Nulli Mariuccia e Rosetta

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: C’era una canzone che voi cantavate nel campo?

Mariuccia: Sì, c’era una canzone che era il rifacimento di una canzone di moda. Il rifacimento delle parole.

Rosetta: L’aveva fatta Funaro, lei non ha mai sentito parlare di Funaro? Era un… aveva delle orchestre.

D: Importanti?

Rosetta: Importantissime.

D: Ed era anche lui un deportato lì con voi?

Rosetta: Sì, era un ebreo.

Mariuccia: Sì, è partito in ottobre, in mutande.

Rosetta: No, in novembre, forse.

Mariuccia: Sì, insomma, una delle prime partenze, completamente in mutande.

Rosetta: E allora noi con Funaro, con grande ira delle guardie, lui Funaro si nascondeva nella nostra cella, ti ricordi? Veniva e si nascondeva in modo che lo avvisavamo quando c’era una guardia, lui si metteva dietro un castello e stava lì ad aspettare, e poi noi lì delle celle ad un certo punto ci mettevamo insieme, lui ci dirigeva e cantavamo la canzoncina.

D: E com’era questa canzone, ve la ricordate?

Rosetta: Sì, sì.

Mariuccia: Era una canzone che nella realtà diceva: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, è partito il mio amore” qualcosa di simile.

Rosetta: E invece la parodia era: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, se verrà l’armistizio, ce ne andremo di qui”. Della tuta con croce, un pacchetto farem”

D: Va avanti, però!

Mariuccia e Rosetta: Ed ai repubblichini, volentier la darem. Proveranno la sveglia, delle cinque al mattin, proveranno il buiolo, proveranno il frustin. Non ve n’è più di tedeschi, fame non avrem più, scorderemo l’appello, se torniamo laggiù. Fine.

D: Non vi hanno mai scoperte a cantare?

Mariuccia: Sì, ci picchiavano nella cella col calcio del fucile.

Rosetta: Ma guardi che questa era una roba da bambini, eh? Lei ci fa fare…

Mariuccia: Ma la cantavano tutti.

D: Non è una cosa da bambini, aveva un significato. Era molto eversivo dentro lì.

Mariuccia: Sì, però, era molto eversivo, però se lei si mette in un posto con tremila o quattromila persone che vanno in giro canticchiando così, magari in cinque o sei, poi quando arriva la guardia tedesca smettono, cosa vuol fare? Non era proibito né ridere né canticchiare. Se uno aveva la forza di farlo. E poi comunque si cantava sottovoce.

Rosetta: Aveva un profondo significato. Poi loro forse non capivano.

Mariuccia: Non è che si facessero i cori.

Rosetta: No, ma Mari, non proprio sottovoce perché cantavamo in dieci, dodici persone, e quelli che non potevano uscire dalla cella cantavano dal buco, dallo spioncino.

D: Quindi si era diffusa subito questa canzone?

Mariuccia: Sì, ma era una canzone praticamente molto in voga in Italia, allora. Io le parole della canzone reale non le ricordo, però è facile trovarle.

Rosetta: E penso che l’avesse scritta lo stesso, l’avesse composta lo stesso Funari.

Mariuccia: Funaro? Può darsi.

Rosetta: Ho detto Funari? Per l’amor di Dio, mi correggo: Funaro.

D: Ma ditemi un po’, sorelle, come mai voi siete finite in Via Resia, a Bolzano, quando, perché?

Rosetta: Siamo finite a Bolzano, perché mio marito, che era stato arrestato a Genova dalla Gestapo, faceva parte di una missione….

D: Suo marito è stato arrestato a Genova?

Rosetta: Sì, a Genova, dove stava lavorando con altri che facevano parte di questa missione alleata, e poi dopo aver passato un giorno nella casa di questo studente era stato trasportato nelle celle sotterrane della Gestapo di Verona.

D: Quindi da Genova a Verona.

Rosetta: Sì, alla Gestapo di Verona. E lì proprio per una fortuna incredibile, inspiegabile, mentre lo facevano lavorare per scaricare delle carte che i tedeschi stavano ammassando perché cominciavano a partire, Firenze non era stata occupata allora, gli alleati erano poco sopra Roma ma erano ancora abbastanza lontani. Comunque quel giorno, lui che non avrebbe dovuto assolutamente uscire dalla cella, per uno sbaglio del maresciallo che faceva servizio, è uscito e lo hanno mandato in un garage lì vicino alle celle a scaricare un camion. Lui ha aperto una porta, ha visto che c’era un finestrino, ha visto che il salto era di circa due metri e mezzo o tre metri, si è buttato ed è scappato.

D: Da Verona?

Rosetta: Sì, lui è scappato l’11 settembre.

D: Del ’44?

Rosetta: Del ’44 e la mattina del 12 settembre, alle cinque, sono venuti nella casa di campagna di mio padre, che si chiama “Il Ronco”, sono venuti, è venuto un tenente della Gestapo che mi pare, me lo hanno detto quelli della Digos, si chiamava Martin Engmann, insieme con altri soldati, quanti soldati saranno stati? Tre o quattro.

Mariuccia: Tu stai parlando del Ronco? C’era uno che si chiamava Otto, io di Martin Engmann non so niente.

Rosetta: Il tenente si chiamava Martin Engmann.

Mariuccia: Che è venuto al Ronco?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Comunque lui si è presentato, era un capitano che si chiamava Otto.

Rosetta: No, non era, ah, c’era anche un capitano?

Mariuccia: C’era un capitano che si chiamava Otto, quello me lo ricordo come fosse vero oggi, e ti spiego anche perché. Tu puoi dire di no, ma io questa volta insisto. Perché poi quando io sono ritornata alla SS di Brescia, il capitano Otto, che io credevo si chiamasse Otto, non mi ha mica fatto vedere la carta d’identità. Non si è neanche presentato. Mi ha detto, mi ha chiesto come si stava a Bolzano. E io, in presenza di lui e di quello che era seduto dietro al tavolo, che noi credevamo fosse Leo, ma non si sa chi fosse…

Rosetta: Ma dove, qui a Brescia?

Mariuccia: A Brescia, gli ho detto: “Si stava benissimo”. E loro mi hanno guardato un po’ stupiti, però quel capitano Otto, come mi ha visto entrare nel comando delle SS di Brescia mi è venuto incontro, sorridendo e quasi contento perché mi vedeva lì ancora in carne e ossa, penso. E sono sicura che si chiamava Otto, perché l’ho scritto in due o tre appunti che ho preso.

Rosetta: Di nome o di cognome?

Mariuccia: Lui si è presentato come Otto, dopo poi che si chiamasse Martin Engmann io non lo so. Era chiamato Otto, tu sai benissimo che le persone hanno dei nomi e poi hanno dei nomignoli, diciamo. Ecco, questo sono sicura. Che poi fosse Martin Engmann forse quelli della Digos lo avranno poi appurato in seguito. Lì da noi lui si è presentato come capitano Otto e le dico anche perché: perché mio padre cercava d’ammansirlo, perché inizialmente era piuttosto arrabbiato e gli offriva la colazione, gli offriva, così lui si è seduto a mangiare, ha detto che si chiamava Otto, immagino fosse il nome, il prenome, insomma ha fatto colazione, si è ammansito, poi siamo andati via, si può dire in rapporti cordiali, ecco.

Rosetta: Sì, ci hanno internato.

D: Ah, vi hanno preso subito lì al Ronco?

Mariuccia: Aveva l’espressione di uno fortemente disturbato dal compito che gli avevano dato, questa è la mia impressione, e non l’ho più dimenticata. È un’impressione.

D: Quindi sono venuti il giorno dopo, praticamente?

Rosetta: La mattina alle cinque, quattro e mezza o cinque, ho sentito dei passi pesanti, sono andata alla finestra e ho visto che giù nel prato davanti a casa e sul terrazzo c’erano, al primo momento ho pensato che fossero i soldati della Todt che lavoravano lì di fronte, poco lontano. Ma poi ho guardato, ho visto che avevano i gambali rigidi e ho detto: “No, qui è tutta un’altra categoria di soldati”. Allora ci siamo alzati, siamo scesi, loro hanno cercato subito il bambino perché io l’avevo lasciato su e lo avevo coperto. Pensando che era meglio se non lo vedevano; invece loro mi hanno chiesto se ero la signora Bonomelli, ho detto di sì. “Dov’è il bambino?” Io non ho risposto niente, e loro mi hanno fatto tornare di sopra e hanno scoperchiato, io ero in una stanza, in un lettino c’era mio figlio e nell’altro io, loro hanno scoperchiato lo hanno visto e lui che era già stato piuttosto scioccato per altre circostanze, era stato scioccato perché avevano sparato a suo nonno con lui in braccio. E lui era stato ferito di striscio, nel vedere questi in divisa è diventato un pezzo di ferro, e poi, niente, ci hanno incolonnati e a piedi da lì siamo andati in piazza a Iseo, vero? Poi siamo andati su in municipio, ti ricordi Mariuccia?

Mariuccia: Sì, sì quello mi ricordo molto bene.

D: In casa chi si trovava in quel momento?

Rosetta: In casa c’era mio padre, mia madre, mia sorella, mia suocera, mio figlio ed io.

Mariuccia: E i contadini che abitavano lì, nella stessa casa, in un settore, sa? Era una cascina praticamente di campagna. In una metà ci stavamo noi a fare le vacanze nell’altra metà abitavano i contadini.

D: E vi hanno presi tutti?

Mariuccia: Tutti.

D: L’accusa qual era? Vi hanno presi perché?

Rosetta: Ah, non ci hanno detto niente. Assolutamente. Anzi, noi eravamo molto preoccupati, perché non sapevamo assolutamente il motivo per cui ci avessero preso. E mentre camminavamo a piedi, e stavamo andando in paese, all’altezza del cimitero d’Iseo, io ho visto che dalla parte opposta della strada venivano due donne.

Mariuccia: Le Tanzi, erano.

Rosetta: Le ho guardate, e ho detto a qualcuno che stava vicino a me, non so se a te o a mio padre, “Ma quelle sono le sorelle di Tanzi.” Quell’amico di mio marito e di mio cognato che era andato con loro quando loro avevano passato il fronte. Allora è successo qualcosa. Allora ho chiesto a questo, Otto dice lei, io pensavo un tenente ma insomma, ho chiesto a questo Otto di lasciarmi salutare quelle signore perché erano le mie cugine. Lui mi ha detto: “Sì, sì”. Ha fatto fermare il drappello perché eravamo, saremmo state dieci o dodici persone.

Mariuccia: Se non lo avessimo ammansito, non faceva una cosa così.

Rosetta: “Mi lasci salutare le mie cugine”, allora sono andata da loro e ho chiesto “Ma cosa è successo?” e dicono: “Siamo arrivate tardi, è stato il treno che non è partito al momento giusto, perché noi avremmo dovuto essere qui prima delle cinque, e invece il treno è arrivato in ritardo”. “Ma cosa è successo?” “Ma, Bruno e Paride sono scappati dalla Gestapo a Verona e Paride non sa dove sia andato a finire Bruno. Perché uno dei due si è sbagliato sull’accordo che avevano preso al momento” e allora dice “È venuto subito da noi a piedi da Verona e quando lui è arrivato noi siamo partite perché lui ha detto di andare ad avvisare tutti i Nulli, mia madre, mia cognata, che si nascondano, che scappino. E invece siamo arrivate tardi”. Così abbiamo saputo perché ci avevano prese.

D: Dopodiché, da Iseo, dove vi hanno condotte?

Rosetta: Da Iseo ci hanno condotte nelle celle sotterrane della Gestapo. Abbiamo fatto una breve fermata qui dove c’era il maresciallo Leo.

Mariuccia: Prima ci hanno portate nella sede del comune d’Iseo.

Rosetta: Sì, ma prima di andare.

Mariuccia: Questo non so perché. E mi ricordo che era giorno di mercato, c’erano le macchine, le Volkswagen tedesche in piazza, e non c’era nessuno in piazza. Tutta la gente era nascosta sotto i portici, ci hanno fatto fermare lì e noi abbiamo chiesto, sempre a questo capitano, se ci permetteva di andare a prendere qualche abito, perché era settembre, faceva ancora caldo, avevamo gli zoccoletti a casa, perché mio padre ha detto: “Qui sarà una faccenda lunga, cercate di portare qualche vestito”. Io e lei siamo andate a casa, che abitavamo poco lontano, abbiamo raccolto qualche straccio da metterci e siamo tornate lì in comune. Nel frattempo una delle mie zie è venuta a chiamare mia madre ed ha chiesto il permesso d’accompagnarla a salutare sua madre che era morente. È poi morta due ore dopo. Allora in mezzo a due col fucile…

Rosetta: Anch’io sono andata con la mamma.

Mariuccia: Sei andata anche tu? Io non mi ricordo.

Rosetta: Sì, con la mamma e penso sono andata io con Ennio.

Mariuccia: A salutare questa donna che stava morendo di polmonite.

Rosetta: Comunque lì dal municipio dopo siamo andate alla casa in paese, la nostra casa, di quando eravamo ragazze.

Mariuccia: Io e lei da sole.

Rosetta: Sì, siamo andate lì.

Mariuccia: Poi siamo andate a Brescia, dove c’era questo Leo che non sanno se è Leo o un altro, o si chiamasse in un altro modo.

Rosetta: Il quale si è comportato in un modo così, veramente, assurdo. Io non lo avevo mai visto. Siamo entrate, sono entrata io e tenevo per mano il bambino, poi è entrata dietro di me mia suocera e poi loro. Lui è andato lì vicino a mia suocera e ha chiesto: “Bonomelli?” E lei si è rivolta verso di me per dire: “Perché?” e pam! Le ha dato una sberla, te la ricordi?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Una sberla, ma proprio, e io ho reagito un po’, ho detto: “Ma cosa sta facendo, ma non ha fatto niente. Ma che cosa sta facendo?” “Ssst”, ha detto, “sedetevi tutti”.

Mariuccia: E ci hanno messi in una stanzetta. Ma io voglio tornare indietro a fare una considerazione, non so quanto valore possa avere. Che noi non eravamo degli illustri sconosciuti, diciamo, gente tranquilla che non si sa se esiste, perché mio padre era già stato arrestato una volta dai fascisti per attività partigiana, perché aiutava i partigiani ed organizzava anche un po’ la Resistenza della valle. Tant’è vero che mia sorella, che forniva i partigiani d’armi, era già in prigione a Brescia, qui, agli Spalti di San Marco, nel suo piccolo faceva qualcosa anche mia madre perché preparava i viveri, glieli faceva portare e la nostra casa era un po’ un viavai di gente di questo genere. Con questi precedenti e con la conoscenza precisa che avevano delle nostre opinioni nei loro riguardi, forse hanno preso ancora di più la palla al balzo per fare imbarcare tutta la famiglia, perché penso che se fossimo stati dei contadini tranquilli, che non avevano mai fatto niente, non si sarebbero neanche scomodati.

Rosetta: Veramente, lì nel campo di concentramento dove eravamo noi, c’erano tantissimi ostaggi, gente che era stata presa esclusivamente perché i loro figli erano andati ad arruolarsi o con i partigiani o con l’Esercito Italiano passando le linee, beh, comunque loro per venire a prenderci hanno scelto quel momento.

Mariuccia: Quella è stata senz’altro la causa determinante, ma anche in paese, noi non eravamo visti con grande giubilo, perché io le dico solo un particolare, per venire a prenderci in quel posto lì ci voleva uno che spiegava molto bene dove si doveva andare, e ripeto, se noi fossimo state persone ammanicate col potere o semplicemente persone tranquille, forse anche le autorità comunali di allora sarebbero state meno sollecite a dare una mano, questa è la mia opinione.

D: Mariuccia, quanti anni avevate voi allora?

Mariuccia: Io sono del ’22, allora avevo 22 anni.

D: E voi Rosetta?

Rosetta: Io sono del ’18, allora avevo 26 anni.

Mariuccia: Comunque dopo questo episodio mia sorella Agata, che era stata arrestata dai fascisti, ed era in prigione e aveva avuto il processo e la condanna a trent’anni per attività partigiana, è stata interrogata da Priebke e passata sotto la giurisdizione anche lei delle SS.

D: Era stata processata al Tribunale Speciale?

Rosetta: No, non era stata ancora, non lo hanno mai fatto il processo di Agata.

Mariuccia: Ma perché dici così?

Rosetta: No, non l’hanno mai fatto.

Mariuccia: L’hanno condannata a trent’anni, vuoi che la chiamiamo al telefono per domandarglielo?

Rosetta: Ma se diceva, coso, come si chiama quello là? Streparara.

Mariuccia: Quello che dice Streparara lascialo perdere, Streparara era un imbecille qualsiasi. Agata è stata condannata ad anni trenta di prigione.

D: Quindi vi hanno portate a Brescia?

Mariuccia: Sì, a Brescia

D: Nel comando delle SS?

Rosetta: Sì, al comando delle SS. Siamo state lì una mezz’ora, poi ci hanno ricaricato su due macchine e siamo andate alla Gestapo a Verona, il Palazzo dell’INA, in via di Porta Nuova, c’è tuttora. Lì sotto, nelle cantine avevano ricavato delle celle dove, se si staccava la rete dalla parete e si tirava giù, non ci si poteva più neanche muovere. Io ero in cella con il mio bambino, la Mariuccia era in cella con… no? Da sola? Mia suocera? Come dici, eri in cella con mia suocera? Tu?

Mariuccia: No, eravamo in cella uno per uno. Perché forse volevano che qualcuno di noi dicesse quel che sapeva, che poi non si sapeva niente.

Rosetta: Sì, assolutamente niente, e poi fra l’altro, questi agenti dell’Intelligence Force dell’8^ Armata Britannica avevano anche delle disposizioni, ed era questo: “Se voi siete presi od arrestati, voi dite esattamente come sta la situazione, cioè da dove partite, come siete organizzati perché”, dicevano, “è inutile fare gli eroi”. Loro intanto queste cose le sanno già benissimo. Voi diteglielo esattamente, tranquillamente. Quindi è per questo che è strano che loro continuassero a fare degli interrogatori anche a me, in quei due giorni che sono stata lì mi hanno chiamato non so quante volte per dirmi: “Ma lei lo sa dov’è suo marito?” “Ma cosa vuoi che sappia io dov’è mio marito” “Ma dove potrebbe nascondersi?” “Ma non lo so”.

D: Perché lui nel frattempo era scappato e non si sapeva dov’era? Voi non lo sapevate?

Rosetta: No, io l’ho saputo soltanto dopo che è finita la guerra.

D: Dopo questi due giorni di interrogatori, lì a Verona, cosa è successo?

Rosetta: Ci hanno caricato su una corriera insieme con altri detenuti che venivano da altre carceri di Verona.

Mariuccia: Ci hanno presi e messi sulla corriera. La corriera è partita e si è fermata alla prigione Degli Scalzi. Sono saliti venti o ventidue individui, tutti uomini, non so perché, qualcuno forse era lì proveniente ancora dal campo di Fossoli, qualcuno. Però, non so. Dopo di che siamo andati a Bolzano.

D: Ecco, ma vi avevano detto che vi avrebbero portati a Bolzano?

Mariuccia: Sì, perché la mattina, quando mi sono alzata e sono andata a lavarmi al bagno, alla fontanina, questo ufficiale, Tito? Quest’ufficiale che aveva presieduto tutti gli interrogatori e che insisteva con “Nicht rappresaglia, Nicht rappresaglia”, quello me lo ricordo molto bene, mi è venuto vicino e mi ha detto: “Niente buono campo di concentramento per donne e bambini, niente buono”

Rosetta: Sì, sì, l’ho sentito anch’io.

Mariuccia: Ma mi ha quasi fatto capire che lui avrebbe continuato ad interessarsi al nostro caso. Io non capivo perché, allora veramente non si capiva quasi niente di tutta questa storia. Perché, lei lo sa, forse non lo sa meglio di me, ma lo sa come me, che avvenivano arresti in tutti i modi strani. Avvenivano esecuzioni sommarie, a piacere, come era successo a suo suocero, avvenivano deportazioni di cui uno non si rendeva conto del perché venivano fatte, quindi uno accettava quello che gli capitava sulle spalle, in una specie di fatalismo, e con la speranza che non fosse poi così drammatica la cosa come si profilava. Comunque questa frase me la ricordo, “Niente buono campo di concentramento”. E io mi ricordo di aver pensato: “Sarà sempre meglio di una cella senza finestra”, ho pensato questo. Ignara del fatto che se questo Eisenstein non ci avesse fatto mettere il cartellino di ostaggi, ma si fosse incattivito e ci avesse fatto mettere quello dei prigionieri politici, noi partivamo per la Germania. Perché quando siamo entrati negli uffici del campo, dove ci ricevevano, c’erano lì parecchi tedeschi, e io allora non sapevo neanche chi erano. Ho l’impressione che questa situazione fosse stata voluta proprio dalla Gestapo di Verona. Perché la notte ci hanno messo nei blocchi delle celle, delle donne a Bolzano, e a notte alta, saranno state le undici, si è aperta la porta, i chiavistelli, è comparso questo Hans che io ho visto per la prima volta, e ha dato ordine, ci ha chiamato per numero, “Blocco celle” ha detto. Allora noi siamo scesi dai nostri panconi, che non ricordo più neanche se erano i terzi, i quinti, i terzi o i quarti, e gli siamo andati dietro. Siamo andati dietro a questo signore, ci ha aperto la porta delle celle appena costruite, ci ha messo in una cella tutti insieme.

D: Tutta la vostra famiglia?

Mariuccia: Tutta la famiglia. E c’era un mormorio, quello me lo ricordo, “Ma poverini, vanno nelle celle”, perché giorni prima, e qui lo vedo riportato, proprio da quelle celle lì erano stati portati fuori questi ventitré italiani che erano stati fucilati. Il giorno 12 settembre. E noi siamo arrivati il giorno 14, quindi le celle erano vuote, in una era rimasto il famoso capitano Barda, alias Enzo Sereni, e il giovane Vittorio Duca, figlio di quel Duca, non so il cognome, il nome proprio, che era stato ucciso.

Rosetta: Quando siamo andate noi alle celle c’era già il capitano Barda?

Mariuccia: Perbacco! C’era il capitano Barda, e Vittorio Duca, erano loro due in quella cella lì, dopo Vittorio Duca lo hanno passato capo blocco, nel blocco E, è andato via, ma è stato lì qualche giorno. Questo è quello che ricordo, molto esattamente.

D: Possiamo fare un pezzettino di passo indietro?

Mariuccia: Sì. Come vuole.

D: Da Verona siete partite in corriera?

Rosetta: Sì, con un pullman.

Mariuccia: Lei lo chiama pullman, era un autobus tutto sgangherato, bianco, era. Pullman di gran turismo!

D: Con il pullman e siete arrivate, c’eravate su voi, e poi quegli altri prigionieri che….

Rosetta: Eravamo circa una cinquantina, non voglio proprio ostinarmi sul numero preciso, ma mi sembra di aver contato e aver detto “Siamo in quarantasette”.

Mariuccia: Lì a Verona però eravamo saliti solo noi. Non ti ricordi? Che non c’era nessuno dalle celle di Verona che era salito.

Rosetta: Siamo saliti soltanto noi.

Mariuccia: Solo noi. Il pullman, il bus, chiamalo come vuoi, quella specie di carcassa bianca, ha girato per la città e si è fermato davanti alla prigione Degli Scalzi. Io, la prigione degli Scalzi la conoscevo attraverso don Chiot, quel famoso prete che confessava i condannati a morte e li comunicava, ed insieme all’ostia gli dava la sigaretta. È un personaggio famosissimo questo don Chiot, era noto perché in questa prigione lui aveva…

D: Com’è che faceva a nascondere?

Mariuccia: Questo è un fatto vero. Nascondeva la sigaretta in mano, in modo che i condannati andavano a fare la comunione e lui gli faceva scivolare la sigaretta da fumare, adesso non so in che modo, queste informazioni più precise le può prendere lì dalla procura di Verona o da associazioni partigiane di Verona. Mi ricordo che conoscevo la prigione Degli Scalzi attraverso quello che mi dicevano, già allora, attraverso le esperienze di quelli che sapevano, insomma. Per cui mi fece molto effetto questo portone, una casa antica, un portone in pietra, dentro si è spalancato e hanno fatto salire questa gente, in abiti civili. Si capiva che era gente che era lì da parecchio tempo, niente, questo mi ricordo.

D: E poi siete partite per Bolzano.

Mariuccia: Siamo partite per Bolzano.

Rosetta: Siamo andate a Bolzano.

D: Senza nessun altra fermata?

Mariuccia: Sì, a Rovereto ci siamo fermati. Abbiamo fatto una fermata a Rovereto, ci hanno fatti scendere dal pullman. Tutti. Per motivi anche igienici e lì ho saputo che avevano progettato la cattura, diciamo, delle guardie che c’erano sulla corriera. E la liberazione di tutti attraverso un colpo di mano, insomma, che non è stato attuato perché hanno visto che, mentre loro non se lo aspettavano, che c’erano delle donne ed un bambino, e per paura che nel conflitto, che ci sarebbe stato di sicuro, a fuoco, con i sorveglianti armati di mitra, succedesse, ci fossero delle vittime, donne e bambini, così siamo andati a Bolzano, dopo ci siamo fermati un’oretta.

D: Siete arrivati a Bolzano, più o meno a che ora? Ve lo ricordate?

Mariuccia: Io mi ricordo che erano verso le cinque di sera.

Rosetta: Sì.

D: E quando siete entrate in Via Resia vi hanno dato subito l’immatricolazione?

Mariuccia: Dunque, sì è spalancato questo cancello, siamo entrati con la corriera e ci hanno fatto scendere, poi qui io ho dei ricordi un po’…, mi ricordo che gli uomini li hanno portati da una parte e li hanno fatti rapare.

D: Subito?

Mariuccia: Penso subito, perché noi siamo entrate e non ci hanno rapato. Né me, né lei, né mio padre, perché come siamo entrati io ho visto subito questa gente con le tute blu, tutte rapate e mi ha fatto un effetto impressionante, proprio un’impressione, un colpo ho avuto nell’entrare, era un mondo diverso. Un mondo completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, sia pure in mezzo alle vicende piuttosto drammatiche o complesse che si vedevano anche fuori dal Lager, se ne vedevano parecchie.

Rosetta: Ma mentre ancora eravamo nelle celle della Gestapo, lì a Verona, proprio la prima sera che siamo arrivati, io ero nella cella con Ennio, la cella si è aperta e c’erano due soldatesse tedesche ed una interprete. L’interprete mi ha detto che dovevo dare il bambino perché sarebbe stato portato in un posto più adatto, che non poteva stare lì. Allora io ho preso in braccio mio figlio e ho detto: “Ma no, sta qui, lo lasci qui.” “No, lo deve dare, deve lasciarlo andare”. Lui si era attaccato al mio collo, molto fortemente, però penso che senz’altro sarebbero riuscite a staccargli le braccia, non diceva niente e stringeva sempre di più, quella ho visto che si era veramente arrabbiata, e ha detto all’interprete di dirmi che se io non glielo davo lei me lo avrebbe strappato. In quel momento ho sentito i passi sulla scala a chiocciola ed è sceso un maresciallo che si chiamava Eisenstein.

Mariuccia: È quello che ci ha salvato, praticamente.

Rosetta: Quel maresciallo prussiano, dopo mi ha detto che era un maresciallo prussiano, ha detto a queste due di andarsene, mi ha detto: “Stare tranquilla, bambino insieme con lei”.

Mariuccia: E come, come lato umoristico le dirò che mio padre, mentre avveniva questa scena, che tutti definirebbero tragica, continuava a dire: “Te mologhe mai el gnaro”, cioè la incitava a non lasciarglielo. E forse senza questa insistenza, chi lo sa? Non sappiamo cosa sarebbe successo. Questa scena è durata, nel silenzio più totale, almeno dieci minuti.

Rosetta: Questo maresciallo mi ha detto, per la prima volta, perché poi me lo avrà ripetuto cento volte, mi ha detto: “Lei venire mio piccolo chalet Germania”, vero? “Lei e bambino, venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Si vede che sperava di portarla fuori.

Rosetta: Sì, e allora io attribuivo questo al mio, non so, a qualcosa di non so, “Si vede che forse gli piaccio”, pensavo. E invece poi sono rimasta molto delusa, perché quando ho raccontato queste cose a mio marito, finita la guerra, lui mi ha detto: “Ah, il maresciallo prussiano, ma non lo sai che lavorava con gli inglesi?”

Mariuccia: Ma questo noi lo abbiamo immaginato, perché quando stavamo salendo tutti in fila, sul predellino della corriera, lui si è avvicinato a mio padre, ed in italiano ha detto: “Io questa sera mandare mio uomo a Firenze”. Noi eravamo tutti presi da questa vicenda, che ci portavano via, no? Al momento non ci abbiamo fatto caso, poi mio padre fa: “Ma a Firenze ci sono gli alleati”.

Rosetta: No, non c’erano ancora gli alleati. A Firenze gli alleati sono arrivati due o tre giorni prima di Natale.

Mariuccia: Beh, comunque “Io mandare mio uomo a Firenze” voleva dire che aveva dei contatti con gli alleati e che da Firenze qualcuno avrebbe… e allora lì abbiamo capito che c’era una situazione, che a noi sfuggiva, ma che era molto, molto più complessa di quanto si pensasse, ecco.

Rosetta: Sì, poi quella insistenza, “Venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Questa qui “Stasera mandare mio uomo a Firenze” mio padre si è scervellato per tutto il viaggio. Comunque in settembre non erano ancora a Firenze, gli alleati.

D: Non me lo ricordo.

Rosetta: No, no, no.

Mariuccia: Nel settembre del ’44.

Rosetta: Roma è stata occupata nel giugno, il 20 giugno del 1944.

Mariuccia: Guarda che Roma è stata occupata nel ’43, Rosetta. È stato l’8 settembre.

Rosetta: Del ’44, è stata liberata nel ’44.

D: Liberata.

Rosetta: Roma è stata occupata dagli alleati il giugno 1944.

Mariuccia: Ah, sì, nel ’44.

Rosetta: L’8 settembre è stato nel ’43, allora c’erano gli italiani, e poi è stata occupata dai tedeschi.

D: Quindi l’ingresso di Via Resia, gli uomini sono stati messi, li hanno portati dall’altra parte.

Mariuccia: Non ho più guardato, confesso che non mi ricordo.

D: Il vostro gruppo, la vostra famiglia è rimasta tutta unita, diciamo.

Mariuccia: Sì.

D: L’immatricolazione ve l’hanno fatta subito?

Mariuccia: Subito, ci hanno dato il cartellino, io non mi ricordo però se mi hanno dato subito il cartellino. Questo non me lo ricordo.

Rosetta: Ma io credo che quando siamo arrivati la sera…

D: Neanche il numero?

Mariuccia: No, perché il cartellino ed il numero avevano, erano inscindibili. C’era il numero ed cartellino del colore X o Y. E probabilmente il cartellino ce l’hanno dato il giorno dopo. Perché se no non ci avrebbero messo nel blocco delle donne, se non c’era qualche cosa di…

Rosetta: Io mi ricordo che la prima notte che ho dormito a Bolzano avevo ancora il vestito che avevo quando ci hanno portati via.

Mariuccia: Sì. Il giorno dopo ci hanno dato…

Rosetta: Quindi quella sera lì loro a noi non ci hanno dato la tuta o altro, io non mi ricordo niente, mi ricordo però che sono venuti a prenderci al mattino e siamo andati al comando.

D: Il vostro babbo, è venuto anche lui con voi?

Mariuccia: Sì, quella notte lì, sì. Dopo lo hanno messo nella cella vicina, dove c’erano i cosiddetti prigionieri civili. Di nazionalità diversa, c’era lì uno di San Marino, per esempio, poi c’era un marocchino, poi c’era, ogni tanto, qualcheduno che stava lì magari due giorni, come Mike Bongiorno, che poi è andato via.

Rosetta: Io non l’ho visto.

D: A Bolzano, Mike Bongiorno?

Mariuccia: Sì, a Bolzano. E Mike Bongiorno è un illustre cafone. E adesso le spiego perché. Perché mio padre, che era un uomo molto aperto, aveva fatto amicizia con parecchie persone, tra le quali Virgilio Ferrari, alla liberazione lui, Virgilio Ferrari è diventato sindaco di Milano, e mio padre sindaco della liberazione ad Iseo.Allora lui gli ha scritto e si è congratulato, con questo dottor Virgilio Ferrari, e lui ha risposto. Come hanno fatto molti altri. Poi mio papà ha scritto anche a Mike Bongiorno, perché Mike Bongiorno aveva la dissenteria, ed i suoi compagni di cella lo aiutavano ad alzarsi e sedersi dal buiolo, ma dico, ma Mike Bongiorno non ha mai risposto, non ha detto: “Sì, mi ricordo che stavo male e mi avete aiutato”. Per dire la differenza tra le persone.

D: Poi vi hanno messo nel reparto celle, vi hanno fatto l’immatricolazione, vi hanno dato il triangolo, che era di che colore, il vostro?

Mariuccia: Verde.

D: Verde. Rosetta, il tuo numero te lo ricordi?

Rosetta: 4131.

D: Anche ad Ennio hanno dato un numero?

Rosetta: Sì, 4132.

Mariuccia: I triangoli sono questi. Quelli che sono riuscita a salvare.

Rosetta: Io avevo il 4131 ed Ennio il 4132, ecco.

D: Dove li mettevate questi?

Rosetta: Questi erano attaccati sulla tuta, sulla tuta blu con la croce di pittura ad olio dietro, così che da dietro era proprio come se si fosse in una specie di piccola corazza, perché resistesse ne avevano dato una quantità enorme.

D: Quindi vi hanno dato anche delle tute dopo, allora?

Rosetta: Sì, ci hanno dato una tuta e ci hanno portato via tutti gli abiti, abbiamo dovuto darli a loro gli abiti che avevamo, nostri, …

D: Tutto vi hanno portato via?

Rosetta: Sì, ci hanno portato via gli abiti, e…

Mariuccia: No, gli abiti non ce li hanno portati via.

Rosetta: Ma certamente Mariuccia, dopo io ti spiego.

Mariuccia: Io avevo il cappotto.

Rosetta: Dopo hanno dato qualcosa al bambino e poi hanno anche permesso che l’amico di mio padre portasse la roba che hanno mandato da Iseo al bambino perché il bambino non aveva una cosettina pesante, niente.

D: Quindi nella vostra cella c’era solamente la vostra famiglia? I componenti della vostra famiglia?

Rosetta: Sì, della nostra famiglia, eravamo in sei.

D: E tutto il giorno, cosa facevate lì a Bolzano?

Rosetta: Beh, i primi giorni, non so, non abbiamo fatto niente. Comunque io avevo chiesto alla Margherita, che era la prima moglie di Montanelli, una bella signora austriaca, che era incaricata di formare i gruppi di donne che andavano a lavorare. L’avevo pregata di mettermi negli elenchi perché lì non avrei saputo che cosa fare. E invece quando lei ha portato questo elenco al comando, il mio nome è stato cancellato. Hanno detto che io non potevo uscire a lavorare. Dovevo stare nel campo.

Mariuccia: Nessuno di noi poteva fare niente. Né io, né lei, né la signora Bonomelli, nessuno.

D: Quindi stavate nel campo tutto il giorno?

Rosetta: Sì, noi stavamo nel campo tutto il giorno, qualche volta…

D: Cioè, ma non tutto il giorno in cella?

Rosetta: No, potevamo… sì, ma non erano molto contenti se ci vedevano in giro. Noi ci andavamo, però stavamo un po’ attenti che in quei momenti non ci fossero vicino delle guardie.

Mariuccia: Guardi, nella prima cella c’era il capo campo.

Rosetta: Sì, nella prima cella c’era il capo campo.

Mariuccia: Ed il comandante Baccigaluppo della marina militare.

Rosetta: Ma dopo è andato via il comandante Baccigaluppo.

Mariuccia: È andato via dopo che sono andata via io, perché è sempre stato lì.

Rosetta: Ah, no, no, quando…

Mariuccia: Comunque era per spiegarle una cosa. Siccome lì c’era la sede del capo campo, aveva il diritto d’andare e venire a dirigere il campo, quindi il portone che dava sul cortile del Lager era sempre aperto di giorno. Veniva chiuso a chiave di notte. Come chiudevano a chiave di notte tutte le celle, ecco. Qualche volta non le chiudevano, ma per una pura negligenza, così qualche volta non la chiudevano. Ma nel novanta per cento dei casi chiudevano a chiave e si stava chiusi dentro. Fino a sera, si poteva anche parlare tra noi. Non so, c’erano dei giorni in cui chiudevano presto, degli altri in cui addirittura non chiudevano, questo non saprei dirle da che cosa…

D: Voi contatti però con gli altri deportati ne avete avuti?

Mariuccia: Moltissimi.

Rosetta: Sì, molti. Ma non con tutti insomma.

Mariuccia: Noi per esempio non potevamo mai andare, non avremmo potuto andare nei blocchi. Non ci siamo mai neanche azzardati ad andare nei blocchi degli uomini o nei blocchi delle donne. Io personalmente sapevo che era una cosa che non si poteva fare, ecco.

Rosetta: No, io sono andata due o tre volte nel blocco delle donne.

Mariuccia: Sì, ci sarai andata due o tre volte in sei, sette mesi, capirai.

Rosetta: Sì, sì, perché c’era uno lì, un nostro amico che lavorava nel reparto dell’elettricità e si era ammalato.

D: Lì a Bolzano?

Rosetta: Sì, lì a Bolzano. Ho visto, si chiamava Chiesa Federico. Era di Torino e la dottoressa Buffalini che era di Torino aveva mandato a chiamarmi e mi aveva detto: “Vai a trovare Chiesa che è ammalato, ha la febbre.” Allora io l’ho detto ad Hans, e lui mi ha permesso d’andare due minuti, mi ha detto: “Ti lascio andare due minuti, fai alla svelta”. Poi ci sono andata ancora altre volte, ma certo per pochi minuti perché non…

Mariuccia: Ecco, Pietro San, ecco un altro che mi ricordo. Me lo scrivo.

Rosetta: L’episodio bello che ricordo, non bello, insomma un episodio curioso, è la storia di mio figlio ed il fischietto. Un pomeriggio ho portato a spasso mio figlio intorno al campo.

D: Ma dentro al campo?

Rosetta: Sì, sì, dentro. Dentro. Poi quando stiamo per entrare nel corridoio delle celle, lui mi sfugge di mano e si mette a correre. “Fermati!” dico io, “Ma dove vai? Fermati! Guarda che adesso devi andare dentro, è tardi, fa freddo”. Lui invece d’ascoltarmi, continua a correre. Io sto un attimo a guardarlo e penso: “Beh, ritornerà. Farà il giro intorno all’edificio e poi verrà su dall’altro cortile dove fanno le adunate.” Nello stesso tempo sento un suono di fischietto, che era il suono classico che facevano le guardie quando c’era un’adunata. “Pfiii”, e poi dopo un momento, “Pfiii”, allora dico: “Ma Dio, quel bambino mi è scappato e adesso fischiano anche per un’adunata, bisogna che io vada a vedere che cosa è successo”.Intanto cominciavano ad uscire quelli che, non erano ancora tornati dal lavoro, ma quelli che lavoravano vicino, alcuni sono rientrati per dire: “Cosa succede? Sentiamo il fischio”. Insomma, si era fatta una bella folla di gente. Finalmente io sono riuscita ad acchiappare mio figlio, era lui che fischiava. Allora lì erano intervenute anche alcune guardie perché non capivano neppure loro che cosa stesse succedendo, allora io lo prendo e dico: “Dammi quel fischietto, ma che cosa ti viene in mente, ma hai visto che cosa hai fatto? Ma non sai adesso che cosa succederà? Vieni, andiamo nelle celle.” Allora lui si era reso conto che la cosa era veramente …, andiamo nella cella ed io dico: “Dammi il fischietto” “Non ce l’ho più” e faceva così con le mani. “Ma dove lo hai buttato?” “Non ce l’ho più”. Dopo dieci minuti è arrivato il maresciallo Haage con altri due tedeschi a volere il fischietto. Lui diceva “Non ce l’ho più. Non ce l’ho più”. Allora il maresciallo Haage è uscito ed ha ordinato di chiudere la cella. Te lo ricordi? Mio figlio si è messo ad urlare come un matto, “Scheisse, los”.

D: Era l’unico bimbo che c’era nel campo, di quell’età lì?

Rosetta: Sì, era l’unico bambino, penso che non erano molti i bambini ariani internati di quattro anni.

D: Ma quando siete arrivati voi, altri bambini non c’erano?

Rosetta: Sono passati alcuni, erano tutte bambine o bambini, quegli ebrei? Erano tre bambine.

Mariuccia: Sono state messe nella cella di fronte alla nostra con la mamma. Poi sono partite. Sono indicate anche nel libro che avete fatto voi. Le ho trovate indicate.

D: Quindi era l’unico bambino che c’era?

Rosetta: Era l’unico bambino, sì. E lì un accademico di Francia ha scritto per lui quella famosa poesia.

D: Un accademico di Francia che era deportato anche lui?

Rosetta: Sì, era un ebreo. Sì.

D: E ha dedicato questa poesia a Ennio?

Rosetta: Sì, carina, in francese logicamente.

D: Beh, certo.

Rosetta: Molto carina. Dopo la guerra siamo andate a cercarlo a Parigi.

D: E che cos’era quella riflessione lì, Mariuccia?

Mariuccia: Modestissima riflessione, dell’influenza che ha l’ambiente sulle persone, sui bambini. Mio nipote, che non aveva ancora cinque anni, s’era fatto, come modello, la figura del capo campo del Lager. Aveva voluto la fascia di capo campo ed era riuscito persino a rubare un fischietto per comandare le adunate, eccetera. Quello era il modello che lui aveva sotto gli occhi, il potere massimo che gli si presentava. Il massimo della felicità. Il capo campo oltre tutto andava fuori, faceva tutto quello che voleva ma soprattutto comandava, in quel luogo comandava.

D: Voi però dovevate comunque partecipare agli appelli?

Mariuccia: Noi non partecipavamo, a noi era proibito qualsiasi movimento che non fosse magari quello delle celle, a venti metri dalle celle. Tanto noi ci andavamo lo stesso, sa com’è? Si è anche un po’ incoscienti, e guardi, mio padre ha corso anche dei rischi, perché si affrettava sempre quando c’erano le partenze per farsi dare indirizzi, nomi, cose da scrivere alle famiglie. Si dava da fare in questo modo, tant’è vero che il maresciallo Haage lo ha picchiato per questo. Lo ha picchiato, gli ha dato due ceffoni perché aveva in mano un notes e scriveva quello che poteva, come poteva aiutare insomma, questi poveri disgraziati, lo faceva rischiando anche di suo. Rischiando la sua incolumità, perché lì non scherzavano, eh? Io sono sempre del parere che noi abbiamo evitato molti guai perché eravamo dei prigionieri speciali. La mia impressione è che noi fossimo un granellino dentro un ingranaggio bellico che era mille volte più grande di noi. Perché questo maresciallo Eisenstein che mandava il suo uomo a Firenze, forse si serviva di noi e ci proteggeva per avere in contro parte qualche cosa da parte degli alleati. Lei sa molto bene che il generale Wolff stava trattando la resa delle SS in Italia, no? All’insaputa di Hitler. Quindi si vede, nel patto tra gli alleati e le SS c’era anche quello di non fare rappresaglie e anzi di cessare le rappresaglie e magari di far vedere la buona volontà anche del corpo delle SS d’aiutare quelli che potevano essere aiutati. Questa è una cosa garantita, guardi. Ha visto poi l’articolo su Priebke? Dove c’è scritto che il tribunale aveva condannato mia sorella a trent’anni? Lo ha letto? Mi scusi. (Legge): Dopo quell’interrogatorio Agata Nulli non vide più Erich Priebke, dell’interrogatorio si parla sopra, ma il capitano delle SS si interessò ancora di lei, ed il 22 marzo 1945, poche settimane prima della liberazione, l’Hauptsturmführer scrisse dalla sede delle Gestapo di Brescia, in via Panoramica 10 al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato di Bergamo. La Nulli, diceva la missiva di Priebke scritta in tedesco, è confessa d’aver favorito i ribelli con alimenti e sigarette; inoltre ha distribuito foglietti caduti da aeroplani, il procedimento è stato trasmesso dalla Guardia Nazionale Repubblicana al Tribunale per il giudizio. Prego di comunicare, chiedeva Priebke, se la Nulli è stata processata ed a quale pena è stata condannata. Il tribunale le aveva inflitto trent’anni di carcere per favoreggiamento nei riguardi dei partigiani. A questa richiesta di Priebke il tribunale ha ufficialmente risposto che aveva avuto trent’anni di carcere per favoreggiamento dei partigiani. Quindi lei è stata processata e condannata a trent’anni, come appare da questa corrispondenza tra Priebke, che non è l’ultimo arrivato, e il tribunale di Bergamo. Quindi non mi pare una cosa da poco, però se noi fossimo state delle persone totalmente fuori dal gioco, avrebbero aspettato tre giorni a venire a prenderci, ecco. Per far dire che non eravamo totalmente fuori dal gioco, ho fatto presente che il papà era già stato arrestato dai fascisti, tu lo sai molto bene, in agosto, e l’Agata era già stata arrestata, era già a Brescia.

D: Però vostra sorella non è venuta nel campo?

Mariuccia: No, lei è sempre stata qui.

D: È sempre stata nelle carceri qui?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Loro hanno detto: “Prendiamoli tutti, così non c’è più nessuno fuori, non so”. Loro sono venuti ad arrestarci per quel fatto lì. È chiaro, poi ho anche aggiunto che siccome arrivare a quel posto lì non è tanto facile, le autorità comunali fasciste d’Iseo, hanno dato una mano. Se noi fossimo state persone qualsiasi, forse non s’interessavano neanche.

Rosetta: Probabilmente loro erano venuti per arrestare la moglie di Bonomelli ed il figlio, a prendere la moglie di Bonomelli ed il figlio di Bonomelli, siccome c’era lì dell’altra gente avranno detto: “Meglio che li portiamo via tutti, che sarà una cosa…”

Mariuccia: Sì, a me se mi lasciava a casa non mi faceva nessun dispetto.

Rosetta: Eh?

Mariuccia: Io non ci tengo ad avere titoli di martirio e d’eroismo, proprio non ci ho mai tenuto.

D: Ma dentro al campo, quando spiegavi che il babbo metteva in atto questa forma di solidarietà.

Mariuccia: Sì, poverino. Ma non ha letto le lettere di quei due ebrei sopravvissuti? Di quell’ebreo sopravvissuto? Quella è una testimonianza inequivocabile che quello che poteva fare là, lo faceva.

D: Avete trovato o conosciuto altre persone dentro nel campo?

Mariuccia: Madonna, io ne ho conosciute tantissime, di cui ho solo i nomi, ormai.

D: Tipo?

Mariuccia: Ma uno è questo Gurtler, poi l’elenco l’avevo dato alla signora, adesso l’ho lasciato a casa.

D: Ma così, a memoria?

Mariuccia: Mi ricordo Elmo Spreafico, quel Chiesa lì, Vittorio Duca, Ermando Sacchetta, tanti, guardi in questo momento mi sfuggono.

