, io sono cieco, andiamo a fare la comunione”. Gli ho detto: “Stai tranquillo, io vengo con te e facciamo la comunione, domani mattina andiamo a fare la comunione”. Andiamo a fare la comunione, veniamo in blocco e alla sera quest’uomo mi dice: “Quanto pagherei, Aldo, per rivedere un po’, per conoscerti, vederti in faccia e vedere mia madre”. Nella nottata a questo ragazzo è ritornata la vista.

Allora lì c’era un certo professor Pirelli di Milano, c’era un professor Ferrari, che poi è diventato sindaco di Milano, c’era il dottor Campodonico, c’era un altro dottore di specie. Lì hanno fatto un po’ un colloquio, hanno fatto un po’ un consulto tutti insieme, perché gridavano al miracolo. Hanno deciso che c’era questo nervo ottico preso dal sangue che con questa fede, con questa cosa qua si era sciolto e gli era tornata la vista. Questa è la vita. Poi siamo ritornati al campo, a casa.

D: Aldo, ma quando sei arrivato a Bolzano, dopo che vi hanno tenuto in piedi per un giorno nudi, in che blocco ti hanno messo?

R: E, al blocco E, il blocco del triangolo rosso.

D: Avevi un numero di matricola?

R: Sì, adesso mi sembra 942, non mi ricordo bene di preciso. Ce l’ho a casa, ma adesso non mi ricordo bene il numero di matricola.

D: Ascolta, cosa facevate tutto il giorno nel campo?

R: Dentro nel campo assolutamente niente, perché eravamo in attesa per andare giù in Austria. Infatti, lì per due volte hanno tentato di metterci sui vagoni, ci hanno messo sui vagoni. Io ammanettato con questo ragazzo, questo Morelli sui vagoni.

Ci hanno portato sul Brennero per partire, eravamo su di là, se non che sono arrivati poi dei bombardamenti, noi eravamo dentro questi vagoni e tutto quanto. Lì dovevamo fare tutto addosso uno con l’altro, anzi avevamo scelto attraverso il professor Pirelli un angolo per andare a fare le nostre cose.

Figuriamoci questo ragazzo che dovevo farlo attraversare tra le gambe, perché eravamo a testa di pesce uno con l’altro, farlo passare per andare là. Eravamo tutti sporchi da cima a fondo come le cose. Poi non ce l’hanno fatta perché con questi bombardamenti le linee saltavano per aria, ci hanno riportato indietro. Hanno fatto la seconda volta, è successo altrettanto, non ce l’hanno fatta. Poi da lì il campo di Bolzano è passato campo fisso.

Allora al mattino ci portavano a levare le bombe, una parte andava a fare una cosa o l’altra finché è venuta la Liberazione e si viene a casa.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne?

R: Sì, era vicino a noi. Nel campo c’erano molte donne. C’era anche una di Spezia, una certa Righetti, c’era la Dora. Poi a parte che era passata, come dico, la mia presidente, sua sorella. Ce n’erano, ce n’erano tante.

D: Ti ricordi quando tu eri nel campo di Bolzano se hai visto anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, molti. C’era don Scappazzoni, mi sembra, di Carrara, che poi è venuto anche qui a Villa di Tresana a Spezia a fare il parroco. C’era anche quello che ci ha portato per fare la comunione nel nostro blocco, Don Spadoni. Me lo ricordo, perché poi è venuto a trovarci a casa a me e a Bettazzini, ci ha fatto festa, tutto quanto. Una bellissima persona.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Dei bambini li ho visti insieme alle donne, che allattavano anche, allattavano dei bambini, piccoli, molto piccoli. Vicino al blocco nostro c’era il blocco delle donne. Erano piccoli piccoli.

D: Aldo, ti ricordi com’era organizzato il campo?

R: Devo dire la verità, che il campo non l’ho conosciuto bene, perché eravamo sempre fissi dentro a questo blocco E, blocco recintato che non potevamo andare a contatto con gli altri blocchi, se non che poi al mattino venivano i tedeschi e ci portavano a lavorare e riportavano lì.

Quando poi è avvenuto che portavano via, io sono andato via col camion con la roba dentro e il campo l’ho conosciuto ben poco. Per dire la verità ho conosciuto solo quel posto, quel blocco lì, ma il campo non… So che dicevano che c’erano delle officine, che c’erano i falegnami che facevano dei lavori, ma io non le ho viste quelle cose.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle?