D: Con Vittorio Duca avevate stabilito un…

Mariuccia: Un vero rapporto di grande amicizia.

D: Che alla fine poi lui, che cosa ha fatto, vi ha dato?

Mariuccia: Io sono uscita prima, a lei ha dato, quando l’hanno mandata in Germania … e poi Vittorio Sereni, abbiamo conosciuto. Il capo comandante Baccigaluppo. I due fratelli Momigliano, Attilio ed Emilio Momigliano.

Rosetta: Vittorio Duca è arrivato, l’ultima partenza, perché dopo non è più partito nessuno.

Mariuccia: Altre persone di cui non ho conosciuto il nome ma che erano evidentemente persone di un’evidenza notevole, insomma persone di grande valore, professori universitari, studiosi, poi i nomi non me li ricordo più.

Rosetta: Abbiamo conosciuto don Gaggero, un prete di Bergamo, quello grande e magro.

Mariuccia: Don Vismara, don Berselli. Poi quando avevano ucciso il sig. Bonomelli, mio padre si è dato molto da fare, perché loro, i tedeschi, lo volevano seppellire nell’orto, lui è intervenuto e lo ha impedito.

D: Ma lì a Bolzano?

Mariuccia: No, qui a casa di mia sorella. Questo era antecedente.

D: Ecco Mariuccia, padre Gaggero, lui usciva dal campo?

Mariuccia: Andava a lavorare. Dopo io mi ricordo che ho scritto che non ero a conoscenza di un’attività clandestina d’aiuto ai deportati, non ero a conoscenza. Però so, da alcune vicende di don Gaggero, che lui era in contatto con qualcuno fuori che gli dava dei soldi e delle cose, per cui pigliava sempre, aveva preso un sacco di botte, era stato ridotto una palla, perché volevano fargli dire chi era che gli dava queste cose. E lui non lo ha mai detto. Io ricordo che ero molto ammirata dal suo comportamento, che passava, dopo lo hanno chiuso in cella, e lo facevano uscire e passava nel campo, io dallo spioncino lo vedevo passare con la faccia tutta livida e tutto zoppicante perché effettivamente era stato molto picchiato per quel motivo lì. Non saprei dirle altro perché non era molto opportuno andargli a parlare ad un certo punto.

D: Quindi c’erano anche sacerdoti dentro nel Lager?

Mariuccia: Eh, sì. Poi è entrato in prigione anche il parroco di Bolzano, che era quello che si diceva, si sapeva, che portava, non so se desse dei viveri o avesse dei contatti d’altro genere, o del denaro, non so. Non saprei. E io ricordo che mio papà rideva, perché diceva: “Tu vedrai, me lo diceva in dialetto, vedrai quanto tempo passerà prima che entri dentro anche quell’altro prete che gli dà i soldi”. Perché poi le cose si sapevano, in maniera trasversale, come dicono, si sapeva che don Gaggero usciva a lavorare, che c’era un prete che gli dava dei soldi da dare ai prigionieri, e si sapeva che anche quello là un bel giorno sarebbe entrato dentro, e difatti così è stato. Non so altro perché poi, ripeto con don Gaggero quando era in cella e veniva fuori a fare la passeggiata, non si poteva parlare.

Rosetta: Io don Gaggero l’ho visto dopo. A Genova. Apparteneva ad un ordine sacerdotale.

D: Erano i Filippini di Genova.

Rosetta: Erano i Filippini di Genova, ecco, io sono andata alla chiesa di San Lorenzo a Genova e l’ho incontrato.

D: Sì, ha anche subito un processo.

Mariuccia: E’ uscito dalla Chiesa, diciamo ufficiale, ed ha fondato un movimento che allora ha avuto anche molto seguito. Poi è scomparso.

D: Sì, sì, era stato a Praga, eh, ma è stato per due anni poi a Roma perché il Sant’Uffizio lo aveva processato.

Mariuccia: Sì, sì, ma era un tipo molto originale, non era un uomo comune.

D: Mi sembra che era anche vivace.

Mariuccia: Io lo avevo notato come una personalità spiccatissima e diversa da tutte. Forse era la personalità che mi ha colpito di più di tutti gli uomini che ho conosciuto nel campo.

D: Rosetta? Ah, no, sta prendendo un appunto. Se no si dimentica.

Rosetta: No, no. Mi dica.

D: Quindi avete conosciuto queste persone qui, contatti quindi all’interno del campo però, all’interno del Lager di Via Resia, c’era un movimento diciamo così, resistenziale? C’erano delle persone che si davano da fare, che aiutavano gli altri?

Mariuccia: Ah, questo sì.

Rosetta: Ma aiutavano in che senso?

D: In tutti i modi, magari anche conforto, perché stare in un Lager non penso che sia la cosa più bella di questo mondo. Cioè essere privati della propria personalità, per esempio, il fatto di non essere più una persona ma di essere un numero.

Rosetta: Io le dico sinceramente che ho assistito a certe scene di litigi proprio per delle cose, delle cattiverie.

Mariuccia: Beh, questo sì.

Rosetta: Di cose veramente, che mi sembrava che il senso della solidarietà non fosse per niente diffuso, ecco.

D: Ah, no?

Rosetta: No, no.

D: Cioè?

Rosetta: Sì, se uno aveva un pezzettino di pane e vedeva un altro in parte che stava crepando di fame, sarebbe stato molto difficile, perché comunque noi abbiamo vissuto un po’ fuori da quei giorni lì.

Mariuccia: Però le dirò anche che gli spazzini per esempio, che ad un certo punto erano quasi sempre ebrei, e ad un certo punto i capo cessi che erano i due fratelli Momigliano, desideravano ardentemente tutti di venire a fare gli spazzini nel nostro corridoio perché lì beccavano qualche cosa, gli si dava qualche cosa di quello che avanzava a noi o un goccio di caffè, poi se avevano bisogno d’aggiustare le mutande o qualche cosa di simile, la mia mamma, la signora Lina, si faceva quello che si poteva, insomma.

Rosetta: Anche la sottoscritta.

Mariuccia: Noi facevano quello che potevamo, potevamo fare molto poco, ma…

D: Lì c’era una donna?

Rosetta: Una iena, la chiamavamo la iena.

Mariuccia: E la Marge, dov’era la Marge? Io ho segnato nei miei appunti una certa Marge.

D: La iena? C’era la iena, la Tigre lì, no? E poi c’era anche un’italiana, piccolina, che era un capo baracca.

Rosetta: La capo blocco? Beh, ma la capo blocco era un’internata italiana.

Mariuccia: Io non me la ricordo.

D: No?

Rosetta: Anch’io non me la ricordo molto, io ricordo molto la Montanelli, perché ci s’incontrava.

Mariuccia: Sì, quella piccolina, ha ragione.

Rosetta: Quella piccolina.

Mariuccia: Mi farò venire dalla nebbia della memoria qualche …

D: Cicci, si chiamava.

Mariuccia e Rosetta: Ah, la Cicci, la Cicci.

Rosetta: Ma c’è ancora? Vive ancora?

D: Ed ha sposato il capo campo maschile.

Mariuccia: E chi era, Maltagliati?

D: No, Gigi Novello.

Rosetta: Ah, il Gigi Novello.

Mariuccia: Anche quel Novello lì me lo ricordo, io.

Rosetta: Gigi Novello, ah, è un amore che è sorto nel Lager?

D: A San Vittore, prima del Lager.

Mariuccia: Eh, ma Gigi Novello ha fatto il capo campo per pochissimo, io non l’ho mai visto capo campo, il Gigi.

Rosetta: Comunque, ma lei sa che da lì, dal Polizei Durchgangslager di Bozen, alla metà di marzo, sono state portate via diciannove donne perché erano incinta di quattro mesi?

Mariuccia: Robe da pazzi.

D: No, questa cosa non…

Rosetta: Questo mi ricordo, dunque li troverò, perché quel coso di appunti…

Mariuccia: Che fine abbiano fatto non si sa.

Rosetta: Hanno detto che le portavano in un ospedale a Merano.

D: Più o meno, il periodo quand’era, Rosetta? Quando è avvenuto, questo?

Rosetta: Questo deve essere avvenuto, era ancora marzo, deve essere stato, non so, poco prima o poco dopo la metà di marzo. A me hanno detto che erano in diciannove, facciamo anche fossero nove, però questo è veramente successo, io ne conoscevo tre o quattro di donne incinte ed una era la figlia di quella di Vicenza, ti ricordi quella signora anziana di Vicenza che era dentro con la figlia, anche loro come ostaggi?

Mariuccia: No. E quella di Piacenza, come si chiamava quella di Piacenza zoppa?

Rosetta: Ah, quella di Piacenza zoppa.

Mariuccia: Era un personaggio, che poi ha fatto carriera nel Partito Comunista.

Rosetta: Ma non avevate mai sentito questo, che c’erano le donne incinte?

D: No.

Rosetta: No, no, guardi, glielo assicuro proprio.

D: Non si sa che fine abbiano fatto?

Rosetta: Io so che queste donne sono uscite, hanno detto che sarebbero andate all’ospedale, ecco. E poi un giorno sono state portate all’ospedale, mi sembra perfino ai primi di marzo? Perché insomma faceva ancora freddo, qualcuna non stava bene, e così, dopo, di due sono sicura, perché me lo hanno detto loro che erano incinte e sono andate, una era questa, mi verrà in mente il nome del paese, lì delle vicinanze…

D: Voi vi ricordate un trasporto che dal campo sono partiti con un camion?

Mariuccia: Beh, ma partivano sempre con il camion.

D: Ah, sempre con il camion?

Mariuccia: Io li ho sempre visti con i camion.

Rosetta: Perché li portavano alla stazione poi quelli che partivano, no?

D: Ecco, lì invece dovevano partire con il trasporto della stazione, poi invece Pippo aveva bombardato, e allora lì non hanno fatto più il treno, e c’è questo camion con su delle persone, portate ammanettate e non si sa più che fine abbia fatto questo camion. E c’era anche un sacerdote su questo camion, che era anche lui claudicante, aveva una malformazione ad una…

Mariuccia: Un sacerdote?

D: Un sacerdote di Padova era.

Mariuccia: Non si ricorda il nome?

D: Sì, me lo ricordo sì.

Mariuccia: Il nome?

D: Don Placido, si chiamava.

Rosetta: Io non mi ricordo.

Mariuccia: E si ricorda in che data?

D: Lui è stato preso a Padova.

Mariuccia: In che data è stato questo camion? Perché noi vedevamo i camion partire, poi dopo non si sapeva se partivano o non partivano per la Germania.

D: Don Gian Antonio Cortese, si chiamava.

Mariuccia: Si sapeva solo che non erano partiti quando era interrotta la linea ferroviaria, dopo dove andassero i camion, perché tornavano indietro, … nel campo.

Rosetta: Questo senz’altro lo saprete anche voi, che poi lì in quel campo lì, verso la metà di marzo, non era più partito nessuno, eravamo dentro in 3.250, perché neppure con i camion potevano partire.

Mariuccia: Non potevano più partire.

Rosetta: La linea ferroviaria era interrotta, ed andare in giro con i camion così con su i prigionieri era pericoloso, eh?

Mariuccia: C’era un sacerdote zoppo, quello me lo ricordo io. Piccolo di statura.

D: Mariuccia, cos’è un Lager?

Mariuccia: Ah, santo cielo, mi fa una domanda molto difficile, perché il Lager comunemente è un posto dove uno va, chiuso dentro in mezzo al … non è più una persona, è un oggetto a disposizione di qualche d’uno d’altro, però soprattutto per me un Lager è una prigione psicologica, è l’annullamento della personalità, la privazione dei propri diritti, non dico i diritti del vivere, del mangiare, del dormire, ma dei diritti di essere se stessi. E di vedere gli altri essere persone.

D: Per una donna un Lager cos’è? Cos’è stato per una donna un Lager?

Mariuccia: Per me il Lager è la negazione della vita, siccome io la vita l’intendo non solo in senso materiale, prima di tutto è la negazione della vita in senso materiale e poi la negazione della vita in senso spirituale, totale proprio, e questa è la cosa secondo me più terribile, è quella dalla quale dobbiamo guardarci molto di più che da tutte le privazioni di tipo materiale. Sa poi, involontariamente si fa della retorica quando si parla di queste cose, perché sono argomenti pesanti, se uno non usa parole pesanti forse non viene neanche capito. E poi per me il Lager è anche una forma d’interiorità deviata. Mancanza d’amore della verità, mancanza d’amore della libertà, mancanza di consapevolezza, tutte queste cose, che ci possono non essere prima e succedere dopo, cioè venire dopo. Comunque il Lager è una cosa orrenda, diciamo. È proprio l’ombra del buio, come avete scritto voi nel vostro libro.

D: Vi ricordate in aprile la celebrazione della messa per la Pasqua, nel Lager?

Mariuccia: Io mi ricordo la celebrazione della messa, che si faceva sotto le ultime celle in fondo, nella vostra piantina sono ben indicate.

Rosetta: Sì, qualche volta hanno celebrato la messa.

Mariuccia: E mi ricordo, me lo ricordo perché ho scritto una lettera, nella quale descrivo questa celebrazione della messa, che è avvenuta così, noi eravamo andate là e c’era parecchia gente, perché la celebrazione della messa anche per uno che non è credente, in un Lager acquista un significato, un significato come dire di contatto umano fuori dalla prigione, fuori dall’imposizione, fuori dalla consuetudine negativa che ti comporta l’essere nel Lager. Eravamo in tanti, avevamo deciso di cantare, di cantare la messa. E invece nessuno è riuscito a cantare la messa perché si è visto come una specie d’emozione inibitrice che ha impedito alla gente, era poi la prima che si faceva, di cantata, poi le altre messe non le abbiamo cantate perché in quelle celle mettevano i prigionieri che poi venivano picchiati o torturati e molto spesso c’erano dei lamenti e delle urla che non facevano sentire neanche la celebrazione.

D: Come si chiamava il prete celebrante?

Mariuccia: Io non mi ricordo, me lo aveva detto lei, veniva da fuori, mi pare. Si chiamava Piola.

Rosetta: Lei ha chiesto della messa che hanno celebrato in aprile?

D: A Pasqua del ’45, c’è stata una funzione religiosa, sulla piazza dell’appello.

Mariuccia: La Pasqua, l’aprile del ’45? Io non c’ero.

Rosetta: Sì.

D: Vi ricordate?

Rosetta: Sì, me la ricordo. Sì, avevano fatto un altare che voltava, il celebrante voltava le spalle alle celle.

Mariuccia: Allora il rito era così.

Rosetta: Poi i particolari, ricordo vagamente.

D: Come facevate a sapere le informazioni dall’esterno, voi eravate al corrente d’informazioni dall’esterno?

Mariuccia e Rosetta: Sì, le chiedevamo a quelli che uscivano a lavorare.

D: E poi c’era, non so, una stampa clandestina dentro?

Mariuccia e Rosetta: Io non l’ho mai vista.

Mariuccia: Guardi, secondo me il motivo è che quello non era un Lager dove la gente si fermava, cioè era impossibile organizzare qualche cosa di consolidato, perché andavano e venivano, c’erano le partenze, e quando ormai non c’erano le partenze c’era una tale confusione di persone, ed anche un numero così eccessivo di persone che era impossibile insomma, secondo me, organizzare una cosa d’informazioni. Noi avevamo i nostri informatori privati, per esempio i falegnami, sapevamo quando c’era qualche morto perché venivano da mio papà e dicevano: signor Nulli, oggi abbiamo fatto cinque casse.

Rosetta: Palmiro, un falegname milanese, si chiamava Palmiro.

Mariuccia: Palmiro?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E veniva da mio padre e diceva “Signor Nulli, oggi cinque casse”. “Oggi tre casse”. Per questo che sappiamo che c’erano state o delle esecuzioni o delle morti naturali.

D: Ah, ecco, morti naturali, no, però?

Rosetta: No, ce ne sono state.

D: Anche morti naturali?

Mariuccia: Anche morti naturali, però.

Rosetta: Le due ebree delle celle che sono state fatte morire.

Mariuccia: Beh, ma quella non era una morte naturale, quella è stata un’esecuzione.

Rosetta: No, sono morte di broncopolmonite.

Mariuccia: Sì, va beh. Però ci sono state anche delle morti naturali, secondo me, gente vecchia, io non lo so, penso che ci fossero state, però le notizie delle casse si riferivano sempre a qualche prigioniero scomodo o che aveva dato dei problemi o che era lì per essere eliminato. C’erano perché mio padre, un giorno sì e un giorno no, riceveva la notizia dai falegnami che avevano fatto le casse. Sono sicurissima.

Rosetta: Ma questo d’un giorno sì e un giorno no, mi sembra un po’ esagerato.

Mariuccia: Loro venivano a dare le notizie, dopo fosse un giorno sì e uno no, o una settimana, non mi ricordo, so che venivano lì perché avevano confidenza.

Rosetta: E si vedevano anche le casse che uscivano fuori dalle celle, erano delle casse fatte di legno, una specie d’assi, ma non una parete completa, erano delle listarelle larghe, alte quattordici centimetri, e si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

Mariuccia: Allora i falegnami le fabbricavano, dopo io non so dove andavano a seppellire queste gente.

Rosetta: E si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

D: Dicevo questo perché, ad esempio in alcuni Lager abbiamo sentito che avevano organizzato per esempio Radio Scarpa no? Riuscivano a mettersi in contatto con la radio, avevano fatto una radio a galena, eccetera, a Bolzano questo non era successo?

Mariuccia: Io dico che il motivo è semplicemente questo, ed è anche più serio per il fatto che lì c’erano personalità della Resistenza che non rivelavano la loro vera identità, ed è giusto, quindi non si sarebbero di sicuro compromessi ad organizzare una Resistenza in un Lager; una Resistenza, diciamo un servizio di formazione, la chiami come vuole, gente che era già in bilico, che non voleva essere riconosciuta.

Rosetta: E poi al mattino quando uscivano queste squadre di lavoro guardi che il Lager si svuotava completamente, eh?

Mariuccia: Andavano tutti a lavorare.

Rosetta: Andavano fuori a lavorare nelle gallerie per fabbricare le bombe degli aerei, oppure le …

Mariuccia: Non so cosa facessero, facevano le traversine delle ferrovie.

Rosetta: Ed anche bombe, c’erano delle gallerie dove si facevano delle munizioni di vario genere, bombe a mano, questo lo dicevano quelli che andavano a lavorare, e quindi dalla mattina, perché poi a questi, a mezzogiorno, il rancio glielo portavano sui posti di lavoro. Alcune volte, in casi eccezionali, ma forse se c’era, non so, ogni tanto facevano un’adunata per qualche comunicazione, ma deve essere successo pochissime volte, comunque questa gente partiva alla mattina alle sei e mezza, sette e dopo ritornava alle quattro e mezza.

Mariuccia: Quello che non ricordo è se andavano a lavorare anche nei giorni in cui c’erano le partenze per la Germania. Quello non me lo ricordo.

Rosetta: No, nei giorni in cui c’erano le partenza per la Germania, non usciva nessuno.

D: Con che frequenza venivano fatte queste partenze per la Germania?

Mariuccia: Ah, io dico ogni quindici giorni, inizialmente.

Rosetta: Dieci, quindici giorni.

D: Cosa succedeva? Chiamavano i numeri?

Rosetta: Adunavano tutti e poi chiamavano.

Mariuccia: E poi al controllo, io non so come facevo ad essere lì, io ho visto come facevano ad organizzare la partenza. Loro facevano, schieravano tutti i prigionieri nel recinto, davanti al blocco delle donne, quello più vicino al cancello. C’era un tavolino, fuori dai reticolati, liberi così, c’era un tavolino come questo, qui c’era seduto uno con una penna, io adesso non ricordo se era un qualsiasi esecutore materiale, scribacchino. E qui c’era il maresciallo Haage. La persona seduta chiamava il numero, il numero chiamato usciva, si presentava davanti al tavolino con il suo fagotto, il maresciallo Haage gli dava due sberle e poi lo mandava dall’altra parte.

Rosetta: Venivano chiusi tutti, questi che partivano, in un blocco che veniva vuotato.

Mariuccia: Ma prima di partire li mettevano lì, li schieravano, li ho visti io.

D: Quindi uomini e donne.

Mariuccia: È chiaro che prima, per farli andare sul camion li dovevano pur far uscire dal blocco. E facevano questo appello, io non so che significato avesse, e mi ricordo che mi faceva un’impressione spaventosa la forza di quest’uomo che stava lì a dare duecento, centocinquanta, centosessanta sberle alla gente, ma deve avere una forza da leone, perché l’ho visto. Non è che l’ho visto tutte le volte, l’ho visto un paio di volte.

D: Uscivano a piedi dal campo?

Mariuccia: No, no, venivano caricati sui camion. Ed un altro particolare che le dico io, che ho visto con i miei occhi, le poche cose che ricordo, non sono per niente eroiche, le pedate nel sedere che davano agli ebrei per farli salire. Io pensavo, penso fossero ebrei, perché uno di quelli presi a calci nel culo si chiamava Levi. E suppongo che anche gli altri, che come lui venivano fatti salire sui camion a pedate, fossero ebrei, perché alcuni sapevo che erano ebrei, perché come dico, delle volte venivano lì nel nostro corridoio a dire il loro nome, mio papà prendeva il nome, a dire la loro famiglia, e così via dicendo. E questo Levi, uno piccolino così, aveva detto d’essere l’unico sopravvissuto, che i suoi familiari erano già stati deportati e non sapeva più dov’erano. E quello lì lo hanno fatto salire proprio a calci nel culo, sul camion, questo l’ho visto con i miei occhi.

D: Dentro nel campo poi c’erano delle officine, no? Si lavorava all’interno del campo.

Mariuccia: Sì, c’era la lavanderia, c’era la falegnameria, c’era il magazzino, non so se ci fosse l’officina meccanica, quello non me lo ricordo.

Rosetta: C’era tutto quello che si riferiva all’elettricità, dove si aggiustava, si facevano dei lavori per quelli della Gestapo, aggiustavano le loro radio, tutte le apparecchiature.

Mariuccia: Gli elettricisti. Credo ci fosse anche una specie di sartoria, o guardaroba, dove aggiustavano la roba.

Rosetta: Sì, c’era la sartoria, sì. Ho lavorato anch’io una settimana.

D: In sartoria?

Rosetta: Sì, dopo mi hanno proibito di farlo.

Mariuccia: Per fare qualche cosa, perché era micidiale non fare niente.

D: Certo.

Mariuccia: Adesso che hanno riaperto il processo Priebke sono venuti a cercare informazioni di tutti i tipi.

D: Da voi?

Mariuccia: Sì, perché pare che tutte queste vicende fossero in parte anche connesse con il caso Priebke.

D: Ho capito.

Mariuccia: Perché questo Priebke, secondo me, anche lui era un agente segreto alla fine. Erano tutti, diciamo, sospetti di connivenza con gli alleati, a loro premeva di salvare la pelle, di salvare il loro corpo dalle SS. Quindi bisogna orientarsi su questa mentalità.

D: Dicevo, Mariuccia, la liberazione quando è arrivata?

Mariuccia: Ma io sono stata scarcerata, mi hanno chiamata al comando, 4134, è venuto Haage in cella e mi ha detto: “Nulli Maria, nacht Verona”. Io ho detto “Cosa mi portano a Verona”, perché erano i primi di marzo, “cosa vado a fare a Verona?” Niente, mi hanno messa su un camion, questa è la mia, dopo la sua la racconterà lei, alle due del pomeriggio. Alle quattro di mattina siamo arrivate a Verona, ma io avevo capito, su quel tragitto lì, perché ci siamo fermati non so dove, in mezzo a due soldati, che c’era già un’aria di sfacelo. Si vede che loro avevano paura dei partigiani, non so, andavano, siamo arrivati alle quattro di mattina a Verona, ma non siamo entrati in città. Siamo stati molto lontano. Mi hanno fatto portare una cassetta di munizioni, e mi hanno fatto andare, io non ce la facevo, avevo la febbre, mi hanno fatto entrare in una specie d’ufficio, dove c’era un nanerottolo così, quelli dell’ultima ora, un giovincello, che ha cominciato a dirmi: “Partisan, partisan”. Io ho detto di no, “No partigiano, sono un ostaggio”. Ed ha cominciato a sfottermi perché io studiavo filosofia e mi diceva: “Solo Germania grande filosofia”. Mi ha fatto un effettaccio, poi niente, mi hanno mandata giù nelle celle e mi hanno lasciata lì. Non so, tre, quattro giorni, non diceva niente nessuno. Io chiedevo di questo Eisenstein e nessuno mi diceva niente, poi ad un certo punto hanno aperto la porta, io sono andata con una, il biglietto non ce l’ho più, con una scritta nella quale c’era che io dovevo presentarmi tutte le mattine alla SS di Brescia, dove c’era questo Leo, una cosa che per me era totalmente insensata, e cosa che io facevo tutti i giorni, perché mi premeva di stare tranquilla. Ecco, questa è stata la mia liberazione.

D: Mentre invece la vostra, Rosetta?

Rosetta: La nostra è avvenuta…

D: Quindi Mariuccia è partita.

Mariuccia: Io sono partita, ho qui due lettere che ho scritto a loro, ma che non sono mai arrivate.

D: Mariuccia è partita e voi vi siete trovati soli in cella?

Rosetta: Soli per modo di dire, perché eravamo ancora in cinque.

D:Della famiglia?

Rosetta: Sì, della famiglia.

D: Cioè non vi hanno dato motivazioni del perché Mariuccia era stata mandata a Verona?

Rosetta: No, no, mai. Niente.

Mariuccia: Che poi a me avevano detto che poi avrebbero liberato anche loro, presto, entro un mese, avrebbero liberato anche loro, mi dicevano così. Però mi chiedevano di collaborare, di dire se sapevo dove erano i Bonomelli, di andare nelle Ausiliarie, insomma mi facevano delle cose che non avevano senso, perché dopo un mese e mezzo è finita la guerra. Si preparavano il terreno per non farsi ammazzare, secondo me.

Rosetta: Dopo il 20 di aprile abbiamo visto che sul camminatoio intorno piazzavano delle mitragliette in più, chiedevamo a quelli che uscivano che cosa succedeva, “Ah, niente”, dicevano, “niente, noi vediamo sempre i tedeschi e qui ci sono sempre i tedeschi”. “Ma cosa dicono sui giornali?” “Ma”, dice, “dove andiamo a lavorare noi ci sono dei giornali tedeschi, ma non si sa niente. Dicono che resistono.” Verso il 23 o il 24 aprile non è più uscito nessuno a lavorare, più nessuno. Si faceva però sempre la solita adunata della mattina, la prima sirena, la seconda sirena, eccetera, però bisognava stare molto, ma molto chiusi, si poteva uscire solo un paio di volte, anch’io con il bambino non potevo andare in giro come facevo prima. Ci aprivano poco la porta in fondo alle celle, si poteva stare lì nel corridoio. Il 29 aprile era domenica, perché l’ho proprio scritto. Verso le quattro sentiamo che si apre la porta in fondo, passi un po’ pesanti, e si spalanca la porta della cella e c’è il maresciallo Haage e dietro due soldati, me lo ricordo benissimo perché uno aveva in mano sulle due braccia i vestiti, e l’altro aveva un secchiello dove c’erano dentro le nostre scarpe. Allora ci dicono di vestirci,l’interprete dice: “Vestitevi che andate al comando”. Lì nella cella di fronte alla nostra, non mi ricordo più chi c’era dentro, qualcuno che ha assistito dallo spioncino alla scena e ci diceva: “Non muovetevi, ma dove andate? Ma non sapete che vi fanno fuori? Non andate, non dovete uscire.” Comunque i soldati hanno aspettato, quando noi ci siamo rivestiti con le nostre cose, hanno preso le tute e ci hanno accompagnati al comando, e siamo andati su al comando, c’era il maresciallo Thito, siamo andati dentro ed ha fatto una carezza a mio figlio sulla guancia, lui tutto, è stato molto contento, e poi ci ha dato il foglio di scarcerazione a ciascuno di noi e ci hanno messo fuori dalla porta. Allora noi, insomma anche sollevati da un lato, perché dicevamo: “Va beh, ci hanno lasciato così, senza neanche una lira in tasca, senza sapere neanche dove siamo esattamente comunque adesso vedremo”. Noi eravamo convinti che andando per esempio a Bolzano avremmo trovato non so, i liberatori dell’Italia, ed invece ci siamo accorti che lì c’erano tutti tedeschi, tutti, tutto era ancora occupato.

Mariuccia: È per quello che vi hanno dato il foglio di scarcerazione.

Rosetta: Eh beh certo, però avevamo anche paura di far vedere quel foglio di scarcerazione nei quattro giorni che abbiamo impiegato per arrivare a casa, e caspita…

D: Con cosa siete arrivati a casa?

Rosetta: Con i mezzi un po’ di fortuna, mezzi di fortuna e parecchia strada a piedi, ti faccio vedere dov’è Mori?

Mariuccia: Sì, l’ho visto, ho guardato sulla cartina.

Rosetta: È a 12 chilometri da Riva.

D: Tra Rovereto e Riva del Garda, Mori.

Rosetta: Sì, tra Rovereto e Riva del Garda ma più vicino a Riva del Garda che a Rovereto.

Mariuccia: Ma non passa la ferrovia, da Mori, però.

D: Sì, passa.

Rosetta: Sì, passa.

Mariuccia: La ferrovia Verona – Brennero passa da Mori?

Rosetta: Anche la strada passa, andando in macchina vedi che c’è scritto Mori. Sì, anche sull’autostrada c’è l’uscita.

D: Quindi avete fatto tutto il viaggio…

Rosetta: Prima siamo andati all’Aprica, con l’idea di dire che forse là all’Aprica, alla Mendola, oh, mi scusi, alla Mendola, con l’idea che alla Mendola, pensavamo che dopo, allontanandoci dalla Mendola avremmo trovato il sistema per andare a casa. Invece lì alla Mendola abbiamo visto che non c’era niente da fare. A parte il fatto che mio padre non voleva neanche che io fermassi i camion con i tedeschi, perché diceva “No, non li devi fermare, non devi farti prendere su, non devi fare niente.”

Mariuccia: Eh, sì, aveva ragione.

Rosetta: Poi dalla Mendola siamo tornati a Bolzano, a Bolzano ci siamo incamminati verso Trento, appena uscita da Bolzano un camion tedesco era fermo e lì c’era un tedesco che parlava italiano, sì insomma parlava, allora io ho detto: “Non potrebbe portarci un pochino in giù che siamo qui”, eccetera, però mio padre mi diceva: “Non fargli vedere il foglio di scarcerazione, eh?” Allora lui ci ha caricati e ci ha portati ad una decina di chilometri da Trento. Poi siamo arrivati, intanto era venuta sera, lì ci siamo internati dentro e abbiamo dormito in un cascinale, ci hanno lasciati dormire in una specie di veranda semi vuota, ma un freddo dell’accidente, perché non avevamo neanche niente per coprirci. La mattina ci siamo alzati presto, e sempre all’interno, siamo andati verso Rovereto. È stato a quel punto che abbiamo visto che c’era, tutto il territorio intorno, dove non c’erano più soldati. I tedeschi non c’erano più. Abbiamo incontrato soltanto una pattuglia di tre persone ed era la cosiddetta terra di nessuno. Attraversato questo abbiamo dormito lì vicino a Rovereto in un monopolio, in una specie di fabbricato dove c’erano i monopoli, c’erano le sigarette, che non c’erano più, sale e quella roba lì. Lì c’era parecchia gente che dormiva, anzi qualcuno ci ha anche dato una copertina per coprire mio figlio e la mattina del giorno dopo da lì abbiamo camminato e siamo arrivati a Mori, e quindi eravamo al 3 di maggio. A Mori il prete ci ha permesso di dormire in una sacrestia, ma è stata una nottata terribile, perché si sentivano delle cannonate ininterrotte e poi verso le tre o le quattro di notte come uno scalpiccio continuo di piedi, perché questa chiesa è quella che si vede passando; c’è un campanile, lì a Mori, provi a guardare, lei vede una chiesa che adesso è stata ritinteggiata di bianco, e vicino c’è un piccolo fabbricato che era la sacrestia, allora mi sono alzata e ho visto che lì passavano i tedeschi, proprio come si vede nei film, con le giacche aperte, disarmati, e si stavano ritirando. Sono andati avanti, per parecchie ore, saranno state le tre, le quattro del mattino, poi verso le sei e mezza o le sette, ci siamo incamminati, abbiamo detto “Andiamo a Riva”, arrivati dopo un paio di chilometri da Mori invece non si poteva più passare, cioè si poteva passare ma bisognava andare a fare un giro, siamo rimasti lì. Ad un certo punto, dalla parte opposta di questo cratere che oramai era un cratere enorme, abbiamo visto due camionette americane. Allora questi hanno fatto, una è venuta giù perché era un cingolato, e l’altra invece ha fatto il giro e ho detto: “Basta, adesso non andiamo più a piedi”. Infatti sono venuti lì, e allora abbiamo tirato fuori i nostri fogli di scarcerazione, ma quei due bei ragazzi lì americani, hanno preso, sulla camionetta, mia madre, mia suocera e mio figlio, ed io e mio padre ci hanno lasciati lì e ci hanno dato il nome della caserma dove potevamo andare a rintracciare mia suocera, mia madre e mio figlio e se ne sono andati. Noi siamo arrivati a Riva verso l’una o le due del pomeriggio, a piedi, insieme a tutta l’altra gente.

D: Quando vi siete ritrovati, poi?

Rosetta: Al 4 maggio ad Iseo.

D: Ad Iseo?

Mariuccia: Eravamo io e mia sorella che era uscita al 25, mi pare.

D: Dalla prigione?

Mariuccia: Dalla prigione, eravamo andate su in campagna dove eravamo poi in quel posto là perché c’era un casotto ad Iseo e ci hanno detto di venire a casa che erano arrivati.

D: Invece tuo marito?

Rosetta: Mio marito lo hanno lasciato andare quando hanno firmato il trattato di pace.

D: Perché lo avevano riarrestato?

Rosetta: No, no, no, mio marito aveva passato le linee e si era ripresentato un’altra volta al suo comando.

D: Ah. Lui sapeva che eravate a Bolzano?

Rosetta: Sì, lo sapeva perché quando lui è andato nelle montagne, a Piacenza, si è rivolto ad un sacerdote che si chiamava Bonomelli. Questo sacerdote gli ha detto: “Vai in questa località, con questo biglietto, vedrai lì c’è una formazione partigiana e loro potranno metterti in contatto con il tuo comando”. Lui è andato lì, si sono messi in contatto con il comando ma il comando ha dato subito ordine di tenerlo chiuso. Perché, caspita…

Mariuccia: Poteva anche essere una spia. Ma è successo anche a me, sa? Ah, ecco, questa è una cosa che mi ero dimenticata.

D: Cioè?

Mariuccia: Io sono andata dalla Magda, quando sono uscita, treni non ce n’erano, sono stata lì una notte o due a dormire. Lei aveva un amico che era un socialista, e mi ha detto: “Come mai tu sei uscita? Fammi un favore, fammi una relazione.” Io ho fatto una relazione, e quello tergiversava. Insomma pensavano che io fossi uscita prima perché avevo aderito a qualche …

Rosetta: Ah, sì, certo.

Mariuccia: Un altro particolare che mi viene in mente, quando il maresciallo Haage è venuto a dire “Nacht Verona”, il capo campo, era Alfi, è venuto lì con dei bigliettini, ti ricordi?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E me li aveva fatti cucire nella cintura, perché la paura che avevano loro era che alla liberazione del campo li mitragliassero tutti. Allora lui mi detto: “Tu fai così, qui non si può avere contatti con nessuno, allora vai a Venezia, vai dal tale”, un tizio che si chiamava Battistella, “il quale ti indirizzerà”, non so poi perché avrei dovuto andare fino a Trieste, “dal direttore del manicomio di Trieste che è in contatto con …” Non so. Io diligentemente sono sfuggita ai controlli delle SS che poi dopo mi hanno mandata a chiamare, perché dicevo “Devo andare a fare un esame a Milano”, facevo finta di andare a Milano e con mezzi di fortuna sono andata a Venezia, con questi biglietti che dovevano essere recapitati a chi veniva poi a difendere qui, penso io, il campo. Tutte robe che si fanno da giovani perché non si pensa alla stupidità delle cose che si fanno, comunque io ho rischiato di mio perché sono saltata sui camion, ho preso i bombardamenti, sono andata a Venezia, lì mi sono trovata sola, senza soldi anch’io, non sapevo cosa fare, sono andata da questo Battistella il quale non ha voluto assolutamente saperne di ricevermi. E dopo, non so come, da Iseo, attraverso mia cognata Magda e mio cognato che lavoravano a Verona, nell’Ufficio Tecnico Erariale, mi hanno detto di tornare immediatamente perché quelli delle SS mi avevano cercata. E qui finisce la mia storia. Perché le persone a cui io a Trieste avrei dovuto consegnare quello che mi avevano messo dentro nella cintura erano state uccise tutte. Dopo io non ho più pensato d’andare a sentire com’era questa storia, ma mi sarebbe piaciuto sapere che fine avevano fatto questi personaggi.

Rosetta: E quel Battistella?

Mariuccia: E quel Battistella lì, antipatico, io non sono più andata a cercarlo. Perché se fossi andata a cercarlo gli avrei detto: “Ma lei è un imbecille, è un cretino.” Forse aveva paura. Dopo sempre lui, Alfi, mi ha dato un indirizzo di una certa signorina Boato, che mi avrebbe ospitato, io sono andata da questa Boato e ho detto: “Senta, mi manda il tal dei tali” “Ah no, no ma io…”. “Senta, io in strada non ci sto, io vengo a dormire a casa sua”. Sono andata lì e ho dormito due notti, e poi sono tornata a casa.

D: Questo a Verona?

Mariuccia: A Venezia, in questa casa, e poi io non potevo stare via tanto, perché mi cercavano, va beh, se non fossi più tornata non mi facevano niente, per carità, però loro erano là dentro, cosa ne so io? Che si mettono a fare i pazzi. E questa tizia aveva nascosto in casa suo fratello, mi verrebbe il gusto di sapere se quel Marco Boato che è un personaggio del parlamento, non so di che corrente, è imparentato con questa tizia qui, Marco Boato, si chiama.

D: Sì, sì, Boato.

Rosetta: Però è giovane, non può essere lui.

D: No, non è lui, lui è giovane.

Mariuccia: Sarà di quella famiglia lì?

D: Ah, può darsi.

Mariuccia: Guardi, adesso le faccio fare una risata. Abitavano a Venezia al Ponte delle Tette. Che io, ero una ragazzina, lì sperduta, e mi vergognavo a chiedere dov’era il Ponte delle Tette, adesso non si vergognerebbe più nessuno, ma allora ai miei tempi era così. E tutti, quando chiedevo il Ponte delle Tette, si spatasciavano dal ridere. E la situazione non era ridicola.

D: Certo.

Mariuccia: Non c’era niente da mangiare, non c’era niente da dormire. Non si sapeva come fare a campare. Questo Gian Antonio era di Milano?

D: Era un trentino, della Val di Non che però era al convento dei frati cappuccini di Milano, in che via, questo non me lo ricordo, ce l’ho scritto, però eh. Sant’Ambrogio, mi pare.

Mariuccia: All’interno, avevo disegnato il maresciallo Haage che faceva l’appello, perché mia sorella non si ricorda, forse perché lei stava nella cella, ma io con la curiosità di fare i disegni mi ero nascosta dietro gli angoli delle baracche, siccome godevo di una certa autonomia, essendo un prigioniero speciale come lei, non mi dicevano niente, però non mi avevano visto disegnare. Poi ho disegnato la punizione che hanno fatto ad un tizio che aveva rubato, al quale hanno legato le braccia dietro e gliele hanno rotte a legnate. Insomma avevo, guardi, saranno stati una ventina di schizzi di questo genere. E c’era una signorina inglese, che era l’istitutrice di casa Besana, quello dei panettoni, che mi insegnava un po’ l’inglese, veniva lì nella nostra cella.

D: Ma lì nel campo era?

Mariuccia: Sì, nel campo, era come prigioniera civile, inglese. Era ammiratissima di questi fogli, mi diceva di non perderli. Perché erano molto belli, poi ho fatto altri ritratti, alle persone alle quali poi li ho dati, una era questa Luciana Menici di cui non riesco a trovare l’indirizzo e uno era un certo Bianco.

D: Com’è la storia del sabbiolino, allora?

Mariuccia: Certo, siccome mio nipote piangeva sempre, quando chiudevano la cella ed andava avanti un’ora a dire “Aprimi, aprimi, aprimi” e poi si metteva a cantare, bisognava cantare. Allora io, anche perché di giorno non si sapeva cosa fare con questo bambino, facevo sempre i disegni delle fiabe. L’unico che mi era rimasto era questo disegno del nano sabbiolino, c’era un gran castello, ma era piccolissimo, grande come questo foglio, favoloso con tutte le stradine rotonde un ponte, e su questo ponte passava il nano sabbiolino, con il suo berretto a punta e la lanterna in mano, e il sacchetto della sabbia, lui guardando questo disegno, si divertiva e si quietava. Poi avevo fatto altri disegni che sono andati persi, sempre per il mio nipotino li facevo. Ma quelli che mi dispiace di più sono i disegni delle adunate, delle partenze, perché quelli erano veramente. Mi ricordo che ne ho fatto uno una volta, con il maresciallo Haage con il frustino dietro, gli stivali e avevo fatto il sedere quadratissimo, proprio sembrava un quadro cubista, con questo culo grosso, tutto dritto, quello me lo ricordo ancora. Li facevo con la matita o con la penna, ma purtroppo io non li ho più. Mi è rimasto questo.

D: Che cos’è quello?

Mariuccia: Questa era la cella dove eravamo, fatta là. Dopo, siccome vedevo che si stava cancellando, perché la matita è molto delicata, c’era una mostra intitolata “Il convivio”, aveva come tema il convivio. Ho detto, pensa, ti faccio vedere io il convivio. Allora ho fatto, un paio d’anni fa, ho preso questo disegno e da questo ho tratto quell’incisione che è lì, e l’ho intitolato: “Natale nel Lager”, più bel convivio di quello.

D: Prima, Mariuccia, raccontavi un episodio molto importante di don Berselli, che veniva nella vostra cella.

Rosetta: A grattarsi il formaggio sulla zuppa.

Mariuccia: Se la mangiava solo, solo, non ha mai dato un cucchiaio neanche al ragazzino.

D: Neanche?

Mariuccia: Mi ero fatto un’idea negativa di questo don Berselli, però adesso che sono più vecchia, diciamo che sono vecchia, capisco che l’essere umano è così prevalentemente, e se uno vuole sopravvivere deve essere così.

D: Ti ricordi anche di don Vismara?

Mariuccia: Di don Vismara mi ricordo poco, perché era uno che parlava poco, era una persona sempre depressa, non aveva niente da dire. A mia impressione non comunicava insomma, mentre don Berselli era un uomo intelligente che comunicava, don Gaggero lo stesso, don Vismara era proprio un prete, non so come dire, può darsi che fosse anche intelligente, nel senso che in quei posti lì è meglio parlare poco, delle volte una parola detta in più.

D: Mariuccia, che cos’è che ti ha aiutato a sopravvivere all’interno del Lager?

Mariuccia: Ma sa, da giovani si hanno delle risorse spirituali e psicologiche pazzesche, che mi ha aiutato a sopravvivere era la convinzione che tutte le cose finiscono, e che se avessi avuto pazienza sarebbe finita anche quella lì. Poi mi ha aiutato a sopravvivere il sentirmi, guardi che questo è un concetto che può sembrare, come dire, romantico. Il sentirmi parte di un tutto che era coinvolto in una grande tragedia, e quasi quasi stavo meglio lì, di quando sono uscita. Perché quando sono uscita mi sono trovata così sbandata, sola, con questi fascisti che mi correvano dietro a tutte le ore, avevo sempre due fascisti davanti alla casa che mi sorvegliavano. Volevo dire che avevo perso il mio essere ingranaggio, il mio essere piccola rotella in un ingranaggio, che faceva, che macinava un qualche cosa e di cui io facevo parte. E di cui avevo anche una parte non puramente passiva, perché fa questa faccia?

D: Perché occorre essere molto saldi nelle proprie convinzioni.

Mariuccia: Le dirò che per me il Lager è stata una sofferenza morale pesantissima, perché io di notte avevo delle forme d’angoscia che non dipendevano dal fatto che io avevo paura o avevo fame, ma dall’incapacità che avevo di rendermi conto del perché succedessero queste cose, del perché una persona venisse presa, portata in Germania, presa a calci mentre saliva su un camion, usciva proprio fuori da una mia capacità di comprensione umana quello che vedevo.

D: Cioè non c’era nessuna spiegazione logica, razionale.

Mariuccia: No. E non c’è neanche adesso. Non l’ho mai trovata.

D: Infatti.

Mariuccia: E poi l’angoscia, perché io avevo anche un ragazzo, col quale ero molto affezionata, che sua madre lo aveva obbligato ad arruolarsi nella Monte Rosa, e lui si era fatto mandare in Piemonte, sulle vette, se lei conoscerà mio marito vedrà che uomo è, ha capito? E lui era disperato perché ha capito che io ero nel Lager e cercava di fare di tutto per farmi uscire, ha capito? Beh, questa è un’altra cosa, poi dopo io non sapevo niente di dove era lui, cioè sapevo che era là, che non faceva per carità i rastrellamenti, era stato mandato a costruire, alla guerra contro i francesi, mi dica lei il senso. Quindi c’era anche questa assoluta mancanza d’un senso nelle cose che vedevo fare, perché, mi dica la verità? Ha senso prendere la gente, caricarla sui camion, mandarla in Germania, ha un senso impiegare energie pazzesche per tenere tutta questa gente nei Lager? Anche da un punto di vista pratico non ha senso. Se loro non avessero sprecato tutte le loro energie in questa costruzione abnorme, impiegato uomini, armi, forse forse riuscivano a fare meglio la guerra, penso io. Addirittura da un punto di vista pratico, secondo me era una cosa cretina.

D: Beh, ma lì dovevano eliminarli tutti, eh? E l’unico modo per eliminarli era …

Mariuccia: Ma è questo che non ha senso.

D: Lo so che non ha senso. Però il loro progetto, la loro ideologia era quella lì.

Mariuccia: Sì, l’ho letta, ho letto la storia del Terzo Reich e l’Ordine Nuovo di Hitler. Dopo, quello che non capisco, è che ci fossero, anche nel comunismo ci fosse questa, guardi, io le dico subito che non sono una comunista, non lo sono e non lo sarò mai perché purtroppo il mio spirito è più anarcoide. Io mi definisco liberale ma forse sono più anarcoide che liberale, poi una mia convinzione di tipo più profondo m’impedisce d’accettare qualsiasi ideologia che minacci la libertà, anche di pensiero. Preferisco il disordine, la confusione, la difficoltà del vivere, l’errore a qualsiasi cornice che mi obbliga a vedere la verità che mi vogliono far vedere gli altri. Questo è il mio modo di pensare.

D: Ritornando un attimo ai disegni del Lager, la documentazione che voi siete riuscite a portare via, portare fuori è, oltre a quell’originale lì, il testo…

Mariuccia: Alcune lettere che ho scritto al mio moroso e che lui ha conservato, e che sono anche abbastanza interessanti perché parlano di queste cose di cui ho parlato io adesso. Naturalmente non si poteva scrivere quello che si vedeva, però s’intravede l’atmosfera di questo campo, si intravede molto bene. E poi questi disegni, il rigaudon, poi ho questa lettera che hanno scritto gli ebrei a mio padre.

D: Gli ebrei hanno scritto questa lettera al babbo?

Mariuccia: Questo tizio era un ebreo di Genova, perché finita la guerra, dopo mio padre si è dato da fare per rintracciare quelli che aveva conosciuto. Questa lettera, scritta da questo ebreo di Genova, lei legga. Qui parla di molti che sono partiti da Bolzano. Dice: “Non so se la presente la raggiungerà, ma l’invio ugualmente per dare loro mie nuove. Dopo la mia partenza avvenuta, come loro si ricorderanno, il 14 dicembre ’44, credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei, tutti gli altri, da quanto ho potuto sapere, sono periti a Flossenbürg ed altrove. Io ho percorso un ben duro calvario a Flossenbürg, Hersbruck e Dachau portando in spalla macigni e tronchi d’albero, facendo una fame nera. Sono tornato il 4 luglio in Italia dove ho ritrovato la famiglia al completo, ossia la mamma ed il mio maggior fratello con moglie e figli che poterono nascondersi e non ebbero noie. Athos Polacco, a Bolzano nella squadra dei gabinetti, è perito a Hersbruck di tifo e diarrea sanguinosa. Mentre gli altri li lasciai tutti a Flossenbürg dove furono visti ancora in vita il 23 gennaio. Pare che anche la mamma di Athos e sua sorella Iride siano perite. Altri dicono che sono illesi, altri ancora a Fürstenberg, vicino a Berlino, ma notizie precise non ce ne sono. Quanto a me ho avuto parecchie fortune, soprattutto quella di stare a lungo nell’infermeria a causa del congelamento dei piedi. Non solo, ma di esserci potuto entrare ed esserci stato molto lungo ed intanto è avvenuta la liberazione. […] Non mi dilungo in altri particolari perché sono tutti orribili, a raccontarli tutti ci vorrebbe un romanzo. Ora sono di nuovo con la mamma e ieri sera essa ha voluto festeggiare con speciale rassegna di vivande la data anniversario della mia partenza per la Germania. Chissà che cosa saprà fare ancora il 4 luglio del ’46, data del mio arrivo. Vi saluto e sto bene, come condizioni generali, ma il piede sinistro mi dà ancora parecchie noie, il medico dice che sono cose lunghe ma alla fine guarirà. Il piede destro invece, che pure era congelato, mi ci hanno amputato il terzo dito, in quell’infermeria che non capivo bene se fosse una stalla o un bordello. Sarò ben lieto se vorranno darmi loro notizie, ho saputo che qualcuno che era a Bolzano con loro è stato liberato a Natale insieme con quel musicista tedesco alto come una cattedrale e grosso in relazione […]”.

D: Mariuccia, questa lettera qui, questo Paolo, l’ha scritta al vostro babbo per l’aiuto?

Mariuccia: Per l’aiuto che aveva dato …. Anche in questa lettera ci sono delle cose pazzesche. “Ho ricevuto la di lei graditissima lettera del 7 corrente e la ringrazio, con vivo piacere ho appreso che loro tutti sono in ottima condizione di salute e hanno ripreso la solita vita. Ho letto con interesse tutto ciò che ella mi scrisse, ma quando avrà tempo e volontà la prego pure d’informarmi delle circostanze nelle quali fu liberato il campo di Bolzano. Che ne fu di Hans e di Werner? Dove sono andati a finire quei figli di cani d’ucraini? È vero che il maresciallo Haage è stato impiccato dagli internati? E dove finì quella sua famosa moglie, quella grassa impiegata del comando? Intanto posso dirle che si è salvato Stefano Vela, il calzolaio napoletano che lavorava a Bolzano nella calzoleria e che fu inviato in Germania in seguito, pare ai dissidi col capo calzolaio. Fu a Flossenbürg e vi arrivò pochi giorni dopo la mia partenza e vi conobbe Fontanella e tutta la compagnia. E’ tornato a Genova, molto malandato in salute e ora si è assai rimesso. Però ci ha rimesso i denti, buttatigli giù a pugni dalle SS del campo. Quel tal giudice piemontese di cui lei accenna, Emilio Sacerdote, che si spacciava per Emilio Dote, l’ho lasciato a Flossenbürg e altro non so. Quasi tutti i parenti di quei disgraziati mi hanno scritto chiedendo notizie dei loro cari, ma non certo quelli del predetto sacerdote. Per quanto riguarda Danilo Panciatici, temo forte che sia perito. La vigilia di Natale del ’44 eravamo tutti quanti, gli ebrei italiani, i più validi, in un punto del cortile del campo ed eravamo occupati a impilare baracche smontate agli ordini dell’ingegner Lowenthal che funzionava in certo senso da Vorarbeiter. Mentre io ero da una parte del cortile vennero delle SS, prelevarono Dante e Italo Momigliano, l’ingegner Italia, l’ingegner Schoenberg, Viro Endrec, Curiel, Sauro Ascoli, Danilo Panciatici e li portarono via. Ho saputo che l’ingegner Italia ed i due Momigliano risultano deceduti dagli archivi di Flossenbürg, ma degli altri non so nulla. Io mi salvai da quella spedizione perché non mi videro. Ciò che mi meraviglia è che manchino pure notizie di Lowenthal, in quanto a Flossenbürg era riuscito a farsi aiutare dai capi del blocco e gli avevano levato il nastro giallo da ebreo e lo avevano mandato niente meno che a controllare la locale fabbrica di aeroplani Messerschmitt. Quanto a me, Iocas, a Flossenbürg ero riuscito a lavorare in sartoria, lavoro assai ambito perché retribuito con viveri supplementari. Quando arrivai a Milano seppi di sicuro che allora, il 5 luglio, ancora non vi erano nuove. Jovel Liss e quell’altro turco poco simpatico e bigotto erano riusciti a far entrare dei pezzetti d’oro nel campo e a Flossenbürg con quel sistema si era procurato un incarico, non so quale, al famigerato blocco dei morti dove venivano inviati gli incurabili, i vecchi, i minorati ai quali veniva fatta fare una cura intensiva di calci nel petto e altrove, nonché a sei ore giornaliere di gelo bavarese fuori baracca. Il capo blocco era il più ricco di tutti, potendo contare su venticinque, trenta morti giornalieri aveva a disposizione venticinque, trenta minestre in più al giorno, venticinque, trenta pezzi di pane e margarina in più al giorno che commerciati con gli altri blocchi gli davano un benessere particolare. La ringrazio tanto per le sue frasi cortesi ma non fui io ad afferrare la fortuna, fu lei stessa che si sbracciò ad afferrare me con una serie di casi e coincidenze una meglio combinata dell’altra”. Dopo dice che sarebbe venuto a trovarci, invece non è venuto, e poi fa un’offerta commerciale. Mio padre faceva il conciapelli, e dice che vende, “Vendiamo un fottio d’olio di pesce in alcune concerie, ne avremo dell’altro, se l’offerta le interessa mi avverta, possiamo disporre anche di altri prodotti chimici. Lascio di scrivere per non farla tanto lunga, che ci sarebbe materia per un romanzo intero, ricorda fra i genovesi Emilio Terreni, quello così grande e grosso ed il commendatore Roberto Lepetit, sono periti tutti e due in Germania. Tanti cordialissimi saluti a lei e famiglia”. Paolo Weisser.

D: È sempre lui, è sempre Paolo?

Mariuccia: Sempre lo stesso. Perché mio padre poi ha risposto, ha chiesto, e purtroppo di queste lettere ce n’erano tante, sono andate perse quando è morto mio padre, perché io non ho avuto l’accortezza di fare subito lo spoglio di tutto quello che c’era in casa. Ho fatto lo spoglio ma molte cose, ero sola, ho impiegato tre mesi a mettere a posto le carte. Molte cose mi sono sfuggite. Comunque sono interessanti, vero?

D: Parecchio interessanti. Sono documenti importantissimi.

D: Quelli sono documenti, non sono fantasie. Questi Momigliano…

Mariuccia: Erano i cugini del famoso Momigliano.

D: Ma loro sono originari di dove?

Mariuccia: Io credo di Torino.

D: Perché Arnaldo Momigliano è di Caraglio, provincia di Cuneo, lo storico.

Mariuccia: Erano cugini diritti dello storico Momigliano.

D: Allora sono piemontesi, insomma.

Mariuccia: Io li ho conosciuti perché erano capo cessi, e siccome si avvicinavano spesso alle nostre celle, perché gli si dava qualcosa, poi scambiando le parole, scambiando discorso, ci si conosceva, si capiva che erano persone con le quali era possibile avere un contatto un po’ umano, diciamo, ci si erano affezionati molto.

D: Poi avete recuperato la poesia del francese dedicata a Ennio?

Mariuccia: Sì, che mi dispiace non avere più il testo della canzone dei prigionieri che aveva scritto Gurtler. E l’aveva scritta, mi aveva promesso che me l’avrebbe data, io non ricordo guardi, penso che non ci fosse perché se no l’avrei conservata come ho conservato questa.

D: Poi c’è il diario.

Mariuccia: Il diario di Vittorio Duca. Vittorio Duca, quando io sono uscita, mi ha accompagnato sulla porta della cella e mi ha detto: “Ti raccomando Mariuccia, vai a casa e datti da fare per la Resistenza, guarda che bisogna fare qualcosa.” E infatti io così ho fatto, e ho cercato poi di fare quello che potevo fare, rifornivo i partigiani di cartucce, perché oramai mia sorella era in prigione, andavo a prenderle al poligono di tiro, e dopo, si chiamava Boccacci, Leone Boccacci, il 25 aprile nei pressi del poligono transitava una camionetta di tedeschi, con su due tedeschi. Hanno alzato le mani perché hanno visto della gente armata, facendo segno che si arrendevano. Uno di quegli imbecilli, mai sufficientemente classificati come tali, del 25 aprile con i fazzoletti della liberazione, hanno sparato ad uno e lo hanno ucciso, l’altro ha preso la camionetta e l’ha girata ed è andato via. Dopo un’ora sono arrivati lì in un drappello e hanno facilitato tutti quelli che c’erano nel poligono, sedici persone, c’era anche un ragazzo di quattordici anni, una ragazza di quattordici anni che era mia amica, perché si andava lì a fare gli allenamenti, si andava lì a sparare. Per dire le cose che succedevano. E questo tizio che durante tutta la Resistenza aveva procurato cartucce sottobanco, che si andavano a prendere là in bicicletta e si mettevano nello zaino e si portavano fuori ad Iseo, che poi venivano a prenderle dal monte, lì alla nostra casa, ecco perché dicevo che eravamo già noti come rompiscatole diciamo. Io non ho fatto niente per carità, zero, però c’era questa situazione.

D: Mariuccia, dopo il Lager, in questi anni dopo il Lager, cosa è rimasto dentro di voi di quell’esperienza? Cioè vi è costata, durante la vita, nel ristabilire i rapporti, per esempio con gli amici a Iseo, con i conoscenti, con altri?

Mariuccia: Guardi, c’è stato un periodo in cui avevo un certo fastidio a parlare con gente che sapevo che era d’idee piuttosto di destra, diciamo, fasciste. Perché io ho constatato che la mentalità fascista, non è perché uno sia fascista, ma è proprio la rotella del cervello che fa essere fascista uno anche se è comunista o se repubblicano. Perché è una specie di volontà di sopraffazione, di mancanza di senso critico, di atteggiamento autoritario. Questa è la mentalità fascista, il non voler ascoltare le ragioni altrui, d’aver in mano la verità, io la penso così. Poi la prima cosa che ci ha afferrato è il ritmo del vivere che dovevamo riprendere e che avevamo tralasciato. Io per esempio avevo fatto cinque o sei esami in tutto all’università; la mia preoccupazione è stata quella, in due anni ho finito dodici, tredici esami d’università di filosofia, quindi avevo sempre la testa sui libri e non mi sono neanche…, e poi ci si interessava un po’ della vita politica. Mio padre era un vecchio liberale, era stato ai tempi di Giolitti, un giolittiano anti, come si dice? Contro l’entrata in guerra insomma, neutralista, sa che allora c’erano. Poi ci siamo messi a fare anche lo sport e credo che uno psicologo direbbe che c’era la volontà di rimuovere quest’esperienza che in fondo poi è stata un’esperienza breve, profonda fin che vuole, però era stata un’esperienza breve non ci aveva costretti, eravamo sopravvissuti. Prima cosa che io ho detto, noi siamo degli esseri fortunati, questo ho pensato. Abbiamo avuto questa esperienza ma siamo persone felici, perché siamo venuti a casa integri, non ci hanno picchiato, non ci hanno ammazzato, ci hanno privato d’un paio d’anni di vita, ma adesso noi ce la riprendiamo. Questo era il discorso che si faceva. Poi c’era un certo ottimismo verso la costruzione di una nuova società, che era quella che ci aveva un po’ sostenuto, perché nella mia famiglia noi abbiamo sempre ricevuto un’educazione di tipo liberale. Noi la dittatura da ragazzi la guardavamo con simpatia perché eravamo un po’ scemi, mettevamo la camicetta, andavamo a fare l’adunata, ma in casa ci davano degli imbecilli. “Voi non sapete che cosa vuol dire vivere in un regime di libertà. Questa è dittatura”. Mio padre quelle cose lì ce le aveva spiegate. Poi dopo invece un po’ alla volta ho capito che erano imbecilli i fascisti ma erano imbecilli anche gli antifascisti. Cioè che la stupidità si divideva in parti uguali nell’umanità. Anche se si tenta di costruire una società democratica e libera ci sono sempre delle cose che io non capisco e che perlomeno non rispondono a quello che io pensavo fosse una società democratica e libera. E come dico dopo c’è stato anche un periodo, non vorrei dire una stupidaggine, in cui quasi la gente non voleva sentir parlare di queste cose. E la gente non ne vuole sentir parlare neanche adesso. La gente non vuole essere disturbata, vuole mangiare, bere, dormire e fare il week-end, possibilmente rimanere ignorante perché se uno non è ignorante affina anche la sensibilità e quindi è esposto di più ai colpi di fortuna come diceva Dante. Quello che ho notato io è che eravamo come degli estranei. Non entravamo, io non sono mai entrata nella società a pieno ritmo, mi sono sempre sentito un po’ diversa, mi scusi, sarà una forma di presunzione.

D: Ma oltre a sentirsi diversa…

Mariuccia: Sarà anche per il mio carattere, intendiamoci, non perché sia stata nel Lager, perché forse sarei stata la stessa cosa. Io per esempio certe forme d’insensibilità verso le cose che si vedono non riesco a capirle, mi danno fastidio. Una cosa che mi emoziona e agli altri non dice niente, ce ne sono moltissime di cose, io m’interesso, mi emoziono, mi agito per questo o per quello, benché sia già una vecchia, voglio dire, non ho perso la capacità d’indignarmi, la capacità di ammirare … Appena usciti, a casa abbiamo ripreso a vivere come tutti, no? Non siamo andati a cercare, non so, a dire “Noi siamo gli eroi, noi siamo i martiri”, perché non è neanche vero tra l’altro, perché quando uno salva la sua pelle viene fuori un po’ intero, che eroismo è? Però quello che, forse è una cosa curiosa quella che le racconto, che è emblematica. Io ho fatto l’esame di latino con un professore severissimo, era un luminare della lingua, il professor Castiglioni, nientemeno che autore. Vado dentro, tutti avevano una paura matta perché bocciava di brutto, io avevo questa specie di sicurezza che mi veniva un po’ dal fatto che avevo fatto lo sport, e avevo il senso sportivo anche della sconfitta, e un po’ dal fatto che avevo sulle spalle delle esperienze, di fronte alle quali l’esame di latino, sì, era una cosa preoccupante, ma non drammatica. Allora vado dentro, ho fatto bene tutto il mio esame, e lui mi fa leggere un brano di Seneca. Io l’ho letto e tradotto correttamente, mi guarda e mi fa: “Signorina, la potenza del latino lei non sa neanche dove sta di casa”. Io ho fatto un pensiero, non so se si può dire, internamente un turpiloquio, ho detto: “Va a farti friggere te e la tua potenza del latino, perché a me in questo momento non me ne frega niente”. Ero uscita dal Lager da sei o sette mesi. Ed un’altra volta, durante una lezione di filosofia teoretica, era sorta una discussione, e io non riuscivo più a capirla la filosofia teoretica, una discussione tra il professore ed il suo assistente, il quale si domandava se, adesso io non ricordo se si trattasse di Leibniz o dell’Idealismo, se in quel caso, di quell’espressione che lui aveva appena illustrato, l’io si ipostatizzava. Questa frase mi ha fatto male, “Ma come”, dico, “questi qui stanno a pensare se l’io si ipostatizza e ci sono milioni di cadaveri sepolti sotto terra. E io ho visto Armando Sacchetta senza gamba, Vittorio Duca che è morto a Buchenwald, mio fratello che è precipitato in mare, è morto in mare, sei milioni di ebrei gassati, tutta l’Europa per aria, dicevo, le mamme con i bambini che non sapevano come fare ad entrare nella camera a gas…”, ho fatto tutto una carrellata. Che l’io si ipostatizzasse come dicevano loro, per me è stato un motivo d’aprire uno scenario spaventoso e di farmi rifiutare l’io che si ipostatizza. Poi ho fatto lo stesso i miei esami, benissimo, ho preso un bellissimo voto. Ecco, che lei mi ha chiesto cos’è stato il dopo Lager. Sono stati tutti questi episodi.

D: Ecco, ma gli amici, pesava molto il fatto di essere stata nel Lager?

Mariuccia: Ma no, guardi che noi abbiamo avuto degli amici, io ho visto anche la strage dei miei amici che sono andati in guerra, ne abbiamo persi molti. E’ quello che le ho già detto prima, ho avuto la sensazione di una frattura, di un mondo che prima era così e poi non poteva più essere così. Perché noi poi ci siamo sempre portati in mente anche il dolore per queste persone scomparse, questa gente che era giovane come noi e che è morta mentre noi eravamo vivi, ecco, c’è poco da dire. Certo che il mondo non è più stato come prima, non perché siamo stati nel Lager, ma per quello che è successo. Non poteva più essere uguale.

D: Dopo il Lager, non può più essere uguale?

Mariuccia: No, non si poteva più pensare, fare poesia, fare pittura, fare musica, fare filosofia allo stesso modo.

D: Questo è un pezzo che dice Adorno, eh?

Mariuccia: Può darsi che sia anche detto da Adorno. Salvo poi recuperare i vecchi valori in una maniera diversa, inserirli in una maniera diversa nella società, non so come spiegarmi, non più come pura e semplice cultura ma come supporto per la fondazione di un mondo un po’ meno circondato da filo spinato, io non sono mai stata capace d’odiare. Non ho odiato mai nessuno. Una cosa che mi ha insegnato ad odiare è stato il Lager, io posso dire che ho imparato a odiare nel Lager. Io ho imparato a odiare i tedeschi, ho imparato a odiare i torturatori, gli ucraini, i violenti. Ho imparato a odiare lì, perché non sopportavo la crudeltà che vedevo esercitare. Questa è una cosa che nasceva dal mio carattere. L’odio verso la crudeltà, il senso di compassione che forse è anche una cosa che mi sminuisce come persona, mi impoverisce. Io credo che non sia vero, però. Però io nel Lager ho imparato a odiare. Non sono più stata capace di non odiare le cose che secondo me non erano giuste. E quindi quando anche adesso vedo un atto di violenza gratuita, anche un atto di violenza verso un animale, un comportamento disumano verso qualcuno, verso qualche cosa, io mi emoziono, mi imbestialisco, e intervengo. Tanto che mio marito mi dice, “Ma stai calma, ma cosa fai? Ma no, ma stai zitta”. “Ma come devo stare zitta? Non sai che il mondo va male perché tutti stanno zitti? Se tutti parlassero e dicessero quando è il momento giusto”. Mi è venuta in mente una riflessione molto profonda che fa il Manzoni nel suo romanzo, quando parla dell’uomo perseguitato e dice che il persecutore è doppiamente colpevole, perché perseguita un altro e suscita nel perseguitato dei sentimenti di odio.

Longhi don Daniele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.

Cosmar Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Cosmar Franco nato a Remanzacco in provincia di Udine, il 28.05.1927 e adesso sono residente qui a Bologna da tanti anni, una quarantina di anni.

Io sono stato deportato perché sono stato preso in combattimento.

Ero nella formazione partigiani della divisione Valnatisone, Brigata Piccelli, io sono stato preso in combattimento in Jugoslavia, a Barcis, in Jugoslavia. Dovevamo attraversare il fiume e la vecchia ferrovia.

Sembrava sul momento, come dicevano i nostri ufficiali che erano essi d’accordo con i repubblichini. Poi però cosa successe da noi? Da noi è venuto a mancare un uomo, un uomo che abbiamo cercato tutto il giorno e non l’abbiamo trovato.

Alla notte, quando siamo partiti, sarà stata mezzanotte, abbiamo disceso questo paese, attraversando questa ferrovia. C’era un chiaro di luna e il prato sembrava una tavola da biliardo quanto era bello…

Allora, davanti a noi c’era la pattuglia, le mitragliere e subito dietro a noi la seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione…

Arrivati quasi in fondo, si sentì uno sparo o due perché la pattuglia era riuscita a sparare perché era un’imboscata dei tedeschi, tedeschi, repubblichini e anche alpini come loro si sono definiti. Fatto sta, che lì ci hanno fatto prigionieri.

D: Franco, scusa, quando questo è accaduto?

R: Io sono stato preso il 2 gennaio del 1945…, sono stato fatto prigioniero. Abbiamo avuto l’assalto sul campo con trentuno o trentatre morti, tutto il resto, gli altri tre battaglioni si sono ritirati, non hanno accettato il combattimento perché erano tutti allo scoperto. Per noi è stata un’improvvisata questo tradimento e nessuno se lo aspettava.

Ci hanno portato su i tedeschi, prima hanno cominciato a venire con il mitra attorno a noi…, ci volevano ammazzare, poi c’erano anche i repubblichini, i fascisti jugoslavi, i cernisi che sono gente cattiva quelli.

Ci hanno portato giù in una casa, c’erano tre o quattro case, ci hanno messo al muro per fucilarci i tedeschi.

Poi, hanno detto: No, questa è zona nostra, voi non li fucilate, perché abbiamo avuto abbastanza morti, voi non li fucilate”.

Allora mandavano di là la staffetta tedesca, per avere l’ordine dal comando tedesco di sapere cosa dovevano fare di noi. Ci hanno legati dentro, e poi io avevo il vestito di un soldato tedesco, hanno cominciato a dire: “Tu, kaput”.

Poi giù botte, ci hanno legato con le mani di dietro e lì aspetta per delle ore, finché arrivò la staffetta e ci dissero: “Via”, ci hanno fatto camminare fino a Tolmino a piedi, con un buio terribile.

Ci hanno messo dentro le carceri a Tolmino, arrivammo in quindici, c’era un ufficiale con noi, Paride, fatto sta che ci hanno messo a dormire per terra, senza una coperta, senza niente, sul cemento così, un freddo, un freddo, roba da matti. E ogni tanto entravano dei fascisti con la baionetta in canna che ci volevano ammazzare. I tedeschi ci proteggevano. Gli italiani ci volevano uccidere, gli jugoslavi ci volevano uccidere, i fascisti… Siamo stati senza mangiare.

Quando entravano a fare i compiti gli ufficiali, prima entrava la truppa con il mitra spianato e poi piano, piano entrava l’ufficiale, e diceva: “Ragazzi, mi dispiace per voi, però non posso darvi da mangiare”. Senza mangiare, io non so niente. “In ogni caso, stasera”, disse, “quando arriverò, se riuscirò a racimolare qualcosa”.

Questo qui è venuto alla sera, tutti i soldati, ci ha portato una pagnotta, quelle nere che si è diviso in quindici persone. Poi disse: “Ho lasciato ordine a tutti gli alberghi di qua, di Tolmino che le cose che a loro avanzano, di non gettarle via, ma di tenerle a parte per voi altri”.

Siamo stati cinque giorni, tra fame e freddo, non riesco a descriverlo. Una sera è arrivato lì l’ufficiale tedesco, e ci ha detto: “Preparatevi, mettetevi in fila”; ci hanno legato, ci hanno messo in fila, in mezzo alla fila con questa gente che ci voleva ammazzare. E io pensavo: “Ci vogliono ammazzare tutti”. Ci proteggevano però i tedeschi. Fatto sta che ci hanno buttato sul camion allo scoperto e in ogni camion, sopra alla tettoia dell’autista c’era un uomo con il mitragliatore, e di dietro c’era un soldato con il fucile.

Io avevo le mani slegate e giravano su e giù e nel convoglio di prima avevano caricato dei piselli secchi e io volevo prendere dei piselli per mangiare, con la fame che c’era. Non si vedeva l’ora di partire, siamo partiti, altrimenti ci scoppiava il cuore con quella gente che ci voleva massacrare, da un momento all’altro potevano dire: “Salta su”, e ti ammazzavano che per loro era tutto regolare.

Allora partimmo, e loro avevano paura che i partigiani per strada, nella zona partigiana succedesse qualcosa come un’imboscata ecc.

Speravo anch’io, ma niente da fare. Allora dissi a un mio amico: “Ho le mani ghiacciate, ho un freddo da matti. Come facciamo?” “Sei solo te slegato, anzi tu prendi quello di dietro, e quello davanti si gira, ci spara e ci ammazza”.

Fatto sta che arrivammo a Cividale, posto di blocco dei cosacchi, dopo Cividale siamo passati al mio paese di Arnazacco, da Arnazacco fino a Gorizia. A Gorizia ci hanno messo nelle carceri, e nelle carceri era pieno di pidocchi. Tutta la gente che gridava, cantava canzoni slave, patriottiche, tutti i giorni e notte a cantare perché erano i giorni che arrivavano i tedeschi e prendevano a secondo la gente che volevano ammazzare e dicevano: “Tu, tu fuori”. E uno pensava che si andasse a casa, chissà dove, invece li portavano al castello e li fucilavano.

Ogni tedesco che i partigiani uccidevano lì attorno, uccidevano un soldato, dieci partigiani e un ufficiale.

Fatto sta che ci hanno interrogato e come sono entrato io dalla SS, vestito così da soldato tedesco e poi era una divisa estiva, di quelle di tela.

Hanno fatto tante di quelle domande e non ne potevo più.

Allora non mi hanno picchiato.

Hanno provato a mandarmi in carcere, poi in carcere ci davano quella sbrodaglia regolare, tutti i giorni, tutte le mattine arrivavano con quel martello nelle sbarre, finché un giorno si dormiva sul fieno, sulla paglia, il gabinetto era un secchio, finché un giorno mi sono sentito chiamare: “Cosmar, si prepari, deve venire giù con me”. Pensai: “Questi qui mi fanno fuori, mi chiamano per nome”, forse perché ero vestito da tedesco… Invece quando sono arrivato giù, mi dissero: “Guarda che c’è un signore che ti vuole vedere.”

“Come mi vuole vedere?” Non davano loro a un partigiano preso con le armi in mano, la possibilità di avere un colloquio con qualcuno.

Mio padre avevo lavorato sempre in Germania, aveva anche conosciuto mia madre in Germania e sapeva la lingua. Si vede che lui ha incastrato questo tedesco… , e mi ha fatto avere il colloquio con mio padre.

Mio padre mi disse: “Ti ho portato una valigia”, quelle di cartone legate con le corde perché in Germania è freddo. “Da domani partirai per la Germania a lavorare”. Come sapeva mio padre che partivo l’indomani? Perché aveva parlato con l’ufficiale tedesco. Fatto sta che quando sono arrivato dentro alla cella sono rimasti tutti di stucco, e mi hanno detto: “Non ti hanno fatto niente?” “Sono qua…”

L’indomani mattina, tutti fuori dalle celle in fila per quattro, fuori tutti.

E ci hanno portato alla stazione di Gorizia.

Lì in stazione c’erano tutti i vagoni aperti. Lì ci hanno incastrato sopra questi vagoni e poi quando era pieno chiudevano… Allora aspettavamo che partisse il treno, passò un giorno, passò il secondo, passò il terzo… e il treno non partiva. E la gente del paese, ogni tanto, quando un tedesco o un italiano lasciava un po’ passare, buttavano giù qualcosa da mangiare, però lo prendevano sempre quelli che erano davanti, quelli che erano di dietro non prendevano niente. Lì l’egoismo dell’italiano era quello di tenersi tutto per sé.

Io non avevo niente, anche quello di dietro a me non aveva niente.

D: Posso chiederti? Dicevi che avevi addosso una divisa da tedesco…

R: Sì, perché avevano bloccato un convoglio tedesco. I convogli andavano a prendere i generi alimentari, da Gorizia andavano a Tolmino, Caporetto.

Allora, noi facevamo così, quando c’era da prendere qualcosa, perché il mangiare non arrivava …, ho mangiato tante di quelle rape…

D: Non avevate aiuti?

R: Sì, c’erano gli aiuti, ma non lasciavano passare. In Friuli c’erano trentanovemila uomini tra cosacchi, Repubblica di Salò, Jugoslavi. C’erano trentanovemila uomini…, poi qualcosa mi sfugge sempre. Lì non riuscivano a passare. Noi avevamo una zona molto dura lì.

Noi, tutti i giorni, era chiamata anche divisione d’assalto, tutti i giorni noi avevamo un rastrellamento perché noi partigiani, la linea di Tarcento che andava in Austria era l’unica che andava, le altre linee erano saltate tutte. Lì non sono riusciti la linea a farla saltare dietro ai monti perché i tedeschi hanno messo una grande contraerea che li disturbava e quando si alzava su alta quota, buttavano giù le bombe, con il vuoto d’aria le bombe si spostavano, non andavamo mai a colpire il bersaglio.

Allora il Generale Alexander, comandava il generale Alexander, diceva: “Domani passano due divisioni di tedeschi, dovete fare saltare la linea, disturbare, ritardare”.

Questi qua poi che cosa facevano? Si fermavano sì, ma venivano contro di noi a combattere.

E noi avevamo sempre il combattimento…

Ecco perché era chiamata divisione d’assalto.

D: In quanti eravate, più o meno, in questa divisione?

R: Eravamo seimila credo.

D: Quindi si può dire che sei stato preso a Barcis, o vicino a Barcis.

R: Sì, c’è un ponte di legno e mi mandò la fotografia quell’ufficiale che lui ha detto che è un alpino, che è repubblichino, che sparavano contro di me. Due ne ho trovate.

D: Dopo…

R: Sì, su in montagna le ho trovate.

E’ un caso. Io non ho odiato quella gente perché lui cos’ha fatto? Lui ha scelto una via e io ho scelto quell’altra. Se a me andava male, se andava bene a lui, cosa succedeva? La stessa cosa. Non si può odiare per questo, come odiavi sul fronte nemico non si può odiare, dopo la guerra non si può odiare perché ognuno combatte per il suo paese, per il suo ideale e tutto il resto.

Per quello dico che non si può odiare.

Perché loro, spiego questo famoso… repubblichino, lui non vuole essere chiamato Repubblica di Salò, repubblichino, alpino che anche lui, dopo la Liberazione, ha avuto delle cose che non trovava mai lavoro perché era dei repubblichini.

Ha dovuto girare tutta l’Italia per trovare lavoro.

Era come per il Friuli.

Nel Friuli, quando uno era stato partigiano, secondo loro era stato comunista e non trovava lavoro.

Era la stessa cosa.

D: Accennavi prima a Porzius?

R: Sì.

D: Cioè?

R: Io ho conosciuto tutti quelli di Porzius, perché tutti i giorni io passavo di lì per andare a prendere i medicinali o per andare a prendere armi e munizioni. I lanci che facemmo sulla valle di Porzius, gli inglesi di Pippo, di notte,buttavano giù questi qua e buttavano giù anche gli ufficiali, buttavano giù gli inglesi. E io andavo sempre lassù.

Queste donne che loro dicono, l’avevano condannata come spia, le donne che avevano quelle di Porzius e le altre c’erano quando io andavo su, ma io non sapevo che erano ricercate.

D: Siamo rimasti quando eravate alla stazione di Gorizia nei treni.

R: Siamo stati lì tre giorni fermi e per fare i bisogni, ogni tanto aprivano lì fuori ai vagoni, davanti al pubblico che era fuori, poi dentro Roma, lì in piedi senza potersi neanche sedersi, ma neanche voltarsi. Ci avevano talmente incastrati dentro che non passava neanche l’aria.

Finché un pomeriggio, verso sera, il treno andò avanti, andò avanti, ma non molto, si fermò a Pradamano, è un paesino prima di Udine, su un binario morto perché c’erano i bombardieri che andavano su e giù e allora avevano paura dei bombardamenti.

Il giorno dopo, di notte, ci hanno portato alla stazione di Udine e ci hanno collegati insieme a quelli della Risiera di San Sabba, e noi di Udine, di Gorizia e poi quelli di Udine sul treno. Hanno collegato tutti i vagoni, senza mai uscire, e siamo andati via.

Ogni galleria, se c’era un allarme, dovevamo stare dentro alle gallerie con quel fumo, che non si respirava. Anche un giorno si stava là dentro.

Infatti per arrivare a Mauthausen ci abbiamo messo una settimana, sempre chiusi nei vagoni e lì era venti gradi, anche ventidue a Tarvisio.

Quando siamo arrivati a Mauthausen, siamo arrivati a Mauthausen verso sera.

D: Che periodo era più o meno?

Sai il giorno in cui siete arrivati a Mauthausen?

R: Il giorno, con precisione, non lo so.

D: Era sempre gennaio?

R: All’inizio di gennaio.

Fatto sta che di lì ci hanno aperto tutti i vagoni, la prima cosa che ho guardato quando ci hanno fatto scendere, il nome della stazione dove eravamo: Mauthausen e ho detto: “Guarda dove sono arrivato?”

Pensate mio padre che era uno della guerra del 1914 – 1918 è stato prigioniero a Mauthausen e mi raccontava che mangiava le ortiche per sfamarsi e sono arrivato qui anch’io.

Dopo, messi in riga, siamo andati un bel po’ avanti, non abbiamo attraversato il paese di Mauthausen, ci hanno fatto prendere le mulattiere, di notte, al buio e cammina, cammina non si arrivava mai in fondo.

Ad un certo punto si videro delle luci, tutto un chiarore.

Man mano che si andava avanti si vede che si ingrandiva questo colosso di campo.

In una parte Mauthausen è tutta di cemento armato.

Lì si vide questo portone alto, a fianco c’era una piscina… questi riflettori che sparavano addosso. Si è aperto il portone e ci hanno fatto entrare, dentro ci hanno fatto mettere in fila e sulla destra venne fuori un uomo dicendo che era il capo del campo, su un balcone, parlava in tedesco, io il tedesco non lo capivo.

Dopo un po’, quelli del campo, i tedeschi hanno detto: “Via tutte le valigie…”, si è messo via prosciutto, salame, e in tutto il viaggio noi siamo rimasti senza mangiare.

I tedeschi hanno sequestrato via tutto.

Di lì ci hanno fatto andare su a destra, un’altra decina di gradini, poi un gran portone di nuovo qui, si è aperto ancora il portone, e subito dopo il portone a destra, una scalinata dove c’erano i bagni, le docce.

Ci hanno fatto spogliare tutti nudi, un freddo…, fuori c’era il ghiaccio e la neve, tutti nudi, e lì a fare la doccia, calda, fredda, calda, fredda, ghiacciata.

Di lì i tedeschi, la SS ci ha fatto togliere tutto…, chi aveva la fede, chi aveva l’orologio d’oro, tutte quelle cose lì.

C’era da noi un prete jugoslavo, di Lubiana, lui sapeva il tedesco. Aveva una catenina, ha detto in tedesco: “Per piacere, non me la portate via, è un ricordo di mia mamma”. Questo tedesco l’ha guardato in faccia e ha cominciato a offendere, hanno fatto un girotondo e l’hanno pestato. Non l’abbiamo più visto, non so dov’è andato a finire, se l’hanno ammazzato, non l’abbiamo più visto.

Di lì nudi, ci hanno detto: “Fuori in baracca“. Fuori, con il ghiaccio, tutti nudi, e via camminare scalzi fino alla baracca, in quarantena, ho saputo dopo che era quarantena, perché ho saputo dopo che la quarantena era distaccata dalle altre baracche, la quarantena era dall’altra parte, dicevano che si stava lì quaranta giorni e poi ti mandavano a lavorare.

Siamo andati in quarantena, lì ci hanno dato i vestiti, non quei vestiti rigati, erano dei pantaloncini, messa una pezza con la riga e il numero di matricola e poi ci hanno dato il bracciale con il filo di ferro, la placchettina e si doveva dire il numero in tedesco perché se non sapevi dire il numero in tedesco non mangiavi.

Poi siamo arrivati dentro lì. Adesso, disse, andate a dormire… Ma dove a dormire? Che non c’era neanche un letto, niente.

“Vedete lì in fondo? C’è un mucchio di sacchi”, erano di carta fatta attorcigliata con dentro della segatura, avevano sdraiato tutti questi materassi e ci avevano messo a dormire come le sardine. Così, io i piedi in bocca a lui, lui i piedi in bocca a me.

Camminava sui nostri corpi… e dava tante di quelle botte…, non potei neanche muovermi tutta la notte. Finché è giunto da noi un ebreo nella nostra baracca, che l’ebreo non poteva venire dentro, eravamo solo italiani.

Questo capo della baracca è venuto lì dicendo: “Sei italiano?”

Prende uno zoccolo da uno lì, lo getta lui questo zoccolo, ma lui prende questo ebreo e gli spacca la scatola cranica, l’ha ammazzato.

Al mattino arrivavano lì i barbieri, lì tutti nudi ci hanno rapato fino all’ultima pelle.

Avevano dei rasoi …, non gliene fregava niente perché per un lavoro che facevano prendevano una minestra in più.

Ci hanno rapato, e poi c’era un secchio come quella colla che va sui manifesti, con un pennello te la mettevano di qui, di là, per paura dei pidocchi.

Dopo di lì ci hanno mandato fuori, a un freddo, tutti rannicchiati uno vicino all’altro, saremo stati lì tre o quattro ore.

Ad un certo punto arrivò il capo blocco e disse: “Tutti in riga, guai se uno di voi sgarra e che stia fuori riga”.

Fatto sta che ci metteva in riga in quella maniera e se sgarravi prendevi tante di quelle botte da matti. Perché passava quello delle SS, si doveva pazientare e tutto il suo gruppo doveva essere a posto e tutti presenti. Bisognava avere il cappello così, altrimenti erano botte.

Di lì, rotte le file, ci portarono il caffè secondo loro, il caffè arrivò in un bidone, era tutto foglie di tiglio e ci hanno dato un pezzettino di pane, sarà stato 50 grammi e un po’ di margarina quella minerale, arancione carica. Meno male pensammo, qui ci danno da mangiare…

Quando arrivò la minestra…, a mezzogiorno pensammo ci daranno qualcosa! A mezzogiorno arrivarono lì e dissero: “Chi è volontario e vuole andare a prendere i bidoni di minestra?”…. ti davano una minestra in più. Noi non abbiamo visto la realtà del campo, quello che succedeva niente. Dopo fatto la quarantena si vedeva veramente quello che era il campo, ma non eravamo convinti neanche con questo, vedevamo della gente portare dei morti sulla coperta e poi buttarle là a mucchi, ma non pensavi che fosse…

Fatto sta che sono andato a prendere la minestra, sono tornato indietro. Molti di loro quando ci hanno dato la minestra non l’hanno mangiata.

Sulla porta che era di metallo in fondo della quarantena, c’erano quei poveretti che erano magri, malmessi, che venivano ad elemosinare questa minestra e il primo giorno dicevano che faceva schifo e non la mangiavano.

Fatto sta che molti di loro non la mangiavano… Di lì ci portarono,qualche giorno dopo, a fare le fotografie in due o tre pose con il numero di matricola.

Avevamo la riga qua in mezzo

Poi ci hanno dato un paio di guanti di feltro…

D: Ti ricordi il numero di matricola?

R: 126691.

Fatto sta che, la mattina, siamo andati a lavorare prima a Gusen e poi da Gusen siamo andati alla stazione ferroviaria, non avevo mai visto quella stazione ferroviaria, avevo visto che c’erano i vagoni, però non era la stazione. Erano dei binari che passavano così. Fatto sta che ci hanno fatto caricare tutti sui vagoni aperti, in ogni vagone c’era un tedesco, e lì ci hanno portato alla stazione di Linz, tutta bombardata, massacrata, vagoni in alto, a destra, a sinistra, tutta roba che arrivava dall’Italia, pane, pasta, miele, tabacco, guai se toccavi qualcosa.

Il primo giorno che si lavorava un freddo cane. Nessuno si rende conto di quello che fa lo spostamento d’aria sui binari, distrugge come se fosse un cappello…, da non crederci.

C’era un maresciallo dei tedeschi cattivo, con il cane lupo… e pretendeva di più di quello che noi potevamo fare.

Fatto sta che alla sera, dopo dodici ore di lavoro, ci hanno portato a Gusen a dormire.

Dovevamo aspettare, perché a Gusen facevamo i turni a lavorare nelle miniere sotto e poi c’erano le fabbriche di armi,… facevano dei pezzi… quando andavano al lavoro loro,noi andavamo a dormire nelle loro cuccette.

Al mattino mi alzai, e quando mi svegliai il Kapò, il Kapò era uno senza un braccio, cattivo come una bestia……, cominciava a dire…., fatto sta che i miei zoccoli non c’erano più. Mi avevano rubato gli zoccoli.

Come facevo adesso a camminare sui binari, se c’erano dei vetri e con il freddo che c’era?

Io ho guardato, ho preso un paio di zoccoli di quelli che dormivano, li misi, e avevo le dita così, sono andato a lavorare in quella maniera lì e so che mi ha fatto un’infezione lì dietro.

Mi venne fuori un’infezione, un bozzo lì…, e si doveva lavorare lo stesso.

Io dicevo… c’era la gioventù italiana, non ne avevano più di anziani, c’era qualcuno che comandava, però erano tutti giovani italiani. “Tu, italiano kaput crematorio”. Non sapevo neanche crematorio cosa volesse dire, ancora perché non avevo avuto il tempo di vedere queste cose.

Fatto sta… “crematorio” diceva.

Era questo il fatto. Mi era rimasto un po’ impresso. Ognuno di noi, con il freddo e la fame sveniva non è che dicesse: “Prendilo, rimettilo là che poi rinviene”. No, in due si doveva prendere, uno per i piedi e uno per le mani, vivo e buttarlo dentro alla buca, dai uno, dai due, dai tre, dai tre, dai quattro e seppellirli, buttando sopra la terra, vivi.

Mi sono preso anche paura io, … crematorio, camera a gas.

Ritorniamo a Gusen, alla sera, io scoppio dalla febbre, non stavo neanche diritto dal male che mi faceva e lavorare sempre con quel male, finché ho detto al Kapò di Gusen, dissi… “Le faccio vedere…”, mi ha dato un manganello sulla schiena che sono rimasto secco e sono dovuto andare a lavorare lo stesso. I miei amici mi guardavano.

Sono andato a lavorare e lì piangevo dal dolore e non c’è stato niente da fare.

Allora, alla sera, invece di andare a dormire a Gusen, siamo andati al campo n. 2 di Linz, c’è la caserma delle SS che gli americani hanno bombardato, la caserma, hanno fatto saltare un mucchio di gente del campo e hanno ammazzato un mucchio di deportati.

Allora, di lì siamo andati a dormire, solo che ci hanno messi e da varie ore eravamo già lì.

Dopo dodici ore di lavoro chiamarci e stare lì delle ore, aspettare per mandarci in baracca e darci quel po’ di minestra calda, io sentivo urlare a destra, a sinistra.

Io stavo male e mi faceva male. Passò di dietro questo tedesco, quando mi ha visto curvo mi ha dato tante di quelle botte, ecco perché ci avevano mandato in baracca, perché secondo loro mancava una persona, non mi vedevano e lì sono stati fuori … per colpa mia.

Un’altra sera siamo andati a dormire a Gusen, a Gusen non c’era posto quella sera lì e dove si dormiva? Fuori delle baracche.

Ci hanno dato una coperta e basta… C’era il fango. Io ho messo la coperta sopra e sotto niente. Di notte ghiaccia e più o meno il corpo scalda un po’. Alla mattina staccarsi dal ghiaccio per non rovinare anche il vestito, se lo rovinavi eri rovinato del tutto.

Strappai un po’ alla volta, e via a lavorare di nuovo.

Allora dissi al tedesco, alle SS … e l’altro: “Tu italiano… kaput”.

Come kaput?

Solo che poi è arrivata un’anima buona, dietro di me, uno vestito da SS e disse: “Vieni con me…”, era un italiano, “e non ti meravigliare che sono delle SS, ho dovuto accettare anch’io queste cose qui perché altrimenti facevo la fine che dovresti fare te adesso. Vieni qua, metti sotto quel … che nessuno ti tocca”.

Fatto sta che nessuno mi ha toccato.

Alla mattina, a Gusen di nuovo, … a Mauthausen ci hanno portato quelli che eravamo ammalati.

D: Franco, scusa un attimo, quando tu parli di Gusen, ti riferisci a quale Gusen?Gusen 1 o Gusen 2 ?

R: Sai che non l’ho mai capito. Per me era tutto Gusen, che era schifoso Gusen.

Non lo so che Gusen era.

D: Allora, quelli ammalati lì a Gusen li prendono…

R: No, gli ammalati hanno chiesto la visita medica…

Li prendono e li portano a Mauthausen…

D: A Mauthausen dove? Dentro al campo di Mauthausen o in fondo…

R: No, dentro il campo di Mauthausen perché doveva essere la Commissione Medica a dire se eravamo recuperabili o no. Ci hanno fatto fare la doccia, fuori, nudi, in attesa del responso della Commissione Medica. Fatto sta che siamo stati lì quattro o cinque ore, un freddo, e mai preso un raffreddore.

Pensavamo tutti: “E’ meglio che ci ammazzano, altrimenti qua…,” invece è stato contrario… Poi all’ospedale, anzi era un’infermeria, sono arrivato là, giù…, non sono andato dentro alla baracca, mi hanno messo subito in sala operatoria, mi hanno disteso su un tavolaccio, mi hanno mezzo legato, mi hanno tagliato con un po’ di tintura e c’era il pus che schizzava da tutte le parti.

Poi sono andati con le forbici a tagliare e poi hanno messo una stecca di legno, c’era un barattolo con dentro una cosa nera, come una pomata, me l’hanno messa sulla ferita, senza cucire niente e la fasciatura non con la garza, con i rotoli di carta igienica li adoperavano per fasciarci. Poi mi portarono in baracca.

Quella lì non era una baracca, quando ho visto questa gente, tutta aperta, che mi guardava…, sono morti viventi! Ma quella gente lì è ancora viva?

Si vedeva solo gli occhi e i denti, le mani scarne, si vedevano le ossa, e mi guardavano e io guardavo loro.

Poi mi hanno assegnato un posto, eravamo in sei, era a tre piani, tre alla testa e tre ai piedi, il materasso sempre così stretto, con un asse di legno e una coperta in sei.