R: Sì, c’era anche la Mascagni. Mi ricordo la Mascagni, che era di Bolzano, che era la parte di là. Qualcuno che faceva qualche cosa andava lì, e lì soffrivano ancora molto di più di quello che non si soffriva noi. Il blocco celle sì, c’era.

D: E’ vero che avevate voi dei soldi che valevano per acquistare delle cose all’interno del campo?

R: Noi no, a noi lì dentro davano delle cose qualcosa che avevano di contrabbando, nel campo circolavano queste cose, ma questo blocco che era il blocco del triangolo rosso, era una cosa che qualcuno li poteva avere, ma la maggioranza no. La maggioranza senz’altro no, perché eravamo ristretti, rinchiusi dentro questo reticolato.

D: Tu o altri tuoi compagni di deportazione, quando eravate nel campo di Bolzano, avete potuto scrivere fuori dal campo o ricevere lettere o cartoline o pacchi?

R: Ricevere no, però qualcuno è riuscito o attraverso il treno o qualcuno a spedire delle lettere, qualche cosa che hanno buttato giù o hanno fatto avere qualcosa. Anche lì devo dire che un mio caro amico, un ragazzo di Valeriano, certo Chella Rino, ha scritto, è riuscito, una lettera è arrivata a casa ai suoi familiari. Lì c’era scritto, dice: “Mamma, io sto bene, sto partendo. A Genova Marassi ho incontrato Aldo”, che ero io, “e Aldo mi ha rifornito di materiale d’inverno, delle maglie da mettermi. State tranquilli. Mi ha dato anche dei soldini”. Siccome quando è andato via questo ragazzo da Marassi, io avevo qualche cento lire, non fumavo, non mi servivano a niente, li ho dati a lui. Avevo un po’ di pane perché, come ripeto, a Genova io ero lì, glielo ho dato.

Ero riuscito ad avere delle maglie, degli indumenti, sono andato da questi parroci che ce n’erano una decina di Spezia e si sono levati i loro indumenti, li hanno dati a me per darli a questo ragazzo, perché lo vedevano che era vivo e che era nudo. Di questo devo ringraziare padre Pio, che poverino dalle botte aveva il vestito bianco che era più rosso che bianco. Tutti, li hanno picchiati a morte tutti. Dieci parroci, tutti e dieci dentro nella cella.

D: Ma questo dove, Aldo?

R: A Marassi a Genova. Quando ha scritto questo ragazzo da Bolzano, che ha buttato giù, ha messo appunto che ha incontrato me a Genova e io ritorno indietro e devo dire che a Genova ho fatto questo lavoro a questo ragazzo. Mi sono rivolto a questi preti, a questi qua e loro mi hanno aiutato un po’ per uno, mi hanno fatto un fagotto di roba per dare. E loro continuavano, erano lì e sono rimasti fino alla Liberazione. Però devo dirti che hanno sofferto, sofferto come in un campo di concentramento e forse anche più, perché erano a rischio lì, erano a rischio di morire. Era tutta una cosa così.

D: Aldo, allora, tu dicevi, nel campo di concentramento a Bolzano dopo il tentativo di portarvi nei campi d’Oltralpe vi mandavano fuori a lavorare.

R: Sì.

D: Ti ricordi tu in che posti andavi?

R: No, proprio no. Io so che andavo a levare delle bombe, mi dicevano, durante la ferrovia, durante le cose. Andavamo lì, si levavano le bombe, poi si ritornava alla sera dentro, mattina là. E’ durato un po’, poi basta. Altri li portavano dalle altre parti. Quattro o cinque di qua, quattro o cinque di là, li portavano un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Bolzano poi è diventato un campo fisso e questo campo poi l’hanno destinato ad andare a lavorare, una squadra da una parte e una squadra dall’altra.

D: Ti ricordi qualche SS del campo?

R: Devo dire che ce n’era uno che era fetente, veramente fetente, perché anche lì cappello su, cappello giù. Allora quando entravi, perché bisogna dire la verità, quando entravi nel blocco picchiavano sempre, erano lì coi manganelli e gli ultimi a entrare li picchiavano, sia che facevi presto sia che facevi tardi. Anche lì onestamente parlando, io avevo vent’anni, ero sempre uno dei primi ad infilarmi dentro, non ne prendevo mai.

Ma i vecchi erano sempre quelli che le prendevano, erano sempre i soliti, io mi ricordo. Cappello su, cappello giù, poi tutti dentro e io anche lì un po’ di fortuna ho avuto, perché m’infilavo dentro. Vent’anni allora erano tanti, erano buoni per affrontare quelle cose lì. Però i vecchi no.

D: Tu sei mai stato testimone di atti di violenza?

R: No. Direi di no.

D: Parlo del campo di Bolzano.

R: Sì, sì, sì.

D: I due ucraini, tu li hai conosciuti?

R: Lì li ho conosciuti, erano lì, c’erano, esistevano, ma adesso mi dice…più o meno, esistevano, c’erano, so che picchiavano. Hanno portato lì uno che ha fatto un tentativo di fuga, l’hanno ucciso, ce l’hanno portato lì davanti a noi, ce l’hanno messo lì davanti per farci vedere che non bisogna scappare, tutte queste cose. Se erano di qua o erano di là io non lo posso dire.

D: E quella che chiamavano “la tigre”, tu te la ricordi?

R: La tigre la chiamavano “la Titti” mi sembra di nome, era la segretaria del comandante, Titho, perché lì che comandava era uno della SS tedesca che era Titho. Mi sembra per sentito dire degli ultimi giorni che questa gli faceva un po’ da segretaria e si chiamava Titti. La chiamavano la Titti.

D: Aldo, quando tu andavi fuori a lavorare lì dal campo di Bolzano a spostare macerie o a spostare bombe, cose di questo genere, incontravi dei civili?

R: Sì, però ti guardavano male, o forzatamente o no. Qualcuno cercava anche di buttarti una mela da buttare là, ma pagavano loro, perché i tedeschi picchiavano loro là, quindi rischiavano. Qualcuno c’era, però era così.

D: All’interno del Lager di Bolzano i deportati avevano costituito un gruppo di liberazione, un comitato di liberazione?

R: In fondo, nell’ultimo sì, negli ultimi giorni era subentrato, un po’ c’era questo. Infatti, a me un certo Battolini di La Spezia venne, mi ha dato un tesserino e mi ha nominato capo squadra quando si doveva partire. Perché quando siamo partiti, perché la guerra non era ancora proprio finita, io poi a Trento mi sono arruolato nei partigiani, sono ritornato.

Lui è venuto a casa, Morelli ha camminato là. Io sono andato, invece, di nuovo coi partigiani, sono rimasto lassù. Lì c’era un comitato che aveva da fare anche lì l’avvocato Ducci. A quanto avevo capito che collaborava molto dall’esterno era allora l’ostetrica del Comune di Bolzano, per quanto sentivo dire c’era l’ostetrica del Comune di Bolzano che aiutava e faceva qualche cosa, esisteva. Ma nell’ultimo.

D: Aldo, il momento della Liberazione. Tu dove ti trovavi?

R: Dentro al campo.

D: Cosa è successo?

R: E’ successo che hanno dato un tesserino, una parte sul camion, una parte a piedi. Noi siamo arrivati un po’ col camion, un po’ a piedi, poi ci siamo affacciati in piedi. Io sono arrivato a Trento, a Trento ci hanno portato dentro, io sono andato dentro dai preti. Abbiamo chiesto e loro ci hanno indirizzato bene, perché lì ci hanno arruolato di nuovo coi partigiani. Abbiamo passato sette, otto giorni, la Liberazione di Trento l’abbiamo fatta noi là dentro.

D: Quando tu sei stato liberato da Bolzano? Te lo ricordi?

R: Adesso non mi ricordo la data, tutti insieme non mi ricordo la data.

D: Da chi sei stato liberato? Sono stati i tedeschi a lasciarvi andare?

R: Il campo ha dato un tesserino di viaggio, di uscita dal campo, hanno dato questo e hanno mollato. Poi hanno messo dei camion a disposizione, qualcuno è andato a piedi e ci hanno mollato come pecore, come…

D: Dopo Trento tu sei arrivato a Spezia?

R: Dopo Trento poi a piedi, un po’ un camion, un po’ di qua, un po’ da una parte, un po’ col carro, una cosa e l’altra sono arrivato a Spezia. Alla bell’e meglio sono arrivato a Spezia.

Balboni Ferdinando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.