Di lì, dopo, mi venne la febbre a 41.

Cominciai a tossire sangue…, non sapevo cos’era. Passò un dottore, un dottore che andò da un russo, questo russo lavorava alla cava delle pietre, era un colosso, gli usciva l’acqua dalla pancia, chissà cos’era. Fatto sta che gli fa questa puntura, al petto, non ricordo più, so che appena fatta la puntura, questo russo ha cominciato… hai visto le bolle dei bambini di sapone?…

Poi io dissi: “Dottore…, guardi qui”, avevo rotto un lembo della coperta, dove c’era tutto il sangue. Allora mi ha visitato. Io ho ascoltato, non ha detto: “Dategli una camicia”, niente… Ha detto: “Guarda, ragazzo, vuoi vivere? Se vuoi vivere, se arrivano i miei colleghi quel sangue non glielo devi fare vedere perché qui la tubercolosi…”, non disse tubercolosi, non sapevo neanche che era tubercolosi io. Questo qui disse: “Se i miei colleghi ti vedono, ti fanno fuori. Hai visto cosa hanno fatto al russo? Toccherà a te”.

Io camminavo per cercare qualcosa da mangiare. Davano un mestolo di minestra al giorno, senza pane, senza niente, all’ospedale.

Andavo in giro a vedere, fuori l’erba era rasata tutta.

Si tirava su tutto, quello che c’era di commestibile, con le patate dei fiori, delle piante, non era rimasto niente fuori.

Qualcuno fuggiva, di notte, dalle finestre, andava nei rifugi delle SS e qualche volta gli davano una buccia di patata, e sembrava avere risolto chissà che cosa. E lì, tutti a destra, sinistra, fuori e poi arrivò la dissenteria.

La dissenteria, cinque giorni, se dura cinque giorni muori.

Fatto sta che uno con la dissenteria in cinque giorni diventa pelle e ossa perché va in continuazione al gabinetto.

Dov’era il gabinetto? In fondo dove a destra c’era il mucchio di cadaveri, e a sinistra c’era un asse per traverso e lì si facevano i propri bisogni, due o tre alla volta, tutta roba liquida, che di consistente non c’era niente.

Fatto sta che la dissenteria…, non si arrivava mai al gabinetto e te la facevi addosso.

Infatti tutto per terra, pieno di liquido. Era una cosa brutta.

Chi cadeva giù, pur di arrivare, cadeva giù già sfinito, morto.

Chi, mentre faceva i bisogni, cadeva e moriva lì, chi arrivava gli dava uno spintone e cadeva dentro tutto questo liquido che era lì, si affogava anche di liquido.

Non eravamo più degli esseri umani, eravamo delle bestie. Ma neanche delle bestie, le bestie…

Tutti al gabinetto, su e giù…, cosa succede dopo? Che quello che ho avuto io all’inguine, mi venne dall’altra parte.

Lì facevano molti esperimenti, c’era della gente che aveva aperta tutta la muscolatura dei piedi, la schiena…, facevano gli interventi e poi c’era tutta questa carne aperta.

Andai lì, mi portarono giù di nuovo in infermeria, stavolta svenni perché ero molto più debole.

Però guarivo presto anche…, c’era uno di fianco che disse: “Partigiano tu di dove sei? Sei di Olzano?” Olzano, il mio paese. Dissi: “Non sto bene”. E lui mi ha detto: “Ti aiuto io a letto, ti aiuto io a portare …” Ma quando sono tornato, un giorno non c’era più, si vede che era morto.

Però, con tutto questo, un giorno successe il patatrac. Arrivarono i tedeschi dentro le baracche e pensai: “Ci ammazzano tutti”.

“Fuori, fuori, lasciate tutto lì, a mani vuote”, eravamo sempre nudi a 24 gradi sotto zero, broncopolmoniti… Fatto sta che dissero: “Fuori tutti”.

Non sapevo cosa era successo, però non pensavo che fosse qualcosa che qualcuno avesse fatto la spia.

Noi avevamo qualcuno con i cucchiai di ferro e cosa facevano? Battevano come il contadino batte la falce,è dura la lama, si indurisce la lama e fa una lama tagliente per l’erba, e per tutto. Anche le assi di legno, sai quanto carbone delle assi di legno ho mangiato io per fermare la dissenteria che me le dettero i francesi? Poi dopo un po’ ci mandarono tutti dentro di nuovo. Era successo che lì da noi mangiavano i cadaveri, aprivano la pancia dei cadaveri, pelle e ossa, cos’era più commestibile? Secondo lei cos’è di più commestibile? Secondo lei cos’è? Il fegato. E litigarsi i pezzi di fegato, e poi andarsi a nascondersi sotto i letti a castello che gli altri ti assalivano.

Qualcuno è andato a riferire ai tedeschi…, e avevano paura che venisse la peste. Così portarono via tutto, anche quello. Che brutta…

D: Franco, quando tu parli dell’infermeria di Mauthausen quale intendi, quella dentro nel campo?

R: Quella giù nell’ospedale.

Quel dottore lì mi salvò la vita anche quello, due volte. La prima volta per la selezione degli ammalati mise fuori la chiacchiera che erano tutti ammalati gravi e ci portarono su al campo, dicendo che nel campo avevano fatto un ospedale per i più gravi. Io sono andato nella fila di quel dottore. Quando sono andato là mi ha scartato e mi sono messo a piangere.

Siamo andati in baracca, passò la giornata, alla sera successe che arrivò uno lì e disse: “Sapete chi sono io? Sono quello che è scappato da quel convoglio che oggi hanno fatto”.

“Cosa hanno fatto?” “Hanno mandato tutti alla camera a gas”.

“Non vi presentate più, altrimenti vi gasano tutti”.

Il dottore lo sapeva.

Poi di lì, poiché io ho vissuto in Francia, ho fatto scuole in Francia, parlavo poco l’italiano, ho conosciuto dei francesi lì dentro e ai francesi davano il pacco della Croce Rossa, solo ai francesi. E noi chi eravamo? I figli di nessuno?

E lì era l’ultima fila dove c’erano i cadaveri.

E di lì, ho detto al francese: “Per domani ti danno il pacco, sei fortunato, per domani ti danno il pacco così ti rimetti in carne, ti tiri un po’ su.”

E disse: “Spero che domani ci diano il pacco, di mangiare e stare meglio”.

Dissi: “Te lo auguro”.

La mattina mi alzai e dissi: “Vado a salutare il francese, così faccio amicizia che salta sempre fuori qualcosa”.

Andai là, questo qua aveva già la bava alla bocca.

E pensai: “Oh Dio, questo qua ha già la bava alla bocca”. Le bestialità di un uomo quando è alla disperazione: io scambiai il mio numero di matricola con il suo.

Quando chiamarono lui, presi il pacco io. Mi sono mangiato due scatolette di carne in scatola americana, qualche galletta, la sigaretta e il tabacco le tenevo per fare gli scambi con la minestra. Chi era ammalato di fumo…, io non voglio morire di fumo, volevo morire di mangiare e faceva lo scambio.

Il giorno dopo hanno fatto la spia…, venne l’interprete della SS, in fondo alla baracca, qui disse: “Qualcuno ieri ha ritirato il pacco francese ecc., salti fuori, lo consegni”. Era un furto, lì impiccavano, o in forno crematorio, o gli sparavano in testa.

Allora io zitto, sotto la baracca, di nuovo sotto ai letti castelli, per fortuna che hanno lasciato andare dopo. Hanno visto che nessuno si presentava…, meno male ho detto.

Poi, tutta la notte a stare attento, con dei dolori alla pancia, avevo mangiato la carne dura, mi rotolavo dal dolore, dal male, anche l’egoismo per mangiare…. Fatto sta, a vedere gli altri che mentre mangiavo, quello zoppo moriva dal letto, veniva fuori blocco di sangue, portarli via con tutto sangue, urine e quel po’ di grasso che erano di calorie intorno…

E’ una cosa indescrivibile, pazzesca.

Il giorno dopo dissero: “Da domani tutti i francesi si devono presentare, verrà consegnato un pacco e partiranno per il sanatorio in Svizzera…”. Quando questi due pullman della Croce Rossa erano pieni, partivano e se ne andavano. Al mattino c’erano sempre gli stessi pullman, altri due pullman. Pensavo che veramente andassero là in sanatorio, altri due pullman e così, fin quando sono finiti i francesi. Non si è saputo più nulla. Dissi a questo francese: “Se tu vai a casa, telefona a mio fratello che lui è ufficiale dell’esercito di De Grulle”.

Fatto sta che finisce la guerra, arrivano gli americani, non è che arrivano gli americani, perché era successo, secondo la storia che mi raccontavano loro che come c’è stata la fuga dei russi, che si è saputo di Mauthausen, qualcuno aveva raggiunto, passato il fiume, il Danubio, la zona dei russi. Allora hanno detto: “Là stanno uccidendo sempre, ogni giorno di più”. Tutti quelli che arrivavano dagli altri Lager, là non c’era posto e li hanno tutti gasati, tutti uccisi, chi moriva ghiacciato, morto, al mattino, li avevano uccisi tutti, ma era parecchio tempo che arrivavano dagli altri Lager, Dachau e tutto il resto. Fatto sta che i russi hanno detto agli americani: “Guardate o voi andate avanti o noi non guardiamo più niente, attraversiamo il Danubio e andiamo noi …” Fatto sta che è arrivata una pattuglia americana con due autoblindo, non c’era più un tedesco…, ne hanno beccati parecchi. Sono arrivati lì, hanno tirato giù la svastica… , con le autoblindo, hanno parlato e poi cosa hanno fatto? Hanno armato la gente, i deportati e li hanno messi…

Hanno dato l’ordine che nessuno doveva uscire dal campo fin quando non fosse arrivato il grosso della truppa.

Siamo stati quasi una settimana, perché avevano paura che noi andassimo fuori, ci hanno maltrattato, pestato questi austriaci. Avevano paura che andassimo fuori a fare qualcosa contro il popolo austriaco.

Qualcuno è scappato, fatto sta che di lì sono arrivati gli americani dopo tre giorni, tutta la truppa. E cosa ci davano da mangiare? Latte e verdure per dilatare un po’ lo stomaco.

Ci hanno messo su delle barelle. In quel momento hanno portato una catasta di casse da morto, fatte di quattro assi, ma visto che le casse da morto occupavano molto posto, li buttavano dentro alle fosse comuni.

Poi di lì li hanno portati in ospedale loro, da campo, su una barella, i più gravi e lì tutte le mattine facevano l’ispettorato, guardavano come stavi, e in fondo a questa baracca c’era adibita un’infermeria e tutte le sere mi facevano una puntura di un calmante che avevo dei dolori enormi e vicino a me c’era un italiano, che lui era un partigiano piemontese, uno che ha fatto l’università, sapeva l’americano. E mi raccontò, era gonfio, mi raccontò che lui aveva nascosto dei documenti molto importanti della casa reale, che lo sapeva solo lui, li ha nascosti, murati in montagna, e lo sapeva solo lui. Fatto sta che lui ne parlò con gli americani e quando hanno saputo che documenti erano, gli americani li hanno messi da parte lì e gli hanno fatto il plasma, delle trasfusioni ecc., e niente da fare.

Lui è morto, nessuno ha saputo niente e lui ha detto: “Se mi salvate lo dico, se non mi salvate non dico niente”. Tutto è andato così, è morto. Lì siamo stati lì un bel po’. Ci portarono all’ospedale a fare dei lavaggi, non so se era luglio, in radiologia e lì mi trovarono la TBC bilaterale attiva. Tornai sull’autoambulanza, mi avvicinai ad altri italiani, e dissero: “Tu sei tubercoloso, sei tisico…”, non sapete la paura che avevo di questa malattia, facevo dei chilometri per non andare vicino ad uno quando era stato ammalato.

Mi faceva tanta paura. E dissi: “Non posso tornare a casa”.

I miei, quando sapranno che ho la tubercolosi, che sono tisico, non mi vorranno neanche a casa…

Dicevano: “Non scherzerai mica… con le tecniche nuove, con una puntura di calcio guarisci”.

Così, dai oggi, dai domani, mi hanno convinto.

Di lì mi hanno portato distaccato nelle baracche delle SS dove ci stanno i vari monumenti. Sei stato a Mauthausen? E’ subito dietro al nostro monumento, c’è la baracca delle SS, dove c’è il numero in italiano c’era la cucina americana e tedesca.

Lì, alla baracca delle SS, mi hanno messo in questa baracca, su un castello, tutti erano a bassa quota, non erano sul letto a castello, su un letto normale. Ho pensato: “Cosa ci sarà qui dentro?” Ho aperto, i materassi erano tutti fatti con capelli di donne, dormivi sui capelli delle donne. E ti davano da mangiare scatolette di fagioli…, allora abbiamo reclamato e abbiamo detto: “Come mai voi mangiate uova, mangiate… e a noi date questa porcheria con la febbre…?” Abbiamo reclamato, ma non c’è stato niente da fare. Ci davano quello e dovevamo mangiare quello. I mesi passarono finché un giorno vidi che stavo in piedi a camminare, mi sono alzato piano piano, al secondo portone che ho detto io, in fondo a sinistra c’è una garitta in fondo, per le scale dove c’è il monumento…, c’è un portone, in fondo a sinistra c’è una garitta, lì c’erano i militari americani, che noi eravamo in isolamento, ma non sapevo il perché, dopo si è saputo. Allora ho cominciato a camminare trascinando i piedi e quando sono arrivato vicino a questa garitta che ho girato a destra, c’è ancora il filo spinato largo tre metri… e in mezzo arrotolato così. Sentì che uno mi disse: … “Ma sei proprio tu che sei ridotto così? Cosa fai di là?” “Sono in ospedale risposi”. “Come in ospedale…? Sai che noi partiamo domani mattina? Si è riunita la Commissione medica del Vaticano e ha detto che i primi a partire devono essere gli ammalati”.

“E voi partite e noi rimaniamo qua? E’ una schifezza…”

Allora disse: “Sai cosa fai? Stasera, vieni qua alle sette, che loro quando scambiano stanno dieci minuti e anche di più, a chiacchierare e ridere anche di là e noi prendiamo delle assi di legno, e quando si addormentano tutti, andiamo di qua…”

Allora, piano, piano, presi una coperta, ma era pesante, che se cadevo…, fatto sta che sono arrivato là e gli americani parlavano tra di loro…, sono andati via loro, in quattro e quattro otto abbiamo girato… Siamo andati di là e c’era un rebus quando siamo andati in baracca. Non c’entravo io, ero l’ultimo, non sapevano da dove venivano…. , tutti hanno reclamato. Allora dissero: “Facciamo così, scrivete la vostra data in cui siete stati qui a Mauthausen”. Io ho scritto la data e sono risultato il più vecchio.

Alla mattina siamo partiti, abbiamo lavorato due mesi…, giorno e notte…, morivano anche dopo, abbiamo fatto il saluto a tutti i nostri morti. C’erano delle donne che hanno avuto dei bambini con le SS per salvarsi.

Ci hanno caricato sui carri bestiame.

Idem quando siamo arrivati… su ogni vagone c’era un americano con baionetta in canna.

Tutti questi austriaci prima ci sputavano in faccia, con la bandiera sembra che piangessero, piangevano perché eravamo ancora vivi, questi disgraziati! Vedi il mondo come gira!

Quando il treno è partito, al mattino è partito presto, verso mezzogiorno fermarono il treno vicino a due, tre case contadine e sulla sinistra c’erano dei binari morti dove c’erano dei vagoni letto con della gente dentro.

Lo fermarono lì e c’erano prigionieri politici, militari e civili.

I civili erano ben messi.

Allora questa gente, fermato il treno a mezzogiorno, sparpagliati un po’ qua e un po’ là… Poi c’erano le patate che erano nate così, un campo di patate… Hanno cominciato ad accendere il fuoco, con le patate… , quella disgraziata di contadina là ha cominciato a urlare e quando sono arrivati gli americani hanno detto: “Cosa succede?” E lei ha risposto: “Guardi il campo, uccidono le galline…”

Ha sparato in aria questo americano.

Arrivato sui vagoni, cosa è successo? Vennero dentro due ragazzi tedeschi, austriaci… lì hanno preso questi ragazzi e li ammazzavano. Se non arrivava l’americano ammazzavano, ha cominciato a dare ordine di sparare in aria altrimenti li ammazzavano sul serio.

Da lì, verso sera siamo arrivati in un altro campo, anche lì un campo di concentramento, di lì ci hanno fatto scendere piano, piano e la prima cosa che ho cercato, ho cercato un letto. “Stasera, italiani”, dissero, “facciamo i maccheroni”.

Dopo un po’ che ero lì sdraiato, sentii: “Vieni…” Risposi: “Cosa è successo? Cosa c’è?” “Vieni”, mi dissero.

Allora mi alzai piano piano e quando sono arrivato a metà strada, vidi un gruppo di gente americana. “Cosa è successo?” dissi.

“Ti ricordi quello che ti ha spaccato la schiena? E’ un italiano”.

“Cosa dici?” risposi. “Ha avuto il coraggio di venire con noi. Mi ha aperto le valigie: orologi, collane d’oro… mi hanno ammazzato di botte”.

Sono arrivati gli americani…, ma penso…ha avuto un bel coraggio a venire via con me…. Come faceva questo a sapere che lui mi ha massacrato di botte?

Arrivati a Bolzano, il treno camminava piano piano, la gente a baciare la terra…, arrivati a Bolzano, tutti questi signori con le fotografie dei figli e dicevano: “Questo lo conosci? Lo hai visto?” E’ difficile ricordarsi.

Oltretutto dove lavoravo io…., senza niente, si cambia fisionomia e cambia tutto. E mi hanno dato un uovo con un panino, mia madre mi dava dei soldi…, ho aperto l’uovo e lo mangiavo con il pane.

Poi hanno detto: “Venite, ragazzi che vi diamo dei vestiti civili, venite che buttate via quelli lì”. Dicemmo: “Va bene”.

Mi hanno dato i vestiti civili, sono arrivato lì e mi hanno detto: “Mi dispiace, abbiamo solo una camicia”. Rigata anche quella. “Mi dia pure la camicia” dissi.

Dopo un po’ mi dissero: “Vai all’ospedale”.

Ma io risposi: “Non mi prendono neanche vedendo che io sono tubercolotico”.

“Ma dai”, mi dissero, “cosa dici?”

Dissi:” No, non ci vado”, finché la febbre mi ha convinto e sono andato dentro all’infermeria in ospedale, avevo il pus che mi colava…, avevo tutto sangue marcio. Volevano operarmi. Ma io dissi: “No, mi hanno già operato due volte, quel cane là”.

Fatto sta che in ospedale mi misero in un letto con lenzuola bianche, coperte bianche, dormivo un po’ di qua e un po’ di là…, mi hanno fatto delle punture e dormii tutta la notte. Alla mattina dormivo ancora e sentii: “Quelli di Udine si presentino che stamattina si parte e si va a casa”. Così pian piano mi sono svegliato, mi hanno preso mi hanno portato sulla corriera e siamo partiti.

Dove c’erano dei punti che non erano sicuri, facevano scendere tutti e passava l’autista. Dove si mangiava, nei posti in cui loro avevano già preparato per mangiare, sempre dalle suore o dai preti, mangiavo, ma appena mangiavo mi facevo tutto addosso, non tenevo più.

Avevo talmente la pelle che non tenevo più niente, avevo fatto tutto addosso. Allora mentre andavano a mangiare, io andavo al gabinetto…. “Dai, vieni a mangiare” e io dicevo “No, non ho fame”. Non potevo dire all’autista: “Fermati” a metà strada, per me.

Siamo arrivati a Pordenone e … mi ha convinto a medicarmi. Sono andato con lei, mi ha medicato e tutto, e poi da lì siamo arrivati a Udine alla sera.

Ha avuto un bel cuore di dire: chi vuole andare a casa, lo portiamo a casa.

E lì sono andato alle scuole IV Novembre che erano le scuole apposta per gli ammalati, IV Novembre ad Udine. Lì c’era il dott. De Bellis, con le suore lì dentro. Il dottore mi disse: “Avvisiamo tutte le vostre famiglie”.

Dissi: “Dott. Bellis, mi faccia un piacere, non lo dica a nessuno dei miei”.

“Perché?” mi disse. “Se mi vedono così…, sono pelle e ossa”.

“Va bene”, mi rispose.

Andai a letto, mi medicavano, mi misero una zanzariera contro le mosche per tutto il pus che mi colava giù, finché un giorno un pomeriggio dopo mangiato, sentivo parlare, dopo un po’ sento che uno mi scuote. Dissi: “Cosa c’è?” E’ venuto un signore con il dott. De Bellis, e lui ha detto: “Questo è Cosmar”.

“Ma non è mio figlio questo qui, ho visto mio figlio prima di partire per la Germania, non sarà mica ridotto così. No… Poi, vede che ho la lettera che mio figlio è morto a Mauthausen.”

Poi allargarono la zanzariera e parlava con questo dottore che mi voltava la schiena, parlava con il dottore. Allora mi sono affacciato alla porta e dissi: “Papà”!

Quando si è girato, quel che si è sentito lui non lo so dentro di sé, ma so che non è riuscito a parlare per un bel po’.

Disse: “Sei proprio te?”

Dissi: “Sono proprio io, sono arrivato”.

Di quelli che arrivavano della Croce Rossa Internazionale del Vaticano, gli ammalati arrivavano lì e dopo due o tre giorni morivano tutti. Erano già alla fine, senza avere neanche la soddisfazione di vedere i propri familiari.

E’ quello che mi fa rabbia.

D: Quando sei entrato lì quand’era?

R: Era il 26 o 28 giugno.

D: Del 1945?

R: Sì.

Montefiori Aldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Montefiori Aldo, nato il 03.04.1921 a Valeriano di La Spezia. Ero un ex militare di marina. L’8 settembre sbandato mi sono ritirato al mio paese, a casa. Ad un certo momento hanno attaccato dei manifesti: “O con noi o contro di noi”, di ripresentarsi di nuovo a militare. Se non che una ristretta compagnia, compreso un mio caro amico, Ameglio, che poi divenne comandante della Giustizia e Libertà, abbiamo deciso di non presentarci più sotto alle armi dell’esercito della repubblica. Allora abbiamo deciso di allontanarci e andare ai monti.

Se non che dopo un lungo lavoro io, il sottoscritto, venne arrestato nello stesso paese verso i primi di luglio 1944. Mi prendono, un certo Oreglio Gallo, che allora era una persona forte in quell’ambiente, molto cattivo, e un maresciallo della Feld/gendarmeria, è un certo Vacarezza di La Spezia. Mi portano alle carceri di Villa Andreini a La Spezia, in cui sono stato imputato di avere partecipato nelle zone partigiane, aver portato su dei ragazzi, ecc. Insieme a me hanno arrestato, che è tuttora la mia presidente, Paganini, sua mamma, sua sorella, suo fratello, un po’ quasi tutta la famiglia.

Lì hanno fatto un po’ l’interrogatorio a tutti. A un certo momento dopo una settimana, dieci giorni, una buona parte, compreso la Paganini, sono partiti per Marassi di Genova, per andare a Genova e io e altri due o tre siamo rimasti a Villa Andreini. Se non che la Paganini e altri, a quanto abbiamo saputo dopo la Liberazione, era stata attaccata dai partigiani e di conseguenza a noi a Genova per via terra non ci hanno più portato. Lì ho dovuto subire oltre tre mesi di carcere a Villa Anfreini.

Dopo tre mesi circa mi prendono e mi portano insieme con quelli che erano presi da poco tempo, cioè il famoso campo di concentramento di Ventunesimo. Ci hanno portato a San Bartolomeo in un cantiere navale, ci hanno trasferito al carcere di Genova. Quando sono stato nel carcere di Genova, eravamo in tanti, centinaia che siamo stati lì, hanno fatto una scelta: questi qua che siamo.

E hanno tirato fuori nomi, venti, quelli che avevano vent’anni, i giovani. Io mi sono fatto fuori, avevo vent’anni. Mi hanno messo a fare lo scopino. Da una parte cercavano i barbieri per fare la barba, hanno cercato il barbiere, hanno cercato i falegnami per fare le casse da morto, elettricisti. Io in qualità di scopino ritengo di essere stato un po’ fortunato, in quanto ho avuto la possibilità di camminare di più nei corridoi e ho avuto la fortuna anche di conoscere tutti i miei compagni di cella, di Migliarina, di La Spezia e tutto quanto, dei preti. Tutto nell’insieme sono stato soddisfatto di avere fatto quello che ho fatto, perché ho cercato di aiutare tutti. Lì dentro ho conosciuto un certo Morelli Vittorio fra tutti questi, che era un sergente, un sottufficiale, ferito ad un braccio già in guerra. Lui mi ha raccontato che era sfollato su vicino al mio paese.

Ci siamo fatti amici, però lui era già interrogato da questo Gallo, ecc. A forza di torture e botte è diventato cieco, non vedeva più. Se non che allora io ho pensato di prendermelo a cuore, di starci più vicino per aiutarlo e ho cominciato dalla biancheria intima, spidocchiare, levare i pidocchi, perché lui non poteva vedere, non poteva farci niente. Dopo essere stato lì, dopo due o tre mesi circa, ci hanno portato al campo di Bolzano.

D: Scusa un attimo, quando tu parli delle carceri di Spezia e delle carceri di Marassi, di Genova, sempre gestite da fascisti?

R: Sempre gestite da tedeschi e fascisti. Tedeschi e fascisti.

D: Tu sei mai stato interrogato?

R: Sì, più volte. Anzi, devo dire questo, che ho subito un interrogatorio a Genova in cui mi hanno accusato di aver partecipato a delle azioni che io assolutamente non ho fatto, perché ero già in galera a La Spezia. Quindi era assurdo che io dovevo fare e sono stato accusato di aver fatto degli attacchi a queste colonne di tedeschi, in quanto io non c’entro.

Gli ho detto: “Ma se ero già sotto di voi, come faccio ad aver fatto queste azioni? E’ impossibile”. Però dopo nei corridoi, dopo i primi interrogatori, incontrai un certo dottor Valenti, che anche lui non aveva confessato perché diceva di no, però a forza di torture e botte è morto.

E’ morto dentro il carcere di Sarzana, dentro al carcere vicino. Ho avuto la sfortuna purtroppo di metterlo dentro la cassa io. Lui prima di morire mi dice: “Guarda di firmare e di’ ai compagni di firmare, perché tanto è meglio firmare tutto quello che dicono, perché altrimenti ti fucilano.

E’ meglio morire fucilati che per la tortura”. Allora io ho sparso la voce, firmate, non dite niente. Abbiamo firmato tutti i verbali, queste condanne a morte, fucilazione non eseguita. Poi ci hanno portato su al campo di Bolzano. Al campo di Bolzano…

D: Scusami se ti interrompo, ma da Genova al campo di Bolzano con cosa sei andato?

R: Con dei pullman, ammanettati uno con l’altro. Abbiamo fatto la tappa nel carcere di San Vittore a Milano, poi siamo arrivati a Bolzano al mattino verso le sei mi sembra, era d’inverno. Lì hanno cominciato a fare le pulizie, hanno tagliato i capelli, hanno messo tutto a posto, queste cose qua. Ci hanno messo al muro e tutto il giorno nudi contro al muro con quel freddo che c’era, con una coperta. Tutti contro il muro e tutti snudati, perché hanno portato a disinfettare i…

D: Ti ricordi che giorno era? O il mese?

R: Più o meno era forse febbraio, non so, verso il mese di febbraio.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: Tutti, nudi completamente. Siamo rimasti attaccati ai muri nudi e siamo rimasti là tutto il giorno così. Allora io ero giovane e ho resistito di più, ma qualcuno che era anziano andava anche in terra e non ce la faceva.

Erano pensieri brutti da pensare, anche per questi vecchi che proprio non ce la facevano a stare in piedi e crollavano, andavano in terra. Lì con questo mio amico, questo Morelli che me lo sono preso a cuore, l’avevo sempre vicino a me, ci hanno messo a dormire proprio vicino, a tu per tu.

Ho continuato sempre a dargli quella brodaglia che ci davano e a tenerlo lì, spidocchiarlo, a fare tutte queste cose. Se non che si parlava di queste cose. Venne però un giorno, quasi alla fine, il venerdì Santo. Però correva già la voce, qualche cosa, la Croce Rossa Internazionale, qualche cosa di cambiamento ci doveva essere in questo campo.

Questo mio amico mi dice: “Stai a sentire, c’è un cappellano che vuole fare la comunione domani mattina, io sono cieco, andiamo a fare la comunione”. Gli ho detto: “Stai tranquillo, io vengo con te e facciamo la comunione, domani mattina andiamo a fare la comunione”. Andiamo a fare la comunione, veniamo in blocco e alla sera quest’uomo mi dice: “Quanto pagherei, Aldo, per rivedere un po’, per conoscerti, vederti in faccia e vedere mia madre”. Nella nottata a questo ragazzo è ritornata la vista.

Allora lì c’era un certo professor Pirelli di Milano, c’era un professor Ferrari, che poi è diventato sindaco di Milano, c’era il dottor Campodonico, c’era un altro dottore di specie. Lì hanno fatto un po’ un colloquio, hanno fatto un po’ un consulto tutti insieme, perché gridavano al miracolo. Hanno deciso che c’era questo nervo ottico preso dal sangue che con questa fede, con questa cosa qua si era sciolto e gli era tornata la vista. Questa è la vita. Poi siamo ritornati al campo, a casa.

D: Aldo, ma quando sei arrivato a Bolzano, dopo che vi hanno tenuto in piedi per un giorno nudi, in che blocco ti hanno messo?

R: E, al blocco E, il blocco del triangolo rosso.

D: Avevi un numero di matricola?

R: Sì, adesso mi sembra 942, non mi ricordo bene di preciso. Ce l’ho a casa, ma adesso non mi ricordo bene il numero di matricola.

D: Ascolta, cosa facevate tutto il giorno nel campo?

R: Dentro nel campo assolutamente niente, perché eravamo in attesa per andare giù in Austria. Infatti, lì per due volte hanno tentato di metterci sui vagoni, ci hanno messo sui vagoni. Io ammanettato con questo ragazzo, questo Morelli sui vagoni.

Ci hanno portato sul Brennero per partire, eravamo su di là, se non che sono arrivati poi dei bombardamenti, noi eravamo dentro questi vagoni e tutto quanto. Lì dovevamo fare tutto addosso uno con l’altro, anzi avevamo scelto attraverso il professor Pirelli un angolo per andare a fare le nostre cose.

Figuriamoci questo ragazzo che dovevo farlo attraversare tra le gambe, perché eravamo a testa di pesce uno con l’altro, farlo passare per andare là. Eravamo tutti sporchi da cima a fondo come le cose. Poi non ce l’hanno fatta perché con questi bombardamenti le linee saltavano per aria, ci hanno riportato indietro. Hanno fatto la seconda volta, è successo altrettanto, non ce l’hanno fatta. Poi da lì il campo di Bolzano è passato campo fisso.

Allora al mattino ci portavano a levare le bombe, una parte andava a fare una cosa o l’altra finché è venuta la Liberazione e si viene a casa.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne?

R: Sì, era vicino a noi. Nel campo c’erano molte donne. C’era anche una di Spezia, una certa Righetti, c’era la Dora. Poi a parte che era passata, come dico, la mia presidente, sua sorella. Ce n’erano, ce n’erano tante.

D: Ti ricordi quando tu eri nel campo di Bolzano se hai visto anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, molti. C’era don Scappazzoni, mi sembra, di Carrara, che poi è venuto anche qui a Villa di Tresana a Spezia a fare il parroco. C’era anche quello che ci ha portato per fare la comunione nel nostro blocco, Don Spadoni. Me lo ricordo, perché poi è venuto a trovarci a casa a me e a Bettazzini, ci ha fatto festa, tutto quanto. Una bellissima persona.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Dei bambini li ho visti insieme alle donne, che allattavano anche, allattavano dei bambini, piccoli, molto piccoli. Vicino al blocco nostro c’era il blocco delle donne. Erano piccoli piccoli.

D: Aldo, ti ricordi com’era organizzato il campo?

R: Devo dire la verità, che il campo non l’ho conosciuto bene, perché eravamo sempre fissi dentro a questo blocco E, blocco recintato che non potevamo andare a contatto con gli altri blocchi, se non che poi al mattino venivano i tedeschi e ci portavano a lavorare e riportavano lì.

Quando poi è avvenuto che portavano via, io sono andato via col camion con la roba dentro e il campo l’ho conosciuto ben poco. Per dire la verità ho conosciuto solo quel posto, quel blocco lì, ma il campo non… So che dicevano che c’erano delle officine, che c’erano i falegnami che facevano dei lavori, ma io non le ho viste quelle cose.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle?

R: Sì, c’era anche la Mascagni. Mi ricordo la Mascagni, che era di Bolzano, che era la parte di là. Qualcuno che faceva qualche cosa andava lì, e lì soffrivano ancora molto di più di quello che non si soffriva noi. Il blocco celle sì, c’era.

D: E’ vero che avevate voi dei soldi che valevano per acquistare delle cose all’interno del campo?

R: Noi no, a noi lì dentro davano delle cose qualcosa che avevano di contrabbando, nel campo circolavano queste cose, ma questo blocco che era il blocco del triangolo rosso, era una cosa che qualcuno li poteva avere, ma la maggioranza no. La maggioranza senz’altro no, perché eravamo ristretti, rinchiusi dentro questo reticolato.

D: Tu o altri tuoi compagni di deportazione, quando eravate nel campo di Bolzano, avete potuto scrivere fuori dal campo o ricevere lettere o cartoline o pacchi?

R: Ricevere no, però qualcuno è riuscito o attraverso il treno o qualcuno a spedire delle lettere, qualche cosa che hanno buttato giù o hanno fatto avere qualcosa. Anche lì devo dire che un mio caro amico, un ragazzo di Valeriano, certo Chella Rino, ha scritto, è riuscito, una lettera è arrivata a casa ai suoi familiari. Lì c’era scritto, dice: “Mamma, io sto bene, sto partendo. A Genova Marassi ho incontrato Aldo”, che ero io, “e Aldo mi ha rifornito di materiale d’inverno, delle maglie da mettermi. State tranquilli. Mi ha dato anche dei soldini”. Siccome quando è andato via questo ragazzo da Marassi, io avevo qualche cento lire, non fumavo, non mi servivano a niente, li ho dati a lui. Avevo un po’ di pane perché, come ripeto, a Genova io ero lì, glielo ho dato.

Ero riuscito ad avere delle maglie, degli indumenti, sono andato da questi parroci che ce n’erano una decina di Spezia e si sono levati i loro indumenti, li hanno dati a me per darli a questo ragazzo, perché lo vedevano che era vivo e che era nudo. Di questo devo ringraziare padre Pio, che poverino dalle botte aveva il vestito bianco che era più rosso che bianco. Tutti, li hanno picchiati a morte tutti. Dieci parroci, tutti e dieci dentro nella cella.

D: Ma questo dove, Aldo?

R: A Marassi a Genova. Quando ha scritto questo ragazzo da Bolzano, che ha buttato giù, ha messo appunto che ha incontrato me a Genova e io ritorno indietro e devo dire che a Genova ho fatto questo lavoro a questo ragazzo. Mi sono rivolto a questi preti, a questi qua e loro mi hanno aiutato un po’ per uno, mi hanno fatto un fagotto di roba per dare. E loro continuavano, erano lì e sono rimasti fino alla Liberazione. Però devo dirti che hanno sofferto, sofferto come in un campo di concentramento e forse anche più, perché erano a rischio lì, erano a rischio di morire. Era tutta una cosa così.

D: Aldo, allora, tu dicevi, nel campo di concentramento a Bolzano dopo il tentativo di portarvi nei campi d’Oltralpe vi mandavano fuori a lavorare.

R: Sì.

D: Ti ricordi tu in che posti andavi?

R: No, proprio no. Io so che andavo a levare delle bombe, mi dicevano, durante la ferrovia, durante le cose. Andavamo lì, si levavano le bombe, poi si ritornava alla sera dentro, mattina là. E’ durato un po’, poi basta. Altri li portavano dalle altre parti. Quattro o cinque di qua, quattro o cinque di là, li portavano un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Bolzano poi è diventato un campo fisso e questo campo poi l’hanno destinato ad andare a lavorare, una squadra da una parte e una squadra dall’altra.

D: Ti ricordi qualche SS del campo?

R: Devo dire che ce n’era uno che era fetente, veramente fetente, perché anche lì cappello su, cappello giù. Allora quando entravi, perché bisogna dire la verità, quando entravi nel blocco picchiavano sempre, erano lì coi manganelli e gli ultimi a entrare li picchiavano, sia che facevi presto sia che facevi tardi. Anche lì onestamente parlando, io avevo vent’anni, ero sempre uno dei primi ad infilarmi dentro, non ne prendevo mai.

Ma i vecchi erano sempre quelli che le prendevano, erano sempre i soliti, io mi ricordo. Cappello su, cappello giù, poi tutti dentro e io anche lì un po’ di fortuna ho avuto, perché m’infilavo dentro. Vent’anni allora erano tanti, erano buoni per affrontare quelle cose lì. Però i vecchi no.

D: Tu sei mai stato testimone di atti di violenza?

R: No. Direi di no.

D: Parlo del campo di Bolzano.

R: Sì, sì, sì.

D: I due ucraini, tu li hai conosciuti?

R: Lì li ho conosciuti, erano lì, c’erano, esistevano, ma adesso mi dice…più o meno, esistevano, c’erano, so che picchiavano. Hanno portato lì uno che ha fatto un tentativo di fuga, l’hanno ucciso, ce l’hanno portato lì davanti a noi, ce l’hanno messo lì davanti per farci vedere che non bisogna scappare, tutte queste cose. Se erano di qua o erano di là io non lo posso dire.

D: E quella che chiamavano “la tigre”, tu te la ricordi?

R: La tigre la chiamavano “la Titti” mi sembra di nome, era la segretaria del comandante, Titho, perché lì che comandava era uno della SS tedesca che era Titho. Mi sembra per sentito dire degli ultimi giorni che questa gli faceva un po’ da segretaria e si chiamava Titti. La chiamavano la Titti.

D: Aldo, quando tu andavi fuori a lavorare lì dal campo di Bolzano a spostare macerie o a spostare bombe, cose di questo genere, incontravi dei civili?

R: Sì, però ti guardavano male, o forzatamente o no. Qualcuno cercava anche di buttarti una mela da buttare là, ma pagavano loro, perché i tedeschi picchiavano loro là, quindi rischiavano. Qualcuno c’era, però era così.

D: All’interno del Lager di Bolzano i deportati avevano costituito un gruppo di liberazione, un comitato di liberazione?

R: In fondo, nell’ultimo sì, negli ultimi giorni era subentrato, un po’ c’era questo. Infatti, a me un certo Battolini di La Spezia venne, mi ha dato un tesserino e mi ha nominato capo squadra quando si doveva partire. Perché quando siamo partiti, perché la guerra non era ancora proprio finita, io poi a Trento mi sono arruolato nei partigiani, sono ritornato.

Lui è venuto a casa, Morelli ha camminato là. Io sono andato, invece, di nuovo coi partigiani, sono rimasto lassù. Lì c’era un comitato che aveva da fare anche lì l’avvocato Ducci. A quanto avevo capito che collaborava molto dall’esterno era allora l’ostetrica del Comune di Bolzano, per quanto sentivo dire c’era l’ostetrica del Comune di Bolzano che aiutava e faceva qualche cosa, esisteva. Ma nell’ultimo.

D: Aldo, il momento della Liberazione. Tu dove ti trovavi?

R: Dentro al campo.

D: Cosa è successo?

R: E’ successo che hanno dato un tesserino, una parte sul camion, una parte a piedi. Noi siamo arrivati un po’ col camion, un po’ a piedi, poi ci siamo affacciati in piedi. Io sono arrivato a Trento, a Trento ci hanno portato dentro, io sono andato dentro dai preti. Abbiamo chiesto e loro ci hanno indirizzato bene, perché lì ci hanno arruolato di nuovo coi partigiani. Abbiamo passato sette, otto giorni, la Liberazione di Trento l’abbiamo fatta noi là dentro.

D: Quando tu sei stato liberato da Bolzano? Te lo ricordi?

R: Adesso non mi ricordo la data, tutti insieme non mi ricordo la data.

D: Da chi sei stato liberato? Sono stati i tedeschi a lasciarvi andare?

R: Il campo ha dato un tesserino di viaggio, di uscita dal campo, hanno dato questo e hanno mollato. Poi hanno messo dei camion a disposizione, qualcuno è andato a piedi e ci hanno mollato come pecore, come…

D: Dopo Trento tu sei arrivato a Spezia?

R: Dopo Trento poi a piedi, un po’ un camion, un po’ di qua, un po’ da una parte, un po’ col carro, una cosa e l’altra sono arrivato a Spezia. Alla bell’e meglio sono arrivato a Spezia.

Balboni Ferdinando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.

Rudolf Maria

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Rudolf Maria, sono nata a Gorizia il 17 agosto del 1926.

Quando ero piccola, ci siamo trasferiti a 35 km di distanza da Gorizia verso il confine dell’allora Iugoslavia. Lì ho vissuto per sedici anni e lì sono stata arrestata.

D: Scusa, Maria. Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato i tedeschi perché io ero corriere dei partigiani e sono stata denunciata dai paesani.

Mi hanno portata nelle carceri di Gorizia e lì sono rimasta per tre mesi.

D: Quando? Ti ricordi la data?

R: Il 12 aprile del 1944.

D: Chi ti ha interrogato?

R: I tedeschi.

D: Nelle carceri di Gorizia.

R: Nelle carceri di Gorizia.

D: E cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere delle organizzazioni ecc., ma io ho fatto finta di non sapere assolutamente niente, perché i nomi dei partigiani erano tutti nomi di battaglia ed erano organizzati in maniera che non potevano dimostrare che io sapessi qualcosa.

Comunque, nonostante l’età, io devo congratularmi con me stessa perché non ho mai detto niente.

D: Hai subìto anche delle torture?

R: Se non avessi riconosciuto, no, non è giusto. Ho riconosciuto.

Se avessi detto che io non ero il corriere dei partigiani, sicuramente mi avrebbero torturata, ma io non potevo negarlo perché lì c’erano dei testimoni che mi hanno denunciato e non potevo smentire.

D: Nelle carceri, quanto tempo sei rimasta?

R: Sono rimasta tre mesi a Gorizia e dopo il processo mi hanno portato al Coroneo, nelle carceri di Trieste.

Il 12 settembre del 1944, con un carro bestiame, mi hanno portata ad Auschwitz.

D: Eri da sola o c’erano anche delle tue compagne?

R: C’erano tante mie compagne perché le conoscevo già in carcere a Gorizia e poi ci siamo ritrovate a Trieste e da Trieste ci hanno portato in questo campo di concentramento di Auschwitz.

D: Scusa, Maria, ti ricordi dal Coroneo al carico del Transport, dove vi hanno portato?

R: Non ci hanno mai detto niente, perché loro facevano tutto senza che noi sapessimo qualcosa.

Quando sono arrivata ad Auschwitz, mi è venuto un colpo perché sentivo qualcuno che mi chiamava ma non riconoscevo nessuno e poi sento: “Maria, Maria, sono io, non mi riconosci?”.

Le mie compagne che erano partite prima di me, erano già ridotte a delle larve.

Io non le ho riconosciute.

E poi la cosa che più mi ricordo e che più mi è rimasta impressa è quando mi hanno fatto spogliare tutta davanti ai tedeschi, io avrei preferito essere morta in quel momento, perché avendo vissuto in un paese, senza avere visto prima un cinema, qualsiasi cosa, per me era talmente da morire di vergogna, dovermi spogliare davanti a tutti.

Poi ci hanno dato un vestito, quello che capitava, un paio di zoccoli di legno, tipo olandese, e niente altro.

Ci hanno tagliato i capelli, portato via tutto quello che avevamo con noi, che poi non era molto. Ci hanno raggruppato in una baracca dove non si poteva stare seduti così come sto adesso seduta io. Era tanto basso, chiamiamolo il tetto, che dovevano stare seduti così.

Dunque immaginate quale tortura per noi a diciotto anni.

E la notte si dormiva in otto in un piccolo spazio, dove per rimanere tutti dovevamo avere uno la testa qui e uno la testa dall’altra parte, altrimenti non ci si stava.

Alla mattina dovevamo spogliarci completamente nudi e fare l’appello davanti alla baracca, che poi era già autunno, i primi di ottobre e faceva freddo.

In una di queste mattine, ricordo che passava davanti a noi un camion che al momento non sapevamo cos’era e poi ci siamo accorti che era un camion pieno di cadaveri nudi, perché quando si stava all’appello, di tanto in tanto qualcuno cadeva a terra, e lo raccoglievano e lo portavano nel forno.

Tutte le mattine dovevamo stare così in piedi nudi per diverse ore.

Ci davano un mangiare che io definirei per i maiali e una sola volta al giorno e se tu non avevi una bacinella, qualcosa del genere per mettere dentro questa minestra, rimanevi anche senza quella.

Io ricordo che per la gran fame mi rotolavo sotto il reticolato di ferro, di filo spinato, per andare a mangiare quel poco che rimaneva alle persone ammalate di tifo.

Io rischiavo la vita, ma la fame era tanta che non ci pensavo due volte e c’era una specie di baracca che fungeva da ospedale e lì c’erano queste persone che non riuscivano più a mangiare perché erano mezze morte.

Io andavo a raccogliere gli avanzi di quelle persone.

D: Scusa, Maria, il viaggio da Trieste ad Auschwitz quanto è durato? Te lo ricordi?

R: E’ durato parecchi giorni, ma io non saprei dire con esattezza quanti.

D: Eravate in tanti, nel tuo vagone?

R: Eravamo in tanti e quando siamo arrivati ad Auschwitz, io ho riconosciuto una persona ebrea che invece lei non conosceva me, e c’era anche il suo nipotino.

Quella volta, io avrei preferito…, peccato che non gliel’ho detto che la conoscevo ecc. perché quando sono ritornata da Auschwitz, ho raccontato di avere visto questa signora con il nipotino e il figlio di questa signora è venuto da me a chiedermi cosa so di preciso.

Mi è dispiaciuto tantissimo perché non potevo raccontargli niente più del fatto che l’avevo vista e basta.

Perché io ero tanto convinta del fatto che non sarei ritornata a casa, che non valeva la pena di dirle che la conoscevo.

D: Scusa, Maria, quando tu parli di Auschwitz 1 o di Birkenau?

R: Proprio Auschwitz 1.

Io sono rimasta lì ma soltanto 40 giorni…

D: Hai detto che quando sei entrata vi hanno fatto la spogliazione…

Vi hanno dato dei vestitacci…

R: Quello che capitava…

D: Senza biancheria intima…

R: Senza biancheria intima…

D: L’immatricolazione, quando ve l’hanno fatta?

R: Quando ci siamo spogliati in fila, tutti quanti, ci hanno fatto il numero che io da quel momento sono diventata un numero, non più un nome e cognome, un numero.

D: Il tuo numero qual è?

R: Il mio numero è 88.492.

D: Ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì, io sul vestito avevo un triangolo rosso “IT” che significava “italiana”. Gli ebrei invece avevano un triangolo giallo che non ricordo bene se era una stella.

D: Quindi tu sei rimasta ad Auschwitz 1 per quaranta giorni?

R: Per quaranta giorni.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No.

D: Non te lo ricordi.

R: No, perché non siamo rimasti sempre nello stesso blocco, ci hanno trasferito più volte.

Per questo quando si rischiava di rimanere senza bacinella per il mangiare non mangiavi proprio.

D: Dovevi digiunare?

R: Eccome. Io ho visto episodi terribili di questa fame perché lei sa quanta fame si ha a diciotto anni e poi c’erano anche persone già molto ammalate che finivano lì, come avevo già detto, in questo ospedale. E io andavo lì sperando di trovare qualcosa.

D: Hai detto che hai visto quella signora ebrea con il nipotino.

Hai visto altri bambini?

R: No, perché lei è partita proprio con il mio trasporto, per cui l’ho vista lì quando ci dovevamo spogliare e ho visto quanto era dispiaciuta a doversi svestire davanti al suo nipotino.

D: Nel tuo trasporto non ricordi i numeri, quanti eravate più o meno?

R: No, perché eravamo in diversi vagoni e poi io ero così disperata, che non mi interessavo di niente.

D: In questi 40 giorni che sei rimasti ad Auschwitz 1, cosa hai fatto?

R: Praticamente non ho fatto niente, perché loro già preparavano dei trasporti, dopo la quarantena per portare quelle persone che erano ancora in grado di lavorare più verso il centro della Germania.

E a me, dopo quaranta giorni, con questo trasporto mi hanno portato a Plauen, in una città che si chiamava Plauen e ci hanno sistemati in una fabbrica di lampadine.

Lì, il mangiare era pochissimo. Non solo, dovevamo fare dei turni di lavoro anche la notte e poi c’erano bombardamenti in continuazione.

Io, oltre al ricordo della fame, ricordo quanto bisogno di dormire avevo.

Io ero stanca da morire, un po’ forse per la debolezza perché non si mangiava, ma soprattutto perché non c’era mai pace: o si doveva lavorare o c’erano i bombardamenti e bisognava correre in rifugio.

Insomma ho dei ricordi tremendi. E non bastava tutto questo, ma tante volte ci mettevano in fila per qualsiasi sciocchezza e dovevamo stare lì, non solo in piedi per delle ore, ma dovevamo anche cantare.

D: Cantare cosa?

R: Mi facevano cantare l’Ave Maria di Schubert. E poi tutte le altre facevano il coro.

Si figuri come lo potevamo cantare, così deboli, stanchi e soprattutto umiliati in tutte le maniere, quanta voglia di cantare avevamo.

D: Ascolta, Maria, quando hai lasciato Auschwitz 1 per quella fabbrica lì, quel sotto campo lì, tu hai passato una selezione?

R: Era questo il loro… Quelli che si presentavano ancora in grado di lavorare andavano da una parte e gli altri dall’altra. Tanto è vero che due persone che io conoscevo sono partite con me, sono rimaste lì dopo di me, perché erano intanto più anziane, e poi deboli, da non potere lavorare.

D: E sono rimaste al campo queste?

R: Sono rimaste al campo e so che una di queste persone non è mai tornata a casa. Per la seconda, a dire il vero, non lo so.

D: Quando tu hai lasciato il campo c’erano anche altre tue compagne con te?

R: Sì, diverse. Perché noi, in 40 giorni abbiamo sì sofferto la fame, ma non ci siamo ridotte ancora a degli scheletri.

La maggior parte delle mie compagne è venuta con me in fabbrica.

D: Lì, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Noi eravamo lì, segregate nella fabbrica. Si dormiva lì, si mangiava e si lavorava.

Io non sono mai uscita da quella fabbrica fino all’aprile del 1945, quando hanno bombardato la nostra fabbrica abbiamo dovuto abbandonarla perché non si poteva rimanere lì e non avevano più dove portarci, era distrutto completamente tutto e queste persone che si sono ammalate in fabbrica dovevamo portarle noi, si figuri con quale fatica.

Perché già noi eravamo tanto deboli che portare anche queste persone ammalate era una tale fatica, impossibile da sopportare. Non ce la facevamo proprio.

Poi, quando hanno buttato via un po’ di detriti, ci hanno ributtato nella fabbrica sotto il sotterraneo.

E da lì io e quattro mie compagne siamo scappate.

Siamo scappate in un bosco, e lì ci siamo preparate un letto di rami di alberi, e siamo rimaste lì per quattro giorni, però poi la fame era all’estremo, eravamo all’estremo delle forze.

Sapevamo che vicino alla nostra fabbrica c’erano degli italiani che però non erano prigionieri come noi, ma erano lavoratori.

Così, io e un’altra mia compagna, pur essendo vestite da prigioniere con il vestito a righe e sulla schiena un “KL”, abbiamo rischiato perché dovevamo o morire di fame o fare qualcosa.

Siamo andate da questi italiani che poi c’era anche un triestino tra di loro e loro ci hanno dato non solo da mangiare, adesso io non ricordo bene che cosa, ma qualcosa da mangiare e ci hanno consigliato di andare almeno sotto un ponte per non essere bagnate e per ripararci un po’.

Questo ponte non era molto lontano e comunque ormai c’era tanta confusione, che nessuno ci badava più.

Anche se eravamo vestiti da prigionieri, nessuno ci guardava, nessuno ci ha mai fermati comunque siamo arrivati il 25 aprile e sono arrivati gli americani.

Lì, loro ci hanno messo in una baracca e hanno cercato di curarci alla meglio.

Comunque sono morte tante mie compagne anche dopo, perché ormai erano così rovinate, così esaurite che non ce la facevano più.

Siamo rimaste lì un paio di mesi e poi sono arrivati i russi.

Siamo partiti da lì, in luglio, non saprei dire il giorno preciso, e siamo rimasti in viaggio per un mese intero. Era tutto distrutto: le ferrovie… Sono tornata a casa il 12 agosto del 1945, quando nessuno si aspettava più di vedermi.

D: E che giro hai fatto per arrivare in Italia?

R: Addirittura siamo passati per l’Ungheria: Budapest, però noi non abbiamo mai visto niente perché noi dovevamo rimanere lì altrimenti non avevamo altri mezzi per tornare a casa. Poi Ungheria, Iugoslavia, poi Postumia e io sono tornata a casa finalmente, il 12 agosto del 1945, cioè tutti quei mesi dopo la fine della guerra.

D: Maria, tu quando eri ad Auschwitz e poi lì nella fabbrica, dicevi che eravate molte donne…

R: Tutte donne, solo donne.

D: Come vi hanno risolto il problema delle mestruazioni?

R: Non avevamo le mestruazioni, o ci davano qualcosa, o a causa di questa fame non avevo mestruazioni, tanto è vero che ero terrorizzata all’idea di non potere averi figli perché dicevano che eravamo rovinate, che non potevamo avere figli. Invece non era così, io ne ho avuti tre.

D: Quando eri ad Auschwitz o in fabbrica, soprattutto in fabbrica di lampadine, c’erano anche dei civili con voi a lavorare ?

R: Soltanto il nostro capo, era un tedesco perché si vede che era stato ferito in guerra, non era in grado di camminare e lui era il nostro capo.

D: Quando ti hanno portato in fabbrica, ti hanno cambiato il numero di immatricolazione?

R: No, è rimasto sempre lo stesso.

Io adesso non ricordo tanto bene se lì avevamo un altro numero in fabbrica, ma se ce l’avevamo non è che ce l’avevamo tatuato, può darsi, non ricordo proprio che se l’avevamo, l’avevamo sulla veste, ma non ricordo bene.

D: Lì, in fabbrica facevate degli appelli?

R: Tutte le mattine si faceva l’appello, come in campo di concentramento.

D: Ti ricordi se nel campo ad Auschwitz 1 hai visto anche dei religiosi?

R: No.

Perché noi lì eravamo segregate in questa baracca e lì non ci si poteva muovere. Noi non avevamo la possibilità di poter girare e andare da una fabbrica all’altra. Dovevamo stare lì, sedute come le ho già raccontato in quella maniera e poi quando, alla mattina, c’era questo appello che bisognava stare lì delle ore, poi fino all’ora di pasto, eravamo lì seduti come le avevo fatto vedere, senza poterci muovere, senza poter camminare e andare da un posto all’altro.

D: Scusa, Maria, un’altra cosa, quando eravate in fabbrica, o anche nel campo, tu sei mai andata all’infermeria?

R: Sì, ma avevamo tutto in fabbrica, c’era una stanza che fungeva da infermeria.

Io avevo un eczema terribile.

Ho cominciato con un pochino all’orecchio e poi avevo mezza faccia completamente rovinata da questo eczema.

Addirittura mi scolavo questo liquido.

E avevo paura di rimanere così, con la faccia sfigurata per tutta la vita e invece con delle pomate mi è un po’ migliorata.

Però, quando sono ritornata a casa avevo un po’ di eczema non soltanto sulla faccia ma anche sul seno e quello mi è durato per un anno ancora, perché dicono che è la mancanza di vitamine, non so cosa bisognava fare per aiutare.

Quando sono tornata a casa, in farmacia mi hanno dato l’olio di fegato di merluzzo, che però non mi è servito.

Poi invece con una pomata per l’eczema, ma ci sono voluti due anni prima che guarissi completamente.

D: Ad Auschwitz non sei più ritornata?

R: No. Ho visto un film su Auschwitz, ho pianto tutto il tempo del film, e non era tanto brutto quanto quello che ho vissuto io.

Mi viene un nodo alla gola se penso a quello che ho passato a diciotto anni.

Non solo tutte le umiliazioni, la fame.

Io adesso ho una nipote della mia età, dell’età di quando io ero in prigione, penso se lei dovesse passare quello che ho passato io.

Mi dispiace che i giovani non sanno che godono della libertà che abbiamo loro procurato noi, con tante sofferenze.

D: Maria, tu non hai mai testimoniato?

Non sei mai stata intervistata?

R: No, non vorrei esserlo.

Io volevo dimenticare a tutti i costi questo, non è così, purtroppo, le guerre continuano.

Lei non sa cosa ho sofferto adesso quando c’era questa guerra nel Kosovo perché mi ricordava tutto quello che ho passato io, che poi le guerre non risolvono mai niente.

D: Ma è importante che i giovani conoscano la tua testimonianza.

R: Guardi, io spero che non succedano mai più di queste cose, e non ho mai parlato con i miei figli, però li ho educati al rispetto di tutte le persone, indifferente il colore della pelle e della religione, perché soltanto chi ha provato e visto quello che ho provato io, non potrà mai essere un razzista.

Bisogna viverle certe cose per sapere cosa sono in realtà.

Jerman Ada

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Ada Jerman, sono nata a Trieste, sono di famiglia slovena, sono nata nel 1926, precisamente il 6 ottobre.

Nel ’43 mi è morto il papà e noi, io, mia madre e mio fratello, essendo anche in condizioni economiche precarie, non c’era nessuna entrata, siamo andati ospiti dai parenti di mia madre nel goriziano, perché mia madre appunto è goriziana di nascita, di famiglia contadina.

Siamo stati ospitati in casa di una zia, mio fratello in casa di uno zio, e mia madre in casa di un’altra zia, un pochino sparsi ma uniti nello stesso tempo.

Dopo l’8 settembre immediatamente, come per incanto, ma come per incanto ancora oggi mi chiedo come e quando era tutto quanto preparato, ad un certo momento si sono visti i primi… C’era un fuggi fuggi, il comune, il comune di Castel Dobre in questo caso, è stato lasciato libero, i funzionari che c’erano erano scappati. Dunque tutto questo dal primo settembre era una cosa già preparata, forse io come ragazzina e tanti altri non sapevamo che questo fosse stato già preparato in anticipo. Ed è evidente che era preparato in anticipo, il malcontento e tutto quello che è successo, che poi dai libri di storia lo si sa ancora meglio.

Dunque, in quel momento subito dopo l’8 settembre si sono presentati come per incanto i partigiani. I partigiani con la stella rossa, con… non si può dire una divisa, ma quelli che avevano avuto la fortuna di avere delle divise militari. In quel momento si sono manifestati i partigiani. Si sono manifestate anche delle persone civili e si cominciava ad avere dei meeting, così detti, quella volta si diceva meeting. Naturalmente era un’insurrezione praticamente, io direi un’insurrezione.

Ma l’entusiasmo che la gente aveva, e non parliamo dei giovani poi, sapendo che i tedeschi ed i fascisti, nota bene là erano i civili che dirigevano il comune, le scuole ecc…, erano i fascisti italiani. A questo punto per me era incominciato il movimento di liberazione, anche se evidentemente preparato prima.

Da quel momento specialmente noi giovani con la direzione delle persone più preparate cominciavamo ad organizzarci per la resistenza. Resistenza erano anche le cose più piccole, più modeste, non resistenza solo quella di andare in montagna, di sparare, di avere dei collegamenti con i militari ecc… La resistenza era tutto ciò che poteva nuocere ai tedeschi occupatori. Ciò vuol dire che da quel momento anche una piccola informazione poi, diciamo così, operava come un tam-tam. Anche con i bambini più piccoli: dalle collinette si vedeva arrivare una colonna di tedeschi, nota bene che subito dopo l’8 settembre, dopo un momento di incertezza anche da parte dei tedeschi si erano manifestati i tedeschi, con la massima ferocia. Ho detto bene ferocia, giusto. Ecco, si erano manifestati.

Allora io ancora oggi mi domando come era nata questa spontaneità, questa spontaneità di tutti quanti. Tutti quanti. Non bisogna dimenticare che quella parte del Collio era di popolazione slovena, era ed è tuttora perché adesso è anche divisa dai confini: una parte è rimasta sotto l’Italia ed una parte è andata oggi come oggi alla Slovenia.

Dunque in questa maniera io ho cominciato con mia cugina, eravamo in casa giovani. Ho cominciato a collaborare in tutti i modi, in tutti i modi, facendo la staffetta, andando ad informare di tutto quello che si sapeva; tutto era collegato, eravamo collegati l’una all’altra, non c’era uno solo che lavorava. Io per esempio portavo qualche cosa ad una persona e sapevo che quella la portava avanti fino ai vertici che dovevano saper operare.

Questo era l’inizio.

In concreto sono stata presa così. Siccome ho detto che noi avevamo questa casa abbandonata, la mamma era abbastanza malata e c’era questa mia zia che la curava, di tanto in tanto si veniva a Trieste per vedere se la casa fosse aperta. Era una casetta, ancora adesso esiste la nostra casetta. Così venivo di tanto in tanto, ed avevo anche in queste occasioni da parte di queste organizzazioni giovanili il compito di portare quello che si poteva. Andavi in farmacia e se vedevi che ti davano di più garze le dovevi comprare, qualunque cosa poteva venire buona, anche noi in casa si facevano i biscotti, in casa, proprio in casa di mia cugina. Allora si faceva alla sera, magari andavano a dormire i genitori e noi si facevano i biscotti, il pane biscottato. Si faceva il pacco e si mandava su perché questo era per i partigiani feriti, per gli ospedali, organizzati come si poteva.

Per ritornare al punto concreto, come e quando, io sono venuta un giorno a Trieste, era circa prima della festa dei morti ad ottobre. Vengo a Trieste e nel mio rione con molta circospezione parlavo con i miei amichetti, amici di diciassette, diciotto, diciannove anni. Però pensavo che fosse quasi un mistero, invece anche qui era già tutto…

Difatti ho saputo che l’amico Attilio era andato con i partigiani. Poi mi rivolgo ad una amica, una certa Ninfa, che da poco tempo è anche morta; era impiegata al cantiere o alla fabbrica macchine, non saprei dire esattamente, comunque uno di questi due stabilimenti a Sant’Andrea. Lei era impiegata. Dico: “Sai, io dovrei portare qualche cosa, sono qui per casa, privatamente dico, ma dovrei portare quello che posso o devo racimolare qui, carta per ufficio, carta carbone, bende, garze, tutto quello che poteva servire diciamo ai partigiani, alle formazioni partigiane”.

Per lei non era un mistero, ho capito subito che già in fabbrica lavorava il movimento clandestino.

Allora ho detto: “Senti, tu, così che sei là, potresti procurarmi qualcosa di cancelleria?” Mi interessava. Ha detto che avrebbe fatto il possibile. Difatti la Ninfa mi ha portato non una risma completa ma una mezza risma di carta ciclostile che io, nota bene, sempre lo ripeto, non sapevo neanche che fosse carta ciclostile, dico la verità, non sapevo. Io d’altra parte mi ero procurata, pagando anche di tasca mia, della carta per dattilografia, carta semplice, quello che c’era.

In poche parole io avevo in una sporta questo materiale, parte comperato, parte ricevuto da Ninfa, carta ciclostile. Poi c’erano delle bende, della tintura di iodio.

Ecco, io avevo nella sporta tutte queste cose; sapevamo da noi che dovevamo portare, fare qualcosa per il movimento.

In quest’occasione voglio ribadire anche questo: non era solamente che ti davano un ordine perché tu facevi parte di quell’organizzazione o come volevi dirla, ma era veramente che sentivamo in blocco, in massa, di lavorare. Lo ribadisco sempre più di ogni cosa; poi certamente altri avevano anche compiti molto più impegnativi, compiti di direzione, come vorrei dire, ma eravamo tutti compatti. Perciò io dico la verità, non ero un eroe ma facevo parte di quella massa, di quel mosaico, potrei dire un mosaico di quello che era tutto contro il nazifascismo. Ed io questo ribadisco, e sottolineo, contro il nazifascismo.

Ritornando da Trieste quel giorno mi ero fermata con la mamma, perché la mamma era molto malata quella volta, mi sono fermata a Cormons perché là c’era la stazione ferroviaria, poi si prendeva la strada a piedi per andare verso il Collio. Per Cormons mancavano ancora forse uno o due chilometri, si poteva andare, era popolata, dopo di che c’erano già le tabelle “Achtung Banditen”, non so se ci fosse qualche parola in più, non mi ricordo, ma questo “Achtung Banditen”, la zona dei banditi. Anche qua li si chiamava o ribelli o banditi, no? Ma adoperavamo molto anche la parola “ribelli”, i ribelli partigiani.

Ecco, in quel momento c’era una pattuglia di SS e mi ci sono imbattuta, non solo io, ma tutti quelli che andavamo verso quella zona, ed eravamo diverse persone, anche del Collio. La cittadina dove andavano a comperare qualcosa era Cormons, nella parte sud occidentale del Collio. Là era una zona molto ben organizzata, e c’era una zona anche di operazione, là si combatteva o si facevano operazioni militaresche, non so come dire, sempre partigiane, anche tra i partigiani italiani ed i partigiani garibaldini. Era un incontro molto ben riuscito e con una collaborazione ottima direi. Ma a questo anche dai libri di storia del movimento si può risalire.

Bene, niente; a questo punto ci portano tutti in caserma, in una piccola caserma a Cormons, dei carabinieri, e questo ci tengo a dirlo: ci rinchiudono, ci consegnano ai carabinieri, ci hanno richiuso, a me ed alla mamma ci hanno separate con la raccomandazione ai carabinieri di non aprirci e di non metterci in contatto. Però tengo a dire che i carabinieri appena erano usciti i tedeschi delle SS avevano chiuso dietro la porta e ci avevano lasciati liberi. Bisogna dire la verità, eravamo in sette persone, se qualcuno suonava andavano a vedere e ci rinchiudevano. Questo lo devo dire anche ad onore della nostra gente italiana, era evidente che a loro i tedeschi non piacevano. Questo tengo a dirlo, sì.

Niente, mi sembra che era una settimana circa in cella dei carabinieri, invece il bello venne dopo, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo state rinchiuse: una vera prigione, c’erano molte e molte persone, molte specialmente ragazze sempre dei dintorni della parte goriziana, e là la prima cosa è l’interrogatorio.

L’interrogatorio era con un interprete sloveno-italiano, e devo dire tutto quello che mi è successo. Loro volevano a tutti i costi sapere per chi lavorassimo. Facevo finta, cascavo dalle nuvole, dicevo di non lavorar per nessuno, e naturalmente tiravo fuori, come era vero, anche la storia anche della mia famiglia, come siamo dovuti venire via e avanti. Tiravo fuori la questione che non esisteva più il comune, ma che c’era il prete. In questa maniera io giustificavo che questo materiale che ho, in fondo in fondo fosse per la parrocchia perché non esisteva più il comune. Ad un certo punto l’avranno anche creduto, ma quando era venuta fuori la questione del ciclostile quella me l’hanno sbattuta in faccia.

Ma io torno a ripetere, non avevo pensato, non sapevo neanche, quando la Ninfa mi portò questo ciclostile; c’erano delle gomme mi sembra ed anche delle matite se non mi sbaglio, quello che aveva potuto arraffare, diciamo così. Me l’hanno sbattuto in faccia: “Ma questo tu lo sai, tu lo sai questo, sai che c’è la propaganda, noi sappiamo tutto”. Allora cominciavano a terrorizzarmi: “Noi sappiamo tutto di te, delle famiglie”. “Ma sì, va bene, sapete tutto e so che sapete”. Insomma, mi arrangiavo abbastanza a cercare di giustificarmi più o meno, ma sempre così, con questa del prete che fa ridere anche adesso, dico ma come è che mi è venuta in testa quella del prete? Il prete era anche per noi quel prete che era lassù.

A questo punto mi hanno dato uno schiaffo. Casco da una parte, ritorno su e me ne danno un altro. Questi erano i due schiaffoni che ho ricevuto, che mi hanno fatto…

D: Scusa Ada, quando è accaduto questo?

R: Questo è accaduto gli ultimi giorni di ottobre. Gli ultimi giorni di ottobre, primi di novembre, adesso…

D: Di che anno?

R: ’44. Ecco, ho fatto un paio di giorni nelle carceri di Gorizia, la mamma fortunatamente l’avevano lasciata fuori: mia madre stava appena in piedi, era abbattuta dalla morte di mio padre, ma poi anche… è stata una fortuna che se la sia ripresa questa mia zia.

La mamma l’avevano lasciata fuori, poi i parenti mi avevano contattato: c’era un’infinità di parenti che venivano a portare qualcosa da mangiare, che poi ci portavano le suore, e così avanti. Ma il 1. novembre, no il 2 novembre, al 6 siamo arrivati in Germania, non mi ricordo esattamente se era il 2 o il 3, comunque alla sera venne una suora nella stanza, nella cella che era abbastanza grande, con una lista e disse: “Per domani mattina preparatevi, queste partono”. Ero anche io con queste.

Naturalmente noi eravamo convinte di andare a lavorare, in una fabbrica, non saranno le baracche. Si sapeva che c’erano le baracche dei civili che lavoravano, e questa per noi era già la prigionia, diciamo così, se vogliamo dirlo.

Mai e poi mai avremmo potuto immaginare qualcosa di più tremendo. Tutte quante, ognuna come poteva, aveva qualcosa di caldo, di indumenti caldi, tutti cercavano in qualche modo i genitori, i familiari, e tutti avevamo la nostra valigia. Mi ricordo un vestito caldo di mia madre e l’ultimo momento prima di andare fuori dalla cella mia mamma si era presa dalla mano un anello di fidanzamento di mio padre e me l’aveva dato, dicendo: “Non si sa mai”. Probabilmente lei aveva più esperienze ed ha pensato che con un pezzetto d’oro… Ecco, mi aveva dato quell’anellino. Io di oro avevo solamente quell’anellino che mi aveva dato la mamma all’ultimo momento e gli orecchini che avevo da bambina; addosso non avevo altro perché non ne avevamo, per dire la verità.

Siamo partiti. Io sono partita da Gorizia con il carro merci, prima su un torpedone militare mi sembra fino alla stazione e poi con il carro merci, carro bestiame. Ci siamo collegati, ci siamo incontrati con il carro che veniva da Trieste. Ma noi del goriziano eravamo nel nostro carro, erano due questi carri.

Così al 6 dicembre, dopo peripezie, quattro giorni di viaggio tra fermate, poi ci hanno dato… Qua ancora erano un pochino questi che ci accompagnavano, che poi c’erano questi delle Brigate Nere, italiani, che ci accompagnavano. Ci hanno fatto anche scendere mi sembra ad Udine, c’era un bar, non so se era della stazione, non mi ricordo più esattamente. Ci hanno dato un the o qualcosa.

Poi ci si doveva fermare perché c’erano i bombardamenti durante il tragitto, e so che ci si fermava su dei binari morti, e là si aspettava quando davano loro il via per proseguire.

Fino a là penso che ci fosse ancora un po’ di speranza di arrivare ad una meta, non certamente al paradiso ma almeno…

Quando siamo arrivati verso sera, all’imbrunire, davanti all’ingresso di Ravensbrück era terrificante, in una parola. In quel momento c’è caduto tutto il morale, quelle speranze che solo i giovani possono avere, quell’ottimismo che solo i giovani possono avere, che non vedono, non vedono il pericolo e la bruttura, tanta bruttura davanti.

In quel momento era finito tutto.

Allora ci hanno fatto entrare e scendere con i nostri bagagli, con le nostre valigie, ci hanno fatto scendere, ci hanno fatto entrare dentro in questo Lager, era sull’imbrunire, non era ancora notte completa. Tutto nero, grigio. Difatti io non ricordo del Lager i colori. Il nero, il grigio, il grigio ed il nero. Anche per il fatto che lì anche il cielo era grigio perché era inverno, dunque questo è il colore, come quei vecchi film neri.

Non ci hanno fatto entrare in una baracca bensì in una tenda. Questa tenda che qualcuno chiama la “tenda nera”, io questa non la potrei definire perché non ho visto se era nera, se era quella di cui parlano, però era una tenda, perché si vedeva che non avevano baracche e roba a disposizione.

Là in quel momento, in quella notte abbiamo capito che non c’era più speranza di avere né gli indumenti né il nostro mangiare: avevamo tutte qualche barattolo di marmellata, tutto quello che si poteva avere anche durante il tempo della guerra.

Quella notte abbiamo cominciato ad aprire e mangiare tutto quello che si aveva, un po’a sonnecchiare là per terra; qualcuno ha buttato questi barattoli, ha buttato oltre perché vedevamo. Io penso, questo è un mio pensiero, che l’impatto fosse ancora migliore di quello che abbiamo visto dopo. Così si è anche buttato qualche barattolo, e c’era qualcuna che poi li raccoglieva. Abbiamo capito, diciamo.

Io dico per me, ma penso che più o meno sia uguale, da quel momento ho capito che bisognava solo subire. E a chi parla di ribellarsi non credo. Io non credo, almeno in quelle condizioni verso dicembre, arrivata su, in ottobre.

Alla mattina, non so se è il caso che ritorno a raccontare la solita cosa perché era il solito sistema, ti spogliavano tutta, ti rasavano, ti tosavano i capelli. A me no, avevo i capelli corti e non mi hanno… Specialmente si divertivano se avevi trecce, capelli belli. Poi c’era qualcuna che veniva dalle prigioni ed aveva i pidocchi. Loro sempre in nome della pulizia… A me non mi hanno tagliato, li avevo anche corti io, mi ricordo molto bene.

Niente, la solita vestizione, ti spogliavano tutta, passavi in lunghe file, era un triste defilè. Io a diciotto anni non avevo mai visto una donna nuda, mai: in casa no e fuori tanto meno, dunque non sapevo neanche, tranne il mio corpo, non conoscevo i corpi, perché c’era un pudore, erano i periodi del pudore che voi sapete, almeno per quel che non c’era come adesso, è inutile parlarne. Perciò eravamo molto… ogni donna si copriva, in quel momento non c’erano più… Passavi, era un triste defilè infernale.

Passavi con le mani, avevi le braccia alzate, ti guardavano sotto le ascelle, ti rasavano e ti guardavano evidentemente se avevi anche qualche bestia. Ti trovavi completamente nuda. Poi c’erano anche degli uomini, non c’erano solo le donne, quando ero io c’erano tre o quattro uomini seduti su una panca e passavi, questi me li ricordo. Parlo sempre del caso mio e per tutte quelle che erano quella volta con me. Quella volta erano le donne che ti guardavano con una specie di una familiarità falsa, diciamo così, e ti toglievano quello che di oro avevi addosso. Io avevo, come dico, questi due orecchini piccoli che penso fossero della Cresima, proprio piccoli orecchini, e l’anello della mamma. Questo me l’avevano tolto. Se qualcuna aveva di più insomma…

Passavi in questa famosa stanza delle docce, che era come una palestra grande, rustica, con tante docce. Passavi, ti facevano la doccia, tornavi fuori da una parte e ti consegnavano un asciugamano ruvido, grigiastro, e quello che capitava di vestire.

Io e questo nostro gruppo non avevamo più rigato, perché evidentemente non avevano più i vestiti, allora ci davano dei vestiti civili conciati in maniera peggiore di quelli rigati. Se volete vi dico anche come era.

Io avevo ricevuto un paio di mutandoni, una sottoveste, i calzettoni mi avevano lasciato i miei, quando ero partita avevo un paio di calzettoni di lana, quindi me li avevano lasciati. Non mi ricordo i particolari ma questi erano i miei. Mi avevano dato un paio di scarpe trovate là, alla rinfusa, di due numeri più grandi, non gli zoccoli ma un paio di scarpe.

Poi mi avevano dato un vestitino di cotone verdino di velluto rigato, con davanti e dietro una X fatta con la vernice, perciò indelebile. Sopra un cappottino blu ritagliata la schiena ed inserita una stoffetta molto leggera verdina, che non aveva niente a che fare con questo cappottino, e davanti la stessa cosa. Sul davanti inserita anche questa stessa. Perciò eri uno spaventapasseri e ti vedevano a mille miglia, per cui era bloccato dappertutto. A parte che poi per quanto riguarda le fughe, neanche a sognarsi.

Questo era il primo impatto.

Ma il terribile era, ma questo l’ho pensato dopo, come mai in un’Europa poteva esistere, in mezzo all’Europa, un pianeta infernale? Come mai nessuno ha fatto niente, non so, russi ed americani, tutti con i loro servizi, non parliamo anche dei servizi segreti? Poi oggi si conoscono molte cose, si sa anche quanti contatti segreti tra di loro, chi, dico io. Era un pianeta infernale.

Questo posso dire in una parola, e non si può dire altrimenti, come era tutta questa organizzazione, con questi grandi pianeti e con questi piccoli satelliti attorno.

Non c’era meglio o peggio, il sistema era uguale dappertutto per quanto riguarda i campi di sterminio. Poi c’erano quelli di lavoro, erano migliori perché almeno potevano andare fuori, avevano lo stesso un rapporto più civile. Ma parliamo di questi.

Per ciò dico questa era la situazione.

Poi ormai anche era la fine del ’44, naturalmente c’erano sempre anche gli eventi bellici, venivano avanti, di conseguenza cominciava a mancare la luce, e poi non sapevano più cosa fare con questi, questi che man mano venivano eliminati, ma era sempre pieno, sempre pieno, sempre pieno.

Allora, per farla breve, a Ravensbrück non c’era più un letto, un giaciglio per persona, non esisteva più un giaciglio perché erano tre giacigli, non due, a castello, ma tre uno vicino all’altro, ce n’erano tre, tre e tre, in ogni giaciglio eravamo in tre persone.

Quando sono venuta io, io e questo mio gruppo, perché non ero singola, non mi ricordo il numero della baracca …. Dico che delle cose potevi portartele dietro e non le ho portate. 92.000 e rotti, questo mi ricordo.

Dico, eravamo in tre e ci eravamo messe così come si poteva, una di piedi… Ma vestite come eravamo. Alla mattina quando c’era il primo non si sapeva se erano le tre, le quattro, la mattina alle cinque, chi sapeva l’ora? “Raus, Aufstehen, Los…” tre parole malefiche che ci hanno accompagnato fino alla fine dei Lager.

“Aufstehen, Los e Raus”. Fuori, svelto, alzarsi. Quella mattina ci siamo alzate, ci siamo scaraventate giù da queste… come eravamo, sotto di me c’era un’ebrea, so che penzolava, alla sera ha parlato ha parlato ancora con me, mi chiedeva da dove venivo, non so se era tedesca, non era italiana, mi sembra. Alla mattina io scendo dal letto e vedo questa gamba e questo braccio tumefatto, tutto blu: era morta.

Scendevamo, ma non era il tempo… Non mi dice nessuno che era il tempo di avere pietà perché dovevi fuggire, fuggire sempre, continuamente fuggire. Tu dovevi sempre… Almeno c’erano dei momenti che non era il tempo, tu non potevi… “Fuori”, “Raus, Raus, Schnell, Raus…” Si andava in quei gabinetti; il gabinetto e la brodaglia che ti portavano aveva tutto un odore nauseante, tutto lo stesso odore. Perché una cosa mi ricordo, io sono molto … agli odori, più che una sensibilità agli odori. Mi ricordo di quegli odori. Era come una cosa nauseante, non so, una cosa nauseante. Dopo ti abitui a tutto, naturalmente.

Questo era il primo impatto con il Lager di Ravensbrück.

Dopo per farla breve, queste ultime arrivate naturalmente all’appello … Lo sapete già, tutte hanno raccontato la solita storia: davanti c’era l’Appellplatz e tutte per cinque incolonnate, due per cinque, tutte ferme come mummie quando venivano a fare la conta ecc…

Dopo quelle che erano prima e sapevano già dove andare, noi che eravamo le ultime si aspettava sempre di essere mandate ad un lavoro. Venivano, sceglievano, ti potevano mandare a portare via i morti, ti potevano mandare alle cucine a pulire, ti potevano mandare…

Noi ci mandavano, facevano un gruppo, c’erano le russe anche, ci mandavano fuori dal Lager in una specie di palude direi io, questa terra grigia paludosa, non ho mai capito perché ci facessero mettere questa terra con le pale nella carriola e portarla in un altro posto. Io non ho mai capito.

Dopo un po’ di tempo siamo alla mattina, sempre in attesa dopo l’appello di essere mandate a qualche lavoro, dovevi stare là.

Vediamo capitare una delle Ausirke, “Ausirke sarebbero le ausiliarie, le SS che erano nuove nei campi, con una nuova Ausirka. Vediamo arrivare verso la nostra colonna dove eravamo in attesa, ancora là, sempre ancora incolonnate per cinque. Si fermano davanti a noi, guardano, parlottano un po’ ed incominciano a selezionare all’inverso, a tirare fuori le meglio diciamo, perché era evidente che se… E tirano fuori di queste nostre triestine un dieci, ed un altro sette circa russe o francesi, non so.

Abbiamo capito, siamo andate di nuovo a farci la doccia naturalmente per disinfettarci, ci hanno dato però quegli stessi abiti, solo disinfettati. Ci hanno dato un pezzo di pane, qualcosa, un po’ di margarina, quelle cose che usavano là, un pezzetto di una specie di salame. Siamo andati ed iniziavano il trasporto, Transport.

A questo punto non sapevamo niente ma eravamo come intontite, non avevamo neanche la voglia di parlare, di fare delle congetture, niente. Con questa nuova Ausirka che era una bestia siamo andate alla stazione di Ravensbrück e di là abbiamo attraversato Berlino, questo mi ricordo, naturalmente era tutto abbrunito perché era il coprifuoco. Quello mi ricordo, che era Berlino, ma se…

Verso le nove di sera, penso, siamo entrati in questo Lager, Arbeitlager, di Belzig. Ritornata a casa, perché non sapevo dove ero, guardando ben bene la carta geografica, anzi una carta geografica più locale, più topografica che geografica perché era un paesino in una cittadina, poi l’ho individuata anche tre anni fa quando ero a Berlino ed a Ravensbrück. Insomma, abbiamo attraversato questo paesino di Belzig e fuori dal paese c’era il Lager. Questo Lager era una miniatura diciamo dei Lager, una miniatura.

Nonostante le torrette, il fil di ferro, i cani e le baracche non i numeri e tutto, nonostante tutto ci parve un paradiso. Perché era almeno.. i letti a castello, ma almeno ognuna aveva questo letto. E poi il paradosso di questo loro sistema, da una parte eri… vorrei dire una parola, lo dico, eri proprio niente, anzi più che niente, eri un rifiuto per non dire un’altra parola; d’altra parte volevano pulizia, ordine. Di fatti in queste Stube c’erano questi letti, una ventina penso che eravamo in quella Stube. C’erano questi letti, ognuno, due a due. C’era un gancio anche dove dovevi appendere i tuoi vestiti. Questo pagliericcio, perché avevi una coperta sotto ed una sopra, non lenzuola, una copertina sotto e sopra, però doveva essere perfettamente come nelle caserme quando…

A questo punto ci parve veramente molto meglio. Però la solita solfa. A quell’ora ti portavano… e dopo c’era la questione di andare in fabbrica.

Si lavorava quella volta ancora in piena produzione direi, la fabbrica era un due chilometri fuori dalla baracca, a piedi, dentro in bosco, non la vedevi perché c’erano pini, abeti ecc…

Poi ti facevano la sistemazione quando e come e cominciavi a lavorare. Nove giorni consecutivi, nove giorni, non dico sei o sette come… nove, poi due giorni di riposo, questi sì, due giorni di riposo per così dire. Nove giorni tu lavoravi, la fabbrica lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, con mezzora di pausa quando c’era il cambio dei turni, a mezzanotte ed a mezzogiorno.

Lavoravi in piedi dodici ore, mezzora di pausa, in quella mezzora ti davano quel mangiare. Dove eravamo noi in questa fabbrica c’era una specie di veranda, dove c’era questo refettorio, diciamo così, mezzora e poi riprendevi a lavorare. Questo per i primi tempi, fino a che andava la produzione.

Poi naturalmente pian piano anche il lavoro si era ridotto, non si lavorava più dodici ore ma si lavorava otto o nove ore, perché si vede che ormai l’elettricità mancava e così avanti.

Però io in questo frattempo, dico in questo Lager in miniatura, ho avuto tutto quello che si può avere da un Lager. Io arrivo da Ravensbrück a Belzig e mi porto il microbo, il virus del tifo. Quando sono all’appello un giorno cado svenuta. Le nostre ragazze naturalmente pensando che si potesse fare tutto: mi tirano su, viene la Ausirka o la Blockowa a farmi tutto, mi tirano su e mi portano in Revier, perché c’era il Revier, la cosiddetta baracca ospedale. La chiamavano Revier, non so.

La prima cosa hanno avuto subito, perché erano accorti questi diavoli, hanno avuto il sospetto che si trattava, visto che siamo venute da Ravensbrück, di qualche cosa di contagioso. Perché? Nota bene, non per me o per gli altri, ma per la fabbrica. Noi eravamo state portate lì per andare a lavorare in fabbrica.

Allora a questo punto mi portano in questo Revier, là c’era una dottoressa russa, prigioniera di guerra. Lei era proprio prigioniera di guerra, ma poi portata in questo campo, era un medico militare, così mi raccontava. Conoscendo lo sloveno potevo comunicare abbastanza bene, sai, si era anche giovani, è più facile recepire, diciamo così, e si poteva abbastanza bene comunicare, abbastanza dico.

Così mi raccontava che era stata prigioniera di guerra sul fronte, poi non so perché era arrivata qua.

Febbre, febbre, mi hanno messo in una stanzetta separata, subito isolata, immediatamente, e vedevo questo comandante, nel Lager c’era il comandante, quella stessa che era venuta a prendere il gruppo di cui facevo parte io. C’era il comandante e vedevo il comandante venire su. Allora ho capito nella mia febbre, ma i primi giorni non ho capito niente, poi … vi era questa dottoressa russa, e… un momento non ho capito niente, ma ho capito che si trattava di tifo.

Poi ad un certo momento viene un dottore da un altro Lager, uno grande, mi hanno detto anche il nome ma non lo ricordo. Allora so che per prima cosa mi hanno tagliato i capelli. Là sì che mi hanno tosato. Poi mi hanno guardato, molto mi guardavano sull’addome e sul torace, parlottavano e non capivo.

Comunque era appurato che si trattava di tifo petecchiale. Perciò io ero rimasta isolata, ma in questo caso che non tutti i mali vengono per nuocere; anche il mio blocco dove erano le ragazze che andavano a lavorare era rimasto in quarantena. La quarantena non era di quaranta giorni, era un periodo. Erano chiuse dentro, portavano loro anche il mangiare, glielo mettevano davanti alla porta e poi le richiudevano, non dovevano uscire.

Questo mi raccontavano poi le ragazze, tra l’altro dicevano: “Non so se ce la farà, chi andrà a dirlo a sua madre?” Questo mi raccontavano dopo, erano già preparate che qualcuno lo dovesse andare a dire a mia madre.

Come vedete io sono qui ancora, perciò il diavolo non mi vuole, Dio non mi vuole, fino a che non mi vuole. Così devo anche ridere perché bisogna metterla anche un po’ su questo piano.

Ecco, questa è in sintesi la mia storia personale.

D: Ada, scusa, … cosa costruivate? Che fabbrica era?

R: Questa fabbrica era di munizioni, e per quel che ho capito, e per quel che facevo io proprio, erano dei missili contraerei, dei proiettili; erano lunghi circa una ventina di centimetri. Per quello che mi avevano detto, di cui si parlava, io ero proprio nel reparto dove si faceva l’ultima fase: prima veniva messo dentro in un sacchettino di seta del piombo, che era tutto a nastro. Erano ben organizzati quei diavoli, sì. Poi venivano portati ad un altro tavolo, questi li rinchiudevano con un anello, con un tappo di metallo, poi passavano al mio tavolo dove eravamo non so, mi sembra che fossimo otto ragazze, con le cassette, perché erano inseriti nelle cassette questi proiettili, e noi mettevamo l’ultimo, diciamo si metteva l’ultima vite di questo proiettile. Poi a questo punto andava invece ad un altro tavolo dove c’era sulla parete elettricamente collegata l’ultima chiusura ermetica di questo tappo.

Ecco un altro piccolo episodio che vi posso dire, che poi di episodi ce ne sono stati tanti in questo frattempo. Verso gli ultimi, verso diciamo il 6 marzo, io ero già rientrata in fabbrica dopo il tifo, nota bene con la testa pelata e con la pancia come un barile, gialla, ero gialla. Tanto è vero che quella che faceva la capo reparto era una civile, con il vestito bianco, la vestaglia bianca, era come una mummia questa donna. Non so se le facevamo compassione o no, però era sempre in un certo qual modo controllata dalla Ausirka, perché le Ausirke venivano dentro improvvisamente, noi eravamo sotto il controllo delle Ausirke del campo.

Per la fabbrica invece era questa civile, questa donna, una bionda, mi ricordo. Aveva chiesto se ero incinta. Dunque voi capite che pancia dovevo avere, perché sapete, questo è già stato detto, che per prima cosa cessavano le mestruazioni in Lager, e naturalmente anche questa era una anomalia che senza dubbio aveva i suoi effetti.

Adesso con il tifo, senza mestruazioni, una ragazzina di diciotto anni non so se proprio può essere… Comunque una pancia gonfia, la testa pelata, e con quel vestito di spaventapasseri.

Adesso non mi fa ridere, o mi fa ridere per non piangere.

Questa civile aveva domandato perché forse pensava chissà… io dopo ho pensato, forse era così, per curiosità, o forse mi avrebbe alleggerito dal portare quella cassetta, perché dovevamo noi portare le cassette. Questo è un mio pensiero.

Ad ogni modo verso la fine della guerra, verso marzo, aprile, anche la tensione elettrica diminuiva. Al momento si aveva meno elettricità, ed un giorno quando avevamo portato queste famose cassette per farle chiudere dall’elettricità, … mettevano, inserivano in queste buche, elettricamente. Però non era finita, perché alla fine veniva l’Ausirka e dava con una specie di gomma, qualcosa così, e dava un colpo su queste cassette di proiettili. Quel giorno erano cadute tante capsule, le ultime.

Non fosse mai stato. Allora si gridava subito che c’è sabotaggio, sabotaggio… e così avanti. Noi eravamo già mezze morte, probabilmente sabotaggio non ce n’era, perché tutti facevamo il nostro, era l’elettricità stessa che non aveva la forza di chiudere bene.

Comunque quel giorno, tanto per dire le cose che facevano, io parlo di me perché poi più o meno c’era… Quel giorno tutto il nostro reparto andava verso il Lager dove ci davano, tutto sommato ci spettava, quel pezzetto di pane, per tanto o poco che era, era l’unica risorsa che si aveva; con le Kübel ci portavano il mangiare dal Lager, e alla sera dovevamo noi stesse prigioniere portarle.

C’era quel fuggi fuggi per mettersi per cinque, quella che rimaneva fuori doveva portare le Kübel. Non potevo camminare neanche io, le Kübel in due si portavano, se c’erano i manici. Mi ricordo che c’era una belga e toccava a noi due. Quella donna ha trascinato la Kübel ed anche me. Erano circa due chilometri per arrivare in fabbrica, non era dietro l’angolo.

Arriviamo in questo benedetto Lager, sempre con il cane, accompagnate con i cani e con le guardie con i fucili. Arriviamo in Lager, pensavamo che poi ci avrebbero dato quella brodaglia. Davanti al Bunker, c’era un Bunker, lo chiamavo così ma dentro c’erano anche le casse di morto, forse era un Bunker per le Ausirke nel caso di bombardamenti. Era un Bunker sotto terra.

Era ancora chiaro quando siamo venute; a distanza di qualche metro dovevamo stare in piedi, le altre erano rientrate nelle baracche. Noi non so dove prendevamo la forza, prendevamo la forza finché c’era la forza, poi si cadeva per terra, non c’era altro.

Ad un certo momento avevano aperto il Bunker, ecco che dentro il Bunker … Quel giorno, senza mangiare, dentro nel Bunker c’era una fila di casse di morto, perché se una moriva ti mettevano là accovacciate perché non avevano il posto neanche per sdraiarsi per terra, accovacciate, aspettando la mattina dopo di andare in fabbrica di nuovo.

A pranzo, guarda mi pare impossibile, qualche volta sembra di dire bugie, a te stesso sembra di dire bugie, e queste cose non le si fa volentieri, ragazzi. Questi ricordi sono come tante… oggi siamo vecchi e siamo molto più sensibili. Prendete un ragazzo di venti anni e prendete una donna di settanta, settantacinque anni.

A questo punto torniamo in fabbrica, andiamo a lavorare ed all’ora di pranzo pensavamo di andare a mangiare questa brodaglia. Davanti ho detto che c’era una specie di veranda a vetrate, fuori davanti alla veranda di nuovo in piedi senza mangiare. Non so come, passata la mezzora, il cosiddetto rancio, di nuovo in fabbrica.

Arriviamo alla sera a casa, diciamo casa, nel Lager, di nuovo niente. Niente perché eravamo tacitate di sabotaggio. Niente.

Mi ricordo che c’era la mia amica Margi che adesso purtroppo sta molto male, lei si dava da fare per quello che poteva, ed aveva fatto una cosa, almeno per me, non mi ricordo per le altre, parlo per me in questo momento, era andata da una certa Desi, era una slovena che faceva la cuoca, ed era andata a pregarla: “Ti prego Desi almeno un pezzettino di pane perché guarda, è così”. E questa Desi nonostante tutte quelle che lavoravano in questo o nel magazzino del vestiario, o nelle cucine, tra loro si aiutavano, magari prendevano un pezzo di benda. Insomma questa Margi mi aveva tramite questa Desi procurato una fetta di pane. Quel pane nero. Quella sera ho mangiato. Questo dico per me, non so le altre come si erano… Perché non erano tutte della mia stessa baracca.

Questa era una delle cose particolari, diciamo.

D: Scusa Ada, ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: No, no, me lo hanno già chiesto, non ricordo. Però non è certo una cosa segreta. Era a Belzig, la fabbrica era a due chilometri in un bosco, questa fabbrica di munizioni.

D: Dicevi che c’erano anche dei civili.

R: C’erano anche dei civili perché a Belzig c’era un accampamento, non saprei come dire, una baraccopoli, non mi ricordo quante erano le baracche, e vicino al nostro, noi eravamo chiuse, c’erano dei civili, sì. Questo lo dico, non dovrebbe essere molto difficile, penso che qualcuno abbia questo nome, era a Belzig, questo sicuro.

D: E lì sei rimasta quanto, Ada?

R: Lì siamo rimasti fino all’evacuazione. Dopo la fabbrica però ha cessato di operare. La fabbrica ha cessato di operare quando cominciavano i bombardamenti. Allora in quel momento noi non siamo… era aprile, non siamo andati più in fabbrica. Ed anche il comportamento delle Ausirke stesse non era, sarebbe assurdo, affabile. Allora ci portavano prima di tutto a pulire le baracche, a mettere fuori i pagliericci di trucioli. Ci facevano portare fuori tutte queste robe. Ci facevano fare delle aiuole, capirai, delle aiuole in questa… Ci facevano andare fuori. Là cominciavamo ad andare per la prima volta fuori dal Lager, sempre incolonnate, di giorno, ma non più in fabbrica. Lungo la ferrovia c’era anche il bosco dove raccogliere delle stecche, del legname. Lavori così.

D: Lì sei rimasta fino all’evacuazione: quando è avvenuta?

R: Il momento cruciale che anche i tedeschi l’avevano capito, ormai si sentivano già le voci; c’erano certe prigioniere che cominciavano ad andare, sempre accompagnate e non libere, a prendere, per esempio la Margi questa mia amica, era andata una volta con il carro a prendere il pane fuori. Si vede che l’avevano fatto in qualche forno, non so. Mi diceva, io non sono mai stata fuori ma lei sì. Già tra queste prigioniere si sentivano le voci, poi c’erano quelle della cucina che avevano la possibilità di… sentivano…, poi si sentiva il rombo dei cannoni, si sentiva, si diceva: sono i russi. I russi venivano da questa parte.

Allora verso il 23 aprile cominciava ad esserci allarme, proprio l’allarme per i tedeschi stessi; sapevano che ormai non c’era più via di scampo. Si cominciava a vedere un certo trambusto. Si incominciava a vedere qualcuna che andava via con la valigia, si cominciava a vedere… Sì, solo una mi sembra che era andata via, poi si diceva… Poi c’erano le voci: mi sembra che è malata e queste cose.

Ad un certo punto però avevamo visto che dalle baracche, le loro abitazioni diciamo, si cominciava a portare via bauli, cesti e roba. Allora avevamo capito che l’ora era scoccata.

Ad un certo momento non c’erano più le Ausirke nel campo, e neanche in cucina c’erano più. Ad un certo momento capirai fame, ma cosa si poteva avere, se si poteva trovare un pezzo di pane o qualche patata, o qualche rapa, e questo era tutto.

Allora vedendo questo movimento da parte delle Ausirke, specialmente le russe erano corse in cucina a prendere qualcosa. C’era una russa, una ragazzina, avrà avuto vent’anni sì e no, che anche lei era corsa assieme alle altre. In quel momento il comandante si era reso conto che bisognava riprendere le redini, che non era il caso di arrendersi, capirai! Allora te lo vedi capitare nel Lager con la pistola in pugno, sparare per aria come un matto, come un matto, e queste ragazze che correvano via dalle cucine! Allora vedi, questa ragazzina correva con le due patate, questo non l’ho scritto nel diario, era passata davanti a me ed alle altre e lui correva dietro alla ragazzina, perché lei non era… Chissà, teneva queste due patate, forse non le aveva lasciate di mano. Lui era venuto in baracca, lei si era buttata sotto il lettino e lui le aveva sparato in testa, sotto la baracca. Queste due patate… erano scivolate per terra, e questo rivolo di sangue… avrà avuto vent’anni.

Queste sono le cose… eravamo impietrite a guardare, impietrite. Non c’era reazione, non c’era reazione, perché non avevi la forza di reagire, la forza fisica, e avevi il terrore. Questo è proprio il lato cruento che io ho visto con i miei occhi. Non parlo di quelle che dicevano ho visto questo e quell’altro, non mi piace parlare di quello che hanno visto gli altri, non mi piace, perché ognuno racconta la sua storia. Qualcuno dice anche quella degli altri, ma era talmente tutto in un certo qual modo di tutti e di una, le une di tutte, capisci?

Questo l’ho visto io, e parlo di quello che ho visto io. Basta.

Poi, come ho detto, siamo andate via incolonnate sempre per cinque.

D: Ada, scusa, accennavi al diario.

R: Sì, accennavo al diario.

D: Ma tu l’hai trovato questo diario?

R: Questo Tagebuch, cioè “diario” in tedesco, io l’ho trovato fuori dal Lager. Non so esattamente dove, c’erano tante di quelle cose buttate, qualcuno l’avrà buttato o qualcuno avrà rovistato in qualche casa, sai come è, tutto era ormai allo sfacelo.

Io non so esattamente, in qualche posto l’ho trovato, non mi ricordo. L’ho trovato nuovo. Non c’era scritto niente, era nuovo. Era nuovo perfettamente. Poi ho scritto qui, si vede anche la prima.. Io ho scritto qua il mio nome e cognome con il mio indirizzo di una volta. Era nuovo perfettamente, non era per niente scritto. Doveva essere di qualche studente, ragazzino, non so di chi poteva essere questa roba qua. Non so. Era comunque vergine, assolutamente non toccato.

Io però questi ultimi giorni che avevo fatto quel piccolo… lo avevo fatto nel Lager stesso perché ormai eravamo là. L’avevo fatto su una carta che poi non so neanche chi mi avesse dato questo pezzo di matita, perché c’era un pezzo di matita. Poi ci si arrangiava, qualcuno ti dava… Ti arrangiavi anche per avere qualche ago, qualcosa del genere. Non so neanche chi mi avesse dato quel pezzo di matita. Mi ricordo che era un pezzetto di matita, e l’avevo scritto su questa carta che noi avevamo presa da dei sacchi di carta che si usavano anche nella fabbrica, grezza così.

Però torno a ripetere, invece di portare nell’originale io l’avevo da diligente, mi sembrava più bello metterle così, e l’avevo ricopiato nei giorni subito dopo l’evacuazione, non a casa, intendiamoci.

Allora io l’ho riscritto il 23 aprile ’45, poi il 24 aprile, poi il 25 e poi finisce il 26 aprile. “Questa mattina ci viene detto che siamo passati sotto la Croce Rossa Internazionale”. Non siamo passati subito sotto gli inglesi…Te lo leggo dal giorno 23, quel giorno che si cominciava… E’ una cosa molto puerile, ragazzi! Come ero anche io al tempo. Posso leggerlo?

D: Certo.

R: “Già da giorni, questo è il 23 aprile del ’45, non si lavora più. Imminente si aspetta l’avanzamento in Belzig dei russi o anglo-americani. Tutti siamo in uno stato d’animo ansioso e nervoso. Noi prigionieri siamo esausti dalla fame, abbiamo mangiato soltanto mezzo litro di zuppa, ossia acqua calda, il giorno precedente, senza una briciola di pane. Guardandoci in viso ci vediamo ombre, scheletri, non più un corpo di donna.

Eppure oggi brillano i nostri occhi, un’insolita luce di contentezza. Siamo certe di essere presto alla fine delle nostre tribolazioni, o per lo meno di finire di essere le schiave”. Guarda ho usato schiave, “Le schiave dei tedeschi. Di questo sono testimoni i rombi dei cannoni che segnano la repentina avanzata dei nostri liberatori.” Questo era il 23 aprile.

Il 24 aprile del ’45: “Un altro giorno pieno di eventi. Le nostre ufficiali, ossia le nostre aguzzine, hanno sgomberato la loro baracca portando in fretta tutti i loro bauli fuori dal Lager. Diventa una confusione generale, ed a tale vista noi prigioniere non siamo più in noi dalla gioia. La cucina è stata abbandonata. Le più ardite, le russe, vi si lanciano all’assalto del pane. Dopo qualche ora però i superiori riprendono le briglie. Davanti alle cucine viene messa una sentinella. Il comandante come un forsennato minacciando con la pistola spara più volte, e sparando più volte nasce un fatto raccapricciante che ci ha scosso tutte: una giovane ventenne russa rimane vittima, una pallottola alla tempia la colpisce, e ciò perché il comandante l’aveva vista portare delle patate dalla cucina.”

Questo è quel dettaglio che vi ho spiegato prima: l’aveva colpita nella baracca quando si era rifugiata sotto il letto, sotto la branda.

“All’appello, che avviene poco dopo, il comandante ci fa tradurre in diverse lingue che chiunque commetterà una minima disobbedienza sarà freddato da lui stesso. Dopo ciò ci fa incolonnare e così si evacua il Lager.

Dopo circa venti chilometri di cammino la notte è già alta, in prossimità di un bosco ci fermiamo per pernottare. Il tempo è piovoso, tutto è bagnato.” Questa è la notte che noi abbiamo passato nel bosco. Non so se vi interessa anche il giorno 25.

“Allo spuntare del giorno si riprende la marcia, pane ed altro zero, di frequente molte donne cadono sfinite dalla debolezza e dalla stanchezza. Non è permesso soccorrerle, vengono abbandonate.

Noi sempre avanti, ma la forza ci manca. Finalmente arriviamo in una città, cittadina, Altegradhof, e scorgiamo già gli accampamenti di un altro Lager. Abbiamo percorso circa 35 chilometri. Siamo portati in un accampamento e consegnate ai soldati della Wehrmacht. È mezzogiorno ma non abbiamo ancora mangiato niente, nessuna cosa dal mezzogiorno del giorno precedente. Vinte dalla stanchezza ci stendiamo sul prato, aspettando dietro promessa il pane.

Le ore passano ma non arriva niente. Verso sera arriva la comandante che con i suoi più sgarbati modi ci fa mettere in fila a riprendere la marcia.

Piangendo ubbidiamo ma le gambe non ci reggono. Dopo circa un chilometro di strada ci lasciano riposare. Mangiamo erba e frumento del campo. Molte donne cadono e continuano a cadere.

A questo punto interviene la Croce Rossa Belga, giungono le autolettighe a raccogliere un’infinità di ammalate. Ormai la comandante ed il comandante non hanno più alcuna autorità su di noi, e di fronte al personale della Croce Rossa sono intimoriti.

Arrivano altre macchine e ci portano i pacchetti viveri americani. Vi è una grazia di Dio, ci sediamo e mangiamo. I soldati della Croce Rossa sono molto premurosi con noi, intervengono anche degli italiani che ci portano delle gallette.

Dopo essere ristorate ritorniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso una stalla che viene accomodata con paglia alla meno peggio. Questa stessa sera siamo passati sotto la protezione della Croce Rossa e siamo libere.”

Questo è l’ultimo. Ed abbiamo passato la notte in questa stalla. Questo non l’ho scritto perché si vede che non avevo neanche… Ormai eravamo già euforiche, ma poi dopo aver… Questo pacchetto era distribuito in quattro razioni, non era tutto il pacco, ma naturalmente era una conseguenza terribile perché quasi tutte avevano una diarrea tremenda dopo. Queste sono le cose che avete già sentito da tante altre…

D: Il tuo ritorno Ada.

R: Il mio ritorno. Il mio ritorno è stato tutta un’avventura, così come lo sono state tutte. Un arrangiarsi, diciamo, più che un’avventura. Abbiamo incontrato anche man mano facendo la strada dei soccorsi, delle emergenze che ci davano questi pacchetti.

Anzi, qua volevo dire che noi ad un certo momento siamo state consegnate perché da una parte venivano gli anglo-americani, e noi in quel momento eravamo sotto gli anglo-americani. Ma ad un certo momento, ad un certo punto, non so esattamente dire l’ubicazione, eravamo sempre nelle vicinanze di Berlino, un po’ sotto diciamo, erano venuti avanti i russi, e noi siamo passate sotto i russi, sotto il territorio russo.

In quel momento ci si arrangiava come si poteva. C’erano delle scuole libere, abbiamo visto degli istituti, ci facevano entrare, c’erano anche delle scuole militari, abbiamo capito che erano scuole militari, e là c’erano le docce. Ci davano dei pacchetti.

Nel frattempo si univano tutti questi che tornavano a casa, e noi abbiamo conosciuto anche nostri ragazzi italiani che erano militari italiani, più o meno nelle stesse condizioni, ma insomma, non nelle nostre. Così ci siamo riuniti in un bel gruppo. C’erano quelli di Monfalcone, di Trieste, i nostri ragazzi, appena abbiamo sentito che erano di Trieste capirai! Ci siamo uniti a loro, eravamo una ventina, e andavamo avanti secondo le indicazioni che ci davano anche i posti di ristoro. Era una cosa tutta accomodata secondo me, organizzata man mano che veniva avanti. Non saprei dire, direi così.

Di questi che eravamo ci siamo perdute, dopo. Molte sono andate a finire in ospedale. Noi che eravamo in grado di continuare ci siamo riunite in gruppi ed abbiamo fatto la strada assieme, e con l’aiuto della Croce Rossa e anche dei comuni, delle istituzioni locali, non saprei dire neanche io chi, siamo arrivate attraverso la Cecoslovacchia prima fino a Dresda, mi ricordo Dresda, era bombardata… un mucchio di macerie, da Wittenberg giù per l’Elba con una barca. Poi da là con mezzi di fortuna, sempre ferroviari.

Poi siamo passati in Cecoslovacchia… sempre con mezzi di fortuna, avanti fino a Bratislava, da Bratislava sempre con questo gruppo fino a Vienna. Da Vienna abbiamo attraversato il Danubio su un ponte rotto, c’erano solamente le colonne. Siamo arrivate a Vienna, sempre questo gruppo diciamo così, fatiscente proprio.

A Vienna siamo state accolte perché c’erano i gruppi di Croce Rossa che ci accoglievano, eravamo in un certo qual modo assistiti, qualche volta meglio e qualche volta peggio ma insomma assistiti durante il ritorno.

Poi a Vienna eravamo sotto l’assistenza della Croce Rossa jugoslava. Di là abbiamo preso un treno regolare, ci hanno dato anche un lasciapassare che io tengo, l’ho ancora sempre come documento perché era una dimostrazione da dove venivo anche, regolare, proprio da Vienna.

Da Vienna per Maribor giù per la Slovenia, fino a Trieste. Al 29 giugno sono arrivata a casa io, sono arrivata a casa il 29 giugno.

Le altre erano ancora peggio perché erano rimaste negli ospedali. Peggio, una parte erano ben guardate, così, ma noi avevamo questa forza fisica…

D: Scusa Ada, nella tua famiglia quante persone sono state deportate?

R: Arrivo a casa, arriviamo a casa in condizioni, potete immaginare, c’era ancora il coprifuoco a Trieste, il 29 giugno, perché noi siamo arrivate a Trieste, alla stazione di Trieste. Chi conoscevo, chi non conoscevo, erano molti questi che tornavano. Quella sera so che dovevamo fermarci in stazione perché c’era il coprifuoco e non si poteva uscire. Così abbiamo passato ancora quella notte in stazione di Trieste, c’erano i bacherozzi che camminavano e giravano, capirai, appena finita la guerra cosa poteva essere. Sporche perché cosa si poteva pensare?

Ognuna poi “ciao ciao” non vedeva l’ora di tornare alle proprie case. In quel momento quasi ci si dimenticava di tutte le nostre compagne vissute fianco a fianco, per tutte quante l’obiettivo era la casa, tornare a casa.

Però io non sapevo neanche se avrei trovato mia madre, in quanto io l’avevo lasciata fuori… C’era anche la vicina di casa che aveva le chiavi della nostra casetta. Mi incammino a piedi, presto presto perché mi vergognavo sinceramente di incontrare qualcuno, ero anche con i capelli di due centimetri, nota bene.

Arrivo a casa e trovo la mamma che ancora andava a fare legna nel bosco, quello che era rimasto perché non c’era l’elettricità in certi punti. Io pensavo che ci fossero gli americani, ci dicevano che ci sarebbe stato il caffè e tutto, invece non c’era niente; infatti nel frattempo erano già arrivati gli anglo-americani.

Insomma trovo la mamma. Felice e contenta di quello.

Però mi dice, io non sapevo di mio fratello: “Anche Nini è in Germania.” “Mamma arriverà, arrivano tutti”. Sai, capirai la gioia, l’entusiasmo… Arriverà, e giorno per giorno arrivavano i pacchi. Ci davano anche l’assistenza, ci davano dei pacchi…

Per me c’era la gioia di essere di essere tornata a casa. A diciotto anni, diciannove anni, ragazzi miei, immaginate la gioia, eravamo vincitori! Ci sembrava che tutto sarebbe stato miele e latte, tutto bello. Ma anche questa gioia non era solo una questione materiale, era proprio la gioia di avere vinto il nazifascismo; era il nazifascismo che aveva fatto tutto, tutte le colpe sono del nazifascismo. Qualche volta si confonde, a volte i tedeschi, italiani, ma il nazifascismo, il sistema, l’ideologia ed innanzitutto la loro dittatura malvagia e disumana.

Ecco, così passarono i giorni.

Noi, la gioventù di qua si era subito organizzata, c’erano i meeting, c’erano… C’era un’aria di festa e di liberazione. Ci siamo organizzati subito nelle organizzazioni giovanili antifasciste, poi c’era il Partito Comunista che aveva in mano una specie di egemonia. Non che tutti la pensassero così, intendiamoci, no, a Trieste. Ma in quel momento la maggioranza, la forza, era nostra. Dobbiamo ammetterlo, e devono anche ammetterlo perché certi erano anche terrorizzati, specialmente se avevano… Come in tutte le cose avvengono anche fatti spiacevoli che poi non erano anche colpa, non so, solo perché eri impiegato in quelli… Ma in quel momento…

Quando sono arrivata io ormai era già passata, si era già calmato tutto. Almeno quel che mi riguarda si era già normalizzato questo rapporto.

Poi c’erano i balli, c’erano le sagre, c’era questa stella rossa, queste parole, questi slogan. C’era un tripudio di gioia, di gioia ragazzi miei. Io ho assai lavorato per la gioventù antifascista, per la gioventù comunista, per tutte queste cose che in quel momento mi sembravano giuste e vere.

Poi c’era anche l’arrivare alla conquista di qualche cosa. C’era la gioia di chi vince. Dico la verità, oggi, oggi lo dico con tanto dolore proprio, dolore che mi fa male fisicamente, la gioventù non pensa ai dolori di quelle madri che aspettavano i figli, di quelle donne che aspettavano i loro mariti, di quei lutti che erano dappertutto.

Oggi penso che è terribile. Era una gioia da una parte ed era un dolore tremendo per quei vuoti che avevano lasciato, tutta questa gente. Ma per chi? Per cosa?

Cosa volete ragazzi, non si può, non si può pensare oggi, io non sono il tipo che odia, ma non bisogna dimenticare. Non dimenticare. Odiare no perché l’odio è già un sentimento che non ti dà pace, ma il ricordo è un’altra cosa.

D: Ada, ma tu e la mamma avete aspettato tuo fratello?

R: Sempre, tutta la vita.

D: E non è tornato…

R: Tutta la vita.

D: Conosci il campo in cui è stato deportato?

R: Sì, a Mauthausen.

Cantoni Walter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Cantoni Walter, nato a Medesano provincia di Parma, il 7 ottobre 1924. Sono partito per andare nei partigiani nel mese che non ricordo più bene, ma nel mese di giugno del 1944.

In questo periodo ho subito due rastrellamenti, uno era alla fine luglio del 1944, di lì siamo ritornati alla base a casa, nascosti in attesa che si formassero di nuovo i distaccamenti e le Brigate Partigiane. Col primo rastrellamento ero a Bardi, nella provincia di Parma, siamo andati anche oltre, siamo arrivati quasi ai confini con la Liguria, al Monte Groppo nel Comune di Albareto, provincia di Parma.

Ritornati come ho detto a casa, siamo rimasti a casa circa una ventina di giorni, poi ci siamo raggruppati in un distaccamento, formatosi nel periodo di fine agosto, lì nella mia frazione del comune Varano Marchesi, c’era un distaccamento che si chiamava il distaccamento Pedizza, lì eravamo circa sei squadre, formate da dieci componenti ogni squadra. Eravamo ai piedi della collina, giù dalla collina del mio comune, e siamo rimasti lì fino all’atto del secondo rastrellamento, avvenuto il 6 gennaio 1945.

Le forze partigiane avevano un compito specifico. Era di interrompere i rifornimenti che i tedeschi portavano alla Linea Gotica da La Spezia al mare, lì a Rimini. Quindi gli attacchi erano di far saltare i ponti principali perché la ferrovia non fosse più in grado di trasportare il vettovagliamento, le armi, le munizioni, ecc. Secondo anche si attaccavano le formazioni tedesche e anche fasciste, durante questi loro passaggi che fornivamo per andare al mare.

D: Scusa …

R: Più conciso.

D: No, no, i rastrellamenti …

R: Sì.

D: Erano solo formazioni germaniche …

R: No, adesso dico. Lì poi è venuto il 1945, e mi ricordo una bellissima settimana era, dopo Natale, ha fatto circa quindici giorni di bello, e lì si erano portati nei paraggi, in tutta la provincia di Parma e Piacenza, i gruppi che erano ritornati dalla Germania, la Divisione Italia, i Bersaglieri, avevano occupato i posti principali a piè di collina, proprio dove noi facevamo qualche disturbo lì, ma loro attendevano il maltempo, la neve che davo loro la possibilità di metterci in condizioni disagiate, perché loro erano armati, avevano l’appoggio delle truppe tedesche, anzi le truppe tedesche erano coloro che comandavano, loro erano coloro che erano i sottomessi, che facevano quello che loro gli dicevano.

Lì è avvenuto questo rastrellamento il 6 gennaio, proprio la notte del 6 gennaio, ha cominciato a nevicare, al mattino ci siamo trovati con 50 cm di neve in sette, otto ore e ha continuato per 3-4 giorni, le nostre colline, le prime montagne erano coperte da circa un metro di neve, quindi la difficoltà dei trasferimenti, abbiamo resistito per tre giorni, abbiamo resistito a questo attacco, poi dalla parte del Piacentino, da parte della Liguria sono entrati i tedeschi, gli sciatori tedeschi, ci hanno preso alle spalle, quindi c’è stato lo sganciamento.

Lo sganciamento significa che, ognuno delle squadre, cercano di passare le linee e di passare alla pianura, cioè dietro di loro possibilmente senza poter …, ma sa in quei periodi molti ci lasciano la pelle, vengono presi, io sono stato uno di quelli che sono stato catturato. Catturato a Mariano da uno squadrone di questi Bersaglieri della Divisione Italia.

Ci hanno portati direttamente ad un primo interrogatorio, appena presi una battuta, ma non una battuta con schiaffi o pedate, adoperavano il calcio del fucile e picchiavano in questo modo. Poi ci hanno portati in una località contadina, dove era il loro comando, e lì il mattino hanno fatto l’interrogatorio, lì hanno iniziato ad adoperare le catene, le catene che cerchiavano la testa, perché volevano sapere cose che poi in fondo il partigiano normale non sapeva.

D: Come non sapeva?

R: Perché per esempio quando uno militava nelle file partigiane scompariva il nome, cioè avevano il nome, ma davano un nome di battaglia, il quale questo nome di battaglia non poteva danneggiare nessuno, se uno prendeva diceva magari si chiama Caio, Sempronio, ecc, chi sono? Non lo so, perché c’era anche allora che non mettevano mai insieme quelli del loro paese, ecc, perché era pericoloso e quindi loro volevano sapere, dicevano quanti tedeschi, quanti Bersaglieri hai ammazzato, ecc, dove hai fatto, ecc, ecc. E lì chi si ostinava a dire magari niente, loro pensavano che questo sapesse molto, mentre invece lì anche qualche riunione che si faceva nei partigiani, parlavano, dicevano “Se domani vi prendono, voi dite il vostro nome di battaglia, e anche altri nomi di battaglia” ecco questo, questo è quello che posso sapere.

Poi ci hanno portato nella zona di Varano Marchesi, dove conoscevo bene tutta la natura, anche la gente, ecc. Lì siamo stati trattenuti tre, quattro giorni, quattro giorni, lì è successo il finimondo perché in questa frazione sono state fucilate ventidue persone, erano ventidue partigiani più quattro civili. I civili sono stati per esempio un certo pastore, poveretto che me lo ricordo ancora, era andato a casa, lì aveva l’ombrello che nevicava, e di tanto in tanto prendeva l’ombrello e lo sconquassava per liberarsi dalla pesantezza anche della neve. Arriva un cecchino, poco distante, tac e gli ha sparato e lo ha buttato là sotto la neve.

Altri due si erano nascosti in campagna, fanno per le viti quei pali, e poi fanno quelle che sembrano baracche degli indiani messe in questo modo, erano andati lì, poveretti a 20 m da casa, a nascondersi lì dove c’erano Bersaglieri che stavano venendo. Un bel momento quelli là si sono accorti, hanno messo fuori la testa, ecco li hanno direttamente uccisi senza nulla.

Queste sono state le barbarie fatte nel nostro paese, non solo le barbarie, perché sono stati torturati con le catene, avevano delle teste in questo modo, botte che non erano più capaci di parlare, io con questi ho vissuto assieme. Poi un giorno, questo è il più grave che è successo, mi hanno chiamato lì al comando, dove hanno schierato, c’era un capitano tedesco, c’erano altri, un tenente che me lo ricordo bene, si chiama il tenente Rossi che era un toscano, e poi altri.

Lì sono andato dentro come l’interrogatorio, lì presenti c’erano altre due persone, gli avevano chiesto di portare i nominativi del partigiano della propria zona, e questi quando si sono trovati di fronte a me, questo tenente gli dice “Avete i nominativi dei …” e dice “Ma come faccio a parlare di fronte a questo”, dice “No, no, parlate pure perché costui non dirà mai più nulla a nessuno”, a dire “Va bene”.

Poi è stato il giorno dopo verso sera, mi vengono a prendere, anche lì botte, mi hanno chiamato che c’erano le scuole, c’era la squadra del plotone di esecuzione, il plotone di esecuzione alla scuola era comandato da un tenente, che ricordo il nome, un certo Mele che era di Sanremo. Sono andato là e mi hanno chiesto, avevano un cittadino lì, una persona, un borghese, e mi avevano detto “Questo, riconosci se è Athos?” e non era Athos, perché Athos era il mio comandante, non era Athos, questo lo conoscevo, ma io ho detto “Questo non è Athos, non è”, “Ah no?”

Allora avevo lì dei particolari, io allora fumavo qualche sigaretta e avevano fatto un lancio gli inglesi dove avevano portato anche del tabacco, avevo un pacchettino di tabacco ancora, che anzi era profumato il loro tabacco, quando ha visto questo tabacco è venuto lì come se avessi una bomba a mano, mi ha guardato “Tabacco?” poi allora ha guardato “Tabacco inglese?” e io gli ho detto “Sì, questo è un tabacco paracadutato dagli inglesi” lì ero vestito con il cappotto da inglese, le scarpe, ecc non potevo dire che non ero un partigiano, non l’ho mica ammesso, di essere un partigiano, e mi dice “Fumalo presto perché domani ti faremo la festa”.

Il giorno dopo la festa doveva essere fatta, mi avevano preso sotto sera e mi avevano portato là dove c’era il comando dei partigiani, ma io non avevo mai detto che c’era il comando là mai, ho sempre fatto finta di non sapere mai niente, mi portano su ai piedi di un monte che c’è lì, e lì c’era una curva, c’era tanta neve perché con la spalatura della neve, e mi dicono di cercare lì che ci sono le armi, che io so che ci sono le armi, e già due mi davano queste raffiche di mitra, due dei Bersaglieri, però lì prima ho avuto un colloquio con loro direttamente, con il tenente e un caporalmaggiore.

Il tenente e il caporalmaggiore, poi ho saputo in seguito, erano due amici, il caporalmaggiore era un maestro, il tenente non lo so che cosa era, e allora nel modo di parlare confuso, in un certo qual modo, questo caporalmaggiore mi dice “Come mai sei andato dai partigiani?” e io ho spiegato quali sono state le ragioni perché sono andato dai partigiani, e ho detto anche che noi siamo discendenti della mia famiglia di socialisti, e gli ho fatto un ragionamento “Ma voi avete anche il Duce che era un socialista” e lì “È vero”, allora io non penso che la mia famiglia abbia sbagliato, anche essendo in questo …

Questo caporalmaggiore, il tenente gli ha detto “Su sbrighiamoci”, gli ha detto “No fermatevi, devo andare in perlustrazione a Mariano di Pellegrino, me lo porto con me come ostaggio”, cioè è stato colpito da questa sensibilità questo giovane.

E lì siamo andati a Mariano, mi hanno messo davanti, siamo andati a quel Mariano che saremo stati distanti 10 km o 15, 10 km senz’altro, siamo arrivati là vicino a sera, siamo andati nella casa, e avevano sempre il tedesco con loro, e questo tedesco si chiamava Walter, aveva gli occhiali me lo ricordo ancora come se fosse adesso. Siamo andati lì nella casa, dove eravamo questo caporalmaggiore, io e il tedesco, mi aveva detto questo caporalmaggiore “Andate qui”, era un nucleo di case, “Andate nelle case, però mangiate quello che vi danno, non cercate di fare …” la verità la dico, sempre, ovunque.

Siamo stati lì e c’era una famiglia di contadini poveretti, che hanno messo sulla tavola un formaggino, il pane, e un fiasco di vino, e ci hanno offerto da mangiare, siamo stati lì e abbiamo intavolato una discussione con questo caporalmaggiore, lui mi ha detto nome e cognome che non lo ricordo più, questo mi dispiace molto perché avevo sempre detto che sarei andato a trovarlo, perché è quello che mi ha salvato la vita.

Abbiamo parlato direttamente, abbiamo parlato della questione della mia famiglia, me stesso, io sono stato militare, sono fuggito l’8 settembre, sono ritornato a casa, mio padre ha fatto il prigioniero con i tedeschi, effettivamente al tempo dell’altra guerra, per esempio i tedeschi per me sono tabù, sono persone di cui nella mia famiglia si è sempre parlato male, non bene, quindi sono stato sempre alla macchia, e al momento sono partito e sono andato dai partigiani e ho ottenuto di essere nel mio paese e di lottare a salvaguardare la questione del mio paese, ecc, ecc.

“Guardate”, ho detto “Voi avete fucilato della gente, ammazzato anche in questi giorni, ne avete ucciso prima, li avete presi e li avete messi lì in carcere, ecc” proprio una discussione in questo modo. “Noi non abbiamo mai fatto questo, se abbiamo preso qualche d’uno c’era un campo di concentramento era là, e quando c’erano i rastrellamenti si lasciava andare, se abbiamo giustiziato, abbiamo più giustiziato dei nostri, che era la verità, gente che si comportava non conforme, non la disciplina, quello che era il artigianato”. E lì ho visto che si era svegliato qualcosa in lui e che mi ha detto, apertamente mi ha detto “Hai ragione, queste cose non le posso tollerare neanche io, non le posso tollerare”.

Poi siamo andati a dormire in una stalla, dove mi sono messo a dormire, mi ha messo le manette, accanto a lui perché aveva paura che io fuggissi, e poi lì discutendo ancora gli ho detto “Ma perché mi metti le manette?” e dice “Walter, io debbo farlo, ho degli ordini, ho fatto molto …” mi ha detto “Ma non ti preoccupare che fino a che sei con me non ci sarà pericolo”.

Però quando sono ritornato lì indietro, allora nel passaggio dove dovevano fucilarmi era già fatta la buca, e mi sono fermato e ho detto “Ma di chi è quella buca?” Tant’ è vero che un militare suo gli disse “Allora comandante, non dobbiamo mica riempirla?”, “Il comandante sono io non siete voi, decido io non decidete voi”. Perché lui al ritorno doveva seppellirmi, ammazzarmi e mettermi lì, e l’ho scampata. Sono venuti in quel momento, si sono fermati e non hanno più ucciso nessuno, e allora di lì siamo stati portati a Fornovo.

A Fornovo siamo stati là un tre, quattro giorni sotto delle cantine, poi di lì siamo stati portati a Cortile San Martino, dove alla scuola di Cortile San Martino c’era un piccolo concentramento, dove venivano anche portati i prigionieri che i tedeschi facevano dalla Linea Gotica, siamo stati assieme a loro circa sei o sette giorni, lì è stato l’unico momento dove ho provato una grande crisi personale, perché cosa è successo, lì c’erano i neri, ma io lì ho trovate persone buone, c’era un certo Roberto, era da due mesi in Italia e parlava già l’italiano, si capiva bene.

Un giorno che mi trovavo lì, questo lo devo dire, che parlavamo sempre con lui, mi diceva sempre “Walter, quando guerra finita io ti richiedo che devi venire a New York con me”, mi diceva sempre. È venuto che hanno preso uno, che era un ufficiale americano, un ingegnere. Un giorno questo ingegnere, che io parlavo con questo nero, con questo Roberto, viene e si avventa contro di me in un modo bestiale, e io sono rimasto lì e gli ho detto a questo Roberto “Ma cosa ha questo qua?” e dice “Lui ha che tu bianco, non devi parlare con me” dice. “Non devi parlare?”.

Allora questo bianco poi è stato colui che ha detto “Noi non vogliamo essere invischiati con questi, noi vogliamo essere messi in un reparto per conto nostro”, e sono stati messi in un reparto per conto loro, sono divisi, perché a loro davano una razione quando eravamo assieme, gli davano la margarina, gli davano il pane, gli davano questo, ma non era per noi.

Però loro lì mettevano lì e facevano comunella come tutti noi, noi eravamo in trentadue, di questi trentadue poi sono passati ancora circa sette, otto giorni, saremo stati lì una quindicina di giorni, adesso non so il 20 gennaio, il 25, proprio il calendario era sparito, una sera vengono ci mettono tutti in fila nel corridoio, e lì ne scelgono ventidue, no, ventiquattro, ogni quattro, tre, e questi per esempio sono stati fucilati a Villa Cadè, diciotto a Villa Cadè e altri sei nella zona di Parma, li hanno fucilati, eravamo rimasti in otto.

Dopo qualche giorno ancora sono venuti lì una sera, le SS, in due macchine e ci hanno portato in San Francesco, nelle carceri, e alle due dopo mezzanotte in corriera ci hanno portato a Bolzano.

D: Scusa Walter, in corriera vi hanno portato?

R: Sì, c’era una corriera.

D: E solamente voi otto?

R: No. Piena la corriera. Noi ci hanno preso in Cortile San Martino, ci hanno portato in San Francesco, e da San Francesco hanno completamente …

D: Assieme a degli altri?

R: A degli altri sì.

D: Di San Francesco.

R: Sì, la corriera era piena, non so la corriera ne conteneva quaranta, cinquanta, adesso …

D: E chi c’era a fare la guardia sulla corriera?

R: Ecco lì c’era questo qua, pensi adesso dovrei dire questo dovrei dire anche, dalla corriera quando ero a Fornovo, ritornando indietro, trovo Jim che era, un certo Jim che adesso era lì, quando l’ho visto “Ma tu sei un partigiano?”, “Sì” dice. Questo Jim era stato catturato dai partigiani in un combattimento verso Salsomaggiore, fatto prigioniero, e si era arruolato con le forze partigiane, e aveva ancora i pantaloni della Repubblica Sociale Italiana.

Quando è stato a Fornovo lui è stato furbo, è stato onesto, lui ha detto che era un prigioniero. “Walter” dice “Non dire niente”, che era prigioniero dei partigiani e che lo avevano preso là, e lì i suoi amici che erano scappati lo sono venuti a prendere e lo hanno obbligato ad andare ancora con loro, e lui ci è andato. E avevamo questo ad accompagnarci a Bolzano. Questo a Bolzano per noi è stata una grande fortuna perché, quando siamo arrivati a Verona, a Verona picchiavano. Avevano un fucile a testa, con quel bastone con quei …

D: Tu eri lì vestito ancora da inglese, con i vestiti …

R: Sì, allora quando siamo stati là, io avevo l’avvertenza di non andare mai davanti, di restare indietro, ma quella volta lì sono stato davanti, sono rimasto perché gli altri sono andati dietro loro, eravamo in fila, qui c’erano a Verona …

D: Ma quindi, partite da Parma con una corriera …

R: Sì.

D: Arrivate a Verona …

R: Sì.

D: Vi fanno scendere dalla corriera …

R: Sì, e ci portano dentro …

D: Dove?

R: Al Palazzo delle …

D: Come? Nelle cantine?

R: Sì, nella caserma dove era la Repubblica Sociale Italiana, tanto è vero che quando siamo dentro ci hanno messo in un angolo, in un coso buio, eravamo lì, e dopo circa un’oretta, sono comparsi due, due italiani, uno che era un maresciallo e l’altro era un sergente, un maresciallo perché aveva anche il cappello con la morte qui, che forse erano le SD, le SS. E lì questi qua cominciano a parlarti e dire “Tu sei stato un partigiano …” Bum … tac la testa, picchiavano forte.

Allora avevamo questo Jim che era lì che bruciava, ad un bel momento non ha più potuto resistere, è saltato in piedi, li ha presi per lo stomaco tutti e due “Per Dio” e gli ha cominciato a dire “Imboscati, vigliacchi, io sono stato in Russia e non ho mai visto di queste cose, picchiate …” e loro “Ma come tu li difendi?”, “Sì, li difendo perché siamo dei militari e dobbiamo alla questione della convenzione di Ginevra, ecc, ecc. Dobbiamo rispettarli” e allora si sono calmati.

Io e uno di Salso, e poi da lì quando è stato verso pomeriggio, ci hanno portati verso Bolzano …

D: Con cosa Walter?

R: Sempre con la corriera.

D: E sempre il gruppo che era partito da Parma?

R: Sempre il gruppo che era partito da Parma, tutti là e ci hanno portato dentro. Siamo arrivati a Bolzano dopo mezzanotte, verso l’una perché andavano piano con la questione degli apparecchi. Io avevo sempre la persuasione che mi buttassero in un burrone, che ti facessero oramai, e lì questi fili spinati che li vedevi appena, e anche lì ero il primo a scendere, perché ero davanti, andando giù quando sono andato per la porta del campo, dentro lì dove c’era questo capannone, ero un po’ restio ad andare dentro.

Ho preso due botte, sono stramazzato là nel piano, e li è venuto, mi ricordo ancora, un vecchietto come me adesso, un anziano, che poi il mattino ci siamo ritrovati, ed era un ebreo, un ebreo che aveva settantacinque anni, e lui è venuto lì che aveva un mozzicone di candela acceso e lui è venuto lì a dirmi “Guarda giovanotto” mi dice “Non cercare, qui purtroppo la vita è così, la guerra sta per finire dobbiamo essere forti” dice, mi ha rincuorato, e lì mi ha chiesto poveretto “Hai un pezzo di pane?”, “Hai un pezzo di pane?”, “No” gli ho detto “Proprio non ho niente”, “Va bene, fa niente” dice “Siamo uguali allora”.

Il mattino ci siamo ancora ritrovati con lui, e mi sono svegliato il mattino, ci hanno portato in uno spogliatoio, ci hanno ritirato tutti i nostri vestiti. Ci hanno lasciato la maglia, forse le mutande non le avevo neanche più, e poi ci hanno dato una divisa da prigioniero dove c’era la croce nella schiena, il numero davanti, io avevo il 10.079, con il quadro rosso, che era il deportato politico.

Poi sono ritornato, l’assegnazione di questo blocco, il blocco H, e lì al mattino sono venuto fuori, ho visto con grande meraviglia, ho visto delle persone che avevano il numero nero su sfondo bianco, con il quadrato nero, c’erano coloro che avevano il triangolo azzurro, c’erano la stella di Davide, e li abbiamo incominciato a vedere le cose. Il giorno dopo ho fatto un giro per il campo per ambientarmi, poi ho conosciuto diversi: Boni, Alceste, poi è venuto più tardi era venuto anche … diversi abbiamo conosciuto dentro lì …

D: Scusa Walter, il gruppo di Parma è stato messo tutto nel blocco H?

R: No, no, no. Noi eravamo questi quaranta o cinquanta che siamo venuti da Parma, ma altri erano già in questo blocco.

D: No, ma il gruppo che è venuto con te?

R: Sì, tutto nel blocco H, quello che è venuto con me.

D: E i giorni seguenti ti sei guardato in giro?

R: Eh sì, ho guardato lì, vedevo intanto, intanto che si aprivano pomeriggio, facevano fare un’ora un giro, loro che erano nelle sale di disciplina, c’erano le cose di disciplina a Bolzano, peccato che abbiano distrutto questo campo. Dove in queste prigioni di disciplina erano larghe circa 1 m, 1,20 erano larghe, e lunghe saranno state 5-6 metri, e lì dentro erano dentro sette, otto, dieci persone che, quando gli davano da mangiare non aprivano la porta, c’era un finestrino che magari, quando tu mettevi il piattino andava tutto fuori, facevano apposta perché tu non potessi … anche questo.

Lì ho visto per esempio le celle, questa gente che girava, che uno si domanda come sono, come non sono coloro perché, quando uno trasgredisce, qui del campo, qualcosa ti mettevano là, e là venivi fuori ucciso, perché noi avevamo l’obbligo, che quando eri nel campo dovevi scattare sull’attenti e metterti le mani nei capelli quando passava un tedesco, questo qua. E lì siamo stati diverso tempo …

D: E cosa facevi?

R: Dentro, lì sono stato. Un giorno, ma un giorno molto avanti … anzi devo dire questo, che questa è già la parte importantissima del campo di concentramento. Un giorno c’era il blocco E, che dicevano che erano i più pericolosi …

Blocco E e D, vado lì dove c’era dentro il reticolato, mi guardo e vedo il mio amico che eravamo in squadra assieme, che è Camangi Silvio, ci siamo abbracciati fra il reticolato, e la prima cosa che gli ho detto “Quanti giorni è che sei dentro?”, “Saranno una quindicina di giorni”. Ho detto fra di me “Qui c’è da morire”, perché l’avevo visto male, l’avevo visto deperito.

Poi è finito, poi siamo andati un giorno, chiedevano lì se si poteva andare fuori, perché poi dentro lì avevamo formato il Comitato di Liberazione, dove c’era il mio amico Alceste.

Alceste, che era l’organizzatore, lui aveva trentacinque anni, noi avevano diciannove, vent’anni, quindi era per noi uno che ti dava spirito, che ti emancipava, che ti diceva “Forza, coraggio”, aiutavamo lì la gente, diversi che magari erano messi molto male, ammalati, si cercava … eravamo d’accordo con il Comitato di Liberazione fuori, che uno magari ti dava il compito quando andava, tu lasciavi un pezzo di carta, un fazzoletto, quello là veniva, prendeva il bigliettino e poteva portare dentro qualche medicina per poter tirare avanti.

Lì un giorno vengono a chiedere per andare fuori a lavorare, avevano bisogno di fabbri, allora eravamo lì “Chi è fabbro?”, “Io” non ero fabbro porca miseria, ma ne volevano nove, dieci e io dicevo “Ci sarà uno che sarà capace di fare il fabbro”, e tutti quando ci siamo trovati lì e ci siamo detti “Ma sei capace di fare il fabbro?” e allora “No”, io ho interrogato “No”, “Tu?” “No”, “Tu?” “No”, “E tu?” “Io sì”, cosa doveva dire? Siamo andati lì in un’officina, ci facevano fare delle maniglie …

D: Fuori dal campo?

R: No, era sempre adiacente al campo, non era fuori dal campo, però lì c’era qualche borghese che potevi fare qualche scambio, tanto è vero che c’era un borghese che era lì che lavorava, io avevo un gilet che avevo salvato, nuovo, bellissimo era, l’ho venduto per due pagnotte, e una di queste pagnotte l’ho portata al mio amico Giuliano, e mi dice Giuliano “Ma tu Walter non hai fame?” “Oh! Altro che fame, ma facciamo metà per uno”.

Lì è durata che quasi era alla fine, anche lì delle volte anche da parte dei tedeschi che erano dalla parte della Wermacht non erano cattivi poveretti, c’era un sergente che quando ci ha visto lavorare, ci avevano dato un tubo grosso così da fare il gomito, era alto quasi un mezzo centimetro questo ferro, allora io dissi agli altri “Avanti alla fucina, facciamolo scaldare”, abbiamo bruciato tutto.

Questo tedesco, che era un sergente, ci ha visto e ha detto “Voi altri fabbri, nessuno” è venuto lì poveretto, dico poveretto perché sono sempre per il perdono, è venuto lì e ci ha detto “Così si fa per fare questo lavoro” e ci ha fatto questo lavoro, ce lo ha messo a posto, però il giorno dopo quasi tutti non erano più fuori.

Poi è venuto il 30 aprile, che ci hanno scarcerati, io ho avuto in consegna nella scarcerazione un partigiano che ho trovato dentro, un certo Bernaccioli Avio, che l’ho portato a casa, perché non era più in grado, se uno lo vedeva era così gonfio, era malatissimo, aveva la nefrite e la pleurite. Sono riuscito a portarlo a Trento, siamo andati nei posti di ristoro dei frati, siamo rimasti dai frati una giornata o due, lì ho visto un giorno, l’ho convinto di portarlo all’ospedale, farlo visitare da una dottoressa.

Questa dottoressa mi dice “Guardi che se questo fa ancora 10 km, rimane per strada, perché oramai…”. Allora lì ho avuto l’accortezza di farmi fare una lettera scritta da lui che diceva: “Mi trovo qui a Trento, mi trovo mal ridotto, vi prego di venirmi a prendere” da portare ai genitori.

D: Ascolta un’ultima domanda. Tu sei arrivato a casa quando?

R: Dunque, sono arrivato a casa verso il 9, 10 maggio, perché di lì siamo andati a Milano, a Milano siamo stati un giorno o due dove abbiamo passato la disinfestazione, poi un’altra giornata perché a Milano non c’era il treno, il treno c’era per un pezzo e poi a piedi. Verso il 9, 10 ecco …

D: Maggio.

R: Maggio, sì, i giorni del tragitto sono stati circa dieci giorni.

Ciceri Ambrogio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Ciceri Ambrogio, nato a Milano il 17/11/1917.

Dico anche la via dove sono nato?

D: Sì, se te la ricordi.

R: Via Pisacane 38.

D: Ambrogio, a settembre del ’43 tu dov’eri?

R: A Verona.

D: Come mai? Cosa facevi a Verona?

R: A Verona io ero staccato all’auto centro.

D: Eri militare, quindi?

R: Ero militare però io al 25 di luglio mi sono congedato da solo.

D: Come al 25 luglio?

R: Del ’43.

D: Come ti sei congedato da solo?

R: E’ quello che è successo. Allora è stato il Duce e s’eri stuf de fa il militar, ero stanco di fare il militare e sono andato a casa.

D: Sei venuto a Milano?

R: Sono venuto a Milano e mi sono preso i vestiti borghesi e sono ritornato a Verona perché a Verona avevo degli amici: uno di Rovigo, uno di Padova.

Abbiamo preso un appuntamento, prima che arrivasse l’8 Settembre e ci trovavamo in una trattoria di via XX Settembre a Verona.

Decisi di andare a Brescia, io conoscevo gente a Brescia e si sarebbe andati in Val Trompia, si sarebbe andati in montagna praticamente, invece purtroppo il 10 Settembre del ’43 siamo andati alla stazione per prendere il treno e andare a Brescia, ci hanno fermati, ci hanno chiesto i documenti, c’erano tedeschi, c’erano fascisti e ci hanno portato su al Forte San Leonardo .

Ci hanno arrestati e ci hanno portato al Forte San Leonardo, il 12 settembre.

D: Scusa Ambrogio, voi eravate decisi, te e i tuoi amici, di andare in Val Trompia per aggregarvi ad una formazione…

R: Sì ad una formazione partigiana che già cominciava a formarsi.

D: E voi avevate già i contatti?

R: Avevamo già i contatti.

D: Non ti ricordi il nome di questa formazione?

R: No, non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Comunque siete lì alla stazione di Verona…

R: Sì di Verona.

D: Eravate in stazione di Verona e lì vi hanno arrestati?

R: No ci hanno fermati e chiesto i documenti.

Abbiamo dato i documenti, i documenti fasulli, avevamo creato dei documenti fasulli e ci hanno arrestati e ci hanno portati su al Forte San Leonardo.

D: Ecco e dicevi scusa, questo è importante: oltre ai germanici c’erano anche degli italiani?

R:I fascisti c’erano, le pattuglie fasciste c’erano e ci hanno portati su al Forte San Leonardo perché tu sai a Verona ci sono due forti: San Mattia e San Leonardo.

Ci hanno tenuti lì fino al 22 e dopo al 22 …

C’era un camerone, ci hanno interrogati, anzi ci hanno proposto di andare in Germania a fare l’istruzione per aggregarsi al nuovo esercito fascista che avrebbero fatto se firmavamo una carta, sai qualche sberla l’hai presa perché io non ho mai firmato niente, al 22 ci hanno portati giù alla stazione.

Alla stazione arrivava una cosa da Peschiera.

D: Un treno.

R: No un treno, era già carico di …

D: Sì ma era un carro bestiame?

R: Sì un carro bestiame logico mica me dan la prima clas per l’amor di Dio, ci mancherebbe altro e di lì ci hanno caricato su questo carro bestiame e ci hanno portati a Dachau .

D: Scusa Ambrogio, lì a forte San Leonardo sei rimasto dal momento che ti hanno…

R: Dodici giorni circa.

D: Lì ti hanno interrogato, ti hanno chiesto se volevi firmare per …

R: Se volevi firmare per andare…

D: Ecco oltre al vostro gruppo, oltre al tuo gruppo c’erano altre persone?

R: Sì sì, eravamo circa venticinque, trenta persone che c’erano già quando io sono arrivato.

Quel giorno, il 22, ci hanno portati giù.

E’ arrivato un convoglio da Peschiera che poi ho saputo che erano quelli che erano miliari arrestati, non so per che cosa e che io sul convoglio poi tra parentesi ho trovato un mio carissimo amico Robbiati Libero, che era di Milano, che era stato arrestato perché lui faceva il militare a Pavia, era della classe 1917, della mia classe. Eravamo amici da bambini, da ragazzi, andavamo a scuola assieme e lui è entrato in un bar una sera, c’era dentro un gruppo di gerarchi fascisti, gli hanno detto una parola in più, lui ha picchiato perché era uno che…, ha picchiato uno di quelli, l’hanno preso e gli hanno dato dieci anni di prigione perché ha picchiato un gerarca, un fascista e l’ho trovato sul carro che andava anche lui a Dachau, ma lui veniva da Peschiera.

D: Il viaggio ti ricordi quanto è durato?

R: Dunque siamo partiti al 22, siamo arrivati a Dachau circa il 25 o 26 mattina.

D: Quando tu dici che sei arrivato a Dachau il treno dove è arrivato?

R: A Monaco.

D: Poi?

R: Poi a piedi ci hanno incolonnati perché da Monaco a Dachau ci sono 10 chilometri circa e ci hanno portati a Dachau.

D: Con le guardie.

R: Con le SS in fianco, tanto è vero che prima di entrare nel campo tu leggi: il lavoratore mobilita ma stanca meno stanca…

D: ” Arbeit macht Frei”.

R: Io sto scherzando.

D: “Il lavoro rende liberi”.

R: Rende libero. Sì infatti è una libertà che non finiva più.

D: Come ti ricordi l’ingresso di Dachau quando siete arrivati?

R: Un ingresso che c’era questo scritto, un ingresso che sembrava che tu entravi in una tenuta, in un ranch, ecco una cosa così perché c’era un grandissimo piazzale che lì ci hanno fatto spogliare tutti nudi.

D: Fuori?

R: Fuori, fuori, all’aperto.

Ci hanno sequestrato tutti i panni, tutto quello che avevamo.

Siamo stati lì, perché noi siamo arrivati alle 6 a Monaco e siamo arrivai alle 7,30.

D: Alle 7,30 del mattino?

R: Del mattino. Sto parlando del mattino.

Ci hanno tenuti lì fino alle quattro di sera nudi, in piedi, tanti si sono sentiti male e poi ci hanno mandati a fare la doccia .

D: Scusami, allora, dalle 7 del mattino tutti spogliati…, il vostro trasporto eravate in tanti?

R: Eravamo in 1.500 circa.

D: Come entri in Dachau dove vi hanno messo lì nudi.

R: Entrati in Dachau sulla sinistra c’erano delle baracche dove c’erano dentro delle SS e noi ci hanno messo in faccia e ci hanno detto di spogliarci nudi, allineati, una fila di qua, una …., setto o otto file, dieci file, non mi ricordo, messi tutti i vestiti per terra, hanno spazzato via tutto, poi verso le 15,30 del pomeriggio circa perché non c’era più l’orologio, te lo hanno portato via, siamo andati dentro a far la doccia.

Mentre andavamo dentro ti facevano l’interrogatorio: “Cosa facevi di mestiere?”.

Io non sapevo cosa dire perché io non ho mai lavorato a dir la verità.

Io sono stato al Gonzaga per cinque anni, ho fatto il Gonzaga perché mio padre aveva la possibilità e poi sono andato a fare la commerciale Zaccaria in via Commenda.

Dopo in via Commenda, la seconda commerciale si doveva andare vestiti da avanguardista e io non ci sono più andato non perché io …, perché ho visto mio padre…, mio padre avendo uno stabilimento con cento operai, una pelletteria in via Giulio Carcano 26, padrone di tutta la casa e di tutto il coso, doveva avere il quadro del Duce nell’ufficio e costava 500 lire il quadro del Duce.

Non era per le 500 lire ma mio padre era socialista e non lo ha mai comperato.

Un giorno sono venuti lì, l’hanno preso, l’hanno portato fuori e lo hanno picchiato; io venivo in quel momento a casa da scuola, l’ho visto e sono andato dentro anch’io in mezzo a cercare e le ho prese anch’io, ma non perché ho preso qualche schiaffo ma perché ho visto picchiare mio padre, da lì ho odiato i fascisti.

Quando sono andato a scuola ancora a fare la seconda commerciale che mi hanno detto: “Bisogna venire vestiti…” perché c’erano i saggi ginnici e tutte quelle palle che inventavano i fascisti, dovevo andare vestito da avanguardista.

Io? Ma non spendo nemmeno una lira.

Non sono andato più neanche a scuola; oltre che non andare più a scuola, forse tu lo sai che allora si doveva andare al sabato a fare il premilitare, non andavo più neanche a fare il premilitare e mi cercavano a casa, mi venivano a cercare.

Io avevo una fidanzatina in corso S. Gottardo 40 che suo padre era un comunista sfegatato e mi teneva lì a dormire, io gli avevo raccontato tutto il fatto e lui mi teneva lì a dormire.

Lui è stato fucilato al campo Giuriati.

Si chiamava di cognome Moiraghi, invece la mia fidanzatina si chiama Moiraghi Carla, si chiama, io penso che sia ancora in vita.

Dopo lei è andata in montagna, lei ha fatto tempo ad andare in montagna a fare la partigiana.

Andiamo avanti da Dachau.

D: La doccia?

R: Prima della doccia mi hanno chiesto cosa facevamo di mestiere; l’importante è il mestiere perché se tu non avevi un mestiere …

Io non sapevo cosa dire e mi è venuto in mente e ho detto: il meccanico.

Mi ha salvato perché allora i meccanici li…, ma io non ero capace di fare il meccanico, non sapevo niente di meccanica.

Ad ogni modo ci hanno tenuto due mesi nel campo 23.

D: Nel blocco 23?

R: Nel blocco 23.

D: Ma ascolta oltre alla doccia ti hanno rasato …?

R: Sì mi hanno rasato, mi hanno lasciato in mezzo la striscia , ci hanno dato la casacca, doccia fredda senza sapone, senza salvietta, senza niente, intendiamoci bene, ti sei vestito ancora bagnato, non c’erano maglie, non c’erano mutande, non c’era calze, ci hanno dato gli zoccoli olandesi di legno e ci hanno mandato al blocco 23.

D: E ti hanno immatricolato ?

R: Sì, la mia matricola è …., deve essere su lì, 53 mila…

D: …765. Quella di Dachau?

R: Invece quella di Flossenbürg è 4958.

D: Ti hanno immatricolato e ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso. Era già preparato sulla giacca.

D: Sulla zebrata ?

R: Sulla zebrata. Sono stato lì due mesi poi una mattina ci hanno chiamati…

D: Sei stato lì due mesi al blocco 23?

R: Senza fare niente.

D: Non facevate niente?

R: Niente dalla mattina alla sera.

D: Il blocco era diviso in due Stube ?

R: Sì praticamente c’era una cosa di rete, adesso non mi ricordo, so che noi si dormiva…, ad ogni piano di castelli eravamo in tre con una coperta, beh faceva caldo, era settembre, ottobre, non è che faceva tanto freddo.

Era lavarsi che…, tu ti dovevi lavare così senza sapone, senza salvietta, senza niente e il mangiare, perché abituarsi al mangiare è un problema.

E’ un problema quel cibo che ti davano, io adagio adagio l’ho mandato giù, quelli che non l’hanno mandato giù purtroppo ci hanno lasciato la vita e questo è successo anche a Flossenbürg.

D: Ma ascolta, lì a Dachau facevate gli appelli ?

R: Tutti i gironi, per l’amor di Dio, alla mattina, al pomeriggio.

D: Però dal campo non sei mai uscito?

R: Mai uscito, sono uscito soltanto per andare a lavorare, perché dopo due mesi ci hanno chiamati, da meccanico mi hanno fatto fare l’idraulico in un castello in riva al Danubio che doveva essere ristrutturato perché doveva servire al Fuhrer per fare le cose.

C’erano muratori, c’erano idraulici; io dato che facevo il meccanico mi hanno chiesto se sapevo qualcosa di idraulica e ho detto sì, perché poi ero riparato dal freddo, là faceva freddo, dopo ha incominciato a venire novembre, dicembre e non so come ho fatto io.

Per fortuna che c’erano…

D: I Meister .

R: Sì i Meister e io ne ho avuto uno buono che ha capito che non capivo proprio niente e mi ha fatto vedere qualcosa, è stato lì tutti i giorni fino alla fine di dicembre, il Natale lo abbiamo fatto lì.

D: Ambrogio ma da Dachau ti hanno portato solo te del tuo gruppo in questo castello?

R: Sì quel gruppo che eravamo dentro lì.

D: Ma c’erano altri italiani?

R: No italiani lì non ce ne erano, erano tutti russi, sloveni, polacchi, cecoslovacchi, un po’ di tutto.

D: Italiano eri solamente te?

R: Italiano solo io.

D: Vi hanno portato come da Dachau a questo castello?

R: Con i camion. Siamo andati via alla mattina e siamo arrivati al pomeriggio. Ci hanno messo dentro in una baracca tutti assieme, eravamo un centinaio, non di più e dalla parte di la c’era la SS, non c’era il Kapò , c’era la SS e hanno fatto un discorso che hanno detto: “Il primo che scappa lo prendono e lo fanno sbranare dai cani”.

Infatti tre li hanno riportati indietro sbranati dai cani e li hanno fatti vedere, li hanno tenuti lì fino alla sera quando siamo rientrati dal lavoro.

Lì ho passato tre mesi poi il mangiare era discreto perché lavoravi.

Poi c’era quel Meister che veniva da fuori che ogni tanto ti portava un pezzo di pane, si capisce che lo faceva anche lui per salvarsi la vita, tra parentesi, difatti dopo Natale, a febbraio…

D: Scusa, Natale lo hai fatto in campo?

R: No Natale l’ho fatto lì.

D: Al castello?

R: Al castello.

D: Al campo non sei più rientrato?

R: A Dachau no, mi hanno portato direttamente a Flossenbürg.

D: Dal castello?

R: Dal castello. Erano già in… a Flossenbürg.

D: Tutto il vostro gruppo?

R: Tutto il nostro gruppo.

D: Come vi hanno portato?

R: Con il camion.

D: Anche lì?

R: Con il camion, sì.

D: E questo è avvenuto quando, gennaio, febbraio?

R: I primi di febbraio del ’44 e hanno fatto anche lì la selezione .

Praticamente ai quei cento chiedevano e lo sapevano che io ero un meccanico, c’era poco da fare e mi hanno mandato il giorno dopo a lavorare sulle ali di apparecchi di …

D: Ascolta, arrivi a Flossenbürg e lì cosa succede?

R: Fanno la conta perché quando scendi fai la conta poi mi mandano al blocco 9. Al blocco 9 sono andato; poi dopo il Kapò alla mattina ti dice che devi andare a lavorare.

D: Ti hanno cambiato numero.

R: Sì il 4958. Se non dicevo questo non mi davano da mangiare.

Lo dovevo dire in tedesco. Ormai lo so ancora dopo sessant’anni, lo ricordo ancora questo numero, non posso dimenticarlo, non si può dimenticarlo.

D: Il giorno dopo subito a lavorare?

R: A lavorare, sì.

D: Ma l’officina era all’interno del campo?

R: No, fuori il campo, si doveva fare quasi un chilometro circa; una stradina che andava, c’erano dei capannoni, il capannone dove hanno portato me c’erano dentro delle strutture, su ogni cosa c’era su un’ala di apparecchio e tu dovevi ribattere i cosi di alluminio però non dovevi lasciare l’aria perché se lasciavi l’aria non andava bene.

Io non l’ho mai fatto.

Cosa ho fatto? Ho fatto un buco così nell’ala.

Mamma mia quante botte ho preso perché dicevano che ho fatto apposta per fare danno alla….

“Mi è scappato il trapano”, io ho detto in italiano, il kapò che parlava un mezzo italiano, aveva su il triangolo nero, “Come ha fatto a scappare?” “E’ scappato il trapano nel tirar fuori il coso ho fatto il buco”.

Mi hanno messo là e 50 nervate sul sedere e dopo dovevo lavorare ugualmente.

Lavoravo con un polacco che era un gran sporcaccione perché faceva la spia, un gran sporcaccione.

Allora ho detto: “Guardate io tengo la cosa e quello la ribatte con la cosa che è più pratico di me, io faccio il meccanico ma non ho mai fatto queste cose qua”. Infatti siamo andati avanti e sono andati bene.

La giornata era sempre quella, rientravi alle quattro e mezza, li mettevano tutti inquadrati, facevano l’appello, poi chiamavano chi doveva essere impiccato; tutti i giorni ce ne erano, una volta undici, una volta c’erano dentro anche tre italiani e poi lasciavano lì gli impiccati fino alla mattina fino a quando noi si andava al lavoro per farci vedere che chi faceva gli sgarri venivano puniti in quel modo.

Poi dopo l’impiccagione, prima c’erano 25 nervate sul sedere, poi ce n’erano 50 a secondo le cose che hai fatto e poi c’era l’impiccagione.

Poi c’era questo, adagio adagio, io avevo un numero basso, ero uno dei primi assodati a Flossenbürg, siamo andati fino a 60.000, 70.000, non si poteva più dormire nel blocco.

Un giorno sì e un giorno no si andava giù al Wäscheraum a fare la doccia e ti tenevano lì dalla sera fino alla mattina nudi; alla mattina ti davano i vestiti perché dicevano che li disinfettavano, tu dovevi vestirti e andare a lavorare e tutti i giorni era quello.

L’unico rispetto che avevano era la vigilia di Natale.

La vigilia di Natale del ’44 ho mangiato un pezzettino di carne, l’hanno data a tutti, nel brodo, hanno fatto il brodo con dentro un po’ di farina nera e c’era dentro un pezzo di carne e non ci hanno fatto lavorare, né la vigilia né Natale.

Il giorno dopo siamo andati a lavorare, ma tutti i giorni era quella stessa cosa: la conta, giù al bagno un giorno sì e un giorno no.

C’erano sempre queste cose qua.

Il forno crematorio andava dalla mattina alla sera.

Poi noi italiani eravamo dei traditori e allora la domenica noi non si riposava, si doveva portare il carbone al forno crematorio; dalla mattina alle 7 con le cose si andava giù poi si andava su poi si andava al forno crematorio fino a mezzogiorno, poi si andava al blocco.

D: Una giornata tipo di Flossenbürg, la sveglia a che ora era?

R: La sveglia era alle 5,30, 6,00.

D: Estate e inverno?

R: Estate e inverno lo stesso, non esisteva né inverno né estate, là il giorno era tutto quello all’infuori della domenica un’ora in più.

D: Alle 6 anche se pioveva, nevicava?

R: Se pioveva dovevi uscire, dovevi uscire.

D: Tu sei sempre rimasto nel blocco 9?

R: No, sono andato al blocco 7, al blocco 3, al blocco 5.

D: Anche lì Ambrogio i blocchi erano divisi in due Stube?

R: Qui a Flossenbürg c’è una scalinata, c’era una scalinata, forse non c’è più.

D: No, la scalinata c’è ancora.

R: Una di blocchi di qua e una di là.

Cominciava con il blocco 1, blocco 3, blocco 5 e andava avanti così fino al blocco 9…

Perché io quando ero al blocco 3 ero a posto perché mangiavo, perché alla notte io uscivo. Sotto il blocco 3 c’era la cucina e io andavo giù, io e un certo Esposito.

D: Eugenio?

R: No, Esposito lo conosco, quello che è morto, il pompiere, l’è un me amis, ci siamo trovati là a Flossenbürg insieme a Camia.

Andavo giù in cucina a rubare le patate e le portavo su un po’ per tutti e non si poteva farle cuocere, si mangiavano crude. Cosa vuoi fare, almeno mangiavi qualcosa no?

Le mangiavi crude fino a quando hanno pescato il mio amico, io ho fatto in tempo a scappare, lui invece lo hanno pescato i tedeschi.

E’ morto a botte dentro nel gabinetto.

Lo hanno ammazzato a botte nel gabinetto.

Si chiamava Esposito, era un napoletano.

Di lì ci hanno spostato, non so perché hanno scelto anche me, mi hanno spostato al blocco 7.

D: Nel blocco in quanti eravate più o meno?

R: Si dormiva ai castelli in tre…

D: Anche lì?

R: Sì, sì. Prima in uno, dopo in due, dopo in tre.

Dopo alla fine c’era troppa gente.

D: E di quanti piani erano?

R: Tre piani. In un blocco ce n’erano tre di là e tre di qua; si entrava, appena fuori dall’entrata c’era la guardiola del Kapò, dove dormiva il Kapò, c’era un piccolo spazio dove c’era una piccola stufa che all’inverno andava per un’ora, un’ora e mezza, dove noi si tentava di tagliare le patate con la buccia e si mettevano lì a scaldare, appena che erano calde le mettevamo in bocca per mangiarle, fino a quando ho potuto grattare le patate, quando non si poteva più niente.

Io e quello lì abbiamo rubato tutto il pane al Kapò.

È successo un disastro, è successo un disastro.

Ci hanno messo tutti in fila, una parte di Kapò e di polacchi, che erano aggregati, di là con in mano un coso a correre avanti e indietro a picchiare per un’ora e volevano sapere chi è stato.

Se ero stato io … ma chi gli diceva qualcosa, ti impiccavano, ti ammazzavano.

Mi sono sempre arrangiato così fino a quando un bel giorno lì ho trovato Camia ed Esposito.

Mi è venuta la dissenteria.

Non puoi andare al Revier perché il Revier è l’anticamera del forno crematorio e allora cosa facevo? Andavo a lavorare lo stesso, legavo i pantaloni perché la diarrea…, alla sera quando entravo mi levavo i pantaloni sotto il Wäscheraum li lavavo, li mettevo sotto il cuscino ma alla mattina erano ancora bagnati poi la dissenteria non passava, allora cosa facevo? Davo via il pane per l’acqua bollita.

Mi davano l’acqua bollita e io davo via un pezzo di pane, era poco, ti davano tanto così di pane alla sera con un cucchiaio di marmellata, un cucchiaio di margarina, a secondo, non tutti e due marmellata e margarina, una sola, fino a quando dopo venti giorni mi è passata però non sono andato alla Revier.

D: Ascolta Ambrogio, quindi sveglia alle 6, Wäscheraum per lavarsi.

R: Diciamo lavarsi.

D: Poi?

R: Poi fuori.

D: Vi davano il caffè, qualcosa?

R: Sì, acqua sporca, fuori, un mestolo poi giù da basso conta, poi accoppiati si andava fuori per andare a lavorare alle 7,30 circa.

Si andava a lavorare e si arrivava alle 8 sul lavoro, a mezzogiorno ci davano un mestolo…

D: Lì in officina?

R: In officina.

D: Quindi la Miska, la gavetta ve la portavate…

R: Per forza, se non avevi quella non mangiavi.

Portavi la gamella qua attaccata, ti davano un mestolo di minestra, non c’era dentro né riso né niente, c’era dentro verze e bucce di patate. Un mestolo e con quello lì tiravi sera; la sera andavi a casa, un pezzo di pane o un cucchiaio di marmellata o un cucchiaio di margarina o un pezzo di salame avvolto nella carta, non so che salame era e basta.

Poi se ti capitava dovevi andare giù al Wäscheraum tutta la notte perché dovevi fare la doccia per disinfettare i vestiti, un giorno sì, un giorno no, un giorno sì, un giorno no.

Ne sono morti tanti.

D: Ascolta ti ricordi oltre agli italiani che dicevi, l’Esposito il Camia, ti ricordi altri italiani lì a Flossenbürg?

R: Degli altri italiani non mi ricordo più i nomi perché io sono stato uno che ha fatto la marcia di eliminazione .

D: Lì a Flossenbürg tu sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 19 aprile del ’45.

D: Sempre lavorando in questa…

R: No. A febbraio non ci hanno mandati più a lavorare perché già la guerra… e allora ci tenevano ai blocchi.

Il 19 Aprile del ’45 è arrivata la Croce Rossa Internazionale, sulla salita però non l’hanno fatta entrare.

Hanno incolonnato chi poteva stare in piedi, eravamo circa 1.500, 2.000 e quelli che proprio erano quasi morti e non potevano camminare li hanno lasciati lì e intanto che noi si andava giù si vedeva la Croce Rossa e l’hanno fatta entrare nel campo perché hanno lasciato libero in campo.

Ci hanno fatto fare quattro giorni a camminare senza bere, senza mangiare, chi cadeva gli sparavano alla tempia fino a Darvin ai confini della Cecoslovacchia.

Lì una mattina, il 23 di aprile, dei carri armati americani hanno fatto una puntata e i tedeschi sono scappati e ci hanno abbandonati su uno spiazzo ma gli americani non sono venuti perché gli americani sono venuti quattro giorni dopo.

Noi vedendoci liberi siamo scesi tutti, ero con quattro italiani, uno che suo padre faceva il casellante a Casale Monferrato che poverino è annegato, c’era un fiume è andato dentro a fare il bagno ed è annegato, poi c’erano altri tre italiani che non ricordo il nome perché adesso ti spiego tutto quello che è successo.

Siamo andati giù e siamo andati in una cascina vuota, c’erano delle galline, tu puoi immaginarti, eravamo quattro italiani, tre russi, due polacchi e basta.

Abbiamo preso una gallina, l’abbiamo spennata ma non l’abbiamo pulita, la abbiamo fatta cuocere; non ci ricordavamo più però l’abbiamo mangiata tanto è vero che dopo mi è venuto il paratifo.

I russi andavano in paese e requisivano tutto, portavano lì il mangiare, ce n’era di mangiare che non finiva più.

Una mattina, il 27 o il 28 mattina, alle 4 o alle 5 del mattino, era estate era il mese di aprile, ma era chiaro, si spalanca una cosa, vediamo uno nero, erano gli americani; di lì ci hanno portati al campo di aviazione che avevano creato perché loro sapevano che c’era questo trasporto e avevano trovato tutti i morti dietro la strada che hanno lasciato i tedeschi e ci hanno portato al campo di aviazione dove c’era un ospedale da campo e lì ci hanno ripulito, fatto le punture, siamo stati lì un bel po’ per tirarci su perché io pesavo 36, 37 chili.

Il campo era diretto da un ufficiale, da un tenente colonnello italo americano e allora io sono andato da questo qua e gli ho detto: “Senta una cosa, non si potrebbe dare vita agli…, siamo qua a fare! Siamo qua in quattro”, “E con che cosa vai?” “In paese sequestro un cavallo e un carretto e andiamo” ” Ma è pericoloso!”.

Dopo un po’ mi hanno fatto un permesso però dice: “A Innsbruck voi vi dovete presentare nel centro di raccolta che loro vi mandano in Italia”.

Io ho fatto tutta l’Alta Baviera, tutte le volte che ci fermavamo, poi eravamo armati perché lì non potevi andare…, poi ci hanno dato le rivoltelle, le munizioni per fare il viaggio e si andava a dormire nelle case.

Quando si andava a dormire nelle case noi si dormiva nell’ultima stanza, mai nella prima o nella seconda o in mezzo, nell’ultima. Avevamo paura che i tedeschi…

Ad ogni modo siamo arrivati ad Innsbruck.

A un certo momento quelli là mi dicono: “Allora andiamo a presentarci…?” “Io no. Io vado alla ferrovia, il primo convoglio che passa per l’Italia io me lo prendo e vado in Italia perché se andiamo dentro là stiamo quattro o cinque mesi prima di andare in Italia a casa”.

“Ma io non so, io vado”. Insomma loro sono andati, io cosa ho fatto: ho girato un po’ Innsbruck fino a quando ho trovato da vendere i cavalli.

Ho venduto i cavalli ma non per i soldi, per loro, poi mi sono fatto dare anche delle fedi perché le avevano portate via a mio padre e a mia madre i fascisti e sono andato alla stazione.

Dopo un’ora che ero lì passa mica un’altra tradotta di alpini che andava in Italia; sono saltato su e l’ho presa.

Sono andato fino a Bolzano; a Bolzano hanno riconosciuto subito da dove arrivavo.

Il giorno dopo è arrivato un pullman dell’ATM perché lì era tutto bombardato, da Bolzano fino a Verona la ferrovia non andava e mi hanno portato a Milano.

Sono arrivato a Milano il 21 luglio del ’45.

D: Luglio?

R: Luglio del ’45 a mezzanotte, dodici meno un quarto in Piazza del Duomo mi hanno scaricato.

Dovevo prendere il 24 perché abitavo in Via Ripamonti e ho preso l’ultimo tram ma ero vestito da americano con i pantaloni corti.

Il tranviere quando mi ha visto ha detto: “No, non pagare il biglietto”, tanto al pagavi no il bigliet, non potevo pagare il biglietto come faccio, non ho neanche una lira!

Sono arrivato a casa. Era estate, era il 21 luglio.

Fuori col caldo che faceva, c’era fuori una mia vicina.

Quando mi ha visto ha detto: “L’Ambrogino! Spetta ad andà in cà se no fai morire di crepacuore tua mamma perché tua mamma ti pensa morto”.

Avevo la fotografia alla chiesa di via Ripamonti, l’Annunziata come si chiama, quella mia fotografia perché io ero morto.

D: Allora te se venu a ca e la tua vicina…

R: Mi ha detto di aspettare perché doveva almeno preparare la famiglia, erano le dodici e mezza circa, poi c’era in casa mia sorella e c’era in casa, che io lo chiamavo fratellastro, un ragazzo, Giaele si chiamava, che era il figlio della portinaia della casa di mio padre in via Giulio Carcano 26, erano morti il papà e la mamma, mio papà e mia mamma lo hanno preso e lo hanno tenuto come figlio e dormiva nel mio letto, io ormai erano otto anni che ero via, lui non era nemmeno andato a militare.

Ad ogni modo poi entro in casa, ci abbracciamo, si mettono a piangere, insomma tante belle storie, tante belle balle, gli do le fedi a mio papà e alla mia mamma, mi faccio il bagno, mi vesto e me ne vado.

“Come te ne vai!”

Avevo voglia di andare in giro, di andare a vedere le vecchie cose che ho lasciato otto anni prima, non sono quasi mai venuto a casa da militare e sono andato, sono stato via quattro giorni.

Sono andato, ho trovato la mia ex fidanzata che ormai era con un capitano dei partigiani che era in montagna, non mi interessa perché non è che mi faceva dispiacere.

Poi ho trovato un’altra mia ex fidanzatina che poi l’ho sposata.

Sono stato lì in casa, abbiamo parlato, abbiamo mangiato, ho visto tutte le cose, ho visto chi è morto, chi è vivo.

Volevo essere libero e fare quello che volevo.

Poi sono andato a casa e ho cominciato a ragionare perché mio padre la fabbrica l’ha persa perché ha avuto un incidente con la centrale del latte nel ’39 quando io ero a militare.

E’ stato in coma tre mesi, quando è uscito dal coma non era più mio papà, non era più Ciceri Luigi.

Mio papà è questo.

Andavo a dormire a casa di un mio amico, non dormivo in casa, andavo lì dai miei ed a un certo momento ho detto: “Ma che vita sto facendo io, quasi quasi mi sposo”.

Quella li mi tirava per la camicia e allora mi sono sposato a ottobre del ’45, ma non mi sono sposato il 28 ottobre, mi sono sposato il 27, mai il 28 ottobre e siamo andati avanti un po’ fino a quando poi è nata mia figlia.

Mia moglie era troppo gelosa, scene da baraccone, una cosa terribile.

Io chi è geloso lo compatisco.

Io non potevo ritardare mezz’ora. Se dicevo vengo a casa alle 7, dovevo essere a casa alle 7, non potevo fermarmi con un amico a parlare, era il colmo dei colmi poi a me che piaceva la libertà era una cosa assurda.

Ad un certo momento ho detto: “Senti…”.

Una sera che sono venuto a casa, se non faccio a tempo a tirar via la testa prendevo un bottiglione che mi spaccava la testa, perché avevo ritardato un’ora o due, diceva che avevo la morosa, tute le stupidate delle donne, cosa si inventano.

Mi sono diviso, ho preso la valigia e sono andato via.

Mia figlia aveva cinque anni.

A casa di mia mamma non ci volevo andare, non volevo tornare perché dopo mia madre, Giaele era andato via, si era sposato, mia sorella si è sposata anche lei, mio padre era morto nelle mie braccia nel ’50, gli è venuto un tumore allo stomaco.

Non volevo andare a casa di mia madre a dare fastidio, poi poverina anche lei aveva tante cose, poi dopo mia sorella ha cominciato ad avere dei bambini, poi c’era mia figlia.

Insomma sono andato via, mi sono messo con una qua in corso Magenta; siamo stati lì un bel po’ assieme fino a quando ci siamo lasciati e dopo sono sempre stato solo.

D: Ma Ambrogio quando sei tornato hai iniziato a parlare della deportazione?

R: Sì ero con Papalettera, non so se ricordi Papalettera.

I primi a fondare che l’abbiamo fatto in corso Matteotti, io e Papalettera. Poverino adesso è morto.

C’era un altro, Beretta, è sempre stato anonimo, faceva l’usciere alla banca d’America e d’Italia, dietro la Scala, mi sembra.

D: Ma raccontavi ai tuoi amici, a casa?

R: Sì raccontavo, ma guarda sembravano barzellette.

Dopo tanti anni, adesso cominciano a capire qualcosa ma non tanto.

Sono andato nelle scuole anche quando c’erano i miei nipoti perché una delle mie nipoti adesso fa l’Università, io andavo quando faceva le elementari, quell’altra fa il liceo.

Quando facevano le scuole elementari mi chiamavano e andavo là a spiegare com’era la deportazione, cosa è stato, come è stato il fascismo e tante belle cose, ma vedi ho sempre visto che la gente adulta non si è mai interessata, non si è mai interessata.

Noi abbiamo un capo del Governo, scusami, che non ha mai presenziato una volta, una volta al 4 novembre ai monumenti dei deportati, non dico andare di là dagli ebrei ma al monumento dei deportati, ma nessun capo del Governo, anche democristiano, nessuno.

L’unico, quando c’era il socialismo a Milano, che mandavano un rappresentante del comune; adesso il comune manda uno che non sai nemmeno chi è a portare una corona e basta, ma non fa come Albertini che va a Musocco e poi va anche…

Ma io dico sono morti e non metto in dubbio, un morto cerchiamo di rispettarlo, lasciamo stare come la pensavano, come non la pensavano, ma che adesso mi vengono qua a raccontare che …

Da quando c’è stata la Repubblica, l’unico che ha difeso è stato Pertini.

Io ero con il fratello di Pertini a Flossenbürg e poverino hanno detto che l’hanno fucilato; non è vero, è morto poverino di dissenteria, non l’hanno fucilato Pertini perché non c’era motivo di fucilarlo, è morto come sono morti tanti altri, come tre colonnelli che venivano dalla Grecia, sono morti anche loro perché non volevano mangiare.

C’erano là anche dei generali, c’era là anche padre Gianantonio, che adesso è morto anche lui ma è morto qua non è morto là.

Praticamente non si sono mai interessati, i democristiani non si sono mai interessati di queste cose, mai, l’unico che ha fatto qualcosa, se abbiamo qualcosa è Pertini perché è stato Presidente della Repubblica, ma gli altri…

D: Ascolta Ambrogio, a Dachau o a Flossenbürg ti ricordi se hai visto anche delle donne deportate?

R: No. C’erano le donne perché si sapeva che c’erano le donne.

D: Dove questo?

R: Fuori dal campo, sia a Flossenbürg che a Dachau, ma servivano per tante cose. Per esempio a Flossenbürg c’è stato anche Canaris e l’hanno fucilato lì a Flossenbürg, Canaris.

Sai chi era?

D: Quello di Roma dici?

R: Canaris il tedesco che ha tradito Hitler.

D: Sì, sì, …quello che … di Roma.

R: Il maresciallo Canaris quando lo hanno arrestato lo hanno portato a Flossenbürg ma non con noi, fuori, a parte.

D: E le donne c’erano?

R: Sì c’erano ma fuori dal campo.

D: Non deportate come voi?

R: Non so.

D: Questo non lo sai. Ascolta, un’altra cosa, ti ricordi per caso come si chiamava la ditta dove tu andavi a lavorare lì a Flossenbürg?

R: Non ce l’hanno mai detto questo.

D: Non ve l’hanno mai detto.

R: Io penso sia la Messerschmitt perché gli aeroplani…

D: Lì eravate in tanti a lavorare in questa fabbrica?

R: A fare le ali eravamo in diversi perché c’era uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, dodici cose di ali, dodici di qua e dodici di là; ce ne erano due ogni ala, dunque eravamo ventiquattro, venticinque, ventisei lì, poi di là c’erano quelli che sceglievano le viti, c’era lì anche quello di Cuneo, un dottore di Cuneo.

D: Deportati?

R: Deportati.

D: Questi capannoni dicevi che erano distante un chilometro e mezzo dal campo.

R: Un chilometro non di più.

D: Non erano giù alla cava?

R: Sì noi andavamo giù ma non lo so se erano alla cava.

D: Non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo perché noi non vedevamo nessuna cava a dir la verità.

D: Ma quando andavate lì a questi capannoni attraversavate il paesino di Flossenbürg o…?

R: No, no, direttamente fuori da Flossenbürg prendevamo la stradina e si andava giù.

No, no, nessun paesino.

D: Quindi Flossenbürg non lo passavate?

R: No, no.

D: Quindi con i civili non avete ….?

R: Mai avuto contatto, mai.

D: E in fabbrica invece c’erano dei civili?

R: Sì c’erano dei civili, c’erano dei civili che verificavano il lavoro finito.

D: Una volta che voi avevate finito il lavoro ecc., quelle ali lì venivano portate via?

R: Venivano portate via, sì.

D: Ma non ti ricordi come, chi le caricava …

R: Quando le finivano le portavano via alla sera quando noi si andava via e alla mattina già trovavamo un’altra ala da ricominciare.

D: Quindi tu il tuo turno di lavoro era durante la giornata?

R: Sì era dalle 7.30, 8.00 fino a mezzogiorno, poi mezz’ora per mangiare, poi fino alle 16.30, poi ci portavano dentro.

D: Nel campo?

R: Nel campo.

D: Quindi di sera o i turni, mai?

R: No di sera mai, mai fatto i turni, mai fatto niente, mai mai mai, mai fatti i turni.

D: Ti ricordi se c’erano deportati più giovani di te o molto più anziani di te lì a Flossenbürg?

R: Più anziani di me c’erano tanti cecoslovacchi, non italiani, degli italiani forse ero io il più vecchio, che avevo ventisei anni, perché gli altri erano molto più giovani di me, Camia era molto più giovane di me, aveva vent’anni, Esposito aveva vent’anni, c’era quello che adesso non mi ricordo più, quello che ci siamo trovati lì…

D: Venanzio.

R: Venanzio aveva vent’anni. Erano tutti giovani, solo io che avevo ventisei anni. C’era Esposito, quell’altro di Napoli che aveva vent’anni, quello lì che è morto annegato che non mi ricordo il nome di Casale Monferrato, suo padre faceva il casellante, so che ce l’ho detto quando sono venuto a casa.

Perché dopo quando sono venuto a casa sono venuti a trovarmi diverse persone per sapere.

Ma guarda sono passati tanti anni che non mi ricordo.

D: Tu a Flossenbürg non sei più tornato?

R: No.

D: Neanche a Dachau?

R: No. E’ andata mia figlia per me.

D: Tu perché non sei più ritornato?

R:Guarda prima cosa perché io sono ammalato e dovrei ogni quarantotto ore fare una certa operazione che mi serve acqua calda, mi serve un bagno, mi serve…

D: Va beh le tue cose.

R: C’è una cosa che ti senti fuori…

D: Certo.

R: Capito? Ecco perché non sono mai andato né a Flossenbürg né a Dachau.

Ci vorrei andare a Flossenbürg perché forse io sono l’italiano più vecchio di tutti, come tempo, perché ci sono stato dal febbraio del ’44 fino al 19 aprile del ’45, un anno e qualche cosa.

Vorrei vedere come è combinata adesso.

D:Come si fa a sopravvivere per sei mesi e più in un Lager nazista?

R: Si fa che hai voglia di vivere, hai voglia di tornare, devi imparare a subire qualsiasi cosa e mandar giù senza mai avere una razione, senza mai …, c’è poco da fare se vuoi vivere.

D: E conta molto anche la fortuna?

R: Conta molto anche la fortuna e l’arrangiamento. Uno si deve arrangiare come è messo.

D: ” Organizziere “.

R: “Organizziere”, esatto, perché io mi ricordo quei tre colonnelli che sono arrivati dalla Grecia che non hanno aderito alla Repubblica di Salò , che come sono arrivati rifiutavano il cibo.

Io gli ho detto: “Mangiate, date retta a me se non mangiate non sopravvivete, bisogna adattarsi a tutto”.

Dopo quindici, venti giorni sono morti.

C’erano là anche due generali, uno un siciliano che mi ha scritto dalla Sicilia, non mi ricordo il nome, un generale era.

Loro mangiavano quello che gli davano se volevano vivere, c’era poco da fare, forse a loro davano qualche cosa in più, adesso non lo so, non ho mai visto niente, ma noi nei blocchi ci si doveva arrangiare, c’è poco da fare e non fumare.

D: Ambrogio ti ricordi se erano possibili all’interno del Lager atti di solidarietà fra voi deportati?

R: Non ce n’erano atti di solidarietà, non ce n’erano, ognuno pensava per se stesso, non ce n’era e bisognava anche stare attenti con chi parlavi anche, specialmente se erano polacchi perché i polacchi hanno forse nel sangue, forse adesso no ma so che là erano quasi tutti degli sporcaccioni, tutti facevano la spia al Kapò e quando succedeva qualcosa la colpa era loro.

D: La maggior parte dei Kapò che tu hai avuto di che nazionalità erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: Triangoli?

R: Neri.

D: Neri?

R: Neri. Criminali.

D: Dentro lì a Flossenbürg oltre ai politici e ai criminali ecc. ti ricordi anche dei testimoni di Geova?

R: No.

D: Triangoli viola?

R: No.

D: E degli ebrei ti ricordi?

R: Ebrei sì ce ne stavano ma poca roba, sono stati pochissimo tempo perché dopo li hanno levati tutti e non li hai visti più.

Io mi ricordo che quando andavo su a portare il carbone al forno crematorio, perché noi portavamo anche i morti al forno crematorio, noi italiani, alla mattina quando tu trovavi nel tuo blocco nel Wäsheraum un morto lo spogliavi nudo, dovevi scriverci il numero qua e portarlo su, lo buttavi là dentro nello stanzone, era pieno di morti e lo buttavi là.

D: Tu avevi ventisei anni e hai fatto il militare…

R: Guarda che il militare l’ho fatto come ho voluto io non come ha voluto il Duce.

D: No, no io dicevo questo per dire: il rapporto con la morte.

Quando qui si parla di morte nei Lager non si dice un cadavere, dieci cadaveri ma si inizia a contare da 100 a 500, 1000 cadaveri ed è una cosa quotidiana, no?

Ecco come cambia questo rapporto con la morte?

R: Guarda ti dirò non voglio essere…ma non mi interessava, non mi interessava, ero indifferente a tutte queste cose qua perché io sono stato anche nel blocco dove è scoppiato il tifo petecchiale.

Sopra c’era il forno crematorio e sotto c’era il blocco, eravamo in 400 circa, in tre siamo usciti.

Lì è, scusi il gesto, lì è questo…

Io non ho preso né un raffreddore invece qua continuo a prenderli, né un raffreddore né la tosse, niente; quando ho finito tutto mi sono preso: bronchite cronica, enfisema polmonare, paratifo, tutti mi sono venuti, meglio dopo che là, intendiamoci bene.

L’unica cosa che mi è venuta è stata la dissenteria, ma il rapporto morte ere indifferente, io pensavo solo di venire a casa e basta, di farcela.

La mia fissazione era questa e ce l’ho fatta.

D: E’ quello che ti ha aiutato molto, pensare…

R: Sì, sì è quello che ti aiuta molto e trattenerti anche in tante cose. Certe volte anche sul lavoro, per esempio quando mi hanno picchiato perché ho fatto quel buco, la sensazione di rivoltarsi, è stato meglio così se no sarei morto, perché nel frattempo che ti picchiano tu pensi e se gridi fanno apposta, devi stringere i denti e sopportare.

D: Ambrogio secondo te è importante che i giovani di oggi conoscono cosa è stata la deportazione?

R: Molto importante. Molto importante perché devono pensare che può succedere ancora. Sì, sì, sì.

Il mio povero padre mi diceva sempre, quando c’era il fascismo, parlo in milanese: “Ti te vedaret cosa te cumbina quest chi. Te cumbina una guera che fa muri tant di chi persun che finis pu, po ta vedaret quel che sucet”.

Ha avuto ragione, su questo ha avuto ragione.

Io dico una cosa sola: se andiamo avanti di questo passo, qui siamo già in mezzo a regime, non pensate che siamo liberi, poi voi se siete giornalisti lo sapete che non siamo liberi, che non si può scriver quello che si vuole se no guai.

Ma se andiamo avanti così non lo so quello che può succedere perché noi abbiamo un capo supremo che è l’America e l’America ha un capo supremo che è un criminale di guerra. Bush è un criminale di guerra, dovrebbe essere processato per quello che ha fatto; ha fatto morire un sacco di persone inutilmente come ha fatto il Duce.

E’ come se gli dessero il permesso di fare anche questo qua.

D: Quindi secondo te è importante che i ragazzi…

R: Che i ragazzi sappiano che possono succedere ancora queste cose qua, possono succedere, dico io che possono succedere e non credere che non…

Noi diciamo che siamo un popolo civile, non penso che noi siamo un popolo civile.

Va bene hanno commesso dei reati, la gente, capisco, ma trattiamo reati con reati.

Ci sono dei reati che sì sono dei reati però c’è la differenza perché c’è quello di B, quello di A e quello di C e noi non abbiamo un’uguaglianza, non c’è l’uguaglianza per nessuno qua.

Prendiamo nelle carceri: cosa c’è dentro poverini.

Noi prendiamo il nostro Parlamento, Bossi è condannato, Maroni è condannato, Berlusconi è sempre stato condannato, Previti non parliamone, Dell’Utri…

Prendiamo tutto questo, ma cosa abbiamo noi?

Ma perché loro no e questi poveretti sì?

Non abbiamo neanche la giustizia, non abbiamo nemmeno la giustizia e abbiamo un Presidente buono ma un pappamolla, ma molto molla, non ha polso, non ha niente.

D: Comunque ascolta una roba: se dovesse proporsi l’occasione, fermo restando con i tuoi problemi delle 24 ore, 12 ore, quello che è 48 ore ecc, tu ha i bisogno di…, una capatina su a Flossenbürg ci staresti?

R: Sì la farei quest’estate, la farei volentieri, ma l’avrei già fatta anche molto volentieri la farei, molto volentieri, sperando che non mi venga più niente, ho anche il diabete, ho un sacco di cose.

Io non so perché sono ancora vivo!

Ho avuto nel ’45 un tumore alle corde vocali destre, mi hanno fatto la radioterapia all’ospedale dei tumori…

D: Abbiamo finito.

Coppolecchia Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come si chiama?

R: Chi, io?

D: Sì.

R: Mario.

D: E di cognome?

R: Coppolecchia.

D: Di dove siete originario, Mario?

R: Di Schipella Foggia, Gargano.

D: Però vi siete trasferito?

R: Sono stato undici anni in Piemonte.

D: Dove in Piemonte?

R: Cuneo città.

D: Proprio Cuneo città?

R: Cuneo città. Poi sono stato tre anni a Torino.

D: In Piemonte dove vi hanno arrestato?

R: In Piemonte a Val Varaita, in Val Varaita a Torretta e Casteldelfino.

D: Come mai eravate lì?

R: Dai partigiani.

D: Quanti anni avevate?

R: Vent’anni.

D: Perché avete fatto la scelta del partigiano?

R: Ho fatto la scelta del partigiano perché non ho voluto aderire alla Repubblica di Salò. L’8 settembre ’43 ero a Venezia, nell’ospedale di Venezia. C’è stata la visita della duchessa di Genova, ha visitato gli ammalati.

Com’è arrivata da me, mi fa: “Tu, piccolo soldatino, cosa fai?”. Dico: “Sono qui ricoverato che ho la bronchite”, un sacco di storie, ma io l’ho fatto apposta, sigari sotto le ascelle. Mi sono arrangiato per non partire, per non andare in guerra.

Allora ha chiamato il primario e dice: “Vuoi andare a casa? Ci terresti ad andare a casa?”. “Caspita, eccome”, dico io. Allora fa al primario: “Propongo al soldatino due mesi di convalescenza”.

Mamma mia, appena è andata via mi sono messo a ballare sul letto io. Due mesi di convalescenza. Quel disgraziato cosa ha fatto, com’è andata via lei, la duchessa di Genova, al posto di due mesi ha messo il due davanti e ha fatto venti giorni.

Comunque a me è andata bene, perché al 5 settembre ’43 sono uscito dall’ospedale e sono andato con venti giorni di convalescenza, l’8 settembre c’è stata la disfatta e mi sono trovato a casa.

D: A casa dove?

R: A casa a Cuneo.

D: Ah, Cuneo.

R: Sempre a Cuneo, via Fossano 30. Che è successo? Dopo era pericoloso perché c’erano i rastrellamenti. Per mezzo di un mio paesano che era maresciallo degli alpini, mi ha portato in ufficio assieme a lui.

Dice: “Tu stattene qua, facciamo il libretto di presenza … per i dispersi di guerra”, ecc. Aiutavo a fare qualcosa, la mattina andavo e accendevo la stufa, era pieno inverno. Però mi prendevo lo stipendio, ho fatto un paio di mesi.

Nascosto sempre. Dopodiché la vita diventava impossibile in quanto c’erano i rastrellamenti continui della Wermacht e più della Monterosa. Allora un certo maggior Giannandrea mi ha detto: “Guarda che la vita diventa impossibile, qui non puoi più starci perché è pericoloso anche per noi”.

Cosa faccio? D’accordo con due fratelli, Tassoni si chiamavano questi tizi, di una frazione vicina, a tre chilometri da Cuneo. Ci siamo messi d’accordo, loro conoscevano un ex tenete dell’esercito che si chiamava Santino.

D’accordo con questo mi ha fatto pervenire due bombe a mano con la pistola, praticamente noi per andare in montagna dovevamo attraversare tutti i posti di blocco. Abbiamo fatto così.

Quei due e io siamo andati in montagna in Val Varaita. Abbiamo trovato questo tizio e ci ha assegnato il distaccamento, poi il comandante della valle era un certo Giannardo, un capitano dell’esercito anche lui.

D: Eravate una brigata quindi?

R: Una brigata, sì.

D: Che si chiamava?

R: Brigata alpini, brigata del secondo alpini. Qui ho le carte e tutto.

D: Dopo le vediamo. Lì quanto tempo siete rimasto in brigata?

R: In brigata siamo rimasti due o tre mesi.

D: Nel ’44?

R: ’44. Dopo quando mi hanno preso, mi hanno preso di sorpresa, ero di guardia, di notte mi hanno preso. Mi hanno fatto l’accerchiamento. Da là mi hanno portato alla caserma degli alpini di Casteldelfino. Sono stato dodici giorni.

D: Ma chi vi ha preso?

R: La Monterosa assieme ai tedeschi della Wermacht. Dopo dovevano fucilarmi. Mi hanno fatto fare persino la fossa con le mie mani, picco e pala.

D: Hanno preso solamente Voi?

R: Solo me, gli altri sono riusciti a scappare. Ho dato un fischio io, di corsa nel vallone proprio, c’era a picco un vallone. Uno è stato colpito però, questo l’ho saputo dopo. E’ stato colpito e dopo è morto, un certo… Come si chiamava questo tizio? Era di Vigevano. Era un ex carabiniere.

E’ stato colpito e dopo un paio di mesi è morto questo. Adesso per finire il mio racconto, sono stato dodici giorni là. Quando mi hanno fatto fare la fossa con le mie mani, dovevano fucilarmi. Dopo è venuto un contrordine.

E’ venuto un contrordine e mi hanno portato giù. Sono stato dodici giorni che mi interrogava la Monterosa. Ma io, veramente il mio racconto è troppo lungo…

D: No, non è lungo.

R: E’ successo che prima di venir via dalla caserma degli alpini mi sono procurato una licenza falsa. Dato che ero all’ufficio maggiorità, questo maggior Giannandrea, io avevo tutti i bolli a portata di mano, tutti i timbri e mi sono procurato una licenza per venti giorni di convalescenza, ho timbrato.

Però la firma del maggior Giannandrea l’avrò fatta duemila volte, ero riuscito a farla talmente precisa che nessuno si accorgeva che non era la firma di Giannandrea. Quando mi hanno preso nei partigiani, per quello mi sono salvato ancora, ho presentato questa licenza.

Guarda che io mi trovo così e così perché mi hanno preso. Ho fatto vedere la licenza e quella licenza mi ha salvato.

D: Con la firma falsa?

R: Con la firma falsa. Da Casteldelfino è venuto un contrordine e mi hanno portato a Saluzzo. Ho fatto sessantasei giorni alla Castiglia di Saluzzo sotto gli interrogatori, volevano sapere tutti i nomi dei partigiani, tutti i comandanti.

Io: “E’ poco che sono qui, non conosco nessuno”. Ho sempre negato, praticamente. Mi torturavano, con la pistola puntata sulla fronte mi facevano gli interrogatori. Di più quando mi hanno trasferito a Torino, a Le Nuove di Torino, là sono stato diciassette giorni a Torino.

D: Invece a Saluzzo siete rimasto?

R: Sessantasei giorni.

D: In cella da solo?

R: No, eravamo in due. Tutte le mattine ci tiravano fuori per sapere, per interrogare sempre, sempre la stessa storia che volevano sapere i nomi. Io ho sempre negato: “Non conosco nessuno, non conosco nessuno”.

Dopo, un bel giorno è venuto l’ordine del trasferimento da Saluzzo a Torino, alle Nuove di Torino. Diciassette giorni sotto l’interrogatorio.

D: Il trasferimento con cosa ve l’hanno…

R: Con le camionette. Sì, camionette dei tedeschi e della Monterosa. Dopo diciassette giorni anche là mi hanno trasferito a Bolzano, al blocco dei criminali. Ventitré giorni.

D: Ma quando eravate lì alle Nuove…

R: Sì.

D: Anche lì in cella d’isolamento?

R: In cella d’isolamento.

D: In cella?

R: Sì.

D: Vi ricordate il numero della cella?

R: No, quello no. Non c’era nessun numero, non siamo riusciti neanche noi, non sapevamo la cella. Eravamo all’oscuro.

D: Dopo vediamo i documenti.

R: All’oscuro di tutto.

D: Lì vi interrogavano?

R: Interrogavano ancora, sempre sotto i tedeschi, quelli della Wermacht.

D: Vi hanno portato anche all’Albergo Nazionale?

R: No.

D: Dentro, quando eravate lì alle Nuove, avete trovato altri compagni?

R: Ma noi eravamo isolati, non potevamo confabulare con gli altri. Con nessuno.

D: Questo che periodo era quando eravate lì?

R: Era… No gennaio, un momento. Dicembre.

D: Del ’43?

R: ’44.

D: Dicembre del ’44?

R: ’44, precisamente. Poi da Torino ci hanno portato lì a Bolzano, sono stato ventitré giorni al blocco dei criminali.

D: Il viaggio com’è che…

R: Camionetta sempre, sempre con camion italiani.

D: Da Torino a Bolzano in camion?

R: Da Torino a Bolzano in camion.

D: Quanti eravate?

R: Eravamo una trentina più o meno. Venti, trenta. Camion con i sedili laterali e ci portavano lì con le sentinelle dietro. Naturalmente sentinelle armate col fucile.

D: Quando siete arrivati a Bolzano cos’era? Mattina o giorno?

R: Mattina.

D: Mattina?

R: Mattina, sì.

D: Vi hanno messo dentro nel campo?

R: Mi hanno messo nel campo. Ci hanno destinato il blocco.

D: Vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente. Poi quando siamo andati a Mauthausen, all’arrivo di Mauthausen… Dopo ventitré giorni.

D: Vediamo lì a Bolzano. Siete entrati e vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente.

D: Vi hanno ritirato tutti i…

R: Ritirato tutta la nostra roba e ci hanno dato i vestiti. Ma non erano vestiti zebrati grigi, i vestiti a righe ce li hanno dati a Mauthausen. Lì ci hanno dato dei vestiti grigio-verde, disinfettati ai forni. Non è che erano lavati neanche.

D: Vi hanno dato il numero lì a Bolzano?

R: A Bolzano nessun numero.

D: Niente?

R: Niente.

D: Dove vi hanno messo? In quale blocco vi hanno messo?

R: Al blocco ventitré.

D: A Bolzano?

R: A Bolzano. Blocco ventitré.

D: Non aveva una lettera?

R: No, almeno, io non mi sono accorto di nessuna lettera. Eravamo cintati dentro. Poi un tredici o quattordici persone c’eravamo messi d’accordo di sfondare sotto il blocco.

Si faceva a turno, un’ora per uno sotto i castelli, perché lì si dormiva in castelli. Sotto il castello con certi ferri, un cucchiaio, qualcosa. Piano piano. Mancava sì e no mezz’ora a sfondare. Di notte si lavorava, a turno, un’ora tu…

C’era anche un ingegnere allora, un ingegnere di Milano, non mi ricordo più il nome.

D: Vi ricordate altri vostri compagni lì in quel blocco?

R: Sì. In quel blocco c’era con me un certo Ciamarra Michelangelo, era un ex carabiniere abruzzese questo tizio. Anche lui collaborava a sfondare questa…

D: Poi chi c’era d’altro?

R: Lì c’era un certo Pezzini, colonnello italiano. Quello ci ha fatto la spia. Non gliene dico, botte da orbi. Loro volevano sapere il responsabile, ci hanno tenuto tre giorni fuori.

D: Come fuori? Fuori dove?

R: Fuori all’aria aperta. Si entrava soltanto di sera, in pieno gennaio fuori all’aria aperta, lì in fila inquadrati. Volevano sapere il responsabile.

Visto e considerato, tre poverini sono usciti fuori, siamo stati noi i prematuri, i responsabili dell’idea di sfondare il recinto. Uno l’hanno legato al palo, parlando con molta decenza se la faceva addosso, tutto.

Dopo tre giorni è morto.

D: Come si chiamava questo?

R: Vattelapesca.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo. Un altro l’hanno messo addirittura in una specie di gabbia grande lì dentro. Dopo è stato liberato, dopo tre giorni c’è stata la partenza.

D: Quando eravate lì a Bolzano, cosa facevate lì a Bolzano nel campo voi?

R: Niente. Ci tenevano lì prigionieri, ci davano la minestra. Diciamo minestra, acqua calda con tre fagiolini dentro, quando si trovavano questi fagioli.

Non si lavorava, si era in attesa della partenza. Quando si raggiungeva il numero esatto per il trasporto, si andava.

D: Poi è successo quell’episodio lì che vi hanno preso?

R: Mi hanno preso dove?

D: Quando stavate facendo lo scavo…

R: Sì, ci hanno preso. Per il giorno del compleanno mi sono trovato a Mauthausen già. Lì per punizione ci hanno messo all’aria aperta, al freddo. Si moriva di freddo. Eravamo quasi a sei, sette sotto zero.

D: Con niente addosso?

R: Con niente addosso.

D: Una cosa, Mario. Lì a Bolzano c’erano anche delle donne?

R: No, con noi no.

D: Ma dentro nel campo?

R: Sì.

D: Le avete viste voi le donne?

R: Le abbiamo viste. Le abbiamo viste di sfuggita, ma non si vedevano, perché le facevano vedere.

D: Ah no?

R: No, no. Non le facevano vedere. Di sfuggita.

D: Avete visto per caso anche dei bambini lì a Bolzano?

R: No, bambini non ne ho visti.

D: Un’altra cosa, lì c’erano già le SS però?

R: Sì.

D: Vi ricordate il comandante di Bolzano?

R: Il comandante di Bolzano era un certo Frizzi, Frizzi si chiamava, sì.

D: Dei tedeschi non vi ricordate?

R: No.

D: Haage, questi nomi?

R: As.

D: As?

R: Questo sì, adesso mi viene in mente.

D: Vi ricordate del blocco celle lì a Bolzano?

R: No, il blocco celle no.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Vi ricordate dei due ucraini che c’erano?

R: Non erano assieme a noi forse.

D: Erano assieme alle SS, Misha e Otto.

R: Misha e Otto, quelli sì, quelli me li ricordo.

D: Perché ve li ricordate?

R: Me li ricordo perché certi nomi si tengono, specialmente quelli che facevano parte delle SS e della Wermacht, si tenevano in mente di più, erano quelli che ci torturavano.

D: Vi ricordate di una donna tedesca?

R: No, la donna no.

D: E di una donna italiana piccolina?

R: La donna italiana piccolina si, però non so il nome. Quella lì sì, me la ricordo.

D: La chiamavano la Cicci.

R: Cicci. Sì.

D: Invece la tedesca la chiamavano la Tigre.

R: Quella no, ma della Cicci sì. Quella me la ricordo.

D: Ve la ricordate la Cicci?

R: Sì. Quella me la ricordo.

D: Quando eravate a Bolzano, potevate scrivere a casa Voi?

R: No, guai, per l’amor di Dio. Niente.

D: Potevate ricevere, non so, dei pacchi?

R: No. Niente. A Bolzano non potevamo ricevere né pacchi né niente. A Mauthausen i pacchi della Croce Rossa.

D: Fermiamoci ancora a Bolzano un attimo, se non Vi dispiace.

R: No.

D: Altri Vostri compagni uscivano a lavorare dal campo?

R: No, no.

D: Che Voi Vi ricordate no?

R: Che io mi ricordi non usciva nessuno.

D: Vi ricordate se c’erano dei sacerdoti lì a Bolzano?

R: C’era qualche sacerdote, sì.

D: Ve lo ricordate?

R: Il fatto è che i sacerdoti erano trattati come noi, non c’era distinzione di ceto, no. Loro avevano lo stesso trattamento.

D: Uguale al Vostro?

R: Uguale a noi.

D: Dopo ventitré giorni cos’è successo?

R: Dopo ventitré giorni fanno l’appello, ci mettono inquadrati fuori dal blocco, nudi completamente. Però noi siamo riusciti a far scappare un ferro così ricavato da un cucchiaio.

D: Cioè?

R: Una specie di lama. Se ci mandano via, perché si sentivano un po’ voci del popolo che ci mandavano via da là e ci spedivano in Germania, allora noi se capitiamo nei vagoni ferroviari tenteremo di sfondare il vagone, a potere.

Tant’è vero che abbiamo tentato di sfondare il vagone.

D: Ma lì vi hanno messo in fila…

R: Ci hanno messo in fila, nudi. Poi ci hanno rivestiti naturalmente dopo della stessa roba.

D: Vi hanno chiamato per nome o per numero?

R: Per nome. Là per nome, sì. A Mauthausen chiamavano per numero.

D: Lì a Bolzano per nome?

R: A Bolzano per nome, sì.

D: Poi cos’è successo?

R: Dopo è successo che ci hanno portato lì alla stazione, ci hanno caricato sui vagoni bestiame.

D: Alla stazione di Bolzano?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: E con cosa vi hanno portato dal campo?

R: Sempre con la camionetta. Con questi camion, sì.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Adesso di preciso… Ci sono stati due o tre… Noi siamo partiti per primi, una ventina. Poi ci sono stati dietro gli altri che dovevano partire assieme a noi. Adesso non so di preciso il numero. Questo non lo so.

D: Allora siete andati alla stazione?

R: Siamo arrivati alla stazione e ci hanno caricato sul carro bestiame col vagone piombato.

D: In quanti eravate dentro?

R: Lì eravamo una cinquantina.

D: E non sapevate voi dove…

R: No. La destinazione no. Sa che al Brennero sale un po’ la strada, il treno lì andava adagio con le sentinelle esterne sulle pedane in tutti i vagoni. Arrivata la notte, si incominciava a scarpellare un pochetto il vagone, un briciolo alla volta.

Siamo riusciti a tirare via una mezza tavoletta. Avevamo visto con la candela, avevamo la candela per vedere un po’. I tedeschi si sono accorti, hanno fermato il treno. Sono venuti nel vagone.

Nel vagone, parlando con molta decenza, si faceva tutto, lì si faceva la pipì, si faceva la popò, un odore che si moriva. Come le bestie, lo stesso. Hanno fermato il treno e sono venuti, hanno aperto il vagone.

Non gliene dico lì, botte da orbi col frustino.

D: A voi?

R: A noi, sì. Volevano sapere chi è stato, chi non è stato. Lì nessuno ha parlato, noi ci facevamo ammazzare però non parlava nessuno. Difatti è stato così.

D: Questo quando è stato? A gennaio?

R: A gennaio, undici gennaio mi sembra. Le date sono qui.

D: All’undici gennaio?

R: Undici gennaio.

D: Del ’45?

R: Del ’45. Dopo basta.

D: Lì vi hanno picchiato?

R: Ci hanno picchiato. Dopodiché si è avviato il treno di nuovo e arriviamo a Mauthausen. Arrivati a Mauthausen ci mettono fuori inquadrati di nuovo, fanno l’appello in attesa di fare la doccia fredda, gelata.

D: Siete arrivati a Mauthausen giù alla stazione?

R: Alla stazione. Dopo dalla stazione ci hanno portato sempre con questi camion, ci hanno portato lì al campo di Mauthausen.

D: Con i camion, non a piedi?

R: No, con i camion. Ci hanno portati là e ci hanno messo fuori dal blocco con la doccia fredda, lì tre o quattro alla volta. Come si veniva fuori, ci vestivano con questa roba zebrata, rigata, col numero di matricola.

Ognuno aveva il suo numero.

D: Vi ricordate il vostro numero?

R: 115450.

D: Vi hanno dato anche un triangolo?

R: Sì.

D: Di che colore?

R: Rosso.

D: Perché?

R: Perché eravamo prigionieri politici. Fuori dalla doccia ci destinavano il blocco, la baracca, baracca 21, 22, 23, ecc. Ci facevano trovare la minestra calda, acqua calda con due o tre fagioli, bisognava cercarli, con una mezza carota.

Là per i primi giorni ci tenevano dentro, dopo hanno incominciato che tutte le mattine verso le cinque e mezza, le sei, prima che facesse giorno, ci mandavano in trasporto a Amstetten, sgombero macerie. Dodici chilometri, a piedi. Tutte le mattine.

Dodici chilometri a piedi sotto i bombardamenti. Io ricordo un episodio, l’episodio è questo. Viene la pelle d’oca. Uno della nostra baracca ha trovato una pagnotta di pane così sotto le macerie, Dio ce ne liberi.

Ricordo un episodio che c’era un polacco, uno dei più vecchi del campo, erano i polacchi e gli spagnoli i più vecchi del campo, del ’35 c’era della gente, pochissimi, rari erano. Ma avevano i migliori posti.

Chi era addetto alla cucina, chi era addetto alle pulizie. Erano lì per comandare noi. C’era un polacco, un disgraziato questo tizio, un piccoletto di uno, non mi ricordo neanche il nome. Addirittura era peggio dei tedeschi, era feroce proprio, nonostante fosse prigioniero anche lui. Assieme alla SS.

Mi ricordo un episodio. Questa pagnotta di pane, naturale, affamati come eravamo l’avremmo divorata in due secondi. Cosa ha fatto questo qui? L’ha portata via, dopo ha preso una bacinella di quelle grandi, grandissima, piena d’acqua.

Hanno preso uno dei prigionieri, uno che era un po’ più scalmanato, che si è rivoltato contro di loro. Hanno preso quattro prigionieri di noi, lo tenevamo chi con le braccia, chi con i piedi. Siamo stati costretti a farlo affogare in quella bacinella. Col fucile puntato sulla fronte, sulla nuca, tutti e quattro.

D: Questo a Mauthausen?

R: Mauthausen, sì.

D: O ad Amstetten?

R: No, a Mauthausen questo.

D: Quando siete rientrati nel campo?

R: Quando siamo rientrati nel campo. Un momento scusi, adesso mi sbagliavo io. Proprio lì alla stazione di Amstetten.

D: Di Amstetten?

R: Precisamente. Questa bacinella, siamo stati costretti a far affogare questo tizio. Erano in quattro col mitra puntato sulla nuca a tutti e quattro noi, siamo stati costretti a farlo affogare questo povero cristo.

D: Non vi ricordate il nome di questo?

R: No, non so neanche se era del nostro blocco. E’ difficile che era del nostro blocco. Hanno preso questo tizio che era scalmanato, hanno preso quattro di noi per dare l’esempio agli altri di comportarsi in una certa maniera. E’ finita lì.

Dopo ritorniamo al campo, sempre la solita storia tutte le mattine, per dodici giorni ho fatto questa vita. Questo è stato prima della Liberazione. Nella nostra baracca c’era Piero Caleffi, eccolo qua, senatore. Era assieme a noi.

Questo siccome era il più vecchio del campo riusciva ad avere qualche notizia esterna. In segreto veniva nel blocco: “Guardate che gli americani sono a tanti chilometri di distanza”. Noi per mezzo suo si riusciva a sapere tutte le notizie fuori.

Quando poi sono arrivati a dodici chilometri, si sentiva il rombo del cannone. Questi tedeschi, quelli che erano sulle cuccette, incominciavano ad andare via. Loro si camuffavano, andavano in aperta campagna e si camuffavano, vestiti da contadini. Facevano finta naturalmente di arare il terreno.

Gli americani questo trucco lo conoscevano già, assieme ai russi, lo conoscevano già e allora facevano i rastrellamenti ogni tanto e li portavano al campo. Prima di essere rimpatriati siamo stati un mese.

D: Un momento, Mario. Quando siete arrivati a Mauthausen, vi hanno adibito a fare questo lavoro, sgombero macerie ad Amstetten?

R: Sì.

D: Questo per quanto tempo?

R: Per dodici o tredici giorni.

D: Dopo altri lavori?

R: No, altri lavori vari, lavori di pulizia interna. A Mauthausen per quindici giorni mi hanno messo addetto ai forni crematori, trasporto dei cadaveri con la carretta a mano. Mi davano una zuppa in più per fare questo lavoro.

D: In cosa consisteva questo lavoro?

R: Consisteva che tutti i morti, tutti i giorni ne morivano, si caricavano sulla carretta, quei carrettini che usavano i contadini, larghi, per caricare il letame, si caricavano cinque o sei alla volta e si portavano nei forni crematori.

Lì venivano bruciati. C’era della gente che non era ancora del tutto morta, proprio scarni completamente, ma li portavano nei forni crematori. Non è che li mettevo io.

Li portavo fin là con la carretta per avere una zuppa in più, finito questo lavoro è uscito un… Chiedevano dei barbieri, Friseur. Io, che ho fatto quel lavoro, ho alzato la mano.

Ho alzato la mano e mi hanno messo a fare quel lavoro. Quando arrivavano in trasporto a qualunque ora bisognava saltare su, alle due, all’una di notte, alle tre, alle quattro del mattino. Italieni Friseur, bisognava saltare. Come arrivava la gente del trasporto, bisognava pulirli. Pulizia generale.

D: Cioè?

R: Pelati in testa, sotto le ascelle, davanti, nel sedere, tutto completamente, proprio a zero, pelati. Per quello mi davano una zuppa in più.

Tant’è vero che questo avvocato Bonelli, che era amico del professor Ballaro della clinica Fatebene Fratelli di Milano, come mi davano questa zuppa, io avevo un rimorso di coscienza, dicevo: “Io devo mangiare questa zuppa e quelli che crepano di fame”.

Allora la distribuivo, addirittura la metà della mia la davo all’avvocato Bonelli. Si è salvato anche lui con questo. Io mi sono salvato proprio per quello, altrimenti… Facevo il Friseur. Sono andato a casa che ero trentaquattro chili e trecento grammi.

Alla Liberazione, quando siamo stati liberati, lì ci hanno dato carta bianca. Purtroppo mancavano le forze, noi potevamo fare quello che volevamo. Allora questo professore, m’ingarbuglio un pochetto perché mi incomincio a…

D: Ci fermiamo, se volete.

R: No. Questo professore mi ha detto: “Adesso puoi vendicarti di quello che hai passato”, mi ha dato un bastone di ferro addirittura, mi dice: “Il primo che ti capita dagli, ammazza, fai quello che vuoi”.

Io non avevo neanche il coraggio, m’è capitato uno e gli ho dato una bastonata, non è che l’ho ammazzato. Abbiamo tralasciato quel lato di quando ero nei partigiani che mi è capitato un maresciallo della SS che ho ammazzato.

D: Cioè?

R: Sì.

D: Ma dove? Su in Val Varaita?

R: Val Varaita.

D: Ma avete fatto un’azione?

R: No, lì c’è stata un’imboscata. Quando la valle era occupata dai tedeschi e dalla Monterosa noi eravamo sopra Torretta e Casteldelfino.

Noi si vedeva il movimento su e giù, in basso. Io mi sono appostato dietro a un cespuglio, stava passando con la moto questo maresciallo tedesco. Mi sono appostato e gli ho dato una raffica. L’ho ammazzato. Perché loro avevano un senso di coscienza contro di noi?

D: Quella era guerra.

R: Era guerra, se non ammazzavi tu, ammazzavano te, scherziamo.

D: Dicevate?

R: Tant’è vero che io gli ho sfilato il portafoglio, tre dollari aveva appena. Gli ho tirato via perfino la cinghia e me la sono messa io. Fino a qualche anno fa ce l’avevo ancora.

D: Ma dai? L’avete conservata?

R: Conservata, sì. Quel lato lasciamo stare.

D: A Mauthausen….

R: Ogni tanto quando venivano ai blocchi… Mi hanno rotto l’osso della gamba.

D: Cioè?

R: Qui.

D: Cos’è successo?

R: E’ successo che quando venivano nei blocchi, loro non guardavano… Entro cinque minuti anche il braccio qua.

D: Com’è che sono successi questi episodi?

R: Quando venivano nei blocchi loro col frustino alla mano volevano che in cinque minuti si doveva mettere a posto. Si dormiva in un materasso da una piazza in sei. Lei può immaginare in che maniera si dormiva.

Si dormiva di lato così, in costa in tre. Tre da una parte e tre dall’altra. Lì bisognava mettersi a posto in pochi minuti, altrimenti erano frustate a non finire. Io ho cercato di reagire, poi mi hanno spezzato l’osso qui della gamba e il braccio ferito.

Quando sono venuto in Italia andavo tutti i giorni a Cuneo alla Croce Rossa Italiana a farmi le medicazioni.

D: Là non vi hanno curato?

R: Curato? Menomale che c’era quel professore, lui andava in giro in tutti i blocchi. Però medicinali non gliene davano, gli davano la carta igienica.

D: Come bende?

R: Come bende, precisamente. Sono guarito in qualche maniera. Quando sono ritornato in Italia per il cambiamento, avevo cominciato a mangiare leggero, le ferite incominciavano a purgarmi.

Allora tutte le mattine andavo alla Croce Rossa a fare le medicazioni sia al braccio che alla gamba e sono stato un anno senza poter lavorare, anche se avevo le forze.

Menomale che avevo qualche soldino ancora da parte allora che mi sono curato. Per i danè di guerra mi hanno dato 94.000 lire. Tutto lì.

D: Una cosa, Mario. Quando eravate lì a Mauthausen, voi sapevate dei forni crematori?

R: Certo. Siamo stati informati, non ce lo dicevano loro. Quando li portavano via, prima di essere addetto io ai forni crematori, mai più si pensava che venissero passati ai forni crematori.

Poi c’è stato anche questo senatore Caleffi che ci ha informato: “Guarda che lì ci sono i forni crematori, così e così”.

D: Anche le camere a gas non lo sapevate che c’erano?

R: Non lo sapevamo, le camere a gas non lo sapevamo neanche.

D: Lo sapevi che c’era la cava? Tu non sei andato alla cava a lavorare però?

R: Alla cava no. Alla cava per fortuna no.

D: Perché per fortuna?

R: Per fortuna che facevo il barbiere, ero a disposizione. Sennò mi mandavano là.

D: C’erano invece…

R: C’erano.

D: Che andavano alla cava?

R: Che andavano alla cava, settanta chili.

D: Come settanta chili?

R: Gli mettevano un peso di settanta chili sulle spalle, praticamente bisognava salire una scalinata. Uno che non ce la faceva, non aveva più le forze, gli davano una raffica di mitra a bella posta e lo finivano del tutto.

D: Ascolta, Mario. Quando tu sei stato a Mauthausen ed eri nella baracca hai detto?

R: 21.

D: 21, hai assistito ad azioni di violenza quando sei stato lì a Mauthausen?

R: No, violenza vera e propria… Quando venivano nei blocchi ci trattavano come animali, frustati a non finire. Un altro episodio, questo adesso me lo sono ricordato.

Quando eravamo nel blocco, noi eravamo comandati dai criminali tedeschi borghesi, quelli usciti da galera, quelli condannati all’ergastolo, che per loro ammazzare una persona era come ammazzare una mosca, non gli interessava niente, li mettevano a comandare il blocco.

Mi è capitato un episodio, viene questo tizio, modestia a parte, prima ero giovane, quando uno è giovane, io avevo i capello ricci, è venuto da me. Loro dentro nella baracca stessa avevano una specie d tenda, dormivano separati, una tenda piccola.

Mi ha portato nella tenda, mi ha tirato fuori da mangiare finché volevo, salame, prosciutto. Questo tizio era un pederasta e volevano a tutti i costi che ci andassi assieme. A sentire quelle cose che mi sono capitate, mi è capitato perfino un prete in Piemonte, tre me ne sono capitati.

Questo tizio è il quarto. Voleva a tutti i costi che io… Io a sentire quello mi veniva il vomito addirittura. La prima volta non mi ha detto niente, mi ha richiamato la seconda, la stessa cosa. La terza, la stessa cosa. La quarta volta è diventato una bestia.

E’ andato fuori di sé, ha preso il frustino e bam, me ne ha date un sacco e una sporta. Però io non uscii tutto, per l’amor di Dio. Anche volendo, per me per l’amor di Dio, non avevo neanche le forze.

Per quello lui ha aperto lì, lo metto in forze così me ne servo, invece… Per fortuna che è stato negli ultimi tempi, prima che arrivassero gli americani. Se non fosse stato, non mi sarei salvato mica, quello mi avrebbe ammazzato senz’altro.

Quando arrivava quella gente…

D: Questo era un Kapò?

R: Un Kapò. La mattina quando venivano lì, bisognava andare alla Wascheraum addirittura a frustate. Si andava lì tutti in fila, lì c’era la fontana con tanti rubinetti, grande e tutta in giro. Lì a via di frustini si andava a lavarsi.

Lavarsi, mica lavarsi. Sciacquarsi e via, con uno straccio d’asciugamano. Si tornava nei blocchi così tutte le mattine.

D: Quanti eravate in un blocco?

R: Lì variava, perché tante volte andavano via, li mandavano via da Mauthausen e andavano a Buchenwald, andavano via anche là.

D: Ma più o meno quanti eravate?

R: Eravamo in sessanta, settanta.

D: Per blocco?

R: Per blocco, sì. Sessanta o settanta. Per ogni baracca, sì, settanta o ottanta.

D: Cosa avevate voi a disposizione, solamente il letto a castello?

R: Il letto a castello. No, che letto a castello! Per terra. Materassi per terra, mica materassi di lana, s’intende, materassi di…, tutto per terra, a tavolaccio.

D: Non avevate un armadietto dove mettere…

R: Non avevamo niente là. Nelle baracche non avevamo niente.

D: La Miska l’avevate, la ciotola per mangiare?

R: …. Contemporaneamente.

D: Cucchiaio?

R: Cucchiaio, cucchiaio e stop.

D: E basta?

R: Basta. Portavano via tutto. Al momento ci davano la roba.

D: Poi siete andati a lavorare dove? Prima parlavamo di Gusen, siete stato voi a Gusen?

R: Sì, sono stato a Amstetten e Gusen, erano lì vicino. Sono stato pochi giorni. Dodici o tredici giorni in tutto, fra Gusen e Amstetten.

D: Per fare?

R: Sgombero macerie.

D: Sempre sgombero macerie?

R: Sempre sgombero macerie, sì.

D: Poi siete entrato nel giro dei parrucchieri.

R: Poi sono entrato nei parrucchieri e mi hanno ritirato, tutti i momenti gliene arrivavano e allora bisognava essere disponibili con una zuppa appena al giorno. Arrivavano in tutti i momenti i trasporti, noi si faceva questo lavoro.

D: Lì a Mauthausen donne ne avete viste?

R: Le donne non erano vicine dove eravamo nel blocco di quarantena noi, no. Le donne erano appena entrate a Mauthausen sul lato destro, se ne servivano anche i tedeschi per fare i comodacci loro. Non si sapeva che fine facevano.

D: C’erano anche dei ragazzini?

R: Ragazzi sì, ragazzi giovani. Io ragazzi piccolini piccolini non ne ho visti, comunque ho visto dei ragazzi di sette, otto anni, dieci anni a Mauthausen. Quando morivano dovevano buttarli.

Questo episodio, quello che ho passato io l’ho raccontato all’avvocato Cappucci, intimo amico di Papalettera.

D: Di Vincenzo?

R: Si, di Vincenzo.

D: C’erano degli ebrei lì?

R: Gli ebrei erano separati da noi, loro erano in campo di quarantena. Però noi sul lato sinistro, sul fondo del piazzale e loro erano al fondo di là, sul lato destro. Quelli poveretti erano martirizzati.

Quando arrivavano i pacchi della Croce Rossa…

D: Lì arrivavano dei pacchi della Croce Rossa a Mauthausen?

R: Sì.

D: Anche per voi?

R: Anche per noi. I polacchi erano i primi, dopo i polacchi erano i francesi, dopo i francesi eravamo noi. Però in quei piccoli pacchi prima che arrivassero a noi non c’era quasi più niente. Ci davano un pezzo di pane, una fesseria, roba da niente.

Saranno arrivati due o tre volte sì e no i pacchi della Croce Rossa. Io li ho visti due volte, mi hanno dato un pezzo di pane e un pezzo di salame così e non mi ricordo più altro. Basta.

D: Una giornata dentro nel Lager com’era? Sveglia alla mattina alle?

R: La mattina all’alba ti svegliavano.

D: Poi cosa succedeva?

R: Succedeva che bisognava alzarsi, contemporaneamente al Wascheraum, al lavaggio. Dopo ci mettevano inquadrati fuori dalla baracca e facevano l’appello. Dopo ognuno era addetto ai lavori vari.

D: Anche se pioveva fuori?

R: Fuori, sempre fuori.

D: Sotto l’acqua?

R: Sotto l’acqua.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro, ognuno aveva il suo…

D: Ma non c’era la colazione, non vi davano la colazione al mattino?

R: Ci davano un filone di pane in dodici, un mattone da chilo diviso in dodici, con un pezzettino di margarina, tanto così. Una tavolettina piccola, dieci grammi di roba.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro.

D: Fino?

R: Fino a mezzogiorno. A mezzogiorno si rientrava, prima facevano l’appello di nuovo e dopo la distribuzione della zuppa. Per trovare tre fagioli bisognava mettersi gli occhiali, il binocolo.

D: Poi al lavoro ancora?

R: Poi al lavoro ancora fino a sera.

D: Dopo rientro nel campo?

R: Dopo rientro, l’appello ancora e dopo ognuno al suo posto. Bisognava mettersi a letto.

D: In baracca?

R: Inquadrati, un materasso in sei, in questa posizione. Alla sera la solita zuppa, la solita acqua calda. E basta. Con questo pezzo di pane diviso in dodici. La carne col binocolo.

D: Ascolta, Mario. Un atto di solidarietà all’interno del campo era possibile?

R: No.

D: Non era possibile?

R: No, no.

D: Perché non era possibile?

R: Non era possibile perché noi non eravamo liberi, come si faceva? Un atto di solidarietà con chi?

D: Con altri deportati?

R: Mai più. Ognuno la sua baracca. Quando si andava in trasporto lì a Amstetten e Gusen, a parte che c’erano i tedeschi con i cani poliziotti e se uno si permetteva di calarsi per terra per prendere una pelle di patata che si trovava in strada oppure un ciuffetto di erba lo fucilavano.

Un colpo di mitra e via, basta.

D: Quindi un atto di solidarietà era impossibile?

R: No, no. Non c’era solidarietà, era impossibile.

D: In quanti eravate dentro in tutto il campo di Mauthausen?

R: Da tremila a cinquemila, dipende. Tanti li mandavano via da Mauthausen, li mandavano a Buchenwald, dove avevano bisogno per il famoso V2, V1, precisamente.

Allora venivano trasferiti là. A me per fortuna non mi hanno trasferito.

D: Il giorno della Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Io mi trovavo proprio nella baracca.

D: In baracca?

R: Sono arrivate tutte le camionette degli americani. Loro per la distribuzione del vitto davano la zuppa di piselli e farina di granturco.

Il professor Vallardi, Dio ce ne liberi, dato che eravamo un po’ in buona armonia con l’avvocato, dice: “Guai al mondo, non toccate questa zuppa”.

In media i morti erano sulla base di quattrocento, quattrocentocinquanta al giorno prima che arrivassero gli americani. Quando sono arrivati gli americani, i primi giorni addirittura eravamo arrivati a novecento.

La trachea era chiusa, la zuppa era troppo pesante. Poi l’hanno capita anche loro, basta, hanno sospeso. Quando sono arrivati loro, da mangiare ce n’era finché volevamo.

Il professor Vallardi ha detto: “Non toccate niente”, eravamo in quattro. Mi ha portato sulle spalle, pensi, fuori Mauthausen in aperta campagna, presso una cascina.

E ha dato ordine con la pistola in mano ai tedeschi: “Non dateci da mangiare niente, roba pesante. Esclusivamente pastina glutinata leggera e latte scremato”.

Però che è successo? E’ successo che tre giorni appena siamo stati là. Poi ognuno ha preso la sua strada. Il secondo giorno ho incominciato a mangiare qualcosa, o il cambiamento del mangiare… Mi sentivo un mal di pancia che crepavo.

Sono arrivato al punto che non ne potevo più, ho chiesto ai tedeschi se avevano una pistola, mi sarei sparato. Un male tremendo proprio. Dopo invece pian piano…

Loro non si sono permessi perché erano già minacciati, se commettevano una cosa simile, per l’amor di Dio, lì facevano una strage. Dopo invece pian piano ha cominciato a passarmi.

Dopo è venuto il professore, siamo rientrati al campo e c’è stata la Liberazione. Dovevamo essere rimpatriati per il confine svizzero. Arriviamo al confine svizzero, siamo stati tre giorni e gli svizzeri non ci hanno dato il passaggio.

Siamo dovuti ritornate indietro per il Brennero.

D: Con cosa vi spostavate?

R: Sempre con le camionette.

D: Quindi siete arrivati al Brennero?

R: Siamo arrivati al Brennero. Quando siamo stati liberati, dato che eravamo vestiti in quella maniera, c’erano dei capannoni pieni di roba italiana, stoffa, confezioni, vestiti, scarpe, l’ira di Dio, suole da scarpe…

D: Ma lì a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Siamo andati in questi blocchi, in questi capannoni, io mi sono vestito. Mi sono messo una giacca che mi ricordo ancora, color… Questo colore, più o meno, un po’ più chiaro.

D: Marrone?

R: Marrone, questo colore, sportiva. Ho trovato la giacca e me la sono ficcata addosso, un paio di pantaloni, un paio di scarpe. Lì incominciavano a dire: “Per l’amor di Dio, gli americani non lasciano passare niente”.

Siamo capitati in una camera piena di soldi, soldi italiani, 10.000, 5.000, 1.000 Lire, 500 Lire, di carta allora, che potevamo caricarci come volevamo, addirittura un camerone pieno di soldi.

Io avevo uno zainetto, mi sono preso appena 6.000 Lire, stupido. Mi dicevano: “No, non lasciano passare”, porca di una miseria. Qualcuno è stato più furbo e qualcosa in più ha preso.

Io mi sono preso un paio di suole da scarpe, qualche rocchetto di filato, sempre roba italiana, buono, roba da niente. Quando siamo arrivati a Bolzano, siamo andati in un bar in compagnia di un genovese.

Siamo entrati in un bar e abbiamo detto: “Valgono ancora questi soldi?”. “Valgono ancora? Eccome!”. Ci siamo mangiati le mani, perché non ci hanno fatto nessun controllo. Quelli che sono stati più furbi hanno portato via, ma mica troppo perché anche loro avevano paura. Dicevano: “E’ inutile che ci prendiamo questi soldi che ce li portano via”.

D: A Bolzano siete arrivati e dove vi hanno messo?

R: A Bolzano appena arrivati là ci hanno messo dalla parte della stazione, ci destinavano: “Tu devi andare a Torino”, ad esempio, e ci destinavano. Ci facevano il lasciapassare, il foglio di rimpatrio.

D: Dopo li vediamo i documenti.

R: Il foglio di rimpatrio e ognuno prendeva la sua strada. Sono arrivato a Torino, dovevo cambiare treno, avevo il lasciapassare, il foglio di rimpatrio. Là è stato bello.

Prendo il treno per Cuneo, perché abitavo a Cuneo con mio fratello, e sul treno il controllore…

D: Perché con tuo fratello?

R: Abitava a Cuneo già mio fratello.

D: Ah, abitava a Cuneo.

R: Lui era impiegato. Mio fratello non era a Cuneo, sul treno Torino – Fossano c’era un mio paesano, mio fratello aveva battezzato una figlia di questo tizio, un ferroviere. Appena mi ha visto, io ero seduto con i bastoni, è venuto davanti e mi guardava.

Io guardavo lui e lui guardava me. Mi dice: “Ma tu non sei Mario?”. Ho detto: “Sono Mario”. Mamma mia, appena ha sentito così mi ha abbracciato. Il treno era fermo alla stazione di Fossano e mi ha portato al bar della stazione. Io non potevo mangiare niente, non potevo bere niente.

Ho preso, non so, un succo di frutta, ne ho bevuto tanto così. Questo mi fa: “Guarda che tuo fratello non è a Cuneo, non è a casa”. E chi c’è a casa? C’è la nipote, che lui andava a Torino per fare delle spese, allora mio fratello si curava per l’ulcera.

Arrivato a Cuneo, c’è la nipote. Poi mio fratello non sapeva niente che arrivavo, la sorpresa appena è entrato in casa, mi sono presentato. Si figuri un po’ quello, non aveva saputo niente di che fine avevo fatto. Là c’era la nipote in attesa che arrivasse mio fratello, siamo stati là.

Tutto lì, è finita lì. Dopo ho cominciato la tragedia di andare alla Croce Rossa per fare le medicazioni man mano che… Per un anno intero, un anno mangiare leggero, riguardato. Per lavorare chi aveva le forze? Quando mi sono rimesso ho incominciato a lavorare.

Lì a Cuneo non ho trovato più niente, nella casa, nel negozio. Avevo il negozio, la pescheria. Purtroppo me l’hanno bruciato, mi hanno portato via tutto. Ho dovuto incominciare da zero alla lettera, però io nauseato del Piemonte…

D: I genitori?

R: I genitori ce li avevo in bassa Italia. Erano giù.

D: Nauseato dal Piemonte?

R: Quando mi sono ripreso sono stato un po’ di anni là, ma non lo so, non mi trovavo più. Dico: “Vengo via”. Sono capitato per caso qui a Desio, per caso. Sono capitato a Desio e cosa facevo?

Facevo il barbiere a tempo perso, tre giorni alla settimana, era difficile anche trovare lavoro. Dopo è uscita una circolare che prendevano tutti i prigionieri di guerra, avevano la preferenza a entrare negli stabilimenti.

Io ho fatto domanda all’Incisa qui a Lissone, fabbrica di compensato. Però volevano una conferma, sono dovuto andare a Cuneo per farmi rilasciare una dichiarazione dal maresciallo dei carabinieri che io realmente ero stato…, nonostante avessi i documenti, il foglio di rimpatrio.

Ho dovuto fare quello, andare a Cuneo, farmi rilasciare la dichiarazione, il maresciallo dei carabinieri mi conosceva e subito l’ha fatta, per l’amor di Dio. Sono venuto qua e mi hanno assunto, sono stato due anni all’Incisa.

Siccome noi siamo di stirpe degli antenati tutti commercianti, mio padre commerciante, mio nonno, mio fratello, tutti quanti, le mie sorelle, dopo lavoravo ancora all’Incisa quando mi sono sposato, sono restato disoccupato quando hanno chiuso lì alla villa vicino a Lissone.

Hanno chiuso la fabbrica, ho lavorato fino all’ultimo giorno, dopo sono restato senza niente. Ho dovuto assoggettarmi e andare qui a Varedo, ho lavorato undici mesi. Dopo sono venuto a diverbi col capo turno, con un certo Galbiati, gliene ho dette di tutti i colori e sono venuto via anche di là.

Dico: “Basta padrone, non voglio più saperne di padroni, neanche se m’impicco”. Mi sono messo a lavorare subito per conto mio. E’ stata dura. Il pescivendolo facevo io, io lavoravo fuori, facevo i mercati. E lavoravo a casa, a casa avevo un negozio.

Non le dico i sacrifici che ho fatto, per l’amor di Dio, le ore io non le ho mai contate, erano dodici, erano quindici, erano sedici, erano venti anche. Pian piano ho fatto la mia carriera. Tutto lì.

D: Mario, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: No. E’ quello che volevo dire. Quando vi capita l’occasione, perché per la malattia di mia moglie ho avuto un sacco di guai, mi piacerebbe venire.

D: Adesso a maggio…

R: Verso maggio?

D: A maggio vado.

R: A maggio?

D: A maggio, sì.

R: Vengo anch’io.

D: C’è la delegazione che va su con il pullman.

R: Mi tenga presente.

D: Ti mando l’invito, ti mando il programma. Tu non sei più ritornato?

R: Non sono più ritornato.

D: Perché?

R: Perché ero troppo impegnato per causa lavoro.

D: Ascolta un attimo, quando sei tornato a Cuneo i tuoi amici di un tempo…

R: Si, qualcuno.

D: Quando sei arrivato da Mauthausen…

R: Sì.

D: Hai provato a raccontare della tua deportazione?

R: Ho provato a raccontare, ma chi non prova… Bisogna provare certe cose. Ci credevano sì, ci credevano no.

D: Non ci credevano?

R: Non ci credevano. Dopo naturalmente venendo a conoscenza di tutte le mie peripezie, via via si sono ricreduti. A casa mia non sapevano niente, niente, niente.

Alla Liberazione, mi sfuggiva un particolare, quando siamo stati liberati, sempre per mezzo di questo professore mi ha portato al microfono e abbiamo dato comunicazione: “Io, Tizio e Caio, nome e cognome, abitante a Cuneo in via Fossano 30, comunico ai miei familiari che sto bene e ci rivedremo presto”, tutto lì.

Mio fratello, che quel giorno lì era a Torino, combinazione un amico, un certo Pompilio ha sentito per radio e si è ricordato: “Mario, mamma mia”. Glielo ha comunicato a mio fratello: “Guarda che tuo fratello ha dato comunicazione al campo di Mauthausen così e così”.

“Ma no, mio fratello, ma scherziamo, chissà che fine ha fatto mio fratello”. Poi quando sono arrivato immaginiamo la festa, anche mio fratello. Poi ho dato comunicazione a lui. Pesavo 34 chili e 400 grammi.

D: Quando sei tornato? E avevi quanti anni?

R: Avevo ventidue anni, giovane